Alte si scorgono in Autunno-Inverno alle nostre latitudini, nel cielo serale, le costellazioni di Perseo, Cassiopea, Cefeo, Andromeda e Pegaso che costituiscono - insieme a quella più discosta della Balena - uno dei miti greci più compiutamente rappresentato sulla volta celeste.
Riguardo in particolare al primo degli asterismi citati, Perseo figlio di Zeus fu l'uccisore dell’unica mortale delle tre temibili Gorgoni, cioè di Medusa capace di pietrificare con la forza dello sguardo i suoi avversari; mostro vinto grazie all’uso di particolari oggetti forniti all’eroe da divinità a lui favorevoli. Per rappresentare in cielo l'orribile testa recisa (serpenti al posto dei capelli, zanne enormi…) o proprio un suo occhio infuocato - la scelta cadde su Beta Persei, stella bianca di discreta brillantezza descritta in passato, però, pure di colore rosso.
In ambito ebraico si vedeva in tale astro la "testa di Satana" oppure Lilith, il biblico demone femminile (Isaia, 34, 14) impegnato a sedurre gli uomini col suo fascino peccaminoso; ancora oggi è conosciuto col nome di Algol – dall’epiteto arabo “Hamil Ra's al-Ghul”, appunto “il portatore della testa del Mostro” - che dimostra la particolare attenzione dimostrata in proposito anche da questa cultura.
Beta Persei - visti i nomi che le sono stati attribuiti - veniva evidentemente considerata in modo non positivo, probabilmente a causa d’una sua caratteristica che soltanto più tardi – però - venne correttamente interpretata dal punto di vista astronomico: si tratta infatti d’una stella variabile, la prima binaria a eclisse a essere scoperta; cioè una ‘doppia’ (facente parte d’un sistema più complesso) i cui componenti - eclissandosi a vicenda - determinano variazioni della luminosità complessiva.
Se Geminiano Montanari riconobbe ufficialmente a Bologna nel 1667 la variabilità dell’astro - inquietante problema che si scontrava con la tradizionale concezione dell’immutabilità del firmamento - solo nel 1783 John Goodricke (dilettante morto nel 1786) riuscì in Inghilterra a determinarne il periodo relativo, calcolato attualmente in 2 giorni, 20 ore, 48 minuti e 56 secondi.
Un suggestivo “occhiolino' astronomico di facile osservazione a occhio nudo, dunque, con la luminosità della stella che passa infatti dalla magnitudine 2.1 alla 3.4, con un piccolo minimo secondario a metà ciclo tra due minimi principali.
Alle radici dell'insulto italico
1) L'insulto latino
"Anima foetida”, “cacatus”, “cadaver abiectum”, “carcinoma”, “corvorum cibaria”, “struthocamelus depilatus”, “fellatrix”, “defututa puella”, “vipera venenata”….
Sarebbe davvero un peccato se quest'antipasto un po' 'forte' – un ‘misto' di sapori latini da gustare comunque con un po' di malizia - facesse storcere il naso a qualcuno, allontanandolo dalle vivande ancora più appetitose che stiamo per servire.
Un peccato, certo, anche per chi non ha mai provato ‘feeling’ per i classici né per l’arte dell’invettiva: perché tali concretissimi o fantasiosi epiteti offensivi – espressi in una lingua da molti secoli oggetto ormai solo di frequentazioni didattiche o di diletto culturale – sono echi di vita lontana, etimologicamente conservati in tanti insulti dell'italiano corrente.
La documentazione relativa - varie e numerose espressioni contenute in opere di letterati, filosofi e storici come Ammiano Marcellino (325/330-ca 400 d. C.), Apuleio (ca 120/125-ca 180 d.C.), Catullo (I a.C.), Cicerone (106-43 a.C.), Ennio (239-169 a.C.), Aulo Gellio (II d.C), Lucilio (180?-103/102 a.C.), Marziale (40-104 d.C), Nevio (ca 270-ca 201 a.C.), Orazio (65-8 a.C.), Persio (34-62 d.C.), Petronio (?-66 d.C.), Plauto (ca 250-184 a.C.), Lucio Pomponio (prima metà I a.C.), Seneca padre (58/55 a.C.- 37/41d.C.) e figlio (4? a.C-65 d.C.), Sallustio (86-34 a.C.), Svetonio (70-dopo 122 d.C.), Terenzio (195/185 ca-159 a.C.), Titinio (inizi II a.C.) ed altri - sembra attestare una particolare attitudine degli antichi Romani a cogliere i lati deboli della natura umana, tale da permettere loro di propinare poi facilmente, secondo le circostanze, il voluto sarcasmo agli avversari.
Per il fatto stesso di far parte d'opere letterarie, gli insulti latini a nostra disposizione sono rappresentati non solo da parole trasgressive (testimoni d'ira e indignazione), ma pure da espressioni di varia complessità, costruite proprio
per indebolire l'avversario presso un pubblico di lettori o d’ascoltatori. Ecco un attacco davvero notevole ("In Pisonem"), firmato nientedimeno che da Cicerone (II-I a.C.):
"E io volevo fidarmi del consiglio e dell'aiuto di questa bestia [istius pecudis], di questo pezzo di carne fetida [putidae carnis]? Da questa carogna reietta [eiecto cadavere] mi sarei aspettato sostegno e incoraggiamento? Io cercavo un console, un console dico, non quello, che in questo porco castrato [in hoc maiali] avrei potuto trovare..."
Così poi l'Arpinate finiva per ammantare abilmente di mostruoso l'avversario di turno (nel caso, Marco Antonio):
"Ma chi potrà sopportare questo orribilissimo mostro [taeterrimam beluam], e come?".
Se dunque anche intellettuali di prestigio non disdegnavano l'esercizio mirato dell'insulto, più tardi capitò pure a qualche autore cristiano di dover denigrare qualcuno, usando certo espressioni 'forti' senza comunque cadere - ovviamente - nell'oscenità. Così ad esempio san Girolamo (IV- V d.C.) - uomo estremamente collerico e impulsivo – definì "sues, canes, vultures, aquilae, accipitres et bubones" (= maiali, cani, avvoltoi, aquile, falchi e gufi) i seguaci di Gioviniano (“Adversus Jovinianum”); "pingues tauri" (= grassi tori) coloro che si ostinavano a opporsi alle verità della Bibbia ("Michea"); e infine "ranae loquaces" (= rane chiacchierone) i denigratori degli ideali monastici (“Epistulae”)!
2) La "Plautina"
Fu soprattutto Plauto (III-II a.C.) a recuperare in letteratura lo spirito mordace delle "flagitationes" popolari, pubbliche manifestazioni di protesta con insulti e derisioni a cui venivano sottoposti personaggi particolarmente invisi alla cittadinanza. L'autore umbro presentò nelle sue commedie pure alcuni neologismi – per questo, appunto, di non immediata comprensione da parte del pubblico – i quali, pur se in ritardo, finivano per rendere più teatrali i dialoghi sulla scena.
Ecco alcune irresistibili battute d’una famosa scena plautina, quella dello "Pseudolus" in cui il giovane Calidoro e appunto il suo schiavo Pseudolo coprono d'insulti il lenone Ballione, molto abile a neutralizzare gli improperi, non opponendosi affatto ad essi:
“(P)…sporcaccione! [impudice]
(B) Esatto.
(C) Canaglia! [sceleste]
(B) Dici il vero.
(P) Mascalzone! [verbero]
(B) Perché no?
(C) Rubasepolcri! [bustirape]
(B) Sì, certo.
(P) Furfante! [furcifer]
(B) Ottimo.
(C) Gabbacompagni! [sociofraude]
(B) Sono proprio io.
(P) Parricida! [parricida]
(B) Continua!
(C) Sacrilego! [sacrilege]
(B) Lo confesso.
(P) Spergiuro! [periure]
(B) Mi contate cose vecchie.
(C) Violatore delle leggi! [legirupa]
(B) Puoi dirlo forte.
(P) Rovina della gioventù! [permities adulescentium]
(B) Bravissimo.
(C) Ladro! [fur]
(B) Caspita!
(P) Scampaforche! [fugitive]
(B) Splendido!
(C) Traditore del popolo! [fraus populi]
(B) E' chiaro.
(P) Truffatore! [fraudulente]
(C) Ruffiano porco! [impure leno]
(P) Sozzone! [caenum]
(B) Ma che bravi musici!”.
3) Oggetti e tipologie d'insulto
Quali oggetti e tipologie d'insulto, dunque, a Roma antica? Anche nei momenti di moralismo meno accentuato le accuse più diffuse - in linea, del resto, col comportamento di tante altre società e culture nella storia - riguardavano soprattutto la violenza, la disonestà e la dissolutezza dei suoi membri. Non per nulla Sallustio (I a.C.), riferendosi criticamente ai seguaci di Catilina, li raggruppò sinteticamente nelle categorie dei “flagitia” = depravati e dei "facinora" = veri e propri criminali.
I termini che con più immediatezza possono illustrarci i vizi citati sono quelli caratterizzati dal prefisso im/in
("im-pudicus" = svergognato, "im-purus" e "in-cestus" = immorale, "im-pius" = empio, "in-famis = infame, "in-fidus" = sleale, "in-honestus" = disonesto, "in-iurus" = spergiuro, "in-iustus" = ingiusto, "in-eptus" = inetto)
a volte anche assimilato
("illex" = fuorilegge),
negatore di virtù o comunque di ‘normalità’ comportamentali – evidentemente considerate stimabili - della persona.
Ma oltre a questi erano disponibili - ovviamente - anche epiteti più specifici e pittoreschi riguardo alla violenza
(“archipirata” = capobanda malavitoso, “crucis offla” = pendaglio da forca, “carnifex” = aguzzino, “furcifer” = furfante, “scelestus” = canaglia criminale, “percussor” = assassino che agisce sfrontatamente allo scoperto al contrario del “sicarius”; “ossifragus” = spezzatore di ossa, “gladiator” = simile al malfattore o prigioniero di guerra impiegato nei giochi circensi),
alla disonestà
(“praestrigiator” = imbroglione, “clepta” = ladro, la graziosa perifrasi “homo trium litterarum” = uomo col nome di tre lettere, cioè "fur" = ladro; “trifur” = grandissimo ladro),
agli stravizi gastronomici
(“ganeo” = crapulone, “gulo” = ghiottone/goloso; “ebrius”, “ebriosus”, “vinolentus” e “vinosus” = ubriacone)
e infine alle ‘anormalità’ sessuali
(“adulter” e “moechus” = adultero, insidiatore; “cuculus” = uomo infedele, simile all’uccello che gradisce visitare appunto nidi estranei, in Plauto, “Asinaria”; “effeminatus”, “cinaedus” e “pathicus” = omosessuale. In proposito, Cesare fu etichettato da Catullo, “Carmina”, come “cinaede Romule” = Romolo effeminato; “fututor” = stupratore, “propudium” = svergognato).
