L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Human Rights (202)

Roberto Fantini
This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

                 

Qualche anno fa, il teologo valdese Paolo Ricca scriveva, con non poca amarezza, che, nel mondo contemporaneo, risultava non aver più alcun posto la questione dell’aldilà e di una possibile vita futura, questione “che in altri tempi appassionava l’opinione pubblica ed era considerata e vissuta come assolutamente prioritaria, cioè come la questione principale di questa vita, quella che ciascuno doveva affrontare, perché questa vita aveva senso e valore (così, allora, si pensava) proprio come preparazione al “grande salto” nell’aldilà”. 1)

Oggi, diceva, il tema dell’aldilà non interessa quasi più nessuno, perché: “La speranza generale è di prolungare il più possibile questa vita."2) Anzi, potremmo dire che l’unica vera preoccupazione che ci trova tutti d’accordo, credenti e non credenti, è proprio quella del vivere il più a lungo possibile, evitando sistematicamente di interrogarsi in merito all’evento del morire.

Non ci si interrogherebbe più, di conseguenza, in merito al vivere buono e giusto, ma soltanto in merito a come riuscire a proiettare sempre più lontano dalla nostra coscienza l’idea di quell’evento (visceralmente inaccettabile) che tutti ci attende. Potremmo dire che mai l’umanità è stata tanto risucchiata in una visione così banalizzante del vivere, in cui si fondono, in una sorta di sabbie mobili dello spirito: rozzo edonismo, semplicistico ottimismo e cieco fideismo scientista.

Il risultato di ciò è che, di fronte al fatto ineludibile della morte, mai ci siamo trovati così indifesi, così impreparati, così vulnerabili.

Due colossali conferme di tale nostra generale condizione psicologica le possiamo ricevere dall’ analisi di come l’opinione pubblica stia acriticamente accogliendo, da alcuni decenni ormai, la pratica dei trapianti di organi e come, in questi ultimi anni, abbia ampiamente subìto (o anche abbracciato) le politiche vaccinali.

In entrambi i casi, la vittima principale è il pensiero coraggioso e indipendente: anche il più elementare buon senso, infatti, si è ritrovato annichilito.

Di fronte al timore della morte incombente e all’allettantissima possibilità di riuscire a rinviarla a tempo indeterminato, ci siamo (in troppi e troppo facilmente) dimostrati pronti a spegnere gli interruttori del normale pensare, gettandoci incondizionatamente nelle braccia onniscienti ed onnipotenti dei Gran Sacerdoti di Santa Madre Scienza.

E, così, ci siamo ritrovati ad accettare, senza troppi indugi, che, una volta adottate parole ingannevoli come “morte cerebrale”, “donatore”, ecc.,  si possa essere dichiarati morti e quindi macellati come cadaveri, pur respirando, pur avendo sangue circolante e organi sessuali in grado di procreare; che si possa essere considerati morti anche se con organismo caldo e in grado di rispondere a eventuali cure.

E, così, siamo giunti ad accettare di subire poliziesche imposizioni, facendoci inoculare (disposti  ad assumerci ogni responsabilità in merito alle possibili conseguenze) un qualche siero dichiarato arbitrariamente “vaccino”, benché sprovvisto dei doverosi oggettivi requisiti; un qualche siero protetto dalla massima segretezza, in merito a cui nessuno (nemmeno chi lo produce) è in grado di fornirci alcuna reale garanzia.

In entrambi i casi, è il terrore della morte ad ammutolire il nostro intelletto, ad indurci a mettere da parte, nello stesso tempo,

innati princìpi logici,

universali paradigmi etici,

costituzionali valori civili.

Per salvarci dal naufragio esistenziale, individuale e collettivo, bisognerebbe quindi, oltre che non smettere mai di esercitare il  “dubbio metodico”, riuscire a liberarci da un rapporto malato con il problema della morte, recuperando quanto di meglio ci proviene dall’antica sapienza filosofica e dalla migliore psicologia contemporanea. Ovvero, riscoprendo la “naturalezza” del morire (indissolubilmente legato al vivere), magari anche riappropriandoci di prospettive aperte all’eventualità di ultraterrene esperienze.

Socrate, Epicuro, Seneca e tanti altri giganti del passato potrebbero esserci di grande aiuto:

“Tutte le cose – scrive, ad esempio, Seneca - procedono secondo tempi ben definiti: debbono nascere, crescere, estinguersi. Questi astri che vedi correre sopra di noi e questa materia terrestre a cui siamo attaccati e che ci sembra così solida, si logoreranno e finiranno: ogni cosa ha la sua vecchiaia. La natura, attraverso diseguali cicli di vita, dirige tutte le cose allo stesso punto. Tutto quello che esiste cesserà di essere, non per annullarsi, ma per decomporsi. La decomposizione noi la chiamiamo morte: noi vediamo solo l’aspetto esteriore delle cose, ma la nostra mente ottusa e a discrezione del corpo non vede che quel che sta al di là. L’uomo sopporterebbe con più coraggio la fine sua e dei suoi cari, se credesse che, come tutto il resto, la vita e la morte si avvicendano e i composti si dissolvono e si ricompongono i corpi dissolti, e a quest’opera si rivolge l’attività di dio, che tutto regola.” 3) 

E anche scienziati all’avanguardia e liberi da pregiudizi di ordine positivistico, come la psichiatra Elizabeth Kubler-Ross, potrebbero costituire una fonte di terapeutica saggezza:

“Se viviamo bene non dovremo mai preoccuparci della morte, anche se si vive solo un giorno. La questione tempo non è importante, è solo un concetto artificiale, creato dall’uomo.

