L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Human Rights (195)

Roberto Fantini
This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

GINEVRA (23 febbraio 2024) – Qualsiasi trasferimento di armi o munizioni a Israele da utilizzare a Gaza probabilmente violerà il diritto umanitario internazionale e dovrà cessare immediatamente, hanno avvertito oggi gli esperti delle Nazioni Unite*.

"Tutti gli Stati devono 'garantire il rispetto' del diritto internazionale umanitario da parte delle parti in conflitto armato, come richiesto dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 e dal diritto internazionale consuetudinario", hanno affermato gli esperti. “Gli Stati devono pertanto astenersi dal trasferire qualsiasi arma o munizione – o parti di essa – se si prevede, dati i fatti o modelli di comportamento passati, che potrebbero essere utilizzati per violare il diritto internazionale”.

“Tali trasferimenti sono vietati anche se lo Stato esportatore non intende utilizzare le armi in violazione della legge – o non sa con certezza che verrebbero utilizzate in tale modo – purché sussista un rischio evidente”, loro hanno detto.

Gli esperti hanno accolto con favore la decisione di una corte d'appello olandese del 12 febbraio 2024 che ordina ai Paesi Bassi di sospendere l'esportazione di parti di aerei da caccia F-35 in Israele. La corte ha ritenuto che esistesse un “chiaro rischio” che le parti venissero utilizzate per commettere o agevolare gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, poiché “ci sono molte indicazioni che Israele ha violato il diritto umanitario di guerra in un numero non trascurabile di casi”. ”.

Il tribunale olandese ha sottolineato le numerose vittime civili, tra cui migliaia di bambini; la distruzione del 60% delle abitazioni civili e danni ingenti agli ospedali, alle riserve idriche e alimentari, alle scuole e agli edifici religiosi; fame grave diffusa; e lo sfollamento dell’85% dei palestinesi a Gaza. Ha inoltre evidenziato prove dell’uso prolifico di “bombe stupide” imprecise; attacchi deliberati, sproporzionati e indiscriminati; fallimenti nell'avvertire i civili degli attacchi; e dichiarazioni incriminanti di comandanti e soldati israeliani.

Oltre 29.313 palestinesi sono stati uccisi e 69.333 feriti a Gaza dal 7 ottobre 2023, la maggior parte erano donne e bambini. “Israele ha ripetutamente mancato di rispettare il diritto internazionale”, hanno detto gli esperti.

Gli esperti hanno osservato che gli Stati parti del Trattato sul commercio delle armi hanno ulteriori obblighi derivanti dal trattato di negare le esportazioni di armi se “sanno” che le armi “verrebbero” utilizzate per commettere crimini internazionali; o se esiste un “rischio prioritario” che le armi trasferite “potrebbero” essere utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto internazionale umanitario. Gli stati membri dell’Unione Europea sono ulteriormente vincolati dalla legge UE sul controllo delle esportazioni di armi.

“La necessità di un embargo sulle armi nei confronti di Israele è accentuata dalla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 26 gennaio 2024 secondo cui esiste un rischio plausibile di genocidio a Gaza e da allora continueranno a subire gravi danni ai civili”, hanno affermato gli esperti. La Convenzione sul genocidio del 1948 impone agli Stati parti di impiegare tutti i mezzi ragionevolmente a loro disposizione per prevenire, per quanto possibile, il genocidio in un altro Stato. "Nelle circostanze attuali ciò rende necessario fermare le esportazioni di armi", hanno detto gli esperti.

Gli esperti hanno accolto con favore la sospensione dei trasferimenti di armi a Israele da parte di Belgio, Italia, Spagna, Paesi Bassi e della società giapponese Itochu Corporation. Anche l’Unione Europea ha recentemente scoraggiato le esportazioni di armi verso Israele.

Gli esperti hanno esortato gli altri Stati a sospendere immediatamente i trasferimenti di armi a Israele, comprese le licenze di esportazione e gli aiuti militari. Gli Stati Uniti e la Germania sono di gran lunga i maggiori esportatori di armi e le spedizioni sono aumentate dal 7 ottobre 2023. Altri esportatori militari includono Francia, Regno Unito, Canada e Australia.

Gli esperti hanno osservato che anche i trasferimenti di armi a Hamas e ad altri gruppi armati sono vietati dal diritto internazionale, date le gravi violazioni del diritto umanitario internazionale commesse il 7 ottobre 2023, tra cui la presa di ostaggi e il successivo lancio indiscriminato di razzi.

Il dovere di “garantire il rispetto” del diritto umanitario si applica “in ogni circostanza”, anche quando Israele afferma di contrastare il terrorismo. Inoltre, l’intelligence militare non deve essere condivisa laddove vi sia il rischio evidente che venga utilizzata per violare il diritto internazionale umanitario.

"I funzionari statali coinvolti nelle esportazioni di armi possono essere individualmente responsabili penalmente per aver aiutato e favorito eventuali crimini di guerra, crimini contro l'umanità o atti di genocidio", hanno detto gli esperti. “Tutti gli Stati, in base al principio della giurisdizione universale, e la Corte penale internazionale, possono essere in grado di indagare e perseguire tali crimini”.

Gli esperti hanno sottolineato che il dovere di “garantire il rispetto” richiede inoltre che tutti gli Stati facciano tutto ragionevolmente in loro potere per prevenire e fermare le violazioni del diritto internazionale umanitario da parte di Israele, in particolare laddove uno Stato ha influenza attraverso le sue relazioni politiche, militari, economiche o di altro tipo.  Le misure potrebbero includere:

- Dialogo diplomatico e proteste;

- Assistenza tecnica per promuovere conformità e responsabilità;

- Sanzioni su commercio, finanza, viaggi, tecnologia o cooperazione;

- Rinvio al Consiglio di Sicurezza e all'Assemblea Generale;

- Procedimenti presso la Corte Internazionale di Giustizia;

- Sostegno alle indagini della Corte penale internazionale o di altri meccanismi giuridici internazionali;

- Indagini penali nazionali utilizzando la giurisdizione universale e cause civili; E

- Richiedere un incontro delle parti delle Convenzioni di Ginevra.

La maggior parte di queste misure sono rilevanti anche per adempiere al dovere di prevenire il genocidio.

Le aziende produttrici di armi che contribuiscono alla produzione e al trasferimento di armi in Israele e le imprese che investono in tali aziende hanno la propria responsabilità di rispettare i diritti umani, il diritto umanitario internazionale e il diritto penale internazionale. "Non hanno dimostrato pubblicamente la maggiore dovuta diligenza sui diritti umani loro richiesta e di conseguenza rischiano di essere complici nelle violazioni", hanno detto gli esperti.

“Il diritto internazionale non si impone da solo”, dicono gli esperti. “Tutti gli Stati non devono essere complici di crimini internazionali attraverso trasferimenti di armi. Devono fare la loro parte per porre urgentemente fine all’inesorabile catastrofe umanitaria a Gaza”.

 

Ci diceva Norberto Bobbio in un suo scritto di quasi mezzo secolo fa, che, messo a confronto con gli enormi e assillanti problemi del nostro tempo (quello della guerra primo fra tutti),  il problema della pena di morte potrebbe, facilmente quanto erroneamente, apparirci come qualcosa di importanza  secondaria. Impressione che potrebbe anche venire avvalorata dalla constatazione dei risultati felicemente sorprendenti conseguiti dalla causa abolizionista, nell’arco dell’ultimo secolo:

i paesi abolizionisti, sia sotto il profilo legislativo sia sotto quello esclusivamente pratico (de facto), da pochi casi isolati sono arrivati, oramai, a più di due terzi di quelli attualmente esistenti nel mondo.

Purtroppo, però, osservando la questione più da vicino, siamo costretti ad accorgerci che la situazione attuale non è affatto soddisfacente e rassicurante. Nel corso del 2022, infatti, il numero delle esecuzioni registrate risulta essere il più alto degli ultimi anni (con un incremento addirittura di oltre il 50 per cento rispetto al 2021). E questo a causa dell’aumento considerevole di condanne a morte eseguite nell’ area mediorientale e in quella nordafricana. Il 90% delle esecuzioni registrate, infatti, si concentra in soli tre paesi del Medio Oriente-Africa del Nord: Iran, Arabia Saudita, Egitto.

Inoltre, non bisogna dimenticare che in Corea del Nord, in Vietnam, e soprattutto in Cina (dove è possibile supporre la presenza di migliaia di esecuzioni) l’uso della pena capitale è accuratamente protetto dalla massima segretezza.

