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LA TORTURA: LA PRATICA PIU’ INDICIBILE

By Roberto Fantini January 09, 2018 9705

                “La tortura non ha luogo solo perché i singoli torturatori sono dei sadici, anche se i testimoni affermano che spesso lo sono. La tortura fa di solito parte dell’apparato controllato dallo stato per sopprimere il dissenso. Sono il potere e la responsabilità dello stato che si concentrano nell’elettrodo o nella siringa del torturatore. Per quanto possano essere perverse le azioni dei singoli torturatori, la tortura in sé ha un fondamento logico: l’isolamento, l’umiliazione, la pressione psicologica ed il dolore fisico sono tutti mezzi per ottenere informazioni, per far crollare il prigioniero ed intimorire quanti gli sono vicini. Il torturatore può volere qualcosa in particolare, come la firma di una confessione, la rinuncia a delle convinzioni, o la denuncia di parenti, colleghi ed amici, che a loro volta possano essere presi, torturati e, se possibile, fatti crollare.

La tortura è spesso usata come parte integrante della strategia di un governo per la propria sicurezza.

   Così possiamo leggere in un rapporto di Amnesty International di più di trenta anni fa (Tortura anni ’80, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1985, p. 10), in cui, oltre ad esaminare il fenomeno nelle sue cause e nella sua ampia diffusione a livello mondiale, si avanzavano concrete proposte (recepite in buona parte dalla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti delle Nazioni Unite), non soltanto di proibizione legislativa, ma anche miranti ad una efficace opera di prevenzione nei confronti del fenomeno, inteso in tutte le sue declinazioni.

Da quel tremendo volume di più di 400 pagine, due sono le tesi che sbucano prepotentemente fuori:

  1. La tortura fa di solito parte dell’apparato controllato dallo stato per sopprimere il dissenso. (…) La tortura è spesso usata come parte integrante della strategia di un governo per la propria sicurezza”. (ibidem)
  2. Tutti i governi sono in possesso dei mezzi necessari per porre fine all’uso della tortura. Ciò che necessita e che tragicamente viene a mancare è però la volontà politica.

La tortura ha luogo a seguito di una carenza dei “governi” i quali non assumono le loro responsabilità legali per prevenirla, per indagare e correggere gli abusi dichiarati di autorità da parte dei suoi agenti. Il fatto che la tortura o il maltrattamento abbiano luogo in decine di nazioni, mentre sono proibiti ai sensi della costituzione di almeno 136 nazioni, mostra chiaramente che una semplice proibizione legislativa non è sufficiente a bandire la tortura. Dove esista la volontà politica, comunque, ciò potrebbe permettere ad un governo di fermare la tortura. Al contrario, se sono state adottate poche misure preventive e pochi rimedi oggettivamente verificabili, allora è giusto concludere che l’opposizione di un governo alla tortura è men che seria.” (ivi, p. 137)

     Da allora ad oggi, l’opposizione alla tortura si è andata sempre più definendo in maniera ferma e categorica a livello di diritto internazionale e, per quanto concerne l’Italia, dopo estenuanti e vergognosi ritardi, intralci, ostacoli e fallimenti, si è potuto da poco ottenere una apposita legge, criticata e criticabile, ma pur sempre significativa.

Ma questo certo non testimonia affatto che il problema sia stato risolto o che sia in via di rapida soluzione. I dati raccolti e denunciati da Amnesty International e da altre organizzazioni umanitarie continuano a risultare inquietanti sia per qualità sia per quantità. * La tortura è ancora ben lontana dal poter essere relegata negli angoli oscuri del nostro passato, remoto o anche recente. La tortura è ancora prassi adottata e diffusa, studiata, coltivata, insegnata, applicata e, ovviamente, sperimentata e atrocemente subìta. Qualcosa, quindi, che non può essere sottovalutata né tantomeno ignorata. Verità, questa, dolorosamente scomoda quanto incontestabile che Maria Rita Prette (Marita per gli amici) riesce assai efficacemente a presentarci grazie al suo ultimo libro, Tortura-Una pratica indicibile (Sensibili alle foglie, marzo 2017)), fonte di numerosi elementi di conoscenza, preziose chiavi di lettura e di lucide proposte interpretative.

 

1. Parlare di tortura significa riferirsi alla sofferenza fisica e psichica inflitta “da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”, quindi non certo di mera “crudeltà insita nell’essere umano” o di esplosione occasionale, casuale, arbitraria (e, come tale, imprevedibile) di “rabbia incontrollata”. (p. 12)

Parlare di tortura significa parlare del processo di deumanizzazione messo in atto per renderla possibile” (p. 7). La tortura non è qualcosa da poter affidare all’improvvisazione: “richiede tempo e competenze”. (p. 8)

Per esserci la tortura deve esserci il torturatore e il torturatore va programmato, va costruito.