Vivere bene significa soprattutto imparare ad amare.”4)

Insomma, non c’è vera possibilità di difenderci dalle schiavitù del presente e da quelle di un ipotetico-probabile avvenire, senza una vera liberazione interiore dalla paura più grande, quella del più non esserci. E l’angoscia della morte è curabile solo grazie alla carità illuminata dal giusto pensiero e coronata da un giusto operare volto ad occuparci della sofferenza del mondo.

Forse ha ragione Fernando Savater nel dirci che soltanto i veri poeti sanno rapportarsi alla morte:

 “i poeti accettano la morte opponendole l’altra grande forza che ci individualizza, che ci personifica: l’amore. Ciò che è incompatibile con la morte non è vivere (la vita esige la morte), ma amare: l’amore disconosce la forza della morte, anche se amiamo consci della nostra mortalità e di quella di ciò che amiamo.” 5)

Un cuore colmo di amore è e resterà luce che si espande.

 

 

 

 

 

  1. Paolo Ricca, Dell'aldilà e dall'aldilà , Claudiana, Torino 2018, p.9.
  2. Ibidem
  3. A. Seneca, Lettere a Lucilio , VIII, 71.
  4. Kubler-Ross, La morte e la vita dopo la morte , Mediterranee, Roma 2013.
  5. Dizionario filosofico , F. Savater, Dizionario filosofico, Sagittari Laterza, Bari 1996, p. 155.

 

 

 

 

  • La  Dichiarazione delle Nazioni Unite sull'educazione e la formazione ai diritti umani afferma, all'Articolo 6.2, che  le arti devono essere incoraggiate quale strumento di formazione e crescita di consapevolezza nel campo dei diritti umani ”.

 

  • La qualità dell'esperienza dei visitatori deve essere al centro delle politiche culturali, fornendo strumenti e opportunità culturali a tutte le persone che presentano identità e differenze, attese, bisogni, curiosità, abilità varie e diverse . ( Manifesto della cultura accessibile a tutti )

Nel nostro paese, incontestabilmente il più straricco di tesori artistici, sta diventando sempre più difficile poter visitare chiese e musei per chi non gode di brillanti condizioni fisiche e di altrettanto brillanti condizioni economiche.

Ecco qualche esempio eloquente.

Duomo di Firenze: quando l'altare resta vuoto, le sedie previste per lo svolgimento delle funzioni religiose vengono rigorosamente recitate ed interdette all'uso da parte dei comuni visitatori.

Basilica di San Marco a Venezia: recinzioni ovunque, in modo da rendere impossibile potersi sedere anche negli angoli più reconditi.

Palazzo Ducale a Venezia: percorso lungo, con non pochi gradini, in ambienti con spazi immensi del tutto spogli di appositi arredi, oppure grandi panche lignee severamente proibite ai visitatori.

Da tener presente che, in siti artistici del genere, le cose più importanti da osservare (e magari anche da gustare) sono collocate in alto, cosa questa che, stando in posizione eretta, richiede l'assunzione di una postura inconsueta, che ai più risulta ardua ed anche piuttosto dolorosa.

Domanda:

perché non cercare di rendere un pochino più agevole e gradevole la visita a tutti e soprattutto alle persone non particolarmente atletiche?

I costi di visite museali sono diventati, poi, decisamente eccessivi e tutt'altro che attrattivi.

Palazzo Ducale di Venezia prevede un biglietto di 30 euro;

la Galleria degli Uffizi di Firenze, da marzo a tutto ottobre, ha portato il costo a 25 euro;

il Museo Archeologico di Napoli ha un costo di 22 euro.

Le agevolazioni per gli anziani sopravvivono encomiabilmente soltanto qua e là (vedi la Scuola Grande di San Rocco a Venezia), e sempre più numerose stanno diventando le chiese in cui si richiede un biglietto di ingresso. Il caso probabilmente più eclatante ed irritante è costituito dalla Basilica di San Marco: 3 euro per l'accesso, altri 5 per poter ammirare la Pala d'Oro, e altri 7 per accedere alla Loggia e relativo Museo! E qualcosa di simile si verifica con il Duomo di Milano, con varie opzioni, dal semplice ingresso in chiesa, al Museo e alle Terrazze (con o senza ascensore).

Forse sarebbe opportuno chiederci, allora, se siamo veramente disposti a credere in quanto tutti coloro che sono a capo di qualche istituzione - civile, religiosa, pubblica e privata - ci dicono con solennità e fervore:

  • che coltivare l'amore per il Bello può avvicinarci all'amore per il Vero e per il Buono;
  • che l'incontro con l'arte può rappresentare una salutare sorgente di benessere, una forma terapeutica di “refrigerio dell'anima”;
  • che una società esteticamente educata, resa consapevole dell'importanza di conservare e tutelare beni di interesse comune, sarebbe una società più civilmente responsabile e coesa;
  • che la diffusione della sensibilità artistica ha la capacità di orientare i comportamenti di tutti verso una maggiore consapevolezza delle proprie radici culturali e, di conseguenza, verso un maggiore senso di appartenenza identitaria;
  • che, soprattutto, come si legge nell'atto costitutivo dell'UNESCO, la diffusione della cultura (volta ad abbattere ignoranza e pregiudizi di ogni sorta) rappresenta non soltanto un doveroso riconoscimento della dignità umana, ma anche un'arma irrinunciabile per la costruzione di una pace reale e duratura.

Oppure, al di là delle tante magniloquenti e nobilitanti dichiarazioni, preferiamo rassegnarci, in maniera assai meno poetica, ad accettare che lo sterminato patrimonio artistico-culturale del nostro paese venga cinicamente gestito come una straordinaria “macchina per quattrini”, meritevole di essere resa sempre più produttiva, rivolta soltanto a coloro che hanno cartella clinica in ordine e portafoglio gonfio?