Nel corso del 2022, però, altri sei stati hanno abolito (in tutto o in parte) la pena di morte: Kazakhstan, Papua Nuova Guinea, Repubblica Centrafricana e Sierra Leone hanno abolito la pena capitale per ogni genere di reati, mentre Guinea Equatoriale e Zimbabwe solo limitatamente ai reati comuni. In tal modo, alla fine del 2022, il numero degli stati totalmente abolizionisti è salito a 112  e a 9 quello degli abolizionisti soltanto per i reati comuni.

E la questione della pena di morte si è venuta nuovamente a trovare sotto i riflettori mediatici a proposito del doloroso caso riguardante Kenneth Smith,   sottoposto, in Alabama, alla prima esecuzione mediante soffocamento da assenza indotta di ossigeno, provocata dall’inalazione forzata di azoto.  Da notare che l’utilizzo dell’ipossia da azoto è una pratica bandita dagli stessi veterinari, in quanto presenta numerose possibili complicazioni: oltre a produrre atroci sofferenze, potrebbe  provocare ictus e lasciare l’animale paralizzato senza ucciderlo.

Ma, nonostante gli esperti delle Nazioni Unite, constatata l’evidente natura di estrema crudeltà che caratterizza tale forma di esecuzione, l’ abbiano equiparata alla tortura, la Corte Suprema degli Stati Uniti (in modo decisamente illogico) non ha ritenuto doveroso considerarla incostituzionale ai sensi dell’Ottavo emendamento.

Tra l’altro, Kenneth Smith, il 17 novembre 2022, era stato sottoposto ad una fallita esecuzione tramite il consueto metodo dell’iniezione letale: dopo ben quattro ore di vani tentativi di piantargli aghi nelle vene, il personale sanitario del carcere si trovò costretto ad interrompere le operazioni.

Prima di questo incidente, inoltre, i giudici della Corte Suprema avevano affermato che, in caso di una serie di tentativi falliti di esecuzione, andrebbero esclusi  ulteriori tentativi.

Ma … invece …

Intanto, nelle carceri di troppi paesi, ancora, molte persone vivono nel timore di una imminente esecuzione. Come Fatma al-Arwali*, giovane yemenita attivista per i diritti delle donne, condannata in seguito ad un processo-farsa*, o il musicista nigeriano Yahaya Sharif-Aminu**, condannato per presunta blasfemia.

Nonostante i grandi passi avanti, la strada per liberare l’umanità dalla piaga della pena capitale (passaggio importante per l’eliminazione totale della violenza dalla nostra storia) resta ancora preoccupantemente ricca di rallentamenti, di insidie e di infide sabbie mobili.

 

-------------------------------------------

 

*Fatma al-Arwali, 34 anni, attivista yemenita per i diritti delle donne, è a rischio di imminente esecuzione.

Il 5 dicembre 2023 un tribunale di Sana’a, nella zona dello Yemen controllata dal gruppo armato huthi, l’ha giudicata colpevole di aver fornito informazioni coperte dal segreto militare agli Emirati Arabi Uniti, principali partner della campagna di bombardamenti avviata nel 2015 dall’Arabia Saudita.

All’epoca dell’arresto, Fatma al-Arwali era a capo dell’ufficio yemenita dell’Unione per la leadership femminile della Lega araba. Il 13 agosto 2022 la sua auto è stata fermata a un posto di blocco. Le forze di sicurezza huthi l’hanno poi sottoposta a sparizione forzata per circa otto mesi, negando ogni informazione alla famiglia che la cercava nelle stazioni di polizia e nella prigione di Sana’a. La famiglia ha poi appreso in modo informale che si trovava in un centro di detenzione della capitale. Il suo processo è stato farsa e deve essere annullato.

 

**Yahaya Sharif-Aminu ha 22 anni e vive nello Stato di Kano, nel nord della Nigeria. La sua vita è la musica, e proprio la musica lo ha condannato a morte. A febbraio ha composto una canzone e l’ha diffusa tramite WhatsApp. Quella canzone l’ha portato in carcere e potrebbe condannarlo a morte, perché considerata blasfema.

Aggiornamento del 25 gennaio 2021: la condanna a morte è stata temporaneamente sospesa!

Una corte d’appello della Nigeria ha annullato, almeno temporaneamente, la condanna a morte del 22enne Yahaya Aminu-Sharif, che il 10 agosto 2020 un tribunale islamico aveva giudicato colpevole di “blasfemia” e dunque destinato all’impiccagione. Yahaya continua ad essere in pericolo: è ancora accusato di blasfemia, che la legge islamica applicata in molti stati del nord della Nigeria punisce con la morte.

Yahaya Sharif-Aminu era stato condannato nell’agosto 2020 per aver composto e diffuso una canzone considerata dalle autorità blasfema. Durante il primo processo è stato privato di ogni assistenza legale. Ora il tribunale d’Appello ha ordinato che il processo venga ripetuto proprio a causa della mancanza di rappresentanti legali di Yahaya.

La ripetizione del procedimento rappresenta per Yahaya la possibilità di essere finalmente sottoposto ad un processo giusto. In qualunque caso, comunque, nessuno dovrebbe essere condannato a morte solo per aver espresso la propria opinione.

 

Fonte: https://www.amnesty.it/

 

L’isola indiana di Gran Nicobar* potrebbe presto diventare una sorta di “Hong Kong dell’India”, con un enorme porto, un aeroporto internazionale, una base militare ed una vasta zona  industriale. Un simile “mega-progetto” di sviluppo, dall’entità di nove miliardi di dollari,  comporterebbe la distruzione di ampie distese di foresta pluviale (attualmente il 95% del territorio) e verrebbe a mettere in serissimo pericolo la sopravvivenza di alcune centinaia di indigeni Shompen, uno dei popoli più isolati del pianeta.

Il “Great Nicobar Development Plan” dovrebbe arrivare ad occupare almeno un terzo dell’isola (di cui metà all’interno della riserva indigena) e comportare l’insediamento pianificato di ben 650.000 coloni.

 Verrebbero ad essere devastati, in tal modo, i territori meridionali di caccia e raccolta, quattro insediamenti Shompen e, soprattutto, verrebbe irreparabilmente rovinato l’intero sistema fluviale.

Il progetto, inoltre, andrebbe ad aumentare vertiginosamente il rischio di esposizione a tutta una serie di malattie verso cui gli indigeni sono del tutto privi di difese immunitarie. Come tutti i popoli “incontattati”,  infatti, gli Shompen risultano estremamente vulnerabili nei confronti di agenti patogeni che potrebbero condurli rapidamente allo sterminio.

“Se il progetto andasse avanti, anche in forma più ridotta - hanno affermato esperti provenienti da istituzioni accademiche di ben tredici paesi - crediamo sarebbe una condanna a morte per gli Shompen, equivalente al crimine internazionale di genocidio”.

E trentanove studiosi internazionali di genocidio si sono rivolti al governo indiano per denunciare gli aspetti allarmanti insiti nel progetto.

Survival International ha intrapreso una campagna che mira all’archiviazione del progetto e al riconoscimento agli Shompen dei pieni diritti di proprietà territoriale sulle terre su cui vivono da millenni.

Per saperne di più e/o per sostenere la causa dei diritti umani delle popolazioni indigene:

https://www.survival.it/cosafacciamo

 

 

NOTE

*”Un'isola come nessun'altra

Per secoli, gran parte degli Shompen ha rifiutato ogni tipo di contatto con gli esterni e questo li ha protetti dalle tragiche conseguenze del contatto, subite invece dalla maggior parte degli altri popoli delle isole Andamane e Nicobare.

Per migliaia di anni gli Shompen hanno vissuto, protetto e alimentato le straordinarie foreste di Gran Nicobar, nella parte orientale dell’Oceano Indiano. Gli Shompen sono cacciatori-raccoglitori nomadi e vivono in piccoli gruppi, in territori delimitati dai fiumi che attraversano la foresta pluviale. Costruiscono generalmente accampamenti temporanei nella foresta, in cui vivono per qualche settimana o qualche mese prima di spostarsi di nuovo.

Raccolgono una grande varietà di piante, ma il loro alimento principale è il frutto del pandano, che chiamano larop. Come altri cacciatori-raccoglitori, gli Shompen hanno una profonda conoscenza della loro foresta e utilizzano la flora dell’isola in moltissimi modi. Dal Canarium strictum bianco, per esempio, ricavano incensi, un repellente per gli insetti e persino gomme da masticare.

Gli Shompen cacciano tutto l’anno e scimmie, maiali, lucertole e coccodrilli costituiscono una parte importante della loro dieta. Hanno anche piccoli orti in cui coltivano, tra le altre cose, tapioca, limoni, peperoncini e betel (Piper betle).