(“scrupeda” = che cammina con fatica),
a caratteristiche comportamentali
(“schoenicula” = profumata con essenza di poco prezzo, “strittabilla” = dall'andatura dondolante, provocatoria; “strittivilla” = che si depila, “trivenefica” = grandissima strega)
e alla bruttezza/vecchiaia
(“vetula” = vecchia befana) -
la maggior parte degli insulti loro diretti riguardava essenzialmente l'ambito dell'immoralità. In proposito, insieme alle numerose accezioni di ‘prostituta’ e simili di cui sarebbe troppo lungo ricostruire qui le storie e gli usi
(“amasiuncola”, “ambubaia”, “amica misera”, “defututa puella”, “lupa”, “meretrix” e “scrapta”; “fulcipedia” = epiteto con cui, nel "Satyricon" di Petronio, Trimalcione apostrofa la moglie; “diobolaris” = donna da due soldi, “scortum” = termine significativamente indicante anche ‘pelle’!),
erano disponibili pure colorite specificazioni d'abilità e di preferenze erotiche femminili
(“fellatrix” = succhiatrice, “tribas” e forse anche "fututrix" = tribade, lesbica).
Un altro cospicuo filone d'offesa è costituito poi da nomi di animali portatori di caratteristiche poco nobili o attraenti, modo indubbiamente rapido ed efficace per colpire l'avversario sia dal punto di vista fisico
(“hircus vetulus” = vecchio caprone, “rhinoceros” = rinoceronte, detto d'un uomo deturpato in Lucilio, II a.C.),
sia da quello psicologico e comportamentale
(ad esempio, per l'avidità, “hirudo” = sanguisuga e “muscae, culices, cimices, pedesque pulicesque” = mosche, zanzare, cimici, pidocchi e pulci, detto di avidi lenoni nel “Curculio” di Plauto; “vipera venenata ac pestifera” = di facile traduzione, detto di Clodio da Cicerone).
“sus lutulenta” = porca schifosa, “vana succula” = porchetta buona a nulla, scritto su di un muro di Pompei.
Così in Plauto, “Mostellaria”, uno schiavo cittadino irride uno campagnolo, trasformando il termine “porcile” da indicazione di luogo a insulto personale:
“Puzzi di aglio, vero mucchio di letame [germana illuvies]…porcile [hara suis], di cane e di capra insieme [canem, capram commixtam]”.
Ma il punto più alto dell'offesa ‘porcina’ lo raggiunse forse Cicerone nei suoi attacchi a Verre: lo “ius Verrinum” o giustizia praticata dal disonesto propretore di Sicilia venne infatti letto opportunamente - grazie a due fortunati doppi sensi (‘ius’ = ‘legge’ ma pure ‘zuppa’, ‘verres’ = identificativo personale ma pure ‘verro’ o ‘porco’) - anche ‘brodo di porco’!
Certo, non poteva poi mancare qualche insulto d'autore basato anche sulla bruttezza animale: “simia purpurata” = scimmia vestita di porpora, soprannome attribuito secondo Ammiano Marcellino (IV d.C.) al non proprio affascinante imperatore Giuliano l'Apostata; “struthocamelus depilatus” = struzzo spennato, in Seneca il Giovane. Così viene poi duramente apostrofato in Plauto, “Mercator”, un vecchio che sognava ancora situazioni galanti:
“Morto di fame, puzzolente d'alito [anima foetida], vecchio caprone [senex hircosus], tu vorresti baciare una donna?”.
Tra tanti epiteti animaleschi appare però un po' difficile giustificare il "taurus iners" (= toro impotente) rivolto negli "Epodi" d'Orazio (I a.C.) da una donna al proprio amante, viste le prestazioni più che buone ottenute comunque dall'uomo con un'altra, e soprattutto l’abbondante sudorazione con fetore emessa a quanto pare dall'accusatrice. Situazione così incresciosa, da rendere questa donna degna di rapportarsi solo con animali selvaggi come gli elefanti neri (“mulier nigris dignissima barris”)!
Ma ben altri disgustosi epiteti e paragoni – relativi all’igiene pubblica e privata - erano a disposizione di chi voleva ferire qualcuno:
“blennus” = moccioloso, “cacator” = cacone, “cacatus” = imbrattato, “cadaver abiectum” = carogna gettata via, “carcinoma” e “vomica” = cancro; “corvorum cibaria” = cibo per corvi, carogna; “foedus” e “taeter” = repellente per lordura, nauseante; “lotiolentus” = forse piscione, presente solo in Titinio, II a.C.; “lutulentus” = schifoso; “machilla” = vaso da notte e relativo contenuto, “purgamentum” = spazzatura, “sentina rei publicae” = acque di scolo dello Stato, detto da Cicerone dei seguaci di Catilina; “sterculinum” = letamaio.
Pungente - in Seneca il Vecchio, “Controversiae” - un’espressione al riguardo: “Si cloaca esse, Maxima esses!” = Se tu fossi una cloaca, saresti la cloaca Massima!
Erano comunque usati in modo ingiurioso anche nomi propri, appartenenti a famosi individui reputati certo in modo negativo dalla maggioranza della popolazione
(“Mezentius” = uno come M., leggendario re degli Etruschi molto crudele; “Catilina” = uno come C., il famoso congiurato; ma poi perfino “Spartacus” = uno come S., il gladiatore ribelle rivalutato invece in seguito come eroe positivo),
e inoltre molti soprannomi trasformati in cognomi, relativi a particolarità fisiche evidenti o negative
(“Flaccus” = dalle orecchie pendenti; “Plautus” = dai piedi piatti).
Come visto del resto anche riguardo al paragone con gli animali, non mancavano poi a Roma antica insulti basati su caratteristiche psicologiche, comportamentali o mentali negative
(“bardus”, “bucco”, “fatuus”, “stolidus” e “stultus” = tutti - ovviamente con varie accezioni - idiota, sciocco, cretino; “blatero” = chiacchierone, “cocurbitae caput” = zucca vuota, “cularcultor” = probabilmente leccaculo, presente solo in Titinio; “decoctor” = dissipatore, “demens” e “vesanus” = pazzo, “deses” = ozioso, “ebriola persolla” = tipo brillo ridicolo, caricatura, macchietta; “gerro” = organizzatore di scherzi stupidi, “homo spissigradissimus” = imbranato, “homullus” = uomo di poco conto, “homo ventosissimus” e “nebulo” = pallone gonfiato, “homo vafer” = furbastro, “imbellis” = vile, codardo, “loripes” = dai piedi impacciati, tardo; “nequam” e “nihili” = buono a nulla, “periusus” = spergiuro, falso; “pusillus” = timido, meschino ma anche piccoletto; “vasus fictilis” = testa vuota)
su condizioni socio-economiche e culturali
(“homo deductus ex ultimis gentibus” = uomo che proviene dall’altro capo del mondo, selvaggio, in Cicerone; “homo postremus” = l'ultimo degli uomini; “inops” = morto di fame, “nepos” = nipote, in Cicerone uomo che conduce vita dissoluta contando su sostanze di famiglia; “profligatus” = rovinato, fallito; “rusticus” = bifolco; “sordidus” = povero, spregevole, sudicio, gretto)
e specifici per schiavi e servitori
(“clitellarius” = portatore di basto come un asino, “mastigia” = scansafatiche da frustare, “perenniservus” = schiavo in eterno, “verberabilissimus” = percuotibilissimo!).
Presenti anche denigrazioni riguardanti certi operatori di cultura, o meglio di pseudo-cultura. Nel mirino soprattutto poeti e poetesse, come il “simius iste” (= codesta scimmia) d'Orazio o i “corvi” e “picae” (= gazze) di Persio, ma poi anche storici evidentemente non proprio insigni, come quello di livello così basso da produrre - secondo Catullo - solo “cacata carta”!
Chiudiamo con l’autoinsulto che – opportunamente corredato d’autoironia e autocritica - può porsi come segno di matura consapevolezza nei propri limiti. In proposito, Cicerone riconosce all’amico Attico d’essere stato davvero un asino (“Scio…me asinum germanum fuisse”) nel dar fiducia a persone dimostratesi poi dei falsi amici.
4) Finale a sorpresa per i nostri insulti
Così insultavano dunque a Roma antica: in un mondo lontano da noi, eppure tanto vicino per i numerosissimi riflessi presenti ancora nei nostri pensieri e tradizioni, e soprattutto nella nostra lingua. Ma dov'è la sorpresa? Potrebbe essere per molti sapere che alcuni nostri insulti - come del resto molti altri termini italiani di significato anche complesso - non si limitano ad affondare le loro radici in un generico ‘humus’ linguistico latino, ma sono debitori, a quella cultura, d'etimologie specificatamente agricolo-pastorali, con forme spesso mantenute in vita anche nei nostri dialetti.
Tali origini, però, sono difficili da rintracciare con un esame superficiale dei nostri vocaboli correnti, perché il distacco da riferimenti molto concreti ha comportato, nel tempo, sensibili variazioni e deviazioni nella copertura semantica dei termini.