 

 

 

Che la Cultura dei Diritti Umani non godesse di ottima salute, nonostante le tante dichiarazioni d’amore provenienti dalle fonti più disparate, molti di noi lo supponevano e se ne preoccupavano da tempo. Numerosi erano i segnali inquietanti. Numerose le manifestazioni di fragilità della coscienza etico-civile generale. Dalle bombe Nato su Belgrado di fine millennio alla caccia al feroce talebano in terra afghana, dalle (inesistenti) armi di distruzione di massa irachene agli attuali isterismi russofobi, passando per una psicopandemia alimentata dall’inganno, dalla menzogna, dalla censura e dalla manipolazione dell’informazione, ci era giunto un messaggio inequivocabile:

per i governanti cosiddetti democratici e per buona parte delle popolazioni cosiddette civilizzate, i Diritti Umani sono cosa buona e giusta soltanto se la loro affermazione risulta essere più o meno conciliabile con le proprie esigenze e mai fonte di problematicità, di rinuncia e di scelte percepite come pericolose e dolorose. Una sorta, cioè, di buoni e nobili princìpi e propositi destinati ad essere rapidamente accantonati di fronte all’immigrato che invade prepotentemente i nostri spazi vitali, al “nemico” che ci appare contrastare il nostro strapotere, al non vaccinato che mette scelleratamente a repentaglio la salute dell’intera collettività (ammirevolmente obbediente e responsabile!).

In pratica, si potrebbe dire che, nei confronti dei Diritti Umani, è accaduto un po’ quello che si è verificato per secoli, all’interno delle Chiese cristiane, nei confronti del mite (ma scomodissimo) profeta nazareno: cori di Osanna e di domenicali benedizioni, ma solo e sempre a patto di ignorare-dimenticare tutto quanto sappia di scandalo, di disorientamento, di invito radicale a rivoluzionare il proprio modo di pensare e di essere.

La filosofia dei Diritti Umani non è facile da comprendere, e ancora più difficile da accogliere e coerentemente rispettare.

E per tanti motivi. Per uno, sopra a tutti gli altri:

 i Diritti Umani pretendono di essere Universali, ovvero di essere veri e validi per TUTTI, senza alcuna possibile forma di distinzione.

Ma perché, potremmo chiederci, dovrebbero valere per tutti, proprio per tutti?

Il Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 10 dicembre 1948 ci offre una risposta secca e pragmatica, ancorata alle tragiche vicende storiche del recente passato:

  • la loro negazione ha prodotto spaventose e infinite rovine;
  • le guerre sono la manifestazione estrema della negazione dei Diritti Umani, ovvero di una frantumazione della famiglia umana in gruppi che hanno più diritti (pane, benessere, sicurezza, libertà, ecc.) di altri;
  • la nostra epoca è l’epoca dell’aut aut e la scelta fra le due cose non è più rinviabile, né tantomeno eludibile;
  • per liberarci dal “flagello della guerra” è, pertanto, apoditticamente necessario trasformare il circolo vizioso di “negazione di Diritti Umani = Guerra”, in circolo virtuoso di “promozione-tutela dei Diritti Umani=Pace”.

 

Continuando a rifiutare questo ragionevolissimo invito, continueremo a sprofondare nelle letali sabbie mobili del chiacchiericcio politichese e della retorica ipocrita e meschina.

 

Scriveva, più di mezzo secolo fa, Aldo Capitini, lungimirante maestro di saggezza:

 

Bisogna muovere (…) da ogni essere a cui possiamo dire un tu, dargli un’infinita importanza, un suo posto, una sua considerazione, un suo rispetto ed affetto.

 Finora non si è mai fatta veramente questa apertura ad ogni essere, un singolo essere e un altro singolo essere, con l’animo di non interrompere mai.

Perché non si è avuta questa apertura precisa e infinita?

 Perchè si è trovato il modo di appoggiarsi a qualche cosa dicendo che era più importante:

 i religiosi a Dio, i filosofi all’Idea universale, i politici allo Stato o alla Rivoluzione;

trascurando gli esseri,

anzi distruggendone alcuni senza rimorso.”*

 

Insomma, dovremmo sentirci tutti di fronte ad un bivio, chiamati, uno per uno,  a scegliere da che parte stare:

 

o entrare finalmente nella dimensione dell’affratellamento egualitario e solidale, abbandonando qualsiasi politica caratterizzata dai privilegi, dalle gerarchie, dalle esclusioni e dalle discriminazioni di ogni tipo,

oppure rassegnarsi ad un futuro all’insegna della paura, sottoposto alla tirannia dell’odio e all’incubo della violenza.

 

-----------

*Aldo Capitini, Il Potere di Tutti, Guerra Edizioni, Firenze 1969.

 

 

 

 

 

 

 

 

In vista di una efficace Educazione ai Diritti Umani,  l’insegnamento della Storia, in ambito scolastico  e ben lontano dalla retorica tracimante dagli ingranaggi mediatici e politici, è certamente in grado di offrire un contributo straordinariamente prezioso.

Dovrebbe trattarsi, però, di un insegnamento liberato, oltre che da letture ideologicamente viziate, da tutti quegli infecondi nozionismi e schematismi imparaticci che, troppo spesso, fanno apparire la Storia (come un po’ tutte le discipline) noiosa e priva di rapporti col mondo della realtà in cui i nostri giovani sono chiamati a vivere.

Insegnare Storia in maniera rigorosamente ragionata, nell’ottica della ricerca aperta e della analisi critica, può, infatti, svolgere una funzione importante non solo sotto il profilo strettamente culturale, ma anche e soprattutto nella prospettiva di una democratica formazione delle coscienze giovanili.

