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Economics (224)

Roberto

Roberto Casalena
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Da quando il Chief Operating Officer di Unicredit, Vittorio Ghizzoni ha deciso di cedere alle pressioni dei grandi azionisti della banca italiana ma presente in forze in altri importanti mercati creditizi europei, Germania, Austria e Polonia in testa, dichiarando in un consiglio di amministrazione di fine maggio di essere disponibile, dopo avere ovviamente concordato le laute condizioni economiche per l'addio, a passare la mano, l'azione di Unicredit ha perso, al 14 giugno il 30 per cento del suo valore toccando i 2,21 euro, un minimo storico che va raffrontato ai quasi 7 euro della primavera scorsa e perdendo 18 miliardi di euro di capitalizzazione (ora sono ridotti a poco più di 13 miliardi) dall'inizio di quest'anno di disgrazia 2016, l'anno che segna l'avvio di una terza e molto complicata fase di quella tempesta perfetta che ha preso le mosse nel luglio del 2007.
Certo, in un mercato azionario europeo che ha bruciato 2.500 miliardi di euro in sette sedute non c'è da stare allegri e i guai della seconda banca italiana potrebbero anche passare quasi inosservati, tenendo conto di quanto accade al Monte dei Paschi di Siena o ancor più alle due banche destinate a convolare a nozze entro novembre, il Banco Popolare e la Banca Popolare di Milano, con l'azione del primo che sta quasi raggiungendo il prezzo fissato per l'aumento di capitale da un miliardo di euro attualmente in corso, ma non vi è dubbio che il mercato non può non rimanere sconcertato rispetto a una banca globale, quale Unicredit è, i cui azionisti più importanti non hanno pronta la candidatura del banchiere che dovrà rimpiazzare il grigio Ghizzoni, un uomo che non verrà ricordato per intuizioni di rilievo fondamentale, ma che almeno si è adoperato in questi anni per dare una sistemata ai conti dopo la effervescente gestione di Alessandro Profumo.

Un po' di ritardo per la scelta del nuovo numero operativo passi, ma quando da fonti autorevoli e, come si dice, vicine al dossier, si è appreso che l'attesa del nuovo numero operativo potrebbe non trovare termine prima di fine luglio le vendite si sono letteralmente scatenate con volumi esagerati e quelle perdite verticali del valore dell'azione di cui parlavo all'inizio e che in un tentativo di rimbalzo mercoledì scorso dopo varie sedute di bagno di sangue ha fallito clamorosamente il ritorno nell'area dei 2,30 euro per ripiegare rapidamente verso i livelli ignominiosi toccati nelle sedute precedenti.
Ma quale è la materia del contendere tra i grandi soci di Unicredit, che insieme ne controllano circa un quarto delle azioni e che per la dispersione degli piccoli azionisti fanno il bello e il cattivo tempo nell'istituto di Piazza Cordusio? E' presto detto: vi è un contrasto sanguinoso tra gli esponenti delle tre fondazioni bancarie che a suo tempo diedero vita insieme al Credito Italiano a Unicredit, un confronto che vede su fronti opposti Palenzona che vorrebbe Nagel di Mediobanca come nuovo CEO e Paolo Biasi di Cariverona che preferirebbe, come quasi tutti gli altri soci, un banchiere esterno al mondo Unicredit (primo azionista di Mediobanca che, a sua volta è un importantissimo azionista delle Assicurazioni Generali) e come dargli torto? Si è poi saputo ieri che, di fronte a quanto sta accadendo sui mercati, Unicredit ha deciso di accelerare i tempi e, nel giorno del voto su Brexit, cioè giovedì della prossima settimana, verrà esaminata una terna di nomi per la sostituzione di Ghizzoni.