Ecco comunque ricostruite come esempio - per alcune nostre espressioni a livello medio d'offesa - suggestive origini latine davvero insospettate:
“Adulatore” trae senso da “adulor” = l'avvicinarsi gioioso e scodinzolante del cane all'uomo;
“Bacchettone” invece da “baculum” = bastone, poi anche manico della frusta, forse identificativo del bigotto che si flagella per penitenza;
“Boia” da “boiae”, collari di cuoio per uso evidentemente bovino, poi genericamente cinghie e strumenti di tortura con passaggio finale dall'oggetto a colui che lo usa;
“Imbecille” da “imbecillus” o “imbecillis” = prendendo ispirazione forse da un giovane albero privo di “bacillum” o bastoncino di sostegno, persona debole e malferma prima fisicamente poi psicologicamente;
“Inquinatore” = da “incunio”, sporcare di concime;
“Prevaricatore” da “praevaricor” = in Plinio il Vecchio deviare il percorso dell'aratro facendo giri o scavalcamenti, poi evidentemente chi trasgredisce/viola le leggi;
"Sciocco" da "ex-succus" = senza linfa, secco; da cui persona psicologicamente poco scaltra e avveduta, dunque piuttosto ‘insipida’;
infine “Stolto” da “stolo” = in Varrone stolone, pollone o ramo parassitario che vegeta alla base di certe piante.***
Ora è tempo però di salutarvi, cari lettori, simpaticissimi “Curculiunculi minuti” (= vermetti minuscoli, in Plauto) che ci avete seguito fin qui con attenzione…
Domenico Ienna
(massima longitudine occidentale d’Europa: lat. 38° 47’ N, long. 9° 30’ O)
Aqui…Onde terra se acaba e o mar comeca
(Luís Vaz de Camões; Os Lusíadas, canto VIII)
Primavera piena a Cabo da Roca su costa atlantica portoghese, ponta mais ocidental do continente europeu come attesta stele con croce, tra turisti in souvenirs e vento sul pianoro del faro. Sporge infatti in Oceano il promontorio ancora più del Finisterre – lassù in Galizia spagnola kilometro zero del cammino di Compostela – nonostante sia questo, in effetti, a portare nome evocatore proprio di fine del mondo.
Sul muretto assorto sopra onde a strapiombo, in mente mi viene – a suggestione forse da tanta luce che scende sul Cabo – l’illuminativa mistica del persiano-islamico Šihāb Sohravardī: nel XII fautore di pensiero orientale, con l’orientamento simbolo-aurora, appunto, di conoscenza interiore; e sulla falsariga ancora poi – d’ambito invece europeo – quello nordico di miti cinema politiche, e l’altro meridiano su cultura solare del vivere in sponde di Mediterraneo. Quanto basta per rilevare allora anche qui – in quest’eccezionale esilio fisico occidentale (dietro terre, avanti solo acque), un’altra risorsa di prospettiva cardinale, da scoprire indagare e valorizzare certo al possibile nella cultura comune del nostro continente.
Tra le varie protagoniste del mito greco a portare il nome d’Εὐρώπη Europa – la più famosa di tutte la bella principessa di Fenicia rapita da Zeus sotto sembianze di toro – interessa ricordare qui una delle tante Oceanine figlie della coppia d’acqua Oceano e Teti. Mi piace pensare proprio a quest’Europa minore come mitica fonte di quel pensiero d’estremo Occidente di cui ho avvertito possibilità al Cabo de Roca, sede eletta appunto di costa e flutti oceanici. Ma qualsiasi sia l’Europa che ci ha fatti europei, dicunt che il termine possa avere origine semitica, con significato legato al posarsi (del sole) e dunque all’Occidente…
Adottare punti di vista di periferia può risultare in effetti spesso fruttuoso: soprattutto se la banlieu del caso non esce dal continuum solo per convenzione, ma è identità marcata da stacco naturale come ad esempio il Cabo, che pensiero certo non può proprio ignorare. Conferma al riguardo - in fisiologia - pure la visione distolta dell’occhio, meccanismo complesso che fa cogliere al meglio oggetti deboli più difficili comunque da rilevare.
Sotto intensa signoria del sole, la mia meditazione sublima infine in sogno, spingendomi a sorvolare da drone umano tutta Europa a diversa conoscenza. Dal limite indiscusso del Cabo già Promontorium magnum romano, progetto di sfilare allora su tutto il continente fino a doppiarne i limiti questa volta orientali: quelli della già Bisanzio-già Costantinopoli-ora Istanbul su sponda continentale del Bosforo politicamente però Asia…
Pochi giri per provare allora il volo in sogno intorno al faro del Cabo e poi via, verso primi, vicini assaggi d’Europa: Villa Italia in costa di Cascais, regale esilio Savoia umbertino; e la vicina Boca de Inferno dove percuote e penetra le rocce Oceano, letterario-esistenziale utilizzo dell’occultista inglese Aleister Crowley.
Plano finalmente su Lisbona maiolicata d’azulejos, sulle autorevoli decise figure del “Padrão dos Descobrimentos”, il monumento celebrativo delle grandi scoperte dovute a capacità e potenza dell’attività marinara portoghese; dettagliata per tempi e luoghi in planisfero su pavimento della piazza antistante, che neanche turisti intraprendenti riescono a fotografare però in toto, perché vasto e calpestato continuamente da tanti visitatori.
Affronto queste tappe corredato da guantierina di pastéis de nata per virate al gusto crema nelle traiettorie di volo, e sottofondo sonoro di sensuale fado languido al femminile… Ma riflessivo un click mi prende prima di lasciare il Portogallo: la più famosa Europa fu rapita da Zeus in sembianze di splendido bovino, e nella Pega tauromachia locale (a tarda sera di Giovedì quinta feira, a Praça de Touros di Lisbona), cavaleiros e forcados amadores combattono orgogliosamente col toro, senza ucciderlo in armi come nella più nota corrida. Si può trovare allusione creativa – in tale vigoroso tor(n)eare – alla possibilità di riscatto dell’Europa dei popoli, e prova che – pur senza sanguinosi strappi tipo Brexit – con vigorosa presa sul collo taurino è domabile l’irruente governance istituzionale della nostra Comunità di continente?
***
Fin quando permarrà la mia felice condizione di volo onirico, continuerò a proiettare lungo tutto il continente la mia ombra veloce su colline e montagne, pianure e foreste, fiumi e laghi: in un continuum che sogno tutta-natura-non-interrotta da frontiere politiche, invisibili non so se per l’altezza raggiunta o per visione magica abolite; con inizio comunque di tutto al miraggio estremo di Cabo de Roca…
Per questo davvero unico start di volo, sempre obrigado Portugal! Sempre grazie, Portogallo!
Domenico Ienna
“Paradisi limen!” Questa è la soglia del Paradiso!
Così s’espresse, estasiato, Francesco Petrarca in visita al santuario del Sacro Speco di Subiaco. Il poeta era stato preceduto, in questo luogo di culto di fama internazionale, dall’altro grande Francesco, capace di trasformare in meraviglioso roseto il cespuglio di rovi contro cui, il promotore dell’”Ora et labora” monastico, drasticamente aveva represso le sue più spinose tentazioni mondane.
E questa è solo una punta del grande iceberg culturale dei santuari del Lazio. Qui amplissima è stata la proliferazione dei luoghi di culto cristiani per l’enorme influenza esercitata dall’Urbe su tutte le provincie vicine. Su questo palcoscenico regionale sono state dunque rappresentate visite di Apostoli, persecuzioni e catacombe, pellegrinaggi di “Romei” e di Crociati sulla via Francigena, e molto altro ancora.
Tutto questo non poteva non lasciare tracce profonde nell’aspetto e nella cultura dei centri abitati laziali, esprimendo così con edifici, opere d’arte, leggende, ritualità e ricorrenze l’incontro tra sentire religioso e vivere sociale. Buoni esempi sono al riguardo le fiere commerciali, allestite in corrispondenza di frequentati pellegrinaggi popolari. E se in teoria ogni luogo di culto può essere ben considerato un “santuario”, il termine viene ad indicare ogni centro di devozione che appaia in particolare rapporto col sacro, predestinato o prescelto, spesso, dalla stessa divinità: sede cioè d’avvenimenti ritenuti prodigiosi o di immagini e memorie di personaggi stimati e venerati dai fedeli, produttrici anch’esse di grazie.
I SANTUARI DEL LAZIO
ALTRE PROVINCE
S. Cristina – Bolsena (Viterbo)
Il sangue dall’ostia
Di grande rilievo nella storia cittadina è il miracolo dell’ostia stillante sangue, avvenuto nel 1263 nella chiesa dedicata a S. Cristina, dove è conservato ancora intatto l’altare relativo. Protagonista fu Pietro da Praga, sacerdote boemo pellegrino verso Roma. Preso da forti dubbi mentre celebrava la messa sulla verità della trasformazione eucaristica dell’ostia in corpo di Cristo (transustanziazione), dovette constatare però sbigottito che dalla particola consacrata stava fuoriuscendo sangue, tanto da macchiare corporale, lini e pavimento. L’anno successivo - con riferimento a quest’evento - papa Urbano IV istituì la festa del Corpus Domini.
Convento francescano – Greccio (Rieti)
Il tizzone e il Presepio
Secondo tradizione S Francesco si stabilì in cima al Monte Lacerone (detto poi, appunto, “S. Francesco”) che incombe e veglia sul paese di Greccio. Erano talmente gradite le sue prediche agli abitanti che l’amico Giovanni Velita pensò di far costruire un convento proprio all’ingresso dell’abitato, in contrasto col Santo che avrebbe preferito luoghi più isolati per favorire il raccoglimento dei frati. Si recarono allora una sera sulla porta di Greccio con un tizzone acceso, intenzionati a edificare là dove questo fosse andato a cadere. Lanciò il tizzone il figlio del Velita di soli quattro anni, con il “Poverello” raccolto in preghiera. Mentre il legno stava già per cadere, ovviamente molto vicino, improvvisamente alzò la traiettoria e, attraversata la valle, andò a fermarsi su di un roccione lontano dove fu costruito il primo ritiro e più tardi il convento. Qui, nella notte di Natale del l223, nacque pure la tradizione del Presepio, allestito per la prima volta da S. Francesco in una grotta poi divenuta, appunto, “Cappella del Presepio”.
Santissima Trinità – Gaeta (Latina)
La “Montagna Spaccata”
Fondato dai Benedettini nel secolo XI , il santuario è detto anche della “Montagna Spaccata”. Presenta una scala di trentatre gradini che scende appunto nella profonda spaccatura di un lembo del promontorio di Gaeta. Aperta, secondo la tradizione, dal terremoto avvenuto alla morte di Cristo. Quasi al termine della scalinata si scorge sulla roccia l’impronta lasciata da un turco il quale, scettico sull’origine cristiana della fenditura, sentì cedere come prova la roccia alla quale s’era appoggiato.
Civita - Itri (Latina)
Quadro in mare!
Durante il periodo iconoclasta, due monaci basiliani furono fermati a Costantinopoli con un’effigie della Vergine. Rinchiusi in una cassa insieme con il quadro, finirono in mare sbarcando finalmente, dopo qualche tempo, a quanto pare in Sicilia. Eppure l’immagine fu ritrovata in seguito da un pastore proprio sul Monte Civita. Dal primo documento storico riguardante il santuario si deduce però che esso doveva esistere già da tempo.