Ciò perché:

  1. abitua al rifiuto sistematico di qualsiasi asserzione basata sul cosiddetto “principio di autorità”;

  2. stimola un atteggiamento autonomo, anzi, impone l’uso indipendente della riflessione;                                                                                                                                                                                                                     
  3. abitua altresì alla relativizzazione, comunicando una spiccata repulsione nei confronti delle generalizzazioni facili ed affrettate, delle classificazioni semplicistiche, delle formulazioni rigide, delle definizioni sterotipate. Ciò in quanto qualsiasi fenomeno storico può essere inteso secondo una pluralità di luci prospettiche, può essere letto con una molteplicità di approcci interpretativi, può essere caricato di infiniti significati.

La comprensione di tutto questo non potrebbe che favorire la formazione di una mentalità allergica ai rigidismi aprioristici e agli assolutismi concettuali.

Insegnando Storia, una delle prime cose che sarebbe opportuno mettere bene in evidenza è il principio pirandelliano secondo il quale i fatti storici sarebbero sempre e soltanto come “sacchi vuoti”, incapaci di reggersi da soli, ovvero senza il significato che solo l’interprete può assegnare loro.

Ciò dovrebbe condurre a sgombrare la mente dal pregiudizio positivistico (ancora molto diffuso) che potremmo definire come “mito dell’oggettività dei fatti” (vedi, a tal proposito, le Sei lezioni sulla storia E. Carr, nonché gli studi storiografici di Huizinga, Marrou e Bloch), optando per un’ottica di stampo soggettivistico. Il che non significherebbe teorizzare l’equipollenza delle chiavi di lettura, bensì l’affermazione della consapevolezza dell’impossibilità di approdare ad una unicità di visione e ad una definitività interpretativa.

Da questo dovrebbe scaturire un atteggiamento di tipo costruttivamente socratico nei confronti della realtà:

nessuno può pretendere, infatti, di possedere le chiavi “giuste”, né di fornire l’unica risposta possibile ai vari interrogativi.

L’adozione di un certo metodo, dunque, non può essere ritenuta fatto secondario né tantomeno neutrale.

Tutto questo comporta che, al di là delle tematiche proposte e degli obiettivi prefissati, sarà il metodo adottato a fare la sostanza centrale dell’intera attività educativa.

 Tanto più, cioè, saremo in grado di trasmettere ai nostri ragazzi una metodologia d’indagine autenticamente scientifica, tanto più potremo sperare che in loro riuscirà ad affermarsi e a rafforzarsi una mente vigile, disinibita, solidamente logica, amante della coerenza argomentativa e nel contempo rispettosa delle tesi altrui.

In definitiva, la mia proposta metodologica mira a coniugare, potremmo dire, istanze socratiche con elementi di provenienza cartesiana ed anche nietzscheana, trovando coronamento nelle teorie sulla democrazia e sulla scienza di John Dewey e nei risultati più avanzati delle ricerche contemporanee in campo di ermeneutica e di epistemologia, senza ignorare le cose migliori dello storicismo tedesco e di quello crociano.

In altri termini, andrebbero applicati i seguenti criteri:

  1. partire dalla consapevolezza del proprio “non sapere”, mettendo fra parentesi tutto ciò che crediamo di sapere, interrogandoci costantemente sulla fondatezza delle nostre opinioni, facendo diventare il motto del Montaigne (“Que sais-je?”) nostra regola primaria nella ricerca;
  2. adottare pertanto l’atteggiamento cartesiano della cautela, della circospezione sia nell’accogliere, sia nel rifiutare, e procedendo con massima attenzione come l’uomo del Discorso sul metodo, che avanza nel buio;
  3. diffidare di ogni risultato raggiunto, non dimenticando mai l’impossibilità nostra di liberarci dai soggettivi parametri interpretativi, rivolgendo dunque il “sospetto” sia all’esterno che all’interno, e ricordandoci sempre dei fattori inconsci che plasmano i nostri giudizi in maniera preconcetta, secondo linee egocentriche, etnocentriche, antropocentriche, ecc.;
  4. impostare ogni discorso nell’ottica propria della ricerca scientifica, obbligandoci ad una inesausta verifica dei risultati conseguiti e ad un continuo, sereno ed anti-dogmatico confronto con i risultati altrui;
  5. intendere il fare storia nella prospettiva di una discussione perennemente aperta, rifiutando ogni chiusura ideologica e contestualizzando e relativizzando ogni valutazione, nella consapevolezza della ineludibile rivedibilità delle nostre tesi.

Concludendo, è mia convinzione che ogni discorso sul che cosa insegnare debba essere preceduto da un opportuno dibattito di carattere metodologico, e che è soprattutto con l’adozione di un metodo critico-problematico che ci sarà possibile strappare l’insegnamento della Storia alle nebbie della retorica e alle paludi del mnemonicismo, promuovendo nei giovani:

 il gusto per il libero impiego del pensiero;

 l’autonomia di ricerca;

una visione serenamente e rispettosamente pluralistica e progressiva del sapere;

l’esigenza di strutturare il proprio giudizio in modo fortemente argomentato;

il desiderio di combattere tutte le pseudo-verità alimentate dal pregiudizio, dalla superficialità, dal dogmatismo, da un uso conformista ed ingenuo della ragione.

Cercare di comunicare tutto questo ai giovani, in un’epoca come la nostra, in cui tecniche e strategie sempre più raffinate ed evolute consentono ai grandi poteri di penetrare nelle nostre coscienze, manipolandole ed asservendole in vista dei loro fini, è quanto mai urgente e necessario.

 Soltanto così, al di là delle tante dichiarazioni di nobili principi e delle altisonanti celebrazioni delle oramai innumerevoli (quanto stucchevoli) “Giornate” commemorative, sarà possibile educare davvero ai Diritti Umani, formando cittadini del mondo mentalmente liberi, buoni e sinceri amici e difensori di una teoria della vita e di una relativa prassi di natura pluralistico-democratica, capaci di dire il proprio NO a tutti i tentativi del potere di appropriarsi del nostro pensiero, del nostro corpo, della nostra volontà.