Qualche mese fa, ho pubblicato una puntata del Diario della crisi finanziaria nella quale fornivo poche e semplici istruzioni per comprendere un dato sintetico come lo spread tra il BTP decennale e il Bund tedesco avente pari durata, ma ora che la crisi finanziaria si sta facendo sempre più cruenta, in particolare per l'approssimarsi della scadenza del referendum che stabilirà se la Gran Bretagna resterà nell'Unione europea o, viceversa, se la lascerà, credo utile ricordare quanto dicevo allora, anche perché si è verificato un fatto nuovo e che non era mai successo nella storia e, cioè, il passaggio dei rendimenti sul Bund a valori, seppur lievemente negativi.
Cosa significa questo? Sta a significare che il rendimento di un BTP, poniamo l'1,47 per cento, ossia 147 punti base, in presenza di un rendimento negativo del Bund dello 0,03 per cento, porta lo spread a 150 punti base, esattamente come si è verificato ieri ed è una cosa importante perché il differenziale era riuscito a portarsi intorno ai 100 punti base ed ora è a ridosso della soglia psicologica dei 150 punti base, pur se, in termini di rendimento, le cose non siano mutate in maniera significativamente rilevante tra questi due periodi.

Quello che sta avvenendo in realtà è quel fenomeno di cui ho parlato pochi giorni orsono è che definito fly to quality e cioè che quando si entra in un periodo di forti turbolenze economiche e/o geopolitiche gli investitori abbandonano gli investimenti a rischio, come i titoli pubblici dell'area mediterranea, per spostarsi verso il titolo rappresentativo del debito della maggiore economia dell'Unione europea, la Germania appunto, e nel fare questo non badano al livello del rendimento, sono anche disposti a rimetterci, in particolare se si tratta di fondi pensione, grandi compagnie di assicurazione e banche più o meno globali.
D'altra parte, anche le banche dell'area euro sono disposte a pagare un premio dello 0,40 per cento alla Banca Centrale Europea per depositare presso di essa centinaia di miliardi di euro al giorno che non prestano a famiglie e imprese pur concedendo la BCE ingentissimi finanziamenti a tassi che vanno dallo zero al meno 0,30 per cento, rappresentando questo fenomeno uno dei motivi per cui il Quantitative Easing in corso da oltre un anno non sta facendo ripartire l'economia, né è in grado di combattere la deflazione.

C'è stata una seduta di borsa nel corso della scorsa settimana nella quale sembrava che un raggio di sole avesse colpito le banche italiane quotate, ma poi è venuta la terribile seduta di venerdì 10 con una vera e propria alluvione di ordini di vendita che in certi momenti avevano difficoltà a trovare controparti, il tutto tra un profluvio di sospensioni per eccesso di ribasso che hanno colpito, in particolare, Unicredit, Monte dei Paschi di Siena, i titoli del Gruppo Unipol, mentre molto malconcie risultavano anche le due candidate alle nozze, Banco Popolare e Banca Popolare di Milano, ma è stata una seduta nella quale è difficile individuare qualche segno positivo. Scenario replicatosi poi nella seduta di ieri che ha visto le perdite per alcune banche toccare il 10 per cento.

Cosa è accaduto per determinare uno sconquasso di queste proporzioni? In primo luogo le dichiarazioni di Super Mario, al secolo Mario Draghi, in particolare quell'invito rivolto alle banche dell'area euro, ma tutti sapevano bene che il riferimento era a quelle italiane che sono caratterizzate da un livello dei Non Performing Loans sul totale degli impieghi vivi multiplo di quello delle banche degli altri paesi europei, l'invito dicevo a non perdere tempo nel prendere di petto il problema, un invito che fa il paio con l'attivismo forsennato delle due donne alla guida della vigilanza bancaria europea presso la BCE che tanti dolori stanno provocando ai vertici delle banche italiane e a quelli di quei gruppi assicurativi, come Unipol, che hanno in pancia una banca dai conti che è quasi un eufemismo definire disastrati.
Il problema è che la consapevolezza tra i vertici bancari del nostro Paese sulla necessità di affrontare questo problema è pressoché corale, in particolare tra quanti hanno già ricevuto corrispondenza da Madame Nouy e dalla sua stretta collaboratrice tedesca, ma il problema rimane quello sui tempi, anche se c'è un grandissimo gruppo come Unicredit dal quale è trapelato che la scelta del numero uno non dovrebbe avvenire prima di fine luglio e non è certo un caso se ieri il suo titolo ha subito l'onta di segnare nuovi minimi storici con una flessione di oltre il 6 per cento.