Madonna di Canneto - Settefrati (FR)
La Vergine Nera
Il nome del paese deriva dai sette figli di S. Felicita, martirizzati a Roma nel II secolo. Il santuario sorge nell'amena valle di Canneto al di sopra dei mille metri d’altitudine. Vi si venera la statua della Madonna di Canneto, detta anche Madonna Nera dal colore assunto dal legno, di cui è costituita, attraverso i secoli. È meta di frequentati pellegrinaggi con fedeli e turisti provenienti, oltre che da Lazio, anche da Abruzzo, Molise e Campania.
S. Maria del Piano – Ausonia (FR)
Miracoli in alta quota
Nell'anno 1100 apparve la Madonna ad una pastorella di nome Remigarda, mentre questa stava pascolando il gregge in località Gorgalonga. Come in tutte le visioni di questo tipo la fanciulla doveva richiedere alle autorità di Ausonia l’edificazione d’una chiesa appunto nel luogo dell’incontro. Per farla prendere sul serio in paese, la Vergine guarì Remigarda da una malformazione da cui era afflitta purtroppo fin dalla nascita. Nel sito dell’apparizione fu poi effettivamente rinvenuta una statua lignea di Maria in trono col Bambino, risultata però misteriosamente scomparsa dal non lontano paese di Castro dei Volsci: qui non fu possibile però ricondurla, nonostante i ripetuti tentativi dei suoi abitanti. Altri prodigi ci furono ancora durante l’erezione della chiesa: tracciato un perimetro maggiore di quello voluto dalla Vergine, le mura costruite furono trovate più volte distrutte fino a quando non si decise, opportunamente, d’uniformarsi ai desideri espressi dall’apparizione!
Domenico Ienna
Anche se non mancano certo santuari (ormai) inseriti nei centri abitati, elemento non secondario del maggior numero di questi siti devozionali sono le particolari suggestioni offerte dai luoghi occupati o da attraversare per raggiungerli: rocce, grotte, selve, sorgenti, strapiombi.
E sono proprio la Vergine e i Santi ad indicare, secondo le leggende, i luoghi dove desiderano essere venerati, foklorica intuizione dell’intesa tra ambiente naturale e cultura dell’uomo. Sono presenti, nella regione, anche santuari cristiani che hanno preso il posto di preesistenti strutture pagane relativamente pure ad alcune ritualità connesse, attivando così una certa ‘continuità vischiosa’ tra luoghi di culto di diverse culture.
Se i Santuari d’altura conservano nel Lazio fisionomie più modeste e spirituali, la maggior parte degli altri è costituita invece da edifici più grandi e arricchiti di quelli iniziali, avendo tratto ispirazione dai fasti delle grandi chiese di Roma.
Nel momento in cui si attribuiscono a dei luoghi degli specifici caratteri di sacralità, nascono ovviamente per trarne benefici delle iniziative di pellegrinaggio, considerando tale sia un itinerario con mezzi di trasporto, sia un’escursione a piedi - eventualmente pure di notte - ad un santuario locale.
Come il culto delle memorie ed i relativi miracoli, anche i pellegrinaggi sono considerati con forte prudenza dalle autorità ecclesiastiche perché suscettibili di mistificazioni e visionarismi gestiti al di fuori del controllo religioso. Al di là degli aspetti devozionali e fideistici, essi presentano comunque anche temi di grande interesse psicologico: colpisce infatti di molti pellegrini la commozione sincera, la determinazione e l'entusiasmo con cui affrontano il percorso e seguono l’effigie venerata, con un senso di partecipazione che, da singoli, li rende attori di un'esperienza comune.
Le manifestazioni di devozione nei santuari, con mescolamento democratico dei partecipanti, soddisfano bisogni essenziali: dialogo diretto con l’entità soprannaturale in cambio delle fatiche del pellegrinaggio, ottenimenti materiali, crescita interiore. Qualcuno opportunamente ha detto ”Se il misticismo è un pellegrinaggio interiore, il pellegrinaggio è misticismo esteriorizzato”.
I SANTUARI DEL LAZIO
Divino Amore – Roma
Salvatrice dell’Urbe
Suggestivo il pellegrinaggio a piedi dall'obelisco di Axum, in Piazza di Porta Capena, per Porta S. Sebastiano, Appia Antica, "Quo vadis?" e Fosse Ardeatine, fino al Santuario posto al dodicesimo chilometri della via Ardeatina. Sorse nel punto in cui nel 1740 un uomo, inseguito da una muta di cani inferociti, riuscì ad ammansirli pregando con fervore un'immagine della Vergine posta su di un vecchio torrione abbandonato. Per la devozione popolare questo fu solo il primo d’una lunga serie di eventi miracolosi che portarono alla grande diffusione del culto relativo all'effigie. Fu proclamata Salvatrice dell’Urbe nel 1944 per la protezione di Roma – a lei attribuita – dalla violenza delle truppe tedesche. Federico Fellini con “Le notti di Cabiria” (1957), fece entrare il pellegrinaggio votivo al Santuario del Divino Amore anche nella storia del cinema oltre che in quella del folklore religioso e devozionale romano, di cui certo costituisce una delle manifestazioni più significative.
S. Maria di Galloro – Ariccia (Roma)
La Madonna ritrovata
Fu il giovane Sante Bevilacqua che nel 1621 scoprì l'immagine della Madonna di Galloro, dipinta probabilmente sopra un masso di peperino, nel fosso sottostante l’attuale santuario a mezzo chilometro dal centro di Ariccia. Già oggetto di culto, era stata lì dimenticata, rimanendo poi coperta da una fittissima vegetazione. Appiccato un giorno un fuoco per aprire un varco, le fiamme risparmiarono miracolosamente, con il boschetto circostante, anche l'edicola di legno che conteneva la sacra immagine. Questa protesse l’anno successivo i fedeli radunati nella parrocchiale: durante una tempesta numerosi fulmini abbatterono infatti il campanile procurando però solo feriti all’interno dell’edificio. Si racconta che a tutti rimasero impresse sul corpo delle stelle, simili a quelle raffigurate nel quadro!
Mentorella – Capranica Prenestina (Roma)
Il miracolo del cervo
L’origine di questo santuario, isolato a più di mille metri di quota sul Monte Guadagnolo, risalirebbe alla vicenda di Placido, ufficiale dell’imperatore Traiano. Mentre, a caccia sui Monti Prenestini, stava per uccidere un cervo apparve tra le corna dell’animale un’immagine di Cristo: convertitosi per questo prodigio con il nome di Eustachio, finì per essere martirizzato poi con tutta la famiglia. L’imperatore Costantino, colpito da questa storia, volle visitare i luoghi del miracolo, sentendo poi il bisogno d’erigervi un tempio. Su questo sorse in seguito la chiesa della Mentorella. E nei pressi, in grotta, fu eremita Benedetto da Norcia. Il santuario - uno dei più antichi d’Italia - vanta pure l’affezionata frequentazione di Giovanni Paolo II.
Santissima Trinità – Vallepietra (Roma)
L’adorazione dei buoi o la fuga dei ravennati?
Sembra che un contadino, mentre arava un terreno sul colle della Tagliata, vide precipitare nel vuoto i due buoi con tutto l’aratro. Portatosi verso il basso, trovò incredibilmente incolumi gli animali nei pressi d’una grotta con un affresco della SS. Trinità. Nel dipinto del secolo XII le tre figure divine benedicenti sono raffigurate del tutto identiche, un’eccezione rispetto all’iconografia relativa. Ma sull'apparizione del quadro della SS. Trinità c’è anche un testo letterario disinvoltamente corredato d’anacronismi: due ravennati residenti a Roma fuggirono sul monte Autore per sottrarsi alla persecuzione di Nerone. Qui - dopo la visita degli apostoli Pietro e Giovanni e d’un angelo premuroso addetto al vettovagliamento - apparve appunto la SS. Trinità per la consacrazione del monte Autore. All’altezza di ben 1.337 metri il santuario è raggiungibile in circa due ore, in pellegrinaggio a piedi dal paese di Vallepietra. Caratteristica tradizione della festa della SS. Trinità è il Pianto delle Zitelle, sacra rappresentazione animata da giovani del paese che rievocano alcuni episodi della Passione.
Madonna del Buon Consiglio – Genazzano (Roma)
La Madonna albanese
Nel secolo XV, iniziandosi in Genazzano i restauri dell'antica chiesa parrocchiale di S. Maria, una vedova locale (nota come la beata Petruccia) vendette i pochi beni posseduti per contribuire in qualche modo alle spese previste. Presa in giro in paese per tale comportamento, sostenne d’aver avuto notizia d’una venuta imminente della Madonna in paese. Infatti il 25 aprile 1467, alle ore 16 e 15, apparve affrescata su di una parete della chiesa ancora incompiuta l'immagine della Madonna del Buon Consiglio. Secondo due pellegrini albanesi presenti in paese l’icona era giunta da Scutari, in Albania e aveva attraversato anche il mare senza alcuna imbarcazione, fuggendo poco prima che la città fosse presa dai Turchi! La miracolosissima immagine della Vergine col Bambino sembra però da attribuire ad Antonio Vivarini, maestro della Scuola Veronese della prima metà del Quattrocento.
Ricordate la delusione della Nazionale italiana di calcio (Campione in carica 2006) ai successivi Mondiali del 2010 in Sudafrica? Un dis-astro, d’accordo, sotto un cielo però con tante storie di stelle…
A chi giunge dall’Atlantico al promontorio sudafricano di Buona Speranza, oltre la baia e la “dinamica” ciambella del “Green Point Stadium” si presenta - inclusa nella Città del Capo - la sagoma quasi innaturale della “Montagna della Tavola” (Table Mountain): cima piatta evidentemente, a poco più di 1000 metri s.l.m., frequentata da una nuvola bianca detta “Tovaglia” perché l’altopiano le fa proprio da mensa, per tre km circa verso la Città.
Più di 2 secoli e mezzo prima del debutto calcistico dell’Italia campione (con débâcle finale), l’astronomo francese Nicolas L. de Lacaille si trovò ad attendere, in questo magnifico ambiente naturale, alla redazione della sua carta del cielo australe (1751-1752).