L’isola di Gran Nicobar, loro dimora sacra, è piccola ma ricca di biodiversità endemica. La foresta pluviale copre circa il 95% dell’isola, in cui vivono 11 specie di mammiferi, 32 specie di uccelli, 7 specie di rettili e 4 di anfibi che si trovano solo lì. Un luogo unico in cui varani e coccodrilli condividono la foresta con macachi e toporagni, e dove le tartarughe giganti condividono le coste con dugonghi e delfini.”

Fonte: www.survival.it

**https://www.survival.it/chisiamo

 

 

Molte manifestazioni si organizzano nell’imminenza del Natale. La ricorrenza ha un significato profondo, va a scavare nei nostri sentimenti, nel nostro sentire interiore. E’ un’occasione per donare ai più deboli, ai più bisognosi e a chi soffre e ai disabili quell’amore cui fa riferimento la festività. Un’iniziativa interessante e di grande spessore per questi ultimi si è svolta a Roma, in uno dei quartieri dove più è sentita l’emarginazione ed il disaggio sociale, i quartieri del Trullo e della Magliana. L’associazione si chiama “La lampada dei desideri” e Paola Fanzini ne è il presidente. Il centro si rivolge a questi ultimi per dar loro quella dignità che meritano. Dopo la scuola non c’è nulla, soprattutto per i disabili -  dice il presidente -  e il suo centro vuole dare agli svantaggiati la possibilità di socializzare, divertirsi, dare anche lavorare a dei progetti; c’è la piscina, la banda musicale, la c.d. banda della Magliana, questa volta con fini più nobili, si scrivono favole per bambini per poi pubblicarle e venderle, insomma un centro di energia positiva che alle volte la società nega ai più deboli. Ovviamente si organizzano anche eventi e, per questo Natale, i frequentatori del centro sono stati protagonisti al teatro San Raffaele del Trullo di uno spettacolo di tutto rispetto e che si legge con il cuore. Dopo l’apporto prestigioso del coro gospel Exafonix, La Banda della Magliana, guidata da Luca Perrone, si è esibita con 4 pezzi,  a seguire poi Jessica che ha ballato sulle note di “Lacrime di piombo”, e ancora Tiziana Scrocca con la sua improvvisazione con i ragazzi, e Francesca Astrei  con un monologo, tutti  applauditissimi. Ma, a parte questi attimi di gioia pura donata dai protagonisti, una menzione speciale maritano tutti quei ragazzi che, come il messaggio del Natale insegna, sono tornati ad apprezzare la vita e a rinascere in questa dopo tanta oscurità e sofferenza cui la droga li aveva legati. Massimo Tomaselli, responsabile di una cooperativa per il recupero dei tossicodipendenti, e che ha diretto lo spettacolo, ci mostra un foglio con delle righe scritte da un utente di una comunità di recupero dalle dipendenze, e poi continua “Cosa c’è di così strano? tutti possono scrivere qualcosa… lui no!… lui 5 mesi fa fino agli ultimi giorni di ottobre era incarcerato in se stesso, la sua parola scritta e vocalizzata era soffocata dalla paura di non poter organizzare un discorso poiché proprio quel discorso che collega all’Altro era negato dalla sofferenza, da tantissimi anni di depressione grave e di dipendenza dalla cocaina…. la cocaina parlava per lui.

In seduta lui mi ha letto ciò che è riuscito a scrivere dopo anni e lo ha letto meravigliandosi, parola dopo parola… come se non le avesse scritte lui. Mentre leggeva, il suo viso esprimeva le rughe adolescenziali della meraviglia e delle emozioni che erano come lacrime liberatorie. Un momento catartico… di quelli che capitano raramente. La Comunità lo ha aiutato a liberare le emozioni ed in terapia….. ha liberato la parola!
Bravo !!!”

ll tossicodipendente perde tutto… amicizia, lavoro, emozioni, famiglia, ma proprio tutto….. alla “Lampada dei desideri” scoprono chi vogliono essere. Vengono aiutati a costruire la loro identità, a sviluppare l’empatia e a sentirsi parte di un gruppo.

Capita che gli altri, anche senza alcuna intenzione malevola, gli sottraggano, gli neghino il proprio essere, il loro esserci al mondo, o parte di esso.

Questo li fa soffrire (a volte impazzire), perché in fondo aspirano ad esistere in una loro, nella loro autenticità, che non sempre piace agli altri.

A volte questa sottrazione, questo non riconoscimento è talmente pesante che rischiano di perdersi, di perdere la loro preziosa, unica identità.

Il tipo di programma che gli si propone non ha lo scopo di farli vincere sugli altri, o in ogni caso di farli vincere secondo le regole (sociali) dominanti. Ha lo scopo di accompagnarli nel viaggio alla scoperta, o alla riscoperta di loro stessi, nella loro autenticità, anche se può far paura, o essere scomoda per qualcuno.

E un viaggio anche nel dolore; il dolore per quello che è stato tolto, e anche perché può darsi che amiamo chi ci ha negato il riconoscimento della nostra identità, e perché può darsi pure che comprendiamo, oltre che il nostro, anche il dolore e la paura dell'altro (dei genitori, per esempio).

È un viaggio in cui siamo semplicemente in compagnia di chi il percorso lo conosce già; è una persona che non intende sostituirsi a noi, o dare a noi i suoi valori, la sua visione del mondo, i suoi contenuti.

È un programma del rispetto totale per la propria identità, per fragile e spaventata che sia.

È un programma di rispetto per la nostra paura e per le nostre difese, perché le difese sono sacrosante per tutto il tempo in cui sentiamo di averne bisogno.

È un programma che aiuta a sentire colui (colei) che aveva smesso di sentire, che si era rifugiato in un angolo piccolo e nascosto di sé stesso, perché quell'angolo era l'unico e l'ultimo spazio che rimaneva alla sua identità.

Nessuno - in questo programma - vuole distruggerti quell'angolo, o tirarti fuori sulla base di una valutazione. Sei tu a decidere se puoi uscire da quell'angolo e andare attraverso spazi più ariosi. E in ogni caso ci resti per tutto il tempo che tu senti come necessario, perché quell'angolo, per soffocante e alienato che sia, è la tua vita, con le sue ragioni.

Per questo è un programma che non accelera i tempi, ma che sta in sintonia con il tuo ritmo. Nessuna forzatura interpretativa, né di sogni né di altro, nessuna analisi, nessun consiglio, nessuna promessa, soltanto il silenzio per poter ascoltare meglio la voce (a volte debolissima) che viene da te.

Nessuna pretesa di cambiare il mondo, soltanto l'aiuto perché tu possa trovare, passo dopo passo, ciò che tu sei, e portare con te anche il tuo carico di passato.

 

Nella attuale tragica situazione internazionale, può certamente risultare di grande aiuto provare a sintonizzarsi con il pensiero di uno dei maggiori messaggeri di pace e di nonviolenza del XX e del XXI secolo: il maestro buddhista Thich Nath Hanh, scomparso oramai da quasi due anni (22 gennaio 2022)*.

Molto stimolante, in particolar modo, è quanto ebbe a scrivere in quel Messaggio per il nuovo secolo, in cui, dopo una breve analisi degli orientamenti dominanti nel nostro tempo, ci indicava le cose principali che avremmo dovuto operare nel secolo da poco iniziato, in vista di una profonda rigenerazione dell’intera famiglia umana.

Questi i punti salienti relativi al recente passato e agli auspici per il nuovo secolo:

  • Il secolo XX è stato caratterizzato da violenze di massa e da tremendi massacri; dal dominio sempre più spregiudicato della tecnologia sulla natura; dal dilagare di sempre più potenti e veloci mezzi di comunicazione, ma, al contempo, dall’intensificarsi della condizione di profonda solitudine esistenziale.
  • Crollate le antiche fedi e le ormai logore ideologie, sempre più persone si ritrovano prive di un qualche credo spirituale. Questo ha prodotto un disorientante sradicamento dalle tradizioni spirituali, favorendo degradanti forme di edonismo consumistico e autodistruttivo.
  • Il sempre maggiore progresso conseguito in ambito tecnologico continua ad offrire all’umanità poteri immensi che, se non adeguatamente controllati, potrebbero condurla alla distruzione di massa.
  • Sono germogliati, però, anche molti “semi di saggezza”, in particolar modo in ambito scientifico: “fisica e biologia hanno scoperto la natura dell’interconnessione, dell’inter-essere e del non-sé.”
  • Fortunatamente, si sono sviluppate anche molteplici forme di comprensione e di compassione, “per prendersi cura dell’ambiente e degli animali, per ridurre il consumo della carne, per rinunciare al fumo e all’alcol, per fare un lavoro di sostegno sociale nei paesi sottosviluppati, per fare campagne per la pace e per i diritti umani, per incoraggiare una vita semplice e un consumo di cibo sano e per imparare la pratica del buddhismo come arte del vivere volta alla trasformazione e alla guarigione”.