La seconda ragione dell'ecatombe di venerdì scoro è data dalla diffusione di un sondaggio del quotidiano inglese The Independent che dava i sostenitori dell'uscita della Gran Bretagna dall'Unione europea avanti di dieci punti su quanti vogliono rimanere e a poco è servito che la media dei sondaggi dà i sostenitori del remain ancora avanti seppur di poco a quelli del leave.
Una persona che di valute se ne intende, come il miliardario George Soros, l'uomo che divenne ricco nel 1992 scommettendo contro la sterlina inglese e la lira italiana, sostiene che finché la sterlina sarà forte difficilmente l'esito del referendum sarà quello di un'uscita dall'Unione europea, ma il problema è che venerdì e ieri la valuta britannica ha iniziato vistosamente a perdere colpi!

Mancano oramai meno di due settimane al momento. giovedì 23 giugno, nel quale ci sarà la prova della verità sulla semplice opzione offerta dal referendum ai cittadini britannici e che consiste nel decidere se restare nell'Unione europea a 28 paesi, dei quali una ventina aderenti all'euro, o uscirne definitivamente, una scelta che sembra francamente incredibile per una Gran Bretagna che paga il conto meno salato al bilancio comunitario e che gode del più alto numero di opting out rispetto a tutti gli altri paesi dell'Unione e che non più tardi del febbraio di questo anno di disgrazia 2016 ha conseguito ulteriori deroghe su quattro punti tra cui la non applicazione dei benefici del welfare per molti anni agli stranieri, inclusi, e forse soprattutto, quelli provenienti da altri paesi membri dell'Unione.

Come ricorderà chi ha letto le precedenti puntate del Diario della crisi finanziaria sull'argomento, vi è stata una levata di scudi da parte dei governanti di altri paesi del mondo occidentale, Barack Obama in testa, di organismi economici sovranazionali, singoli imprenditori ed opinion makers che hanno "avvertito" i cittadini britannici dei rischi elevatissimi per l'economia di quel paese e per la stessa occupazione, per non parlare dei conti con l'estero, un pressing molto pesante e ai limiti dell'ingerenza che ha finito per avere, a quanto pare dai più recenti sondaggi, addirittura un effetto negativo aumentando le schiere dei sostenitori del leave e riducendo quelle di quanti sono schierati per il remain.

Il rischio che, a differenza del referendum scozzese dello scorso anno, si arrivi ad un esito elettorale favorevole all'uscita della Gran Bretagna dall'Unione è stato per prime percepito dalle grandi banche di investimento, in particolare di quelle basate nella City di Londra, che hanno commissionato costosissimi sondaggi riservati che hanno rivelato in anticipo di questa nuova tendenza (avvertita anche da larga parte dell'establishment britannico) tendenza che è vista con grande preoccupazione e che ha spinto molti dei loro clienti a scelte di investimento basata sul principio del fly to quality, privilegiando i titoli di Stato statunitensi, quelli tedeschi (giunti ormai a rendimenti dello 0,02 per cento) e anche quelli britannici, il tutto mentre la sterlina continua ad essere in posizione di grande debolezza.

Ma, come si sarebbe detto un tempo, non tutto è perduto in questa battaglia che per un certo tempo è stata sottovalutata, anche per l'attivismo oltre che di Cameron e di alcuni suoi ministri, del partito laburista che vede nel nuovo sindaco di Londra un astro emergente che sta spendendosi molto per evitare la Brexit, dei leaders sindacali che temono per gli inevitabili riflessi sull'economia e sull'occupazione e dell'intera nazione scozzese, ma anche in parte di quella gallese, che vede nell'Unione europea un ombrello difensivo in favore delle sue istanze indipendentiste, anche se anche in Gran Bretagna, come del resto nel resto dell'Europa, il vento dell'antipolitica e dell'isolazionismo spirano molto forti!