All’orografia particolare del “Tafelberg” (la “Tavola” in “afrikaans”) fu certo molto sensibile il Lacaille; tanto da immortalarne il nome in una delle 14 nuove costellazioni create per l’orientamento, in cieli evidentemente non “letti” dalle antiche mitologie euroasiatiche. Dette così il nome latino di “Mons mensae” (Montagna della Tavola) a un settore circumpolare di firmamento visibile da poco a nord dell’Equatore fino al polo Sud, dotato di stelle deboli ma pure di qualcosa d’interessante.
Si estende infatti in esso parte della “Grande Nube di Magellano”, l’oggetto extragalattico più luminoso tra quelli visibili col solo occhio nudo: uno scrigno di miliardi di stelle come fu scoperto però in seguito (1834-1838) dall’astronomo inglese John F. W. Herschel, che aveva proseguito le osservazioni “in loco” con strumenti di livello superiore.
Particolarissima nuvola insomma, che non poteva non richiamare quella più vicina alla terra, che scende a rivestire la “Tavola” della Città del Capo. Forse anch’essa un po’ stordita in quel particolarissimo Inverno australe, riscaldato dal concerto delle “vuvuzelas” nel sito poco lontano del “Green Point Stadium”.
Domenico Ienna
Preambolo
Per comprendere appieno in “Domani mi vesto uguale” - come nei romanzi investigativi ottocenteschi d’Alexandre Dumas - “la femme” che vi è fulcro narrativo, occorre “chercher” però “l’homme”: cogliendolo virtuale nei difficili personaggi ”amanti/amati” Ernesto, Marco, Pierre e Karl
“La vita di Ernesto appariva un fortino francese nascosto tra le dune del Sahara”,
oppure reale nel padre dell’Autrice - per dolorosa “absentia” posto in dedica
“A mio padre, nel ricordo vivo di lui…Ai i suoi angoli acuti e all’innata fierezza. Alla sua cupa allegria” -
che sembra far capolino in qualche modo però anche nel testo, come punto fermo di vita a Sara protagonista
“…ho smarrito tutti gli uomini che ho incontrato. Mio padre è l’unico uomo che non ho smarrito mai”.
Se – come trova a dire comunque proprio la stessa a io narrante
“Lascio un pezzo di me da qualche parte…mi piacerebbe che qualcuno raccogliesse quel pezzo, facendolo parte integrante di sé. Magari capita proprio così, ma in tanti anni nessuno è mai venuto a…chiedermi: ‘Scusi ho con me il suo pezzo. Se le manca sono pronto a restituirglielo” -
gli amanti/amati hanno ognuno evidentemente un pezzetto importante di lei; Sara non può fare a meno di “chercher” dunque queste parti smarrite, anche se tutte le tessere del domino erano in custodia certo solo del padre, “unico uomo” appunto “smarrito mai”.
Il titolo e la chiusa
Due i motivi - di forma e di contenuto - che possono mettere il lettore a proprio agio di fronte al titolo, tratto da una battuta in intimo della protagonista che fa da sigillo, in pratica, allo scritto
“Penso di botto: ‘Domani mi vesto uguale’. E sparisco nella luce del giorno, mischiandomi ai particolari invisibili”:
“in primis” l’utilizzo d’una espressione colloquiale, con aggettivo al posto del corrispondente avverbio di modo; poi soprattutto la considerazione che il narrato sembra promettere ricerca - se non addirittura rivelazione – di certezze esistenziali creabili/rintracciabili in qualsiasi contesto quotidiano.
Il “racconto” - come definisce la sua fatica Elvira Morena, caso non raro di medico scrittore - risulta a nostro avviso per nulla “leggero”, come potrebbe apparire saggiando solo in superficie termini e espressioni, o qualche scena di narrazione relativa.
Paradossalmente nulla di meglio - per la definizione dell’opera - che saltare dal titolo al “post scriptum” in ultima pagina, dove l’Autrice viene a confessare ciò che non ha inteso pretendere dall’opera sua: essenzialmente “navigare contro corrente”, indagare “sull’edonismo e sulla società dei consumi”, celebrare “la solitudine e il femminismo”, far la morale a “persone di sesso maschile” e disprezzare infine “il marketing e … non per questione di marketing”; invitando così a gustare piuttosto il racconto “nudo e crudo”, proprio come in contenuti e forma creati e presentati.
Ma se Morena fa bene a giocare su tali non-intenzioni per liberare il suo veliero narrativo da bonacce programmatiche o burrasche, fa bene pure il critico a queste navigato a non lasciarsi ammaliare da tale vezzo di Sirena. Legatosi allora per resistere come Odisseo – nella fattispecie non all’albero della nave ma a tante notazioni fatte a bordo pagine in corso di lettura, egli non può non cogliere che tra intriganti relais, ricchi calembours e paragoni-shock tra cose, eventi, persone e sensazioni, il narrato costituisce sguardo attento e malinconico, permeato d’ironia, d’una società “liquida” di rapporti: legami, certezze e radici da reinventare; globalizzazioni e glocalizzazioni per “non luoghi” dell’anima…
“Lo incontro quando posso e quando vogliamo entrambi. La nostra relazione non conosce convenzioni, contratti e obblighi formali…Ha come unico collante il desiderio”.
Tutto bene ma, in “liquidità”, occorre saper calcare ad ampio spettro anche modi e forme di Solitudine: non evitata, voluta, scelta, tollerata, oppure - a un certo stadio della filiera che la produce – necessariamente pure subita…
Così al riguardo, se in periodo festivo “lo psicoanalista non riceve, anche lui è fuori a fare shopping”, “Esiste sempre un buon motivo per sentire qualcuno di notte”; e proprio alle brutte, “In ogni caso, il display si illumina d’immenso” a fare comunque orizzonte, e progetto d’esistenza.
Il sottotitolo che non c’è
In sottotitolo non avremmo visto male il termine “Amores”, nell’accezione però non solo d’incontri realizzati, ma dell’ampia tipologia di rapporti e percorsi in tale ambito possibili, da solitudini a sogni, da inseguimenti a innamoramenti, da passioni a tradimenti…
Delle dinamiche sentimentali di Sara descritte, quante e quali da Elvira vissute, oppure solo sognate? Il corpo in passione comunque è per nulla virtuale ma proprio vissuto, tanto d’essere quasi in grado di lasciare la carta, come in questa scelta crescente d’espressioni narrative:
“Sento il seno di pietra. Sui capezzoli dritti come chiodi ci puoi appendere gli abiti”,
“Mi sento biologicamente umida…a 50 anni e passa è una benedizione celeste”,
“Iniziò a sfiorarmi in ogni parallelo e dopo aver toccato l’equatore, avanzò una proposta…”,
“Feci l’amore con Marco e non ero sola. Partecipò all’amplesso una folla di oggetti di design”!
Certo “la vita o si vive o si scrive” diceva - per evidenziare tempi opportuni a ogni cosa - chi ha saputo concepire “Uno, nessuno e centomila”, “Il fu Mattia Pascal”, “Sei personaggi in cerca d’autore” e quant’altro… Elvi Morena mostra di averla vissuta/viverla proprio scrivendola, sottoponendosi a quel lavoro onirico indispensabile a chi vuol mettersi a “fare storie”: operando cioè in una “second life” fuori della sua Salerno - da Napoli al mondo – la mutazione alchemica della sua medicina in arte musica, eseguita dall’ironico e riflessivo suo avatar di fiducia Sara Ferrara.
La vita di questa – snodandosi tra malinconie e realismi
“La vita è oggi, il domani non arriva mai”
“il destino gode di una sua ineluttabilità che, a conti fatti, è una gran comodità”
è vissuta comunque da protagonista - non solo ovviamente letteraria del racconto - ma pure esistenziale nella “seconda vita” in questo rappresentata. Una vita che ha bisogno a volte d’essere “presa di petto”
“Allora, afferrai uno scialle e scesi in strada…”
“Indossai l’impermeabile e agguantai l’ombrello come si agguanta la spada”
per provare a sentirsi compiutamente violino, e non solo archetto di strumento e d’esistenza.
La struttura e le forme
La trama “esterna” (interna al testo, ma fuori-mente della protagonista) in fondo è secondaria, come piace a noi…L’azione d’interesse principale si svolge infatti negli ampi spazi di riflessione di Sara. Provare per credere: il racconto può essere piacevolmente letto partendo da qualsiasi pagina, a patto di ricordare qualche nome o spostamento essenziale…
E perfino a noi - fan dell’”oratio obliqua”, del discorso indiretto - sono piaciuti i dialoghi, in cui le parole della violinista soprattutto sembrano conservare, invisibile, un filo di seta che le fa emanazioni in sospiro d’anima narrante.
Che brulichio poi di paragoni arditi, comunque mai banali
“Questa donna sarà andata parecchie volte in bianco! Tanto da rimanerne segnata nel colore”
“…smunto e foderato di nero come il sacchetto dell’umido”
“…in America, dove ‘okay’ è la cera lacca che sigilla ogni discorso”,
contro cui non mostreremmo mai pollice verso, neanche quando l’Autrice sembra piacevolmente esagerare in massaggi “turchi”
“pari nelle movenze allo shafak esperto di sabunlu”.
Anche con trama al minimo, il tessuto narrativo dunque regge, non occhieggiando né lettore né critico; così che il consenso l’Autrice lo guadagna col solo piacere, palese, di fare scrittura; strapazzando con “nonchalance” pure regole severe, di tempo, di luogo e d’azione…
Che tempi…
Le riflessioni di Sara - fermando o dilatando appunto i tempi d’azione – scandiscono come canzoni il tenue racconto d’un musical, avvolgendo di “flash back” e “medias res” lo stupito lettore aggrappato a lancette da ”consecutio temporum”.
Ma se c’è tempo di trama, c’è pure trama di tempo (vissuto), con momenti suggestivi di racconto dietro quinte di teatro
“Nella corsa di tutti i giorni uguali, i pasti sono fast, le emozioni pur sempre fast, i minuti last. Il tempo, invece, è short”
“A quell’ora tarda in molti erano svegli a programmare il futuro”.