 Tutti questi sviluppi positivi potrebbero rappresentare una fonte splendente di luce capace di mostrare il giusto cammino da seguire.

  • Se il XX secolo è stato il secolo della conquista della natura da parte dell’uomo, il ventunesimo dovrebbe essere il secolo della conquista delle cause che sono alla radice della sofferenza umana: le nostre paure, l’ego, l’odio, l’avidità e così via.”
  • Mentre nel XX secolo hanno trionfato individualismo e consumismo, il XXI secolo potrebbe, invece, essere caratterizzato dalla “comprensione profonda dell’inter-essere”; dall’affermazione di “un tipo di libertà che ci proteggerà dal venir sopraffatti e trascinati via dalla bramosia, dall’avversione e dal dolore”; dall’ ”arte del vivere consapevole”, e dal ritorno “alle radici spirituali della propria tradizione, cercando e ristabilendo i valori e le comprensioni profonde comuni.”

Ed ecco le sue raccomandazioni, rivolte in particolar modo ai membri del Sangha (la comunità buddhista composta da monaci, monache e laici), miranti ad indicare all’umanità la giusta direzione da seguire:

 

  • Continuare l’opera di creazione di templi e centri di pratica in cui, soprattutto, poter fare esperienza della pratica del non attaccamento ai propri punti di vista, in modo da coltivare la tolleranza e generare le difese morali necessarie per impedire il sorgere di nuove guerre ideologiche e di religione.
  • Studiare e praticare i Cinque impegni alla Consapevolezza all’interno della dimensione familiare, praticando, in particolar modo, “l’ascolto profondo e la parola amorevole”.
  • Ricercare la felicità non nell’ambito del consumo, bensì nell’esercizio della comprensione, della compassione e dell’armonia.
  • Imparare a “vivere in modo semplice, in maniera da avere più tempo per vivere la nostra vita quotidiana in profondità e libertà”.

Realizzando l’ideale della compassione in campo educativo, culturale, spirituale e sociale, sarà così possibile “toccare le meraviglie della vita, della trasformazione e della guarigione.”

 

Il XXI secolo,  ci dice Thich Nath Hanh, è “una bella collina verde, con uno spazio immenso, con le stelle, la luna e tutte le meraviglie della vita.” Su di essa, il nostro maestro Zen ci esorta a salire “insieme, mano nella mano con i nostri antenati spirituali e di sangue e con i nostri bambini”, generando, ad ogni nostro passo,

                                              libertà, gioia e pace.

 

Dopo i due abbondanti decenni trascorsi (traboccanti di strategie politiche cinicamente aggressive, cruente e discriminatorie),  il procedere in questo nuovo secolo, più che salire su una ridente collina, ci è sembrato, in alcuni casi, uno sprofondare in paludi nebbiose, in altri un inerpicarci su aspre pareti,  e, molto spesso, un angosciato perderci in deserti aridi e inospitali. E libertà, gioia e  pace non sembra siano cresciute o stiano crescendo. Odio, avidità e intolleranza, invece, appaiono sempre più incontrastatamente dominare al centro della scena planetaria.

Ma i “semi di saggezza” di cui parla il nostro monaco gentile fortunatamente non mancano e, nonostante tutto, benché ignorati dalle ribalte mediatiche rozze e menzognere e  mal sopportati dagli ipocriti padroni del potere, continuano lentamente e silenziosamente a crescere.

Dipenderà da ognuno di noi (come ci ripete insistentemente Thich Nath Hanh) decidere se impegnarci o meno ad innaffiarli.

Con cura, con costanza, con delicato Amore.

 

NOTE

*https://www.flipnews.org/index.php/life-styles/spirituality/item/3149-thich-nhat-hanh-maestro-di-pace-ovvero-l-arte-della-consapevolezza-e-del-ringraziamento.html

 

 

Non possiamo più permetterci di adorare il dio dell’odio o inginocchiarci davanti all’altare della vendetta.” 

 

Sono ben pochi i personaggi che si sono battuti per la causa dei diritti umani che, all’interno dell’immaginario collettivo,  risultino oggetto di un consenso  tanto ampio e trasversale come si verifica nel caso di Martin Luther King: il suo volto luminoso e la sua voce decisa e appassionata rimangono, infatti, vivi  e ben radicati in qualche angolo privilegiato delle nostre anime.

Di lui, un po’ tutti conosciamo gli appassionati discorsi e le tenaci e coraggiose iniziative pubbliche di lotta contro quelli che venivano considerati i grandi mali dell’epoca: razzismo, povertà e guerra.

Molto meno conosciuto è, però, il pensiero filosofico che ha alimentato le sue parole e le sue azioni.

Mio obiettivo  sarà, perciò, quello di presentarne una breve sintesi, al fine di rendere più comprensibile la ricchezza di questo personaggio, nonché più stimolante ed attuale il suo messaggio morale, straordinariamente denso di insegnamenti al contempo politici e religiosi.

 

  • Alla base della sua concezione filosofica, c’è, prima di ogni altra cosa, la convinzione dell’esistenza, all’interno dell’intero universo, di un ordine morale oggettivo immodificabile, espressione di una bontà e di una sapienza di carattere divino.

 

  • Dal pensiero hegeliano gli derivano  due concetti:
  1. “la verità è il tutto”, ovvero il senso delle cose può essere colto soltanto elevandosi dalla dimensione del particolare a quella del globale; b) la crescita passa attraverso la lotta, intesa come dinamica dialettica .

 

  • Dal pensiero kantiano ricava soprattutto il valore sacro ed inviolabile della PERSONA: l’individuo deve essere pensato e trattato come fine in se stesso  e mai ridotto a semplice mezzo.

E sarà proprio tale fermissima convinzione a costituire il centro gravitazionale della sua lotta antisegregazionistica:

 

L’immoralità della segregazione è che essa tratta gli uomini come mezzi piuttosto che come fini e perciò li riduce a cose piuttosto che a persone.

Ma un uomo non è una cosa. Non deve essere trattato come uno “strumento animato”, ma come una persona sacra in se stessa. Fare diversamente è come spersonalizzare la persona potenziale e profanarla in quello che è.”

(Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?, SEI, Torino 1970, pp. 138-140) 

 

  • Da Gandhi ricava la dottrina della nonviolenza vista come “l’unico metodo, moralmente e praticamente valido” per la liberazione degli oppressi.

Fino al momento della  sua scoperta, Martin Luther King  ritiene che i princìpi evangelici del Discorso della montagna abbiano senso solo per quanto concerne i rapporti fra singoli individui. La grandezza di Gandhi starebbe, invece, nell’aver inteso e proposto l’amore come FORZA SOCIALE, come strumento, cioè, per operare un mutamento collettivo.

L’etica della nonviolenza gli appare una felice fusione creativa fra elementi  culturali afroamericani, cristiani e induisti:

l’amore è “il nucleo e il battito del cuore del cosmo”, gli individui non sono stati creati per vivere in solitudine:

TUTTI sono il prossimo.

Gli uomini sono “anime d’infinito valore metafisico” entrate “attraverso la stessa misteriosa porta della nascita umana (… ) nella stessa avventura della vita mortale”:  tutti gli uomini sono interdipendenti. 

 

  • Nella famosa Lettera di Birmingham, scritta durante la sua detenzione (16 aprile 1963), L.K. presenta  quelli che vengono definiti i  SEI ASPETTI FONDAMENTALI DELLA NONVIOLENZA .

 

  1. La nonviolenza non è un metodo per codardi, ma “autentica resistenza”. Il resistente, infatti, aspira costantemente a “persuadere l’avversario che egli è nel torto”.

Si tratta di un  metodo passivo soltanto da un punto di vista fisico, ma fortemente attivo da quello spirituale: “Non è non-resistenza passiva al male, è invece attiva resistenza nonviolenta al male”.

 

  1. La nonviolenza non mira mai ad umiliare l’avversario, ma a conquistare la sua amicizia e comprensione. Noncooperazione e boicottaggio sono mezzi capaci di “svegliare un senso di vergogna morale nell’avversario. Il fine è la redenzione e la riconciliazione. La conseguenza della nonviolenza è la creazione della comunità nell’amore”.

 

  1. L’attacco viene rivolto al male in sé, non alle “persone ingannate dal male”.

 

  1. Disponibilità ad accettare la sofferenza senza vendetta: “la sofferenza non meritata è capace di redimere

 

  1. Rifiuto non soltanto della violenza fisica esterna, ma dell’odio stesso:

Reagire nella stessa maniera non farebbe altro che intensificare l’esistenza dell’odio nell’universo. Lungo il corso della vita, qualcuno deve avere giudizio e moralità sufficienti per troncare la catena dell’odio.”

