
L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
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Massimo Tomaselli |
Il Potere trasformativo dell’individuo, inteso come processo di miglioramento che restituisca dignità, non è soltanto un ideale ma una opportunità per chi nel “tunnel” della propria esistenza, si è ritrovato a fare i conti con il minimo delle possibilità, risorse, energie…
Troppo spesso i ragazzi provenienti da famiglie sbagliate e multi-problematiche, si sono trovati soli e condizionati da contesti di disperazione, miseria, non solo materiale ma anche e più spesso culturale.
La cooperativa "Il Futuro Quadrifoglio” offre loro una seconda opportunità, quella di Ri-pensare, Ri-progettare una strada percorribile nella realizzazione personale, che fino ad ora era stata negata…
L’Istat ha stimato che sono 6,2 milioni gli utilizzatori di cannabis, un milione quelli che usano cocaina, 285mila gli eroinomanie 590mila i drogati ‘chimici’ di ecstasy, Lsd, amfetamine. Da 27.718 del 2015 arriviamo ai 38.613 del 2017, +39%, e la tendenza è ancora in aumento. Nei dati rilevati, troviamo che il numero delle vittime nell’uso di droga, fra gli adulti è raddoppiato, fra i minori è quasi quadruplicato. Dal 2016 sono aumentati i decessicorrelati alla droga, soprattutto correlati al consumo di eroina. Il primo contatto con le sostanze per 1 ragazzo su 2 è avvenuto entro i 14 anni.
A fronte di queste evidenze statistiche, troviamo in controtendenza la realtà della Cooperativa Sociale “il Futuro Quadrifoglio” che si trova vicino Roma in una tenuta affacciata sul mare ad Ardea. Arriviamo presso il Centro e la prima impressione che ne riceviamo è quella di totale armonia e bellezza. Mi viene spiegato in seguito, quanto importante sia anche l’attenzione agli ambienti che ospitano queste persone, che siano in armonia con la bellezza e la natura, è un requisito terapeutico. Entriamo ed è infatti una inaspettata esplosione di verde, di alberi e siepi, tutte ben curate.
La Cooperativa nasce con lo scopo di fornire un servizio di assistenza socio-sanitario a soggetti affetti da disagi psicosociali, dipendenze di vario tipo in regime di pena detentiva alternativa e detenuti tossicodipendenti. Il lavoro che si svolge qui, consente di poter mettere mano nuovamente ad un proprio Progetto Personale, ad una nuova consapevole opportunità di vita.
Accogliendo e prendendo in carico il background di ciascuno, si aiuta l’utente a individuare le proprie capacità mediante il sostegno e lo sviluppo del proprio potenziale, specifico quanto unico.
L'equipe da noi incontrata è di tipo multidisciplinare, costituita da psicologi, educatori, assistenti sociali e operatori sanitari che, con la loro professionalità, sono in grado di garantire ai richiedenti il supporto necessario per il pieno raggiungimento degli obiettivi prefissati.
I fautori di questa iniziativa Massimo Tomaselli e Giada Pacifici, psicologa, ci anticipano che lavorano anche con il prezioso supporto di un’equipe multidisciplinare e degli
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Giada Pacifici |
operatori di settore. Spendono la loro vita per aiutare i più deboli e il riscontro positivo dell’iniziativa li ripaga del loro impegno umano e professionale.
Massimo ci dice inoltre che il Progetto, è stato valutato e misurato ed il positivo riscontro nel conseguimento dei risultati, va da un minimo di 60% fino ad arrivare in alcuni casi anche ad un recupero totale.
Dottoressa Pacifici, quali sono le problematiche di dipendenza che si trova ad affrontare nel suo lavoro?