Locations
Ma quali quinte, quali scene, quali teatri per “Domani mi vesto uguale”? Lungo aerovie pure d’anima
“gli aerei sono la mia casa sospesa”
ancor più che d’azione, è di riflessione esistenzial-amorosa l’affaccio su tanti fondali mobili: ambienti urbani o superurbani di Gerusalemme, New York, Parigi, Napoli, Istanbul, o siti romantico-esotici più limitati per fughe d’anime quali Procida, Playa del Carmen, Capri, Sinai…Tra tanti luoghi visitati o di “memento” – pieni d’ansie di vita e d’“amores” - facile immedesimarsi allora in spaesamenti notturni di Sara protagonista: che s’interroga a volte nel buio “liquido” di certezze ambientali – in quale tappa di concerti o vita sta tentando appunto, inquieta sola, di prendere riposo…
Gli altri, neanche tanti…
Sugli attori d’“amores” e qualche amica della protagonista, s’esercita l’antica vocazione antropologica che non può mancare sotto camice di qualsiasi medico, sotto quello neppure d’Autrice; in com-passione e sim-patia, sempre in professione tra vite dolori dei propri simili…
Oltre a questi, rari gli sfioramenti d’altri alla sfera prossemica di Sara; al di là, generici sfondi umani che s’integrano più o meno bene con ambienti, architetture ed eventi proposti all’occasione in narrazione
“Il buffet è un formicaio di cibi decorati e uomini decorati uguale che vanno, ritornano e rivanno”.
All’orizzonte, più lontano eppure prossimo d’effetti, la società si propone come “marketing” impersonale: sistema che - regolando in combinazioni sentimenti, interessi e poteri contrattuali - occhieggia costantemente sulle vicende come realistica/moderna/cosmica fatalità.
Presentazione del racconto lungo di
Elvira Morena
“Domani mi vesto uguale” (Nocera Inferiore-SA, Oèdipus editore, 2016)
Conclusioni
Infine – e in fine di racconto - rimane dolce malinconia, nostalgia… in accezione proprio di languore da ritorno: essenzialmente dell’anima protagonista a se stessa, dopo tanto peregrinare narrativo.
Per la dott.ssa Morena buona la prima, s’attende riscontro in altra opera che sia “seconda” però solo nel tempo; dove saprà mostrarsi certo più smaliziata, e depistare meglio i critici che s’“incatenano”, divertiti a smentire il suo gioco letterario di presa distanza da possibili fini, e reali contenuti.
Domenico Ienna
Preambolo sull’alimentazione in generale
La storia dell’alimentazione ha sempre vissuto - a seconda dei casi per individui, popolazioni e istituzioni nel mondo - un suo Inferno e un suo Purgatorio caratterizzati da sofferenze e crimini più o meno gravi (drammi di fame e sete per guerre e carestie;interessi fuori controllo e sofisticazioni da parte di alcune multinazionali e agromafie, con povertà e patologie ad essi collegate; sprechi e disordini alimentari soprattutto nei Paesi più sviluppati; “diete” e modelli fisici che snaturano senso e valori della nutrizione; contributi sui media oscillanti tra idolatria e “pornografia alimentare”, con spettacolarizzazione del cibo da parte di “chefs” promossi “maîtres à penser”...), ma comunque anche un suo Paradiso - certo di difficile raggiungimento - che riassume in pratica tutto ciò che è sotteso all’accezione più completa di “dieta” (buone pratiche su qualità e quantità della nutrizione; recupero e rispetto del gusto; opportuni rapporti dell’alimentazione con altri ambiti della vita; possibilità di scelta da parte dei consumatori con filiere tracciabili dei prodotti e potenziamento dell'economia locale.
Sulla Pastasciutta al Pomodoro
Ho avuto già occasione di trattare la storia della Pastasciutta in modo esteso, mediante lo svolgimento propedeutico di tre vie di ricerca: influenza cromatica su funzione e gradimento degli alimenti, storia della Pasta e affermazione nella nostra cultura del Pomodoro; temi che convergono nell’analisi del prodotto di cultura materiale e simbolica detta appunto “Pastasciutta al Pomodoro”, cioè Pasta condita con salsa di Pomodoro, semplice oppure integrata con carne.
La Pasta
Ѐ alla Sicilia influenzata dalla cultura araba del sec. XII che risalgono le prime testimonianze europee di produzione di pasta fresca oppure secca, mentre la successiva fase relativa in ambito italiano si apre coll’importazione di tale prodotto dall’isola a Napoli verso la fine del ‘400. Se è comunque due secoli dopo che la Pasta comincia ad assumere un ruolo importante nella città partenopea - a causa d’emergenti problemi demografici, politici, economici alleggeriti però da soluzioni “tecniche” di produzione – la sua affermazione perfino al Sud non risulta ovunque rapida, e neppure uniforme.
Il Pomodoro
Al Meridione d’Italia – certo storicamente abile ad assorbire e (ri)creare popoli, culture, politiche e governi - va riconosciuto pure un efficace sincretismo alimentare realizzato tra prodotti agricoli e d’allevamento, tra colture autoctone e di provenienza americana.
Tra fine ‘600 e ‘700 compaiono le prime citazioni e conferme del Pomodoro come ingrediente gastronomico riconosciuto, in ricette che non prevedono però il suo utilizzo insieme alla Pasta.
Nell’ambito specifico invece delle salse - fino al periodo rinascimentale consumate brunite, e imbiancate poi nel secolo XVII – risulta evidente la rivoluzione che coinvolge le stesse con l’impiego progressivo d’un frutto, cromaticamente “deciso”, come il Pomodoro.
Riguardo all’odierna filiera di tale ex “Eroe dei Due Mondi” in quanto ormai globalizzato (grandi produttori/esportatori Cina e Stati Uniti; in Italia coltivato nel nocerino-sarnese sin dall’Unità, e poi in Puglia dagli anni ‘50/’60 del secolo scorso; con Napoli e Salerno attualmente terminali dei maggiori quantitativi di prodotto proveniente dall’estero), non posso esimermi dal fare triste menzione di tragici incidenti legati alla coltivazione intensiva dello stesso: morte di lavoratori per sinistri certo di strada, ascrivibili purtroppo però anche alla complessa e critica organizzazione produttiva del frutto, da tempo suscettibile di narrazioni di tipo non solo romantico…
La Pastasciutta al Pomodoro
La storia dei protagonisti del piatto qui analizzato vede la Pasta e il Pomodoro dapprima intenti a vivere le loro esistenze senza alcun interesse reciproco, legati ad altri “partners” più o meno costanti di frequentazione; poi finalmente uniti in Pastasciutta - nella terza vicenda di Pasta del nostro Paese – con passione espressa ancora però in modo discreto. Un’attrazione comunque in seguito sempre più difficile da contenere - che d’un piatto appetibile fa soluzione geniale di dieta, e pure icona simbolo di nostri luoghi e genti, natura e cultura.
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“Focus” specifico questa sera sul tema, una breve riflessione sul contesto storico in cui ha visto la luce la prima documentazione editoriale dell’“invenzione”-Pastasciutta, concepita negli anni ’30 dell’800 ma formalizzata a Napoli solo verso la fine di tale decennio.
Nella seconda edizione della sua “Cucina teorico pratica” (Napoli, Tipografia G. Palma, 1839) infatti, il cuoco letterato Ippolito Cavalcanti (duca di Buonvicino 1787-1859) inserisce nell’appendice “Cusina casarinola co la lengua napoletana” - tra molte ricette tratte da subculture diverse - per la prima volta proprio una Pastasciutta di vermicelli, conditi con salsa di Pomodoro appositamente preparata alla bisogna.
Perlomeno due riflessioni sul momento “storico” di tale ufficializzazione. Se la Pastasciutta al Pomodoro nel nostro immaginario appare forte simbolo d’italianità “da tempo” in campo, risulta essa in realtà molto più recente o coeva rispetto a caratterizzazioni altre d’ambito stesso: compare ad esempio molto dopo la creazione del Corpo dei Carabinieri Reali (1814), poco dopo quella dei Bersaglieri (1836) e in contemporanea – su territorio nazionale - alla prima ferrovia Napoli–Portici e all’ottimizzazione tecnica delle riprese fotografiche (1839). Non solo cibo forse allora, ma reazione simbolica al grave momento politico e ambientale che stava vivendo tutto il Paese, funestato da repressioni di moti mazziniani, gravi epidemie di colera e forti inondazioni (1833-1839)?
Da diversa prospettiva storica, l’incontro gastronomico Pasta-Pomodoro avvenne però ben due decenni prima dell’intesa - questa volta politica – del cosiddetto incontro di Teano tra Vittorio Emanuele II di Savoia e Giuseppe Garibaldi (1860): tanto che la famosa battuta attribuita a Massimo d’Azeglio (in realtà del politico Ferdinando Martini) dopo l’Unità d’Italia “Fatta l’Italia, occorre fare gli Italiani”, avrebbe potuto essere - opportunamente anticipata al 1839 – così formulata: “Fatta la Pastasciutta al Pomodoro, occorre fare l’Italia, e poi gli Italiani”.
Domenico Ienna
Da Sofija dei Bulgari a Palma de Mallorca - fino a Piazza dei Ravennati d’Ostia Lido - va l’iter migratorio di Georgi imbianchino, valente musico però d’orecchio e scuola, e pure di cuore. Dopo anni di Baleari, da cinque pizzica infatti corde di chitarra fronte Tirreno, sopra il Pontile mitico della spiaggia romana.
Di chioma candida - e brunito viso proprio di chi mira sempre Sud e onde lontane – si presta a chiacchiere solo dopo l’occaso in mare verso Fiumicino: con l’ombra allora da Torvajanica che sale, e sfuma graffiti e gente sorpresi sul “white carpet” di pietra, e corre giù giù fino alla Rotonda confusa d’orizzonte.
Caro Georgi - tra balaustre gonfie di vento e di salsedine - quanti ragazzi hai fatto innamorare, quanti maturi ri-sognare, quanti solitari ri-sperare, e quanti bambini danzare lieti ai tuoi tanti “revivals” di Mondo e d’Italia? A note sempre solo sussurrate, col garbo di chi libera tra cielo e mare finalmente i suoi aquiloni…
Regalaci però presto anche il tuo folk ricco di Balcani: per fare di Mar Nero e Tirreno acque unite – al profumo di rose bulgare – per poesie d’Europa…
Domenico Ienna
“Che cos’è il Natale?". Come colpiti da improvvisa amnesia, ce lo chiediamo ancora più di duemila anni dopo l’evento tradizionale della Natività, ricordato come ricorrenza più importante nei calendari liturgico e civile. Ma non sembri per nulla ozioso, oggi, tornare sui nessi simbolici non solo cristiani, le sovrapposizioni calendariali e gli aspetti folklorici che hanno definito la festività così come viene tuttora vissuta, visto che questi appaiono ormai quasi perduti tra i riti alienanti di un'altra divinità, meno etica certo e purtroppo mai sazia, quella attualissima ed onnipresente del Consumo.