La via da percorrere è, quindi, quella dell’Amore inteso come comprensione e buona volontà redentrice: AGAPE.

 

Agape  significa il riconoscimento della correlazione sussistente alla base della vita intera:

“Tutta l’umanità è coinvolta in un singolo processo, e tutti gli uomini sono fratelli. Nella misura in cui faccio del male al mio fratello – non importa cosa egli mi stia facendo – faccio del male a me stesso.”

 

  1. La storia dell’umanità è una storia in cammino, sorretta dalla presenza di un Principio divino:

Sia che la chiamiamo processo inconscio, impersonale Brahman, o Essere personale di impareggiabile potenza e infinito amore, c’è una forza creativa in questo universo che lavora per portare gli aspetti sconnessi della realtà in un tutto armonioso.”

 

(da Pellegrinaggio alla nonviolenza, 1958, in Martin Luther King, Lettera dal carcere di Birmingham. Pellegrinaggio alla nonviolenza, Edizioni del Movimento nonviolento, Verona 1993, pp.25-28) 

 

  • L.K., pur nella convinzione che uno solo sia il vero obiettivo a cui tendere, ovvero trovare un’alternativa alla guerra e alla distruzione dell’Umanità, individua TRE PROBLEMI CENTRALI:

RAZZISMO

POVERTA’

GUERRA.
 

Problemi da lui considerati strettamente connessi: la vera sfida è quella di rendere il mondo UNO in termini di fratellanza.

Se, infatti, possiamo considerare ragionevole preoccuparsi del benessere del proprio gruppo o nazione, risulta del tutto irragionevole concentrarsi esclusivamente su questo.

Avendo la realtà una struttura interconnessa, infatti, la strada da seguire non potrà che essere quella della salvaguardia dei diritti umani nella prospettiva della CASA MONDIALE. 

 

  • Spesso King riflette con chiara lucidità sui meriti e i demeriti del pensiero di Karl Marx, mettendo in luce come il marxismo e il comunismo esprimano una volontà di rinnovamento e di alternativa rispetto ai vizi del capitalismo, ma incappino poi in difetti antitetici non meno rilevanti.

La sua proposta è quella di una società in cui esigenze individualistiche e collettivistiche possano confluire in maniera armonica, superando sia discriminazioni e oppressioni socio-economiche, sia misure statolatriche e  liberticide.

La lettura di Marx - scrive -  mi convinse anche che la verità non si trova né nel marxismo né nel capitalismo tradizionale. Ciascuno rappresenta una verità parziale. Storicamente il capitalismo non riuscì a vedere la verità nell’impresa collettiva e il marxismo non riuscì a vederla nell’iniziativa privata. Il capitalismo del XIX secolo non capì che la vita è anche sociale e il marxismo non comprese e ancora non comprende che la vita è anche individuale e personale..”

(Pellegrinaggio alla nonviolenza, pp. 20-21)

 

Quando macchine e computers, moventi dei profitti e diritti di proprietà vengono considerati più importanti delle persone, il gigantesco trio del razzismo, materialismo e militarismo non può essere vinto. Una civiltà può cadere di fronte al fallimento morale e spirituale facilmente come lo può per un fallimento finanziario.

Questa rivoluzione di valori deve andare oltre al capitalismo tradizionale e oltre al comunismo. Dobbiamo, onestamente, ammettere che il capitalismo ha spesso lasciato un abisso fra la ricchezza superflua e l’abbietta povertà, ha creato condizioni da permettere che si togliesse il necessario ai molti per dare il lusso ai pochi, e ha spinto uomini gretti a diventare freddi e senza coscienza (… ).

Il movente del profitto, quando è la sola base di un sistema economico, incoraggia una concorrenza spietata e un’ambizione egoistica che ispira gli uomini ad avere come loro centro l’”io” piuttosto che il “tu”.

Egualmente il comunismo riduce gli uomini a un dente nella ruota dello Stato. Il comunismo può obiettare, dicendo che nella teoria marxista lo Stato è una “realtà ad interim” che finirà quando emergerà una società senza classi. Ciò è vero in teoria; ma è anche vero che, finché dura lo Stato, è il fine. L’uomo è un mezzo per quel fine. Egli non ha diritti inalienabili. I suoi unici diritti sono derivati, e conferiti, dallo Stato. In un simile sistema, la fonte della libertà si inaridisce. Limitate sono le libertà di stampa e di assemblea, la libertà di votare e la libertà di ascoltare e di leggere.

La verità non si trova né nel capitalismo tradizionale, né nel comunismo classico. Ognuno di essi rappresenta una verità parziale.”

 

  • Fondamentale, poi, risulta, nel pensiero di King, la volontà di sottolineare il carattere non irrealistico della battaglia alla miseria.

 L’America, dice - riferendosi alla guerra in corso del Vietnam -  ha tutte le possibilità economiche per un cambiamento di rotta, operando la scelta di smettere di

bruciare degli esseri umani con il napalm, di riempire le case della nostra nazione di orfani e di vedove, di iniettare droghe velenose, di odio nelle vene di popoli normalmente umani, di rimandare a casa, da tristi e sanguinosi campi di battaglia, uomini fisicamente minorati e psicologicamente sconvolti”.

Nulla impedirebbe, infatti, qualora ci fosse una volontà politica adeguata, di rimuovere le cause delle ingiustizie socio-economiche.

Scelta assolutamente prioritaria: smettere di continuare ad incrementare gli investimenti in ambito militare e, conseguentemente, dirottare tali immense risorse a favore di concreti e sostanziali miglioramenti sociali.

 

Non c’è nulla, se non il desiderio di una morte tragica, che ci impedisca di riordinare le nostre priorità, in modo che la ricerca della pace abbia la precedenza sulla ricerca della guerra.

Non c’è nulla che ci impedisca di rimodellare, con le nostre mani ferite, un recalcitrante status quo, finché l’abbiamo trasformato in una fratellanza.”

 

Per poter sconfiggere il comunismo (definito come un severo “giudizio sul nostro fallimento nel realizzare la democrazia”) - afferma King, in un periodo storico avvelenato dallo scontro feroce fra due blocchi ideologici, politici, economici e militari radicalmente contrapposti - occorre eliminare le cause reali che lo hanno fatto nascere e che continuano ad alimentarlo.

 

La risposta non è la guerra.

Il comunismo non sarà mai sconfitto con l’uso delle bombe atomiche o delle armi nucleari. (…)

Non dobbiamo chiamare comunista o pacifista chiunque riconosce che l’odio e l’isterismo non sono le risposte finali ai problemi di questi giorni torbidi. Non dobbiamo impegnarci in un anticomunismo negativo, ma piuttosto in una spinta positiva verso la democrazia, rendendoci conto che la nostra maggiore difesa contro il comunismo è prendere l’offensiva a favore della giustizia e dell’equità.

Dopo aver eloquentemente espresso la nostra condanna della filosofia del comunismo, noi dobbiamo, con un’azione positiva, cercare di rimuovere quelle condizioni di povertà, di insicurezza, di ingiustizia e di discriminazione razziale che sono il fertile suolo in cui cresce e si sviluppa il seme del comunismo.

Il comunismo prospera solo quando le porte delle possibilità sono chiuse e le aspirazioni umane sono soffocate.”

(La forza di amare, SEI, Torino, 1972,  p. 196) 

 

  • E, di fronte all’incubo assillante ed angosciante di un nuovo conflitto mondiale che avrebbe potuto portare l’umanità alla rovina totale, Martin L. King arriverà ad assumere posizioni sempre più forti di denuncia e di rifiuto della cultura delle armi e della corsa agli armamenti, ribadendo che l’unica via percorribile sarebbe dovuta essere quella del disarmo.

 

Che metodo ha usato la sofisticata ingenuità dell’uomo moderno per trattare la paura della guerra?

Ci siamo armati fino all’ennesima potenza. L’Occidente e l’Oriente si sono impegnati in una febbrile gara di armamenti: le spese per la difesa sono salite a proporzioni di montagne, e agli strumenti di distruzione si è data priorità su tutti gli altri sforzi umani. Le nazioni hanno creduto che maggiori armamenti avrebbero eliminato la paura, ma ahimé! essi hanno prodotto una paura più grande. In questi giorni turbolenti, battuti dal panico, noi dobbiamo ricordarci una volta di più le giudiziose parole antiche: “ Il perfetto amore caccia via la paura.”

 Non armi, ma amore, comprensione e buona volontà organizzata possono cacciar via la paura.