Nulla vi è di più imperdonabile e di pi vile della violenza dell’uomo sulla donna, imporre la propria volontà attraverso la forza fisica .  Se l’umanità fosse stata ad appannaggio del genere femminile le sorti dell’umanità sarebbero state sicuramente migliori. La competizione fisica, lo scontro armato, l’impulso prevaricatore e dominatore non è nella natura della donna ma dell’uomo.  Non vi è parte del mondo in cui la donna non sia vergognosamente relegata ad un ruolo secondario (eccetto paesi culturalmente più evoluti). L’essere femminile non il maschile è il fulcro di quella parte umana portatrice di sentimento, di gentilezza, di amore e custodia della vita. Da secoli la donna fatica ad acquisire  il riconoscimento del suo determinante ed imprescindibile ruolo nella vita sociale. Nei millenni è stata sfruttata, schiavizzata, strumentalizzata, calpestata nella sua dignità e nei suoi diritti, vergognosamente relegata a strumento riproduttivo: le è stato impedito di emergere nei settori importanti della vita sociale. Se la donna avesse avuto l’opportunità degli uomini li avrebbe superati in tutto lo scibile umano. La donna è l’ultima opera di Dio, la ciliegina sulla torta, il capolavoro della creazione.

 

Fulvio Di Blasi, avvocato e filosofo, autore di un'opera pregevole ( Vaccino come atto d'amore? , Phronesis Editore) di cui abbiamo già avuto modo di parlare * , ha compiuto un'operazione davvero molto interessante. Si è infatti cimentato nell'analisi della posizione provaccinale espressa dal papa non secondo le coordinate culturali di un libero pensatore o di un agguerrito novax, bensì secondo la prospettiva di un ferratissimo moralista cristiano che ben conosce e ben utilizza i paradigmi etici della teologia cattolica.

 Partendo dal presupposto che, in ambito etico, per la morale cristiana (come, d'altronde, già per quella classica) è la coscienza ad occupare un ruolo centrale, in quanto “ fondamento della responsabilità della persona umana e dei suoi diritti di libertà ” (p. 44), Di Blasi ritiene che dovere primario dell'istituzione ecclesiastica dovrebbe essere quello di aiutare la formazione della coscienza, rifuggendo dall'adozione di qualsivoglia metodo impositivo.

Rispetto alla coscienza morale, - infatti - il dovere è di aiutare gli altri ad assumere tutte le informazioni necessarie a compiere la scelta etica migliore, inclusi, nel caso dei vaccini anti Covid, le valutazioni rischi benefici rispetto all'età o alla propria famiglia e le anamnesi individuali.

Dire alla coscienza dubbiosa del singolo di vaccinarsi “e basta” è profondamente sbagliato e ingiusto già per il senso comune prima ancora che per la dottrina secolare sulla coscienza morale. ” (pag. 46)

E parlare di formazione della coscienza morale dovrebbe significare, innanzitutto, coraggiosa “ esposizione alla verità riguardo la questione su cui essa dovrà decidere ”.

Sarà perciò auspicabile, ai fini della scelta etica migliore, favorire l'acquisizione del maggior numero possibile di “ informazioni corrette ”, mentre risulterà moralmente sbagliato tentare di convincere qualcuno dandogli certezze che non ci sono ”. (pag. 46)

 E sarà “ fortemente immorale ” nasconde informazioni importanti o cercare di manipolare le informazioni disponibili al fine di indurre le persone ad agire in un determinato modo.

Cosa è accaduto, invece, con il videomessaggio del 18 agosto 2021, in cui Papa Francesco ha esaltato la scelta del vaccinarsi come “ atto d'amore ”?

 E' accaduto che questa affermazione è stata euforicamente accolta dal sistema mediatico imperante e fatta rimbalzare in ogni angolo del pianeta.

 E' accaduto, soprattutto, che le istituzioni governative impegnate nelle asfissianti campagne vaccinali hanno trovato nelle parole papali l' “ arma perfetta contro i no vax”.

E' accaduto che questa minoranza si trovasse “ immediatamente sotto un assedio ormai benedetto dal Papa (…) insultata e perseguitata come non mai mai ” (p. 38).

I presunti no-vax (…) sono stati definiti egoisti, immorali, imbecilli, ignoranti, sorci da rinchiudere nelle loro tane, nemici della società, terroristi, persone da stanare ea cui rifiutare le cure e l'assistenza del sistema sanitario nazionale, e ancora, da tassare, licenziare, ostracizzare e di cui perfino auspicare una morte dolorosa e umiliante, liberatoria per la società e per chi, con il  vaccino , ha compiuto il suo atto di amore .

Per questi soggetti perseguitati, umiliati e offesi non c'è stata nessuna parola di conforto da parte della chiesa, che semmai ha unto e consacrato i persecutori grazie all'innalzamento di quella opinione personale del Pontefice a verità etica universale.

 Perfino molte diocesi e parrocchie hanno avviato politiche di discriminazione e umiliazione contro questi “criminali” (privi oltretutto di giusto processo) limitandone la partecipazione alle attività ecclesiastiche e perfino alle celebrazioni liturgiche .” (pag. 39)

Ma il secondo errore del papa (forse più grande ancora del primo) è stato, di fronte a tanta confusione ea tanto odio sociale venutisi a creare in seguito alle sue parole, quello di non essere prontamente intervenuto a favore degli oppressi, chiarendo, dall' alto del proprio magistero, cosa si dovrebbe correttamente intendere per “ vero amore ”.

E, con immensa amarezza, si domanda il filosofo cattolico Di Blasi,

Cristo non sta con chi è perseguitato e oppresso?