Nel calendario la festa viene a trovarsi in un periodo piuttosto omogeneo per le credenze e le tradizioni che lo contraddistinguono (rinascita della luce, auguri e regali, confusione ed euforia rituali, giochi tra amici e familiari, particolare considerazione goduta dai bambini, maggiore disponibilità verso mantiche e pronostici), della durata di ben trentadue giorni, dalla festa di S.Nicola di Bari (6 di Dicembre) all’Epifania (6 di Gennaio). Al centro di questo mese rituale è il Natale, intimamente legato all'importante evento astronomico del Solstizio d’Inverno che cade quest’anno il 21 di Dicembre. Tanti, in proposito, i “gadgets” festivi dai beneauguranti cromatismi vitali del rosso e dell'oro, chiaramente ispirati al simbolismo solare.
Non per nulla, già nella Roma imperiale, protagonista pre-cristiano d’una cruciale ricorrenza dicembrina era infatti proprio l’astro del giorno, in risalita sulla volta celeste dopo la stasi solstiziale (“Sol Invictus”); questo fu identificato poi successivamente - tramite opportuni collegamenti simbolici, con il Salvatore di Bethlemme - venuto a proporsi agli uomini di buona volontà come stella di Luce ma pure d’Amore.
Sorprende poi il confronto tra Cristianesimo e Mithraismo (culto di provenienza indo-iranica, diffusosi in Occidente dal I secolo a.C.), viste le notevoli affinità simboliche esistenti tra i rispettivi apparati mitici: Mithra infatti - divinità solare - era nato da una roccia presso un albero sacro, alla presenza di alcuni pastori che gli avevano reso omaggio con rustici doni.
Come simboli collegati al Cristo e alla sua nascita, furono visti l'Anno in procinto di rinnovarsi - tra speranze ed euforia - verso un nuovo ciclo non solo cosmico, stagionale e biologico, ma anche spirituale, con il Divino atemporale incarnato come Evento nella Storia; il Ceppo di Natale posto nel camino per durare fino all'Epifania; e il suggestivo Albero della Vita, maestoso sempreverde ornato di frutti e di luci sostegno omeopatico al Sole che rinasce, e di strenne per auguri scambievoli tra gli uomini.
Vennero a rappresentare ancora il Salvatore - che del resto aveva parlato di sé come “'Pane della Vita” - anche le grandi focacce speciali della tradizione festiva italiana ("Pan d'oro") ed europea (“Pain de Calandre", "Christmas-Bathc"), arricchite d’uva passa (''Pan di Tono"=Panettone) o pure di spezie nel XIV secolo (“Pan forte" o "Pan speziale", "Pan Pepato”), in accordo con la concezione folklorica del Natale come “giorno del Pane”.
Così il Natale viene a fornire ogni anno - pur nella concezione temporale rettilinea della vicenda cristiana - speranza, esigenza e opportunità cicliche di rinnovamento, anche al di là della specifica matrice confessionale a cui la festa appartiene.
Nel folklore regionale italiano, la notte del 24 è considerata poi particolarmente magica, in quanto l’evento grandioso che vi si svolge libera energie e magnetismi incanalati - di volta in volta - da esigenze diverse. In questo momento speciale dell’anno, infatti, si crede che alcuni filtri trovino la loro efficacia; che sia favorita (durante la Messa di Mezzanotte) la trasmissione - tra operatori e apprendisti - della virtù di guarire alcune patologie; poi anche, però, che i nati nel periodo (se vi cade il plenilunio) siano esposti in futuro - se maschi - a licantropia, se femmine a stregoneria e sonnambulismo.
Come già detto, tutto il mese che va dalla ricorrenza di S. Nicola (“Sanctus Nicolaus” benefattore di giovani e fanciulli, divenuto “Santa Klaus” negli Stati Uniti dopo peregrinazioni e aggiustamenti narrativi) all'Epifania, oggi è periodo soprattutto di giochi e regali. Speriamo allora di poter esclamare - nell’intrattenimento più comune del momento - "Tombola!", per scacciare con soddisfatta meraviglia ansie e noie dell’anno trascorso.
Una risposta ai dubbi d’amore negli insediamenti alpini può darla il lancio di una cidulina ardente, un rituale la cui origine si vuole fare risalire al culto per il dio Beleno, una divinità celtica assimilabile ad Apollo. Secondo quanto risulta dalle fonti letterarie ed epigrafiche, Beleno era venerato in Carnia e in Venezia Giulia nel III secolo dopo Cristo.
Nelle località nelle quali il rituale è in uso le ciduline assumono denominazioni diverse: pirulas in Val d’Incarojo, cidules nel resto della Carnia, fideles nel Cadore, scheiben-schagen nel Tirolo.
Le ciduline sono sezioni di ramo (o di tronco non sviluppato) di circa 10 cm, con un buco praticato al centro. Lo spessore della cidula è di circa 1 cm al centro e di 5 mm ai lati. Il legno usato è prevalentemente il faggio, perché è leggero, di facile intaglio e una volta acceso mantiene a lungo la brace. A officiare il rito in passato era prerogativa dei coscritti. Al momento, come conseguenza dello spopolamento degli insediamenti alpini, al lancio provvedono le persone di buona volontà, sempre, comunque, di sesso maschile.
In date stabilite le ciduline vengono gettate un po’ alla volta su un fuoco di sterpaglie appositamente acceso. Il luogo scelto per questo falò è solitamente uno spiazzo ubicato su una altura che sovrasta l’abitato, in maniera che lo spettacolo sia ben visibile.
Le fiamme non consumano i dischi di legno ma li trasformano in palle di fuoco. A questo punto le ciduline vengono prese con un’asta flessibile, di solito un bastone di nocciolo, che in Val d’Incarojo è denominato sdombli, e, dopo essere roteate con moto vorticoso, vengono lanciate giù per il pendio. Questo avviene perché l’operatore sbatte l’asta su una tavola inclinata in modo tale che la palla di fuoco si stacca dal bastone ed inizia la sua traiettoria. L’operazione si svolge dopo il tramonto, quando le ciduline incandescenti nell’oscurità risultano ben visibili.
Quando il dischetto infuocato inizia il suo volo il lanciatore grida la dedica, che può riguardare, al primo lancio, il santo patrono (“par un pin e par un pan, angna kest an è la vea di San Giuan", par un pin e par un pan, anche quest’anno è la veglia di San Giovanni) e nei successivi qualche volta (ma sempre più raramente) le autorità del posto e cioè il sindaco e il parroco. Quando, come nei casi che ci interessano, la motivazione del lancio è di natura sentimentale, l’operatore grida il nome della donna amata o della coppia per la quale si fa l’accertamento. Con le ciduline l’accertamento sentimentale si può infatti condurre in conto proprio o in conto terzi.
Naturalmente possono variare, secondo disponibilità, da località a località, il tipo di legno, la forma, la tecnica usata per il lancio: a Cercivento la cidula viene lanciata con una mazza, come fosse una palla di golf. Quando l’operazione non è promossa a fini turistici, identica è invece la funzione rituale svolta, l’accertamento cioè di un amore.
Il lancio delle ciduline ha un suo calendario, e la motivazione del rito, pur avendo una costante, l’amore, presenta, una serie di varianti. A Cleulis il lancio intende prevalentemente accertare se l’unione del lanciatore con la donna amata sarà duratura, a Canali, Salârs e Zovello se l’amore è ricambiato.
A Paularo il lancio di una cidulina avviene, a discrezione dell’operatore, con varie finalità: con il lancio il giovane mira ad accertare:
- se quello dichiarato dalla propria fidanzata è un amore sincero;
- la consistenza dell’amore di una coppia amica;
- le prospettive dell’amore della coppia amica.
La risposta al quesito formulato la fornisce, dopo il lancio, il punto di arrivo della cidulina. Il lanciatore ad esempio può stabilire che la palla di fuoco arrivi a un determinato posto. Se la cidulina arriva lì, la risposta al quesito è positiva. Se la palla di fuoco non arriva lì, la risposta è negativa. Ma non è il caso di drammatizzare: la sentenza non è senza appello, il quesito si può ripresentare l’anno successivo.
Per una cognizione dei luoghi, ove non citati, cui vanno riferiti i comportamenti esposti vedasi pag 52 e segg. di “Il mondo magico dell’amore”, di Nino Modugno, La Mandragora, Imola.
Nino Modugno
Non è in una chiesa ma in una capanna che, prevalentemente, a Palawan si celebra il matrimonio fra due componenti del gruppo etnico Tagbanua: lo sposalizio è uno stato di passaggio accompagnato in tutte le culture da particolari rituali.
Palawan è una delle 7107 isole che compongono la repubblica delle Filippine, la quinta in ordine di grandezza. E’ un’isola relativamente sottopopolata, la sua densità, è meno di 30 persone per Kmq (il censimento di popolazioni nomadi fornisce dati approssimativi), ma il tasso di incremento annuo dell’isola (4,3 per mille), nettamente superiore a quello nazionale (2,6 per mille), dovrebbe a lungo termine modificare la situazione. I Tagbanuà, una delle etnie più antiche della Filippine, sono prevalentemente sedentari e cristianizzati a differenza di altri gruppi etnici dell’isola, come i Batak. Convertiti da lungimiranti missionari hispano-filippini, i Tagbanua hanno conservato le antiche tradizioni, mescolando senza problemi la teologia locale con quella cristiana, così come hanno fatto a suo tempo le popolazioni del golfo di Guinea trapiantate nei Caraibi al tempo della tratta degli schiavi. Rimarchevole che, al momento della penetrazione spagnola (XVI secolo), i Tagbanua presentavano una organizzazione sociale evoluta, disponevano di un alfabeto di 16 caratteri e di una propria scrittura, orientata dal basso verso l’alto e da destra verso sinistra.