Solo il disarmo, basato sulla buona fede, potrà fare della fiducia reciproca una realtà vivente.” (ivi, p. 222)

 

Va oltre ogni immaginazione pensare quante vite potremmo trasformare se dovessimo cessare di uccidere. (…)

Le bombe nel Vietnam esplodono in patria; distruggono le speranze e le possibilità di un’America decente.”

(Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?, pp. 123-4)

 

  • ACCUSE ALLA CHIESA

 

In più circostanze, M. L. King esprime la sua profonda amarezza in merito al comportamento assunto dal mondo cristiano, sia nel passato sia in epoca contemporanea, di fronte alle tante gravissime forme di ingiustizia sociale.

La Chiesa (o, meglio, le Chiese) non ha mai, infatti, perso occasione per condannare  la blasfemia o i peccati legati alla sfera dei piaceri sensuali, ma ha scelto, invece, di restare silenziosa spettatrice o, addirittura, di farsi complice attiva di fenomeni  disumani e criminali quali il razzismo, il militarismo e la povertà.

 

“ … sono stato profondamente deluso - dice - dalla Chiesa bianca e dalle sue autorità. Naturalmente vi sono alcune importanti eccezioni

 (… )

Quando fui improvvisamente catapultato alla guida della “protesta degli autobus” a Montgomery, diversi anni fa, avevo la singolare sensazione che avremmo avuto l’appoggio della Chiesa bianca. Credevo che i pastori bianchi, i preti e  rabbini del Sud sarebbero stati alcuni dei nostri più forti alleati. Invece, alcuni sono stati nostri aperti avversari, rifiutandosi di comprendere il movimento per la libertà e mettendo in cattiva luce i suoi dirigenti, troppi altri sono stati più prudenti che coraggiosi e sono rimasti in silenzio dietro l’anestetizzante sicurezza delle vetrate colorate.

 

 Profondamente deluso, ho pianto sulla fiacchezza della Chiesa. Ma siate certi che le mie lacrime sono state lacrime d’amore. Sì, amo la Chiesa, amo le sue sacre mura; come potrebbe essere diversamente? (… )

Sì, vedo la Chiesa come il corpo di Cristo. Ma come l’abbiamo macchiato e sfregiato quel corpo, con il disinteresse per le questioni sociali e il timore di essere non conformisti!”

(Lettera dal carcere di Birmingham, in  Lettera dal carcere di Birmingham. Pellegrinaggio alla nonviolenza, pp.13-14)

 

In nessun luogo la tragica tendenza al conformismo è più evidente che nella Chiesa, una istituzione che spesso è servita a cristallizzare, conservare e anche benedire i moduli dell’opinione della maggioranza. L’assenso dato in passato dalla Chiesa alla schiavitù, alla segregazione razziale, alla guerra ed allo sfruttamento economico è la prova del fatto che la Chiesa ha prestato orecchio più all’autorità del mondo che all’autorità di Dio. Chiamata ad essere la custode morale della comunità, la Chiesa a volte ha protetto ciò che è immorale e anti-etico; chiamata a combattere le ingiustizie sociali, è rimasta silenziosa dietro i vetri delle finestre; chiamata a guidare gli uomini per la via maestra della fraternità e ad ammonirli a sollevarsi al di sopra degli angusti confini di razza e di classe, ha enunciato e praticato l’esclusivismo razziale.” (La forza di amare, p. 36)

 

La Chiesa viene accusata, quindi, di essere rimasta sconcertantemente silenziosa e di aver “preso spesso parte attiva nel formare e cristallizzare gli schemi del sistema di razza e di casta”. (ivi, p.192)

Colonialismo, apartheid in Sud-Africa, la schiavitù per 250 anni in America, le forme di segregazione e discriminazione ancora esistenti non sarebbero state possibili, infatti, senza la loro legittimazione da parte delle varie Chiese cristiane.

Ma in M. L. King resta viva la speranza che il mondo cristiano possa finalmente mobilitarsi per mettersi alla guida di un nuovo corso di rinascita morale, capace, attraverso la forza dell’empatia, di risanare ferite antiche e di dissolvere odi recenti, favorendo e costruendo una reale prospettiva di affratellamento.

 

La Chiesa – scrive – ha l’opportunità e il dovere di far sentire la propria voce e dichiarare alle genti l’immoralità della segregazione. Deve affermare che ogni vita umana è un riflesso della divinità, e che ogni atto di ingiustizia guasta e mutila l’immagine di Dio nell’uomo. La filosofia che sta alla base della segregazione è diametralmente opposta alla filosofia che sta alla base della nostra eredità giudaico-cristiana, e tutte le dialettiche dei logisti non potranno mai farla coincidere.

Ma le dichiarazioni contro la segregazione, per quanto sincere, non sono sufficienti. La Chiesa deve prendere l’iniziativa nelle riforme sociali. Deve avanzare nell’arena della vita e lottare per la santità degli impegni religiosi.”

(Dove stiamo andando: verso il caos o la comunità?, pp. 140-143)

 

  • Nella speranza che la forza dell’empatia riesca a rinnovare non soltanto la Chiesa, ma l’intera storia politico-economica del nostro pianeta mille volte tradito e mille volte ferito, non possiamo che auspicare, soprattutto nel mondo della scuola (sempre più oggetto di propaganda nazionalista e militarista), una maggiore attenzione e una più ampia ed approfondita conoscenza di Martin Luther King, vero grande maestro di nonviolenza, prezioso e attualissimo filosofo morale.

 

 

 

La nuova edizione di Vivi o Morti?, rinnova l’invito a riflettere sul dovere del dubbio, con l’aggiunta di riflessioni e interviste che suscitano interrogativi interessanti sulla questione dell’espianto e della donazione di organi. Una questione che riguarda non solo la bioetica, ma può essere considerata uno spunto per una riflessione generale sul confine tra vita e morte.

Sul concetto di morte cerebrale, infatti, c’è tutt’altro che unanimità, anche all’interno della Chiesa cattolica, che pure sulle questioni bioetiche ostenta spesso sicurezza. Dunque, quando mancano "gli elementi di base necessari (sia quantitativi che qualitativi) per poter comprendere la complessità della questione  sotto tutte le sue numerose sfaccettature”, la posizione più saggia è quella del dubbio. Tanto più su una questione che implica riflessioni sulla “vera natura dell’uomo”, “sui confini tra vita e morte, sul giusto modo di intendere la dignità della persona e sui diritti della persona stessa”. 

Dopo diversi anni dalla pubblicazione della prima edizione, l’autore, Roberto Fantini, ribadisce il presupposto alla base della sua opera: “la convinzione che la stragrandissima maggioranza delle persone (anche di ottimo livello culturale) si trovi totalmente all’oscuro della vera condizione del cosiddetto ‘morto cerebrale’, del fatto, cioè, che esso sia un ‘qualcosa’ (semplice organismo o ancora persona a tutti gli effetti?) assai differente da come siamo abituati a rappresentarci un defunto”. Infatti, spiega l’autore, esso “gode di normale temperatura corporea, ha cuore battente con relativo sangue circolante e polmoni respiranti (anche se, sovente, meccanicamente coadiuvati), si può ammalare e, se curato, è in grado anche di guarire, produce liquido seminale fertile (se di sesso maschile), è in grado di concepire e / o condurre a termine una gravidanza (se di sesso femminile)”. 

Di particolare interesse sono, inoltre, le riflessioni sulla rivoluzione culturale che è alla base della “teoria-prassi dei trapianti”, come la definisce l’autore. Tale rivoluzione consiste nell’aver abbandonato repentinamente come qualcosa di “obsoleto e pre-scientifico” la concezione della morte che aveva prevalso per millenni, ovvero l’esalazione dell’ultimo respiro e la cessazione delle pulsazioni cardiache. Di contro, la Commissione di Harvard ha imposto il paradigma della morte cerebrale, che identifica la morte con la cessazione delle attività cerebrali “oggettivamente registrabili”, indipendentemente dalle funzioni di altre parti dell’organismo, come, ad esempio cuore e polmoni. 

La nuova sezione aggiunta nella seconda edizione di Vivi o Morti?  include gli articoli scritti in questi ultimi anni da Roberto Fantini su tematiche collegate con l’introduzione di tale paradigma, come la fine della vita, i trapianti di organi, e i “risvegli che dovrebbero farci riflettere”. Questi ultimi, infatti, suscitano la questione se sia “scientificamente possibile ottenere certezze incontrovertibili in merito all’irreversibilità di una condizione comatosa”. Inoltre, inducono a chiedersi se sia “scientificamente dimostrabile la totale cancellazione di qualsivoglia forma di coscienza nei pazienti immersi nelle varie condizioni comatose” e, in relazione alla prassi dell’espianto di organi, “fino a che punto possiamo essere certi che coloro che classifichiamo come ‘donatori’ di organi non conservino una loro sensibilità, una loro coscienza che non siamo capaci di riscontrare”. 