Nessun essere umano è in grado di torturare scientemente un’altra persona, a meno che non sia uno psicopatico, e quindi, per poter trasformare un gruppo di persone, per esempio di poliziotti, in una squadra di torturatori si deve lavorare su di loro, li si deve addestrare, li si deve a tutti gli effetti formare …” (p. 48)

E per poterlo fare occorrono abili programmatori e formatori capaci.

La tortura - infatti - non può essere inflitta se non si è stati autorizzati - quando non addestrati - a praticarla, e nessun agente potrebbe disporre del corpo del torturato se non fosse messo nelle condizioni logistiche di poterne disporre.” (p. 12)

E questo implica che tutto un settore delle istituzioni dello Stato lavori al fine di rendere pensabili, auspicabili, adottabili e applicabili determinate forme di esercizio della violenza, in determinate circostanze, in vista di determinati obiettivi, su determinati soggetti che si vengono a trovare (totalmente inoffensivi e impossibilitati a difendersi) sotto il pieno potere dello Stato.

E’ necessario, inoltre, che il futuro torturatore venga abituato “a guardare a chi subisce la sua violenza come a un oggetto, come se non appartenesse alla specie umana.” (ibidem)

Ovviamente, i “soggetti torturabili” saranno tanto più tali, tanto più saranno collocati e percepiti all’interno delle categorie degli “esclusi”, dei “nemici” e degli “indesiderabili”, “vale a dire tutte quelle persone che possono essere de-umanizzate senza suscitare scandalo o indignazione nei cittadini.”

La tortura, come “pratica indicibile” dovrà essere celata e negata, restare “confinata nel corpo delle persone torturate”.

 

2. La tortura è “un’istituzione totale, poiché il dominio del torturatore sulla completa impotenza del torturato è assoluto e perché l’esercizio del potere, attraverso la sofferenza inflitta al corpo del torturato è totale”. (p. 9)

Come afferma Jean Améry, nel suo straordinario Intellettuale a Auschwitz, la tortura è una vera e propria sorta di

rovesciamento totale del mondo sociale, nel quale possiamo vivere solo se concediamo la vita anche al prossimo, se dominiamo la tendenza espansiva del nostro io, se mitighiamo la sua sofferenza. Nel mondo della tortura invece l’uomo sussiste solo nell’annientamento dell’altro.” (Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino, 1988, p. 76)

E due - spiega la Prette - sono i concetti di cui l’istituzione ha irrinunciabile bisogno: eccezione/emergenza e pericolosità sociale.

E’ necessario, cioè, che ci si senta in guerra, che ci si senta sotto attacco, vulnerabili e, quindi, “costretti” a difendersi. Nell’ottica dei cosiddetti “mali estremi” curabili soltanto con rimedi altrettanto “estremi”. E’ necessario sentirsi assillati e angosciati da una minaccia indefinita (tanto più potentemente ansiogena quanto meno definibile e circoscrivibile). Solo su questa strada è possibile ottenere quella che possiamo considerare la dissoluzione massima dei rapporti più elementari e vitali di solidarietà e di comune appartenenza a quella cosa che siamo soliti chiamare “umanità”…

Il torturato, ammanettato, imbavagliato, incappucciato, ecc., è totalmente in balìa di mani estranee che esercitano sul suo corpo, e (cosa immensamente più brutale e insanabile) sulla sua anima un potere illimitato, senza alcun confine, in alcun modo contrastabile. La sua solitudine è la solitudine più abissale. E’ l’essere gettato al di fuori dell’umano, è l’essere rapinato del diritto di sentirsi umano in mezzo ad altri umani. E’ il perdersi stesso della nozione di “umanità”.

Come scrive sempre Améry,

Chi ha subìto la tortura non può più sentire suo il mondo. L’onta dell’annientamento non può essere cancellata. La fiducia nel mondo crollata in parte con la prima percossa, ma definitivamente con la tortura, non può essere riconquistata. Nel torturato si accumula lo sgomento di avere vissuto i propri simili come avversi: da questa posizione nessuno riesce a scrutare verso un mondo in cui regni il principio della speranza. Chi è stato martoriato è consegnato inerme all’angoscia.” (ivi, p. 82)

 

3. Se non si colgono le connessioni del fenomeno tortura con le istituzioni statuali non soltanto si rischia di farsene una rappresentazione banalizzata, impoverita e distorta, ma si finisce per non comprenderne la gravità e la pericolosità, cadendo nell’errore che essa riguardi soltanto i cosiddetti “gruppi bersaglio” (i mafiosi, i terroristi, i criminali, i nemici, ecc.), solo alcune persone, cioè, avvertite come lontane, come altre, come, tutto sommato, non rilevanti e, pertanto, non degne della nostra attenzione e preoccupazione, quando non addirittura “meritevoli” di esserne oggetto. Se non si guarda, cioè, al sistema, al “dispositivo” si rischia di non capire che, una volta accettato e reso operativo, potrà sempre essere applicato a seconda delle “necessità” di ogni particolare momento storico.