Quando ho ripreso a tenere il diario di bordo della flottiglia finanziaria nella terza e più complessa fase della tempesta perfetta ho individuato l'esistenza di tre bolle speculative quasi tutte semi sgonfie o completamente scoppiate: il petrolio, le banche, in particolare quelle europee e, nell'ambito di queste, di quelle italiane e il settore immobiliare. Su queste bolle impattava e sta continuando a farlo l'operato delle banche centrali che venivano, eccezion fatta della Federal Reserve, nella politica dei tassi a zero o sottozero, così come continuavano nella politica di inondare il mercato di liquidità, anche se in presenza di una difficoltà di trasmissione della politica monetaria dal settore finanziario alle famiglie e alle imprese.
Iniziamo dal prezzo del petrolio che, dopo aver toccato un minimo a 26 dollari al barile per il WTI, ha iniziato una lenta e poco comprensibile ripresa, sino a toccare un quasi raddoppio proprio in questi giorni senza che il problema principale che aveva spinto al tracollo fosse stato minimamente scalfito e che risiedeva in quella distanza di 1-2 milioni di barili al giorno tra la domanda e l'offerta, essendo anche falliti i tentativi in sede OPEC di ridurre o almeno congelare i livelli di produzioni, proposte che sono ripetutamente naufragate a causa dell'opposizione dell'Iran che ha ripetuto fino alla nausea che prima doveva recuperare i livelli di produzione precedenti alle sanzioni.

Per quanto riguarda le banche europee, chi pensava che fossero stati ormai toccati i minimi è stato smentiti dai fatti e restiamo con il cerino acceso per quanto riguarda le banche globali con sede in Germania e in Francia, anche se i veri dolori vengono dal sistema creditizio italiano che, rispetto al maggio dello scorso anno, ha visto pressoché dimezzata la capitalizzazione di borsa, con punte superiori per Unicredit e Monte dei Paschi di Siena, e mentre il neonato Fondo Atlante si è letteralmente impantanato in quel buco nero che è il credito nella regione Veneto, esaurendo, come ho scritto ieri, o quasi le sue risorse negli aumenti di capitale di sole due banche con sede in quella disastrata regione!
Qualche raggio di luce viene invece dal settore immobiliare sia in Europa che in Italia, risveglio testimoniato nel nostro Paese dall'impennata delle compravendite e dal raddoppio dei mutui, anche se ancora non si vedono segnali di risalita dei prezzi che, secondo molti osservatori, stanno solo riducendo la flessione.

Chi ha letto le puntate precedenti si stupirà dell'assenza della Cina ancora alle prese con il problema dei crediti deteriorati e della persistente e massiccia fuga di capitali, ma il fatto è che oramai le statistiche ufficiali di quella grande nazione sono inattendibili anche se non riescono del tutto a mascherare l'ulteriore peggioramento della situazione.

Ormai è quasi ufficiale: il neonato Fondo Atlante con Veneto Banca si appresta a fare il bis di quanto è avvenuto con la Banca Popolare di Vicenza dove ha immobilizzato 1,5 miliardi di euro per ottenere il 99 per cento e rotti delle azioni di una banca tecnicamente fallita e gravata di un ammontare di Non Performing Loans dal livello realmente preoccupante e in molti casi senza garanzie per quel meccanismo perverso che prevedeva crediti facili per gli amici e per quanti accettavano di acquistare azioni e/o obbligazioni della banca allora saldamente guidata da quel Gianni Zonin che, in vista di richieste di risarcimento elevatissime, si è reso praticamente nullatenente donando ai figli le sue quote dell'impero vitivinicolo di sua proprietà.

Certo, l'impegno massimo nell'operazione di aumento di capitale di Veneto Banca sarà "solo" di un miliardo di euro, ma, nell'ipotesi che pochi o nessuno degli attuali e molto inferociti soci si presentasse all'appello, ci troveremmo nella situazione nella quale il fondo gestito da Penati avrebbe impegnato 2,5 dei 3 miliardi di euro previsti per il capitolo degli aumenti di capitale delle banche italiane, mentre ancora si ignora quanta parte degli 1,2 miliardi previsti per i Non Performing Loans saranno assorbiti dalla maxi operazione annunciata dallo stesso Penati e da eseguirsi prima della fine dell'anno.
Ma, sempre con origine nel Veneto, vi è l'aumento di capitale di Banco Popolare di Verona e Novara, una richiesta al mercato per un altro miliardo di euro e che è partita all'inizio di questa settimana, un aumento per il quale non è previsto l'intervento di Atlante, anche se anche in questo caso bisognerà vedere quanto entusiastica sarà la risposta degli azionisti attuali e di quelli futuri, che potrebbero anche essere allettati dal fatto che il valore delle nuove azioni è stato fissato con un generoso sconto rispetto alle quotazioni recenti di borsa.