In appendice, rispetto alla prima edizione, sono state aggiunte due interviste alla teologa e bioeticista Doyen Nguyen, che l’autore ha conosciuto durante un convegno internazionale della John Paul II Academy for Human life and the Family. Specializzata in medicina ematologica e successivamente laureatasi in Teologia morale, specializzandosi in Bioetica, oggi Nguyen insegna alla Pontificia Università di San Tommaso d’Aquino (Angelicum).

Nella prima intervista, si affronta il tema dei trapianti d’organi e dei dubbi sul momento della morte, poiché i concetti di “morte cerebrale” e “morte a cuore fermo”, utilizzati come paradigmi per stabilire la morte ufficiale di un paziente, spesso non corrispondono alla “morte biologica” di un essere umano. Entrambi i concetti, inoltre, secondo la docente, sono fondati sulla stessa concezione utilitaristica, dal momento che servono a dare il via libera per l’espianto d’organi da un paziente vittima di un grave incidente o affetto da grave disabilità. Di contro, secondo Nguyen, per accertare la morte di qualcuno occorre che si manifestino”determinati segni”, tra i quali figura la caduta della temperatura, di pari passo con la cessazione delle attività metaboliche (è il metabolismo che genera calore, mantenendo la temperatura corporea al di sopra di un certo livello). Inoltre, entro pochi minuti dalla morte, inizia il processo di putrefazione e disintegrazione del corpo, che diventa evidente entro due o tre giorni. Nondimeno, la morte, secondo la docente, è anche un “evento metafisico”, coincidendo con la “separazione dell’anima dal corpo”. A tal proposito, non abbiamo strumenti per rilevare la presenza dell’anima, il che rende impossibile stabilire con certezza il momento esatto della morte, così come è impossibile stabilire il momento esatto del concepimento. Per questo motivo, due papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, avevano sollevato perplessità sul concetto di morte cerebrale. Nella seconda intervista, si solleva il dubbio che gli espianti d’organi siano praticati su persone vive, come dimostrano le contrazioni muscolari che si rilevano durante le operazioni. Nella stessa intervista, inoltre, si avanza l’ipotesi che talvolta la morte cerebrale sia “provocata”, in particolare nel caso di “morte cardiaco-circolatoria controllata”. Quando il paziente viene trasportato in sala operatoria, viene staccato dal supporto vitale e, per “alleviare o prevenire il fastidio”, gli vengono somministrati “narcotici e sedativi”. Successivamente, al paziente si inserisce una “cannula femorale” e “la sua pelle viene preparata e coperta”. Quindi, dopo un “breve periodo di osservazione”, l’insorgenza dell’arresto cardio-respiratorio fa sì che il paziente sia  “dichiarato morto”. Nel 25 per cento dei casi, aggiunge Nguyen, “il potenziale donatore è ancora vivo dopo un’ora dalla rimozione del supporto vitale”. Di conseguenza, conclude la docente, sia nel caso della morte cerebrale, sia in quello della morte cardiaco-circolatoria controllata, si tratta di “forme velate di eutanasia progettate primariamente per lo scopo di ottenere organi”. 

 

ROBERTO FANTINI
VIVI O MORTI?
MORTE CEREBRALE E TRAPIANTO DI ORGANI: CERTEZZE VERE E FALSE, DUBBI E INTERROGATIVI
Edizione aggiornata e ampliata
EDIZIONI EFESTO

 
 Narges Mohammadi

 “La democrazia prima di essere un sistema politico è una cultura. Sono le persone, con i loro comportamenti, a fare la democrazia.” — Shirin Ebadi 

 

Narges Mohammadi ha ricevuto il premio Nobel per la pace 2023. La cerimonia per la quale il Comitato del Premio ha chiesto la presenza della donna ancora detenuta in carcere, sarà a Dicembre.

Attivista iraniana, carcerata dal 2016, vice presidente del Centro per la difesa dei diritti Umani l'organizzazione non governativa guidata da Shirin Ebadi,(in esilio dal 2009) ha ricevuto l'onorificenza per la sua continua ed estenuante lotta alla promozione dei diritti umani e per la libertà di ognuno.

In prima linea contro l'oppressione alle donne  in Iran. Attivista per i diritti umani. Arrestata diverse volte dal regime Iraniano.

Ha dovuto subire punizioni fisiche, arresti, condanne. In una delle tante prigionie subite, ha ricevuto oltre 150 frustate e altre forme di torture.

Nata a Zanjan, 51 anni fa, laureata in fisica si è battuta oltre che per le donne, anche per la difesa dei diritti dei detenuti. Ha combattuto contro la pena di morte. Madre di due gemelli, mai si è arresa alla lotta. A Narges, in una delle diverse carceri che l'hanno detenuta, non furono neppure concesse le medicazioni nonostante soffrisse e soffre di una grave forma di polmonite. L'Unione Europea è intervenuta a favore dell'attivista invitando l'Iran a rispettare le leggi sui diritti internazionali sottolineando la grave forma di malattia di Mohammadi. Persino Amnesty International richiamò l'attenzione sull'attivista per il non diritto concessogli alle cure mediche.

La donna è ancora in detenzione nonostante gli interventi di varie associazioni e dal carcere continua ancora la sua battaglia contro le torture di ogni genere e le violazioni sessuali delle donne arrestate. Nel 2022 momento in cui la giovane Iraniana Amini fu uccisa dalla polizia perché priva del hijab, si sono incrementate le lotte delle donne stanche dei troppi soprusi; la stessa attivista Narges Mohammadi dall'interno della prigione a Teheran ha trovato il modo di esternare il proprio appoggio attraverso articoli.

Donna decisa, coerente con la propria idea, impegnata totalmente rischiando costantemente la propria vita, lontano di propri affetti, è sempre stata decisa a combattere una battaglia verso l'immane forza di violenza e crudeltà alle donne Iraniane anche all'interno del carcere non si è lasciata intimorire. E' riuscita addirittura a fare arrivare un messaggio alla BBC dove raccontava i tipi di torture e di violenze inaudite  alle detenute del carcere a Ervin; nello specifico parlava di un'attivista violentata dagli agenti di sicurezza.

Condannata l'ultima volta nel 2022 dove ha subito ben 74 frustate per avere diffuso una propaganda contro lo Stato Iraniano Arrestata 13 volte per un totale di 31 anni di carcere: Si sta adesso battendo per la tortura bianca del quale ne ha parlato in un libro pubblicato nel 2022 dal titolo White Torture. Si tratta di punire con un lungo isolamento (anche oltre due mesi) nella sezione 209 del carcere di Evin. Possiamo solo immaginare lo stato psico fisico ed emotivo che le donne andrebbero a subire. Un'altra forma di tortura infame non corporale ma di abbandono all'oblio mentale. 

Narges Mohammadi; un premio Nobel che tutte le donne del mondo dovrebbero applaudire nel rispetto, nella gratitudine, nel coro unanime di un grazie a chi non ha vissuto di sole parole ma di azioni degne di una donna fra le donne che per i loro diritti ancora si batte nonostante tutto. 

Grazie Narges Mohammadi!

 

 

Confesso di aver commesso a lungo un grossolano peccato di sciocca superficialità:

ho guardato, cioè, alla produzione artistica di Botero (con tutte le sue ciccione e con tutti i suoi ciccioni), come ad una sorta di pittura ingenuamente naiffeggiante, gradevole e simpaticamente buffa sì, ma non certamente degna di essere troppo presa in considerazione.

Poi, vennero le decine di opere da lui dedicate, con un intensissimo lavoro di circa un anno (2005), alle vicende orribili relative alle foto provenienti dal carcere iracheno di Abu Ghraib, che ritraevano soldati e soldatesse statunitensi esercitare, con ostentazione e festoso compiacimento, indegni atti  di tortura nei confronti di prigionieri nemici, imbavagliati, incappucciati, denudati, ammucchiati come sacchi e fatti oggetto di derisione.*

 Di fronte a quell’orgia di carni sanguinolente, in cui la dignità della persona veniva fatta a pezzi con tanta vergognosa quanto inconsapevole ferocia, il mio rapporto con il pittore colombiano è mutato radicalmente.

In lui ho scoperto qualcosa di molto simile allo spessore concettuale e alla serietà morale che tutti quanti noi riscontriamo nella Guernica di Pablo Picasso, la stessa voglia divorante di urlare al mondo il proprio dolore, la stessa volontà di servirsi del proprio linguaggio pittorico per far viaggiare, nello spazio e nel tempo, un durissimo messaggio di condanna verso la follia della tortura e della guerra, nonché delle loro cause culturali:

 assolutizzazione santificante delle ragioni e delle azioni del “noi” e delegittimazione e disumanizzazione viscerale di tutto quello che riguarda il “loro”.