 L'etica cristiana non sta nel ragionamento onesto delle persone di coscienza? "

                                                         

 

*https://www.flipnews.org/index.php/life-styles-2/technology-5/item/3267-vaccino-come-atto-d-amore-epistemologia-della-scelta-etica-in-tempi -di-pandemia.html

 

 

 

Fulvio Di Blasi

VACCINO COME ATTO D'AMORE?

Epistemologia della scelta etica in tempi di pandemia.

FRONESI EDITORE - PALERMO

This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

 

 

Riflettere sui Diritti Umani nel momento storico presente, cercando di intravedere, anche, quale potrà essere il loro futuro, è davvero impresa oltremodo difficile.

 Anche prima lo era, certamente. I Diritti Umani non hanno mai goduto di buona salute, sono stati, bensì, sempre sotto attacco da parte dei potenti di questo mondo.

Perché sono nati per limitare il loro strapotere, per imporre, cioè, degli argini al loro arbitrio (a lungo incondizionato), per tutelare l’individuo nel suo essere persona, con la sua intrinseca e inalienabile dignità,  e non ridotto o riducibile a mero ingranaggio di un qualche sistema, destinato esclusivamente all’obbedienza silenziosa.

Ma, in questi ultimi anni, i Diritti Umani, in nome di varie emergenze, più o meno reali e in larga misura abilmente manipolate (come terrorismo internazionale, fenomeno migratorio, situazioni di dichiarata pandemia, crisi internazionali, crisi energetiche), si è arrivati a fare di essi vere e proprie vittime sacrificali da immolare sull’altare del cosiddetto interesse comune, della cosiddetta salute pubblica, della cosiddetta sicurezza collettiva.

Come se essi, invece di rappresentare la vera chiave per la risoluzione dei problemi della nostra vita in comune, fossero soltanto una sorta di “lusso” che le nostre società possono permettersi solo quando il tempo è sereno e senza nuvole all’orizzonte.

Ma che gli antichi e nuovi nemici dei Diritti Umani si sarebbero ulteriormente rafforzati, affinando oltre ogni immaginazione le loro tecniche, i loro strumenti e le loro strategie, era facilmente prevedibile e non dovrebbe neppure produrre in noi troppo sconcerto. Più cresce e matura la cultura dei Diritti Umani, infatti, più sono e saranno inevitabilmente feroci e disperati i tentativi dei  suoi nemici di attaccarla, inquinandola, indebolendola, snaturandola, o, addirittura, asservendola e strumentalizzandola.

Meno prevedibile e infinitamente più amareggiante e doloroso è stato, invece, l’essersi ritrovati costretti a constatare, accanto  alla forza dei nemici, la scoraggiante debolezza di molti degli “amici” dei Diritti Umani. O, almeno, di coloro che ritenevamo possibile considerare tali.

Di fronte agli attacchi, agli svilimenti, ai tradimenti che si sono succeduti senza sosta in questi primi anni del terzo millennio (e, in particolar modo, in questi ultimi due), il variegato mondo dei partiti sedicenti liberali e democratici, le forze culturali sedicenti progressiste, le chiese piccole e grandi sedicenti misericordiose, le organizzazioni sedicenti caritatevoli, le associazioni sedicenti umanitarie, i sindacati sedicenti difensori del popolo, i mass media sedicenti indipendenti, ecc., hanno via via messo in luce una sterminata serie di fragilità, contraddizioni, incertezze, ritardi, pavidità, quando non addirittura di connivenze (sotterranee o lampanti) con i soggetti responsabili ed artefici di detti attacchi.

Ma, ancora più doloroso e scoraggiante è  l’essere stati inchiodati ad assistere allo scenario impregnato di superficialità, passività, meschinità, codardia e, soprattutto, di indifferenza relativo al comportamento di larga parte dei singoli membri della grande Famiglia umana, che i Diritti Umani dovrebbero, invece, ben conoscere, immensamente amare e incondizionatamente voler e dover difendere.

Scriveva il Premio Nobel per la Pace Elie Wiesel che

essere indifferenti alla sofferenza è ciò che spoglia un essere umano della sua umanità.”

E che essa, a ben guardare, risulta peggiore dell’odio e della rabbia, perché, almeno in alcuni casi, da tali sentimenti potrebbe anche scaturire qualcosa di buono, come l’energia per ribellarsi, per contrastare l’ingiustizia. Mentre l’indifferenza non risulta mai creativa, in quanto non rappresenta mai l’inizio di un qualcosa, ma soltanto una gelida e paralizzante “fine”.

Fine di ogni speranza, fine di ogni possibilità di indignazione, di denuncia, di reazione costruttiva.

E perciò - continua Wiesel - l’indifferenza è sempre amica del nemico, perché giova all’aggressore, mai alla sua vittima che soffre ancora di più quando sente di essere dimenticata. Il prigioniero politico nella sua cella, i bambini affamati, i rifugiati senza dimora: non rispondere alla loro sofferenza, non alleviare la loro solitudine dando loro un piccolo frammento di speranza significa esiliarli dalla memoria dell’uomo. Negando la loro umanità tradiamo e inganniamo la nostra.

L’impegno per affermare e per difendere la cultura dei Diritti Umani, per  far valere la dignità della persona umana, in ogni luogo e in ogni circostanza, anche la più insolita, la più imprevista, la più allarmantemente emergenziale è una vera e propria fatica di Sisifo, un’opera da compiere ogni giorno, sempre pronti e sempre disposti a ricominciare generosamente anche daccapo.

Su questa strada, su chi potremo contare?

Temo che non potremo certo troppo sperare, oltre che nelle istituzioni governative e nei grossi apparati economici e religiosi, anche in quei grandi soggetti nati all’interno della società civile al fine di esercitare atti di solidarietà vicaria.