Ma cosa se ne farà Atlante delle due banche ormai quasi certamente acquisite? E' presto detto ne farà carne da macello, come del resto i fondi speculativi come Quaestio che è il fondo presso il quale è stato costituito Atlante sono abituati a fare quando entrano in una banca o in un'azienda, e lo farà fondendo molto probabilmente i due istituti di crediti, tagliando brutalmente gli organici e aggredendo gli NPL acquistandoli anche a meno del 20 per cento del loro valore nominale, insomma una politica di gestione lacrime e sangue che non ha, tuttavia, molte alternative realistiche e che è resa indispensabile alla luce delle malefatte del passato!

 

Non volevo credere ai miei occhi domenica scorsa leggendo l'editoriale di Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica e dominus incontrastato di quel giornale che, dopo di lui, ha visto avvicendarsi alla guida della prestigiosa testata Ezio Mauro e Mario Calabresi, due ottimi giornalisti ma che non sono assolutamente in grado di influire sulla linea di un giornale che, a novanta anni suonati, è ancora legato alle posizioni di un uomo le cui idee affondano nelle radici del partito d'azione e protagonista, non so quanto pentito, della nascita del partito radicale di Marco Pannella.

Quale era il motivo della mia sorpresa? E' presto detto: dopo il solito e lungo sproloquio domenicale, Scalfari affronta di petto un tema delicatissimo quale la posizione che la Germania, in vista del voto politico dell'anno prossimo in cui la Merkel si trova ad affrontare una ultradestra in forte crescita nel voto regionale e nei sondaggi politici nazionali e che soprattutto nasce dal movimento dei professori contrari alla politica della Banca Centrale Europea e alla stessa adesione della Germania all'euro, potrebbe annunciare l'intenzione di uscire dalla moneta unica europea o di promuovere la nascita di un euro a due o più velocità.
Come autore da nove anni di un blog sulla crisi finanziaria, ho più volte espresso visioni non ortodosse o in qualche caso estreme, visioni che a volte si sono dimostrate realistiche, quali il fallimento molto annunciato della Lehman Brothers o la vera natura della potente e molto preveggente Goldman Sachs, a volte meno, ma mai, così come la maggior parte dei miei colleghi, avrei osato parlare di una mossa della nazione più potente dell'Unione europea che punterebbe a scardinare, probabilmente in unione con l'Olanda e altri paesi del Nord Europa, la Banca Centrale Europea e l'euro, che sono una delle poche ed effettive cessioni di sovranità che la maggior parte dei paesi europei, non tutti in verità, hanno compiuto in favore dell'Unione, una scelta che, ove dovesse essere vera, insieme alla alla sempre possibile Brexit e alla bomba a scoppio ritardato rappresentata dalla questione del tutto irrisolta dei migranti e di un'equa ripartizione degli stessi tra i 28, o 27 se in Gran Bretagna il 23 giugno prevarranno i leave, paesi membri.
Su una cosa, invece sono d'accordo con Scalfari ed è quando parla di aumenti dei tassi di interesse USA archiviati per quest'anno, ipotesi che avevo già avanzato qualche giorno fa e che, anche dopo l'intervento di lunedì di Janet Yellen, sembra cifrata nell'improvviso indebolimento del dollaro che ha preceduto e seguito le sue parole!

Si avvicina il 9 giugno, la data fissata per il consiglio di amministrazione di Unicredit che dovrebbe scegliere il nome del nuovo Chief Executive Officer della banca più internazionale d'Italia che sta attraversando un momento molto difficile dopo che vigilanza della Banca Centrale Europea ha chiesto di innalzare l'indice patrimoniale dal 10,5 per cento attuale al 12,25 giudicato più adeguato per fronteggiare i rischi che per il gruppo milanese non sono solo quelli comuni alla maggioranza delle banche italiane, Non Performing Loans e stato dei conti, ma sono anche quelli propri di una banca globale con presenze significative in Germania, Austria, Polonia e altri paesi dell'Est Europa, Turchia e via discorrendo.