Ora che Botero ha lasciato questo mondo, da lui tanto amato ed entusiasticamente cantato per le sue infinite meraviglie, il mio pensiero è un pensiero di sincera gratitudine per la lezione di eticità che ha saputo donarci: per averci ricordato che, di fronte alle ingiustizie di questo mondo, siamo tutti chiamati a scegliere da che parte stare, siamo tutti obbligati a non restare ammutoliti e indifferenti, bensì chiamati a contemplare, a denunciare, a combattere (per quanto in nostro potere e con le armi, piccole e grandi, in nostro possesso) la violenza di tutti gli aguzzini e di tutti i massacratori, dei loro innumerevoli ben celati complici, dei loro mandanti, dei loro istigatori e difensori, dei loro diretti ed indiretti grandi istruttori.

Forse, chissà, come qualcuno ha detto, fra cento anni, il mondo si ricorderà ancora di Abu Ghraib solo grazie al ciclo pittorico creato da Botero …

 

*Le fotografie dei soldati statunitensi intenti ad umiliare e terrorizzare prigionieri inermi nel carcere iracheno di Abu Ghraib, diffuse nel corso del 2004, hanno scioccato il mondo intero. Ma le azioni riprese dalle fotocamere non erano aberrazioni isolate. Già nei due anni precedenti, infatti, Amnesty International aveva denunciato casi del genere non soltanto in Iraq, ma anche in Afghanistan e a Guantanamo Bay, e altrettanto ha fatto negli anni successivi. Le ricerche condotte hanno spinto, pertanto, a concludere che le torture che hanno avuto luogo ad Abu Ghraib non abbiano costituito un semplice episodio di anomala crudeltà, ma abbiano, al contrario, fatto parte di un preciso modello coerente implicante l’utilizzo di tecniche ben programmate, quali: incappucciamento, privazione sensoriale, isolamento, costrizione a posizioni dolorose, denudamento forzato, impiego di cani, ecc. Su una piccola parte di simili casi sono state aperte inchieste, conclusesi nella maggioranza dei casi con lievi condanne penali e amministrative ai danni di militari di basso grado. Solo nel caso di Abu Ghraib (probabilmente per l’amplificazione  determinata dai mezzi di informazione), sono state comminate pene detentive di un certo rilievo.

Nessuna delle indagini governative ha messo l’accento sulle responsabilità dei vertici militari e politici che, di fatto, avrebbero autorizzato, o per lo meno tacitamente avallato certe pratiche e certi metodi che rappresentano gravissime inaccettabili violazioni dei diritti umani.

 

 “L’abisso verso il quale ci stiamo dirigendo è ben visibile: armandoci sempre di più e distruggendoci a vicenda nelle guerre, non otterremo nient’altro che l’annientamento reciproco, come ragni intrappolati nella propria ragnatela.”

                                                 LEV TOLSTOJ 

 

Merzoug Hamel, giovane musulmano figlio di immigrati, aderente a gruppi islamisti radicali, in seguito al massacro del 25 febbraio del 1994, compiuto da un colono israeliano nella moschea di Hebron, venne inviato, qualche tempo dopo, in Marocco per compiere una strage vendicativa all’interno di una sinagoga.

Una volta trovatosi di fronte alla gente che avrebbe dovuto colpire, alcuni bimbi si voltarono verso di lui, fissandolo. Vide i loro occhi incontaminati e quegli sguardi riuscirono a rovesciare nei labirinti del suo cuore un vento di innocenza ignaro delle lotte fra popoli diversi, ignaro delle terre contese e delle infinite violenze che inseguono e che creano altre violenze infinite. E così, Merzoug decise che non sarebbe stato seminatore di morte: sparò sul muro del cimitero, svuotando l’intero caricatore sopra le loro teste.

Non potevo più far loro del male né potevo farne degli orfani”, disse, affermando anche che Ogni essere umano dotato di coscienza morale e di umanità non può essere un mostro e ancor meno un assassino di bambini.”*

Qualcosa di straordinario era accaduto. Come se tutto un complesso meccanismo, entrato massicciamente in funzione per indurre un essere umano a diventare l’autore mostruoso di una strage di ampie proporzioni (presentata come un doveroso ed eroico atto di giustizia), si fosse inceppato di fronte alla comparsa di un elemento del tutto imprevisto. Come se, a un certo punto, tutte le forze (che sembravano irresistibili) in azione da una parte avessero improvvisamente trovato, dall’altra, una forza ancora più grande, capace di bloccarle: lo sguardo di quei bimbi.

Qualcosa di straordinario sì, ma non di “miracoloso”, però … E’ accaduto, per usare un’immagine pirandelliana, che la forza di quegli sguardi ha saputo squarciare il cielo di carta sopra il teatrino della storia, facendo apparire le mani e i volti dei grandi burattinai: le maschere ideologiche, i paraventi costruiti dall’odio, le giustificazioni nobilitanti partorite dal desiderio di vendetta hanno finito per rivelarsi, di fronte alla verità della luce di quegli occhi, come ciò che realmente sono, qualcosa di fittizio, di menzognero e di spregevolmente  ingannevole.

Merzoug dichiarò, poi, che, in quanto credente e musulmano, aveva “appreso che tutte le religioni divine spingono alla pace, all’amicizia tra i popoli e al rispetto della vita umana, e che appartiene solo a Dio di decidere del momento della morte.”

E il suo auspicio è stato che ogni soldato israeliano, prima di sparare ad un bambino palestinese, avrebbe dovuto pensare alla propria coscienza, al proprio cuore, ai padri e alle madri, “al dolore, alla sofferenza, allo strappo nei loro cuori che non guarisce né si cancella mai.”

  Hermann Hesse

Auspicio che merita di essere esteso, oggi più che mai, a tutti coloro che impugnano le armi, con questa, con quella o con nessuna divisa, a tutti quelli che finanziano armi, progettano armi, fabbricano, vendono o “regalano” armi. A tutti quelli che, in un modo o nell’altro, le giustificano, le invocano e le benedicono.

Solo la conoscenza della nuda realtà, solo la consapevolezza di cosa implichi davvero affidare le proprie speranze di giustizia e di pace all’uso delle armi, solo il pensiero delle vite distrutte e delle sofferenze … solo questo potrà salvarci dalla retorica delle fanfare e delle bandiere, dagli ingannevoli sofismi, dal culto della violenza e degli eserciti, dalla dittatura ideologica della pseudofilosofia del “mali estremi estremi rimedi”.

Perché è sempre verissimo che, come insegnava Socrate, è l’ignoranza la grande madre di ogni male e che il rifiuto della tirannia delle armi non nasce dalla non conoscenza della realtà, bensì sempre da un giusto e concreto sapere.

Come ebbe a scrivere Hermann Hesse nel 1918:

L’amor di pace, al pari di ogni umano progresso, è frutto del sapere.

Ma ogni cognizione, se con ciò si intende qualcosa di tangibile e non accademico, ha soltanto un oggetto, cosa riconosciuta da migliaia e migliaia di persone, espressa in mille formule diverse e che tuttavia è sempre e soltanto un’unica verità:

il riconoscimento di quel che c’è di vivente in ciascuno di noi, in me e in te;

 il riconoscimento di quella segreta magia, di quella segreta divinità che ognuno di noi reca in sé;

 il riconoscimento della possibilità di superare, a partire da questo intimissimo nucleo, ogni antitesi tra opposti in ogni momento, di trasformare il bianco in nero, il male in bene, la notte in giorno.

L’indiano parla di “atman”, il cinese di “tao”, il cristiano di “grazia”. E ovunque  si abbia questa suprema cognizione (come ad esempio in Gesù, in Buddha, in Platone, in Lao Tze), ecco che si supera una soglia, al di là della quale cominciano i miracoli. Qui hanno termine guerra e ostilità.”**

A fermare la mano di Merzoug, allora, furono gli sguardi di quei bimbi che, forse, ebbero la straordinaria, naturalissima capacità di fargli scoprire (o riscoprire) quell’ unica, grande, immensa, eterna verità:

la “segreta magia”, la “segreta divinità che ognuno reca in sé”.

 

 

*M. Giro, Gli occhi di un bambino ebreo. Storia di Merzoug terrorista pentito, Guerini e Associati, Milamo 2005.

*Hermann Hesse, Guerra e pace, in Non uccidere, Mondadori, Milano 1987.

 

 

Page 1 of 14
© 2022 FlipNews All Rights Reserved