 Potremo avere dalla nostra parte, credo, soltanto l’immenso tesoro degli insegnamenti e degli esempi di vita dei  grandi, antichi e moderni, Maestri e Messaggeri di Pace e di Nonviolenza, unitamente all’immensa forza morale sprigionata da tutti i dissidenti, gli oppositori e i resistenti che hanno lottato e che continuano a lottare contro ogni forma di oppressione, violenza ed ingiustizia.

Potremo contare, soprattutto, sulle coscienze risvegliate di tutti noi, desiderose di non arrendersi, intenzionate a non lasciarsi fagocitare dall’indifferenza, a non lasciarsi ricattare dal timore, a non subire la logica aberrante della contrapposizione faziosa fondata sul non-ascolto e sul rifiuto demonizzante dell’altro.

Decise a combattere ogni forma di dogmatismo, di intolleranza, di discriminazione e di esclusione; decise a non rinunciare  ai valori della Fratellanza universale, della solidarietà e della compassione nei confronti di tutti coloro, vicini e lontani nel mondo, a cui i diritti umani vengono arbitrariamente sottratti, feriti, negati.

Altro non vedo.

E probabilmente è troppo poco.

Ma forse, in un giorno non lontanissimo, ci potremo accorgere, mi auguro con soddisfazione e con gioia, non con rimpianti e rimorsi, che era, che è, che sarà immensamente, straordinariamente, meravigliosamente TANTO!

 

 

 

 

Premio Italia Diritti Umani 2022 ®

Dedicata alla memoria dell'ex vicepresidente della Free Lance International Press Antonio Russo.
via Ulisse Aldovrandi 16 c/o Unar - ROMA

ROMA 15 Ottobre 2022
Il Premio Italia Diritti Umani nasce dall'esigenza da parte delle associazioni coinvolte di voler osare un giusto riconoscimento a coloro che, per la loro attività, sono distinti nel campo dei diritti umani . In un mondo in cui il profitto sembra essere lo scopo ultimo di ogni intento, bisogna premiare chi lotta veramente, sacrificando spesso gran parte (o del tutto) la propria esistenza per aiutare il prossimo. I Mass Media spesso non prestano la dovuta attenzione al tema dei diritti umani, se non in maniera superficiale.

È giunto quindi il momento, non solo di dare un giusto riconoscimento a chi lotta per la difesa dei più deboli, ma anche di parlare su come possono essere tutelati meglio questi diritti che, anche in paesi come l'Italia oltre che all'estero, sono sistematicamente violati, soprattutto nei confronti dei più deboli.

In collaborazione con
 

       

 

 

 

Ore 16.10 Saluti di Virgilio Violo, Presidente della Flip - Coordina: Neria De Giovanni
– giornalista, Presidente dell'Associazione Internazionale Critici Lettererari

video

 

Interventi

 


ore 16.20 Massimo Tomaselli – coord. risp. della Coop. “Il Futuro Quadrifoglio”
L'assistenza domiciliare integrata nel trattamento delle dipendenze patologiche

video

 


ore 16.30 Antonio Cilli: fondatore di Cittanet .
Pensare la rete e gli altri beni collettivi globalmente

video


ore 16.40 Tiberio Graziani - Presidente di Vision & Global Trends
Diritti umani e geopolitica

 

video


ore 16.50   Patrizia Sterpetti –Wilpf Italia
"L'impegno comune per i diritti umani"

video


ore 17.00 Roberto Fantini – Responsabile diritti umani Flip
Quale futuro per i diritti umani?

video

 

Buffet ore 17.10

Si ringraziano le aziende vinicole:

Tenuta Scuotto
Tenuta del Meriggio  
Rosso Vermiglio
Il Sassolo
I Favati
Codice Citra
Cataldi Madonna  
Cantine Tora per il contributo alla riuscita del premio

 

Ore 17,30 -
 L'associazione “Artisti Civili” presenta:

Ferdinando Maddaloni in Social vs Asocial  

di Ferdinando Maddaloni (estratto)

La tragicomica storia di Gualtiero, social media manager in profonda crisi esistenziale, e Sirena, la sua amante “virtualis” con finale rigorosamente a sorpresa, anche per l'autore

 

Coordinatrice l'attrice Fabiola Di Gianfilippo .

video

Consegnano i premi e leggono le motivazioni gli attori: Antonella Civale, Vincenzo Vivenzo e il regista Eitan Pitigliani 

 

Conferimento del “PREMIO ITALIA DIRITTI UMANI 2022”

 

un  ALDO MORRONE

 

video

a  DAVITE TUTINO

video

a LUCA SCANTAMBURLO

video

 


Dona opere dalla Galleria d'Arte Sempione di Roma degli artisti: Stefania Pinci, Alessandro Trani, Federica Fedele.

video

 

da sin. Davide Tutino, Luca Scantamburlo, Aldo Morrone

Quando cultura e coerenza si incontrano, seppur operanti su binari paralleli e distanti tra loro e l’iniziale perplessità dei presenti alla fine si trasforma in un messaggio positivo, assistiamo ad uno dei rari esempi di comunicazione vera, a beneficio della Comunità.

Questo è ciò che è riuscito a fare il Presidente di Flip news, Virgilio Violo, in piena linea con lo spirito libero della sua Associazione di stampa, in occasione del conferimento del “Premio Italia Diritti umani 2022”.

Una manifestazione in sordina, che ormai si ripete da anni, intitolata al defunto Vice Presidente della Free Lance Antonio Russo, tragicamente scomparso, nell’esercizio del suo dovere di informazione.

L’incontro è stato caratterizzato dagli interventi dei relatori Massimo Tomaselli – coord. Resp. della Coop. “Il Futuro Quadrifoglio” L’assistenza domiciiare integrata nel trattamento delle dipendenze patologiche, Antonio Cilli: Cittanet founder “Pensare la rete e gli altri beni collettivi glocalmente”, Tiberio Graziani - Presidente di Vision & Global Trends.