Molti hanno giudicato originale che le dimissioni di Federico Ghizzoni non fossero state precedute dall'individuazione del suo successore, ma in verità il problema è molto complesso, perché dal nuovo del nuovo numero uno operativo di Unicredit si capirà anche molto delle strategie che sottendono a quello che potrebbe rivelarsi come l'inizio di un riassetto ai piani alti della finanza italiana, un riassetto che potrebbe riguardare anche quella Mediobanca che ha Unicredit come primo azionista e le Generali che hanno a loro volta Mediobanca come primo azionista, con la presenza alquanto ingombrante di Vincent Bolloré in tutti e tre questi soggetti e che spinge fortemente per un riassetto che potrebbe nascondere molti dei problemi di cui tutte e tre queste istituzioni finanziarie soffrono da tempo.

Certo, il momento è molto propizio per un'operazione così complesse che comprende tre campioni della finanza italiana con un elevato standing internazionale e uno degli elementi più favorevoli è dato dai corsi di borsa di Unicredit che mercoledì scorso ha toccato un nuovo minimo storico a 2,74 euro e che favorirebbe un integrazione con Mediobanca molto spostata a favore degli azionisti dell'istituto di piazzetta Cuccia e l'accresciuto peso dell'entità risultante in Generali renderebbe il gioco ancora più facile.

Ma quale sarà il segnale che dalle parole e dai progetti più o meno riservati si intende passare ai fatti? Potrebbe venire proprio dalla nomina a nuovo amministratore delegato di Unicredit di Alberto Nagel, attuale numero uno di Mediobanca, un uomo molto determinato che ha fatto fuori tutti gli avversari nella storica banca di affari milanese e uno dei massimi esperti di complesse operazioni societarie come si prospetta quella che ho appena descritto.

Cosa può fare l'azionista di Unicredit? Purtroppo poco o nulla, perché uscire in questo momento rappresenterebbe una perdita certa, mentre può attendere che un'operazione che si prospetta come una delle più strombazzate sul mercato italiano consenta, in prospettiva, la possibilità di realizzare un profitto da cogliere al volo per non rimanere impantanati in una serie di operazioni che raramente vengono realizzate nell'interesse degli azionisti!

Chi segue da nove anni il Diario della crisi finanziaria sa bene l'importanza che attribuisco all'indicatore denominato Non Farm Payrolls, ossia il saldo positivo o negativo degli occupati nel settore non agricolo negli Stati Uniti d'America, un indicatore che secondo molti analisti dà il vero polso dell'andamento congiunturale di quella grande nazione in uno con il tasso di disoccupazione che, tuttavia, va letto con grande attenzione tenendo conto degli ingressi e delle uscite dal mercato del lavoro, due dati che vengono diffusi contemporaneamente all'inizio del mese (normalmente il primo venerdì del mese) e che hanno un grande impatto sull'andamento delle borse e dei cambi e, di riflesso, anche sul prezzo dell'oro.

L'importanza di questi due dati è addirittura aumentata durante gli otto anni di presidenza di Barack Obama, anche più dei dati relativi alla crescita del Paese e ai dati sulla produzione industriale, perché è nella crescita pressoché costante dell'occupazione mese dopo mese e nel dimezzamento del tasso di disoccupazione che risiede la vera cifra della presidenza del giovane avvocato di Chicago, anche se qualche critico, a mio avviso a ben vedere, ha obiettato che la qualità della nuova occupazione non è stata in molti casi di buona qualità rispetto ai posti persi nella prima fase della tempesta perfetta, ma, comunque, è sempre vero che a caval donato non si guarda in bocca e che un tasso di disoccupazione che oscilla intorno al cinque per cento è di un livello che in termini keynesiani indica la piena occupazione.