Per questo - spiega la Prette - con la fine dell’esperienza armata l’apparato della tortura ha potuto occuparsi dell’emergenza mafia senza destare la minima preoccupazione nella nostra società democratica.” (p. 64)

Inoltre, non andrebbe certo sottovalutato il fatto che insegnare ad una persona a torturare un proprio simile non può che produrre “effetti devastanti anche sui torturatori”: affinché comportamenti crudelmente violenti possano diventare

naturali la persona che li attua deve a sua volta essere passata per una sorta di addestramento alla de-umanizzazione” (p. 47).

E questo può aiutarci a comprendere come possa accadere che le persone così “addestrate” arrivino a sentirsi autorizzate a fare uso arbitrario della forza non soltanto al di fuori della legalità, ma anche al di fuori degli ambiti previsti dallo stesso dispositivo, come ritenendosi investiti di una sorta di “sacra” autorità e sempre tutelati da una inattaccabile impunità.

 

4. Al contrario di quanto si possa essere orientati facilmente ed ingenuamente a supporre,

La tortura non ha lo scopo di ottenere delle informazioni, in quanto, notoriamente, esse non sarebbero credibili. La tortura ha lo scopo di distruggere l’identità della persona torturata per sostituirla con un’altra, consona alle esigenze dei torturatori. Serve a umiliare e degradare e perciò incute terrore. Per questo, sin dall’antichità, essa viene usata dai potenti per garantire l’acquiescenza e l’innocuità dei sudditi.” (p. 83)

E, mentre nei paesi insanguinati dai conflitti imposti dagli interessi occidentali, la tortura, oltre a seminare il terrore, svolge la funzione di eliminare persone ritenute di particolare “scomodità”, in Italia avrebbe assunto come eminente obiettivo quello di produrre i cosiddetti “collaboratori di giustizia”.

A questo proposito, molto a lungo Maria Rita Prette si sofferma sul processo verificatosi proprio all’interno del nostro paese, processo che ha fatto in modo che il fenomeno tortura, fino all’inizio degli anni ’80 legato alla “occasionalità territoriale” - riguardante, cioè, soltanto “certe procure, certe questure, certe caserme” (p. 23), con percentuale minima dei torturati sul totale degli arrestati per banda armata - si sia potuto evolvere in “pratica ordinaria, quotidiana”, non tanto perché usata in maniera sistematica e continuativa, quanto per il fatto che il ricorso a tale dispositivo sia diventato “possibile, accettabile, ordinario.” (p. 36)

E questo tipo di ricostruzione storica ragionata la conduce ad esaminare e ad intrecciare fra loro vari momenti della nostra storia e numerose vicende umane di vittime sconosciute ai più o tristemente risucchiate nel magma stagnante della dimenticanza: dalla nascita come “gruppi caldi” delle organizzazioni dedite alla lotta armata alla cosiddetta “strategia del pentimento”, dalla costituzione dei NOCS (Nuclei Operativi Centrale Sicurezza) al sequestro Dozier, dalle pratiche ignobili della Caserma della Celere di Padova alla istituzione del GOM (Gruppo Operativo Mobile), dal caso di Cesare Di Lenardo a quello di Salvatore Marino, da quello di Giuseppe Vesco a quello di Vincenzo Scarantino.

       Il libro di Maria Rita Prette, già apprezzata curatrice del monumentale Progetto Memoria**, ci offre, quindi, una utilissima panoramica ed una analisi attenta e penetrante del fenomeno della tortura, sia nei suoi aspetti strettamente psicologici e sociologici, sia in quelli storici e politici. Merita, pertanto, di essere accolto senza alcun dubbio come un prezioso contributo alla conoscenza di quello che possiamo ritenere il crimine più terribile dell’uomo contro l’uomo, nonché di uno degli enigmi maggiori dell’animo umano e della sua intera storia.

*Vedi http://www.flipnews.org/human-rights/stop-alla-tortura-e-verita-per-giulio-regeni.html

** Dal 1994, Maria Rita Prette è curatrice, per Sensibili alle foglie, del Progetto Memoria e, successivamente, della collana Indicibili sociali.

http://www.libreriasensibiliallefoglie.com/catalogo.asp?sid=847820620160808070952&categoria=12

Tortura. Una pratica indicibile

Maria Rita Prette
Editore:Sensibili alle Foglie
Anno edizione: 2017

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Last modified on Wednesday, 10 January 2018 09:08