“Diritti umani e geopolitica”, Patrizia Sterpetti –Wilpf Italia

"L'impegno comune per i diritti umani" , Roberto Fantini – Responsabile diritti umani Flip

“Quale futuro per i diritti umani?” e la straordinaria anteprima dell’attore e autore teatrale Ferdinando Maddaloni in “Social vs Asocial”.

Il tutto splendidamente coordinato dalla Dott.ssa  Neria De Giovanni – giornalista, Presidente dell’Associazione Internazionale Critici Letterari , con la collaborazione degli attori Fabiola Di Gianfilippo. Antonella Civale, Vincenzo Vivenzo e il regista Eitan Pitigliani, per la lettura delle motivazioni e la consegna dei premi.

Ma ciò che ha fortemente colpito i presenti è stato l’incontro tra due dei premiati (ritratti in foto in un cordiale abbraccio)  : il  Prof. Aldo Morrone , noto Specialista in malattie veneree e dermatologiche , Direttore Generale dei più importanti nosocomi della Capitale, membro di diverse organizzazioni internazionali, autore di più di 500 pubblicazioni ed il Prof. Davide Tutino, già docente di Storia e filosofia, resosi famoso per aver iniziato uno sciopero della fame a favore del diritto di non vaccinarsi contro il Sars-Covid 19.

Un esempio di cultura e di silenzioso scambio di opinioni , dal qual dovrebbe prendere spunto soprattutto chi ci governa, che molto ci fa riflettere su come e quanto la “verità stia sempre nel mezzo “, come l’una non escluda l’altra, certi che alla fine , tanto il Prof. Morrone quanto il Prof. Tutino, si saranno trovati d’accordo sui loro rispettivi intenti, il primo basato principalmente sulle emergenze di popolazioni bisognose, l’altro sulla coerenza e la necessità di esercitare un proprio diritto, in seno alla libertà di pensiero.
Complimenti al Presidente Virgilio Violo ed a tutto il suo Staff per il costruttivo evento.

 

 

  • Con un decreto d’urgenza (firmato il 6 luglio scorso), la giudice della seconda sezione del Tribunale civile di Firenze, Susanna Zanda, ha temporaneamente sospeso il provvedimento dell’Ordine degli Psicologi della Toscana che impediva ad una dottoressa di Pistoia di esercitare la propria attività professionale, in quanto non vaccinata.

    Si tratta, senza alcun dubbio, di una sentenza di enorme importanza non soltanto per la sorte della diretta interessata, ma anche e soprattutto perché ha il merito di riuscire a fare chiarezza, con logica rigorosa e inequivocabile, su alcuni aspetti iniqui, liberticidi e anticostituzionali che hanno caratterizzato i provvedimenti governativi assunti nell’ambito delle martellanti campagne vaccinali condotte nel nostro Paese.

     

    Questi i punti centrali delle motivazioni della sentenza:

     

    La Costituzione Italiana, in quanto “personocentrica”, dopo la tragica esperienza rappresentata dal nazifascismo, “non consente di sacrificare il singolo individuo per un interesse collettivo vero o supposto e tantomeno consente di sottoporlo a sperimentazioni mediche invasive della persona, senza il suo consenso libero e informato”.

    Non è possibile ipotizzare un simile consenso se, come nel caso in questione, “i componenti dei sieri e il meccanismo del loro funzionamento” si trovano coperti “non solo da segreto industriale ma anche, incomprensibilmente, da segreto “militare”. ”

    Mentre, dopo due anni, non è ancora possibile conoscere la reale natura dei sieri, né quali potranno risultare essere gli effetti a medio e a lungo termine (“come scritto dalle stesse case produttrici”), è invece accertato che “nel breve termine hanno già causato migliaia di decessi ed eventi avversi gravi”.

    L’articolo 32 della nostra Costituzione, come anche “le varie convenzioni sottoscritte dall’Italia vietano l’imposizione di trattamenti sanitari senza il consenso dell’interessato perché ne verrebbe lesa la sua DIGNITA’”.

    L’obbligo vaccinale imposto per poter continuare a lavorare viola gli articoli 4, 32 e 36 della Costituzione, i quali pongono al centro la persona, con l’obiettivo di difenderla “prima di tutto dallo Stato”.

    I “trattati internazionali vietano senza alcun dubbio qualunque trattamento sperimentale sugli esseri umani”.

    Regolamenti “come il n. 953/21 e risoluzioni UE come la n. 2361/21 (…) vietano agli stati membri di attuare discriminazioni in base allo stato vaccinale Sars Cov 2”.

    Le “autorità sanitarie della Regione Toscana e il Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Toscana non possono non essere al corrente del dilagare dei contagi nonostante l’80/90 % della popolazione sia vaccinata contro Sars Cov 2 e sono anche al corrente o dovrebbero esserlo, del dilagare del contagio tra i vaccinati con tre dosi, degli eventi avversi anche gravi e mortali di soggetti vaccinati” (“dati pubblicati dallo stesso Ministero della Salute”).

    Sotto “un profilo epidemiologico la condizione del soggetto vaccinato non è dissimile da quello non vaccinato perché entrambi possono infettarsi, sviluppare la malattia e trasmettere il contagio” (come documentato dagli stessi report dell’AIFA).

    Il provvedimento dell’Ordine degli psicologi della Toscana costituisce, quindi, una “innegabile discriminazione” ai danni della dottoressa colpita, “rispetto ai colleghi vaccinati che possono continuare a lavorare pur avendo le stesse possibilità di infettarsi e di trasmettere il virus”.

     

 

© 2022 FlipNews All Rights Reserved