Ebbene, quando venerdì scorso sono stati diffusi dal Dipartimento del Lavoro statunitense i dati relativi al dato di maggio sui mercati a stelle e strisce sono state gettate secchiate di acqua gelata perché è emerso che i nuovi occupati a stelle e strisce sono cresciuti di sole 38 mila unità (il dato più basso dal settembre del 2010 anche se spiegato, per 30 mila unità, dallo sciopero della Verizon verificatosi nel mese e che ha reso temporaneamente questi lavoratori dei disoccupati) e che il tasso di disoccupazione è sceso da 5 al 4,7 per cento solo perché 600 mila americani si sono ritirati dal mercato del lavoro, dati che dovrebbero far riflettere Yellen e compagni sull'opportunità di aumentare a breve i tassi di interesse, cosa che chi mi segue sa che avevo previsto qualche puntata fa quando prevedevo che il secondo rialzo sarebbe stato posposto addirittura a dopo le elezioni presidenziali di novembre.

Almeno così la notizia è stata letta dai mercati con cali di tutti e tre gli indici azionari principali americani, un balzo dell'oro che cedeva da trenta giorni, ma soprattutto una flessione del cambio del dollaro con l'euro di quasi due punti percentuali in una sola seduta, anche se il grosso della flessione si è verificata in pochi minuti dopo che gli analisti delle sale cambi delle banche di tutto il mondo hanno avuto il tempo di metabolizzare la doppia notizia e impartire disposizioni agli operatori.

Al termine di un lunghissimo e a tratti drammatico consiglio di amministrazione, è stata fissata la forchetta di prezzo per l'aumento di capitale e concomitante richiesta di ammissione alla quotazione di borsa di Veneto Banca e, come era stato largamente previsto in tempi non sospetti dal Diario della crisi finanziaria e da molti analisti e commentatori, si va da un minimo di 10 centesimi ad un massimo di 50 con azzeramento di fatto del capitale di una banca le cui quote avevano toccato gli alquanto irrealistico 42 euro per azione ma che quasi nessuno degli investitori e risparmiatori in larga parte veneti aveva potuto realizzare perché la banca di Montebelluna aveva di fatto chiuso quasi subito alle negoziazioni che, per statuto, potevano essere realizzate solo con la banca stessa.
Le analogie con le vicende della Banca Popolare di Vicenza sono davvero impressionanti e se, come è largamente evidente, il prezzo finale sarà di 10 centesimi e non vi saranno richieste di adesione all'aumento di capitale tali da garantire almeno un 25 per cento di flottante, la CONSOB negherà alle azioni della banca l'ammissione ai mercati regolamentati e non si aprirà altra strada che quella dell'intervento del Fondo Atlante che così avrà impegnato 2,5 dei 4,2 miliardi di euro del suo fondo di dotazione e manca ancora all'appello l'aumento da un miliardo di euro del Banco Popolare di Verona e Novara che è stato già deliberato dal consiglio di amministrazione, ma almeno il Banco Popolare in borsa c'è già.


Ai detentori delle azioni di Veneto Banca non resta che leccarsi le ferite e interrogarsi su quanto hanno fatto nell'ultima assemblea dove molti di loro, per rabbia e sconforto, hanno appoggiato il ribaltone al vertice dell'istituto con l'arrivo al potere di una improbabile cordata infarcita di persone che dovevano alla banca somme per centinaia di milioni di euro e declassando Carrus da amministratore delegato a direttore generale, cosa alla quale ha in parte posto rimedio la vigilanza della Banca Centrale Europea, intimando che venissero restituite le deleghe al manager che tanto si era adoperato nella mission impossible di risollevare le sorti di una banca che è quasi un eufemismo definire tecnicamente fallita.


Ho scritto più volte delle responsabilità della vigilanza della Banca d'Italia sulla gestione, o meglio sulla mancata gestione, di quella situazione veneta che poi si è rivelata il buco nero del credito in Italia, ma di tutto questo il Governatore Visco, nelle conclusioni finali lette il 31 maggio, non ha speso parola, né tantomeno ha accennato ad una sorta di autocritica, suscitando le ire degli esponenti di numerosi partiti politici, anche di quelli che dal credito facile in Veneto hanno avuto un grande ritorno in termini elettorali!

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