Le nozze di due giovani Tagbanua si celebrano in una capanna, che può essere quella di uno dei due fidanzati o quella del divata, il sacerdote-sciamano officiante, cui spetta, per consuetudine, la cattura della prima uscita di pesca o il primo nato dell’allevamento animale. I due fidanzati siedono al centro della capanna. Il divata, borbottando parole incomprensibili per i presenti, si avvicina ad essi con un recipiente pieno di olio di cocco (qualche volta il recipiente è costituito da una mezza noce di cocco o è sostituito dal palmo della mano), intinge un dito nell'olio, traccia una linea sul braccio dello sposo, dall'estremità dell'indice fino alla spalla. Alla sposa traccia una linea analoga, prolungandola fino al seno. Al termine dell’unzione i due fidanzati sono marito e moglie.
Nino Modugno
Gli Ona, presenti in tutta l'Isola Grande della Terra del Fuoco, sono rimasti a lungo confusi con le altre popolazioni fueghine.
Il ritardo nella individuazione di quello che costituiva il gruppo etnico più numeroso della Terra del Fuoco sembra doversi attribuire alla morfologia dell'Isola Grande: le coste orientali, dove gli Ona si affacciavano al mare, sono prive di porti e sono seminate di bassi fondali, il che teneva lontane le navi.
Solo nella seconda metà del XX secolo gli Ona sono stati individuati. Ne hanno riconosciuta l'esistenza i missionari anglicani di Ushuaia, i primi anche a classificare la popolazione fueghina in Alacaluf, Yaman e Ona (gli Haush erano già' scomparsi); per conoscerne i costumi si è dovuto attendere il 1879 quando, Ramón Serrano Montaner (a quel tempo capitano di marina, poi, dal 1900 al 1903, deputato al parlamento cileno) ebbe il coraggio di addentrarsi all'interno dell'Isola Grande guidando una spedizione nella zona pianeggiante.
Nella circostanza si evidenziò come grande fosse l'errore di avere accomunato i gruppi etnici. Gli Ona differivano non solo per il linguaggio ma anche, vistosamente, per l'aspetto fisico. Gli Alacaluf e gli Yamanes erano piccoli di statura e sformati agli arti inferiori. Gli Ona erano longilinei e con un fisico ben proporzionato. Il padre De Agostini, un missionario salesiano che ha soggiornato più di trenta anni in Terra del Fuoco riassumendo nella sua persona, in misura eccelsa, cultura geografica, alpinismo e carità cristiana, in uno dei suoi volumi ("I miei viaggi alla Terra del Fuoco", Paravia, Torino, 1934), ha così presentato la razza ona: "La statura ha proporzioni da gigante arrivando fino a 1,90, con una media nell'uomo, di m 1,75 e nella donna di m 1,70. Il colore della pelle è alquanto abbronzato e vi aggiunge molta vivezza il rosso delle guance che si osserva in molti di essi e che nelle giovani forma la principale attrazione. Hanno la testa grande, la faccia schiacciata , i capelli nero, fitti, setolosi, occhi un po' obliqui, neri, vivi, somiglianti nella forma alla razza mongolica, ...la bocca larga con labbra aperte ordinariamente al sorriso. I denti sono sani e di sorprendente bianchezza. Ad accezione dei capelli, gli Ona non lasciavano crescere sul loro corpo lanuggini di sorta ed il desiderio di sembrare belli li obbligava a strapparsi i peli della barba e delle ciglia. Il volto quindi presenta sempre uno strano aspetto giovanile, motivo per cui è assai difficile giudicare la loro età”
Ogni giorno gli Ona dedicavano un po' del loro tempo alla cura della persona. Le donne portavano una frangetta sulla fronte, gli uomini esteriorizzavano eventi o stati d'animo colorando l'epidermide. La colorazione era evidente: pur vivendo in un ambiente rude e freddo: gli Ona, al pari degli altri gruppi etnici, mancavano di qualsiasi tipo di vestiario chiuso o aderente, si coprivano con un pezzo rettangolare di pelliccia di guanaco che lasciava scoperte le braccia e le gambe. Ai piedi gli Ona portavano calzari di pelle dello stesso animale. "In ambo i sessi si trovano individui che per la grazia del volto, per la correttezza e la proporzione delle membra, si possono considerare come veri modelli di forme e di eleganza" (De Agostini, op.cit.).
A sviluppare e a mantenere il loro aspetto contribuiva l'abbondanza di cibo, il continuo e regolare esercizio fisico dovuto alle esigenze di caccia, il clima molto più secco e salubre di quello del versante orientale , dove vivevano gli Acaluf e gli Yamanes.
La necessità di cambiare continuamente posto alla ricerca di cibo imponeva l'adozione di una abitazione semplice, quella che, una volta smontata, la donna, che nella circostanza, si trasformava in una bestia da soma, poteva portare, unitamente ai pochissimi utensili, sulle spalle. L'abitazione era una capanna di pelli di guanaco montate su assi di legno. Durante i trasferimenti l'uomo portava solo archi e frecce per essere sempre pronto a colpire la selvaggina. che costituiva l’alimentazione di base della comunità
Nino Modugno
Sostanze e comportamenti in grado, secondo le tradizioni popolari, di migliorare le prestazioni sessuali.
Una volta che si è fidanzato o sposato l’uomo deve essere all’altezza della situazione. Ma non sempre è così. O magari, nella circostanza, l’uomo vuole strafare. Nella prima o nella seconda ipotesi l’uomo per dilatare le sue capacità amatorie ricorre a vari elementi della natura, cui ai nostri giorni le credenze popolari attribuiscono il potere di aumentare il desiderio sessuale:
— polvere di cantaride. La cantaride, come è noto, è un coleottero di colore verde con riflessi dorati;
— polvere di ossa di tigre. La polvere a Shanghai va versata in un bicchiere di vino. La polvere di corno di rinoceronte, pur seguitando a godere della sua fama secolare, in Cina è pressoché introvabile;
— acqua addolcita con miele, o cannella, o spumante dolce;
— l’acqua di una fontanella di Licata. La fontanella si trova in via della fontanella, di fronte all’ospedale cittadino;
— la zuppa con i vermicelli di riso;
— un infuso di pelle essiccata di geco;
— un infuso di “Alcanfor”, vale a dire di foglie dell’albero della canfora;
— le Amanite Caesaree, i funghi volgarmente chiamati “Ovuli buoni” e che a Frattamaggiore, dove è stata riscontrata la credenza, chiamano con una espressione che, tradotta in italiano, suona “tuorli d’uovo”;
— i “frutti di mare”, termine con il quale si riassumono tutti i crostacei e i molluschi commestibili che vivono in mare;
— un riccio cotto;
— la rucola (Eruca saliva). Perché non perdano la loro efficacia, le foglie della pianta devono essere consumate crude. A Roma la pianta è più conosciuta sotto la denominazione di “rughetta”;
— il dragoncello (Artemisia dracunculus), che a Monterigioni, è chiamato, non a caso, “erba d’amore”. A Monteriggioni con il dragoncello si condiscono gli spaghetti: se ne utilizzano le foglie e le sommità fiorite;
— l’ulivo benedetto la Domenica delle Palme passato sulla schiena mentre si dice “San Cosma e Damiano, io medico e tu sani”:
— la zuppa Sopa de machos (salame di testicoli di toro, sedano, menta e altro) in menù a Casa de Oro, ristorante di La Paz (Bolivia):
— i fichi d’India:
— la polvere di un camaleonte essiccato messa in un profumo poi applicato sul collo,
— la testa del pesce;
— il liquore ottenuto macerando per una settimana in un litro di tequila 30 grammi di Damiana (Turnera diffusa var aphhrodisiaca), piccolo arbusto delle Turneracee;
— il balut (parola che, in linguafilippina, significa "incartato"); consiste in un uovo di anatra o di gallina fecondato e bollito nel suo guscio poco prima della sua schiusa, quando l'embrione al suo interno è quasi completamente formato. In relazione ai suoi poteri afrodisiaci, a Baguio viene offerto durante la notte da venditori ambulanti;
— i semi di cardamomo in vino caldo:
— il rosmarino, se ingerito in piccole dosi o messo nell’acqua del bagno;
— il sedano: va consumato crudo;
— il prezzemolo. Anche questa pianta va consumata cruda;
— foglie di una pianta rampicante detta a San Costantino Albanese "qurpero". Si mangia con gli spaghetti, con la pancetta, con la verdura cotta;
— un profumo qualsiasi nel quale siano stati immersi: valeriana, polvere di Piedra de Iman, cenere di colibrì. La piedra de Iman (magnetite, ossido di ferro Fe2O4) è la pietra su cui giacque il corpo di Cristo dopo la discesa dalla croce. Le sue proprietà miracolose sarebbero state scoperte da Goffredo di Buglione nel corso di una sanguinosa battaglia contro gli infedeli sotto le mura di Gerusalemme. I colibrì sono presenti solo nel continente americano: questo comportamento risulta infatti praticato a Cuba:
— sangue di toro o di vitello raccolto e bevuto al momento del macello.
Anche in altre parti della terra si attribuisce al sangue un potere afrodisiaco. L’animale in questione è il serpente. In Vietnam il sangue di questo rettile diventa afrodisiaco l’ultimo giorno del mese lunare. In Cina al sangue di serpente si aggiunge un liquore, a Taiwan il vino. A Taipei questo intruglio viene posto all’asta al termine di un combattimento tra un cobra e una mangusta (vince sempre la mangusta). L’asta non va mai deserta e raggiunge cifre interessanti. Osservando lo spettacolo viene da pensare che l’efficacia di questo afrodisiaco sia temporanea: i vincitori dell’asta, bevuto l’intruglio (il bicchiere che lo contiene va restituito agli organizzatori del match cobra-mangusta), si allontanano velocemente per andare a raggiungere la loro donna.
Alcuni alimenti acquistano proprietà afrodisiache solo in determinati periodi dell’anno. Così ad Amaseno diventa afrodisiaco un formaggio detto “marzolino”, confezionato, come dice il suo nome, nel mese di marzo, e a Marana (L’Aquila) lo diventano i funghi raccolti dopo la mezzanotte del 23 giugno e prima dell’alba del 24. Colti prima di essere raggiunti da un raggio di sole e quindi bagnati di rugiada, nella breve “notte delle streghe” acquistano particolari proprietà molti vegetali, fra i quali appunto i funghi.
Per una cognizione dei luoghi, ove non citati, cui vanno riferiti i comportamenti esposti, come pure per la collocazione geografica (provincia per l’Italia, stato per l’estero) degli insediamenti menzionati vedasi pag 12I e segg. di “Il mondo magico dell’amore”, di Nino Modugno, La Mandragora, Imola.
Nino Modugno
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