La dipendenza è la parte su cui lavorare perché la dipendenza parte dal presupposto che la sostanza che prima veniva assunta dal tossicodipendente, venga in qualche modo sostituita. Spesso la sostanza stessa viene assunta per coprire il vuoto di un legame affettivo di tipo problematico. Il modello educazionale acquisito dalla famiglia di origine viene inoltre di solito reiterato, creando così ulteriori problematiche anche ai figli. Pertanto, il supporto psicologico è finalizzato all'ascolto dei bisogni dell'utente, allo sviluppo della responsabilità individuale e alla maturazione psico-emotiva mediante l'individuazione di modalità affettive, emotive e relazionali più adeguate.
È previsto uno specifico programma?
Certamente Si, siamo organizzati con un programma di "dimissione protetta" ovvero un trattamento educativo-riabilitativo, specifico e individualizzato, con la partecipazione ad attività strutturate attraverso le quali, progressivamente, migliorare la qualità della vita dell'utente in carico, potenziandone le abilità presenti e favorendo lo sviluppo di competenze sociali, culturali e lavorative.
Vi sono anche attività ludico-ricreative che possono aiutare in questo percorso?
Si, fra le attività strutturate, sono previsti dei laboratori di tipo espressivo-creativo che lavorano potenziando la capacità espressiva e specifica della persona, in un contesto di crescita educativa, che favorisca il desiderio ed il bisogno di esprimere sé stessi, dando così libero spazio al proprio mondo interiore, alle proprie emozioni ed ai propri pensieri.
Insieme agli educatori, sono state condivise attività di pittura creativa, di realizzazione di oggetti vari sia in legno che ornamentali. Stiamo riservando ancora ulteriori nuovi spazi all’interno del Centro, dedicati ad iniziative comunitarie e di socialità, una per tutte… ad esempio cucinare insieme, collaborare pertanto per un fine comune di tipo creativo e conviviale.
Massimo Tomaselli, quando e come nasce questo progetto? Cosa ci racconta in merito?
È un Progetto questo che ha tantissimi anni, è stato a lungo pensato e desiderato e finalmente si ha successo. Non è la solita comunità, qui lavoriamo anche con il contesto specifico di vita del detenuto, con la sua famiglia. L’utente qui ha la possibilità di ridefinire il proprio futuro, un’altra opportunità, una seconda chance di vita. Abbiamo un recupero delle tossicodipendenze che si attesta attualmente su una percentuale che va dal 60% fino al 100% in alcuni casi, ci dice con orgoglio Massimo che poi prosegue” amo definire il nostro Centro “il Futuro Quadrifoglio” quasi una struttura a “carcere aperto”, considerando che vi alloggiano soprattutto detenuti nel loro personale quanto delicato lavoro di recupero e piuttosto che isolare, punire, emarginare il soggetto, come avviene nelle carceri, si lavora in controtendenza, ovvero si creano nuove connessioni, Reti di significato, connessioni con i loro contesti, gli affetti, le aspirazioni di vita. Si pone cioè il soggetto di nuovo al centro della propria esistenza.”
Massimo ci parla poi delle specifiche problematiche all’interno del contesto familiare d’origine, c’è infatti nel più dei casi una vera e propria disconnessione tra i componenti familiari ed forte sfilacciamento del loro tessuto sociale. Un altro problema sono le evidenti difficoltà che presentano i figli dei detenuti all’interno del contesto scolastico di riferimento… Gli interventi dell’equipe specialistica del “il Futuro Quadrifoglio” sono quindi anche di mediazione tra tutti i soggetti coinvolti.
Sono inoltre importanti, e ben definite, le regole e le strutture di contenimento e sviluppo del proprio Sé, che probabilmente non si sono mai ricevute nell’infanzia all’interno delle famiglie di provenienza, di tipo multi-problematico. È infatti, fondamentale, imparare un Nuovo Modo di essere sé stessi insieme agli altri. Ecco quindi che si ritrova la capacità di condividere, di imparare un linguaggio che sia anche rispettoso e congruo all’ambiente in cui si vive.
Massimo Tomaselli, parliamo nello specifico dell’organizzazione e degli interventi messi in atto.
Abbiamo previsto delle abitazioni residenziali di pronta accoglienza per detenuti concepite in modo ‘'trattamentale'', in esse il detenuto può ritrovare la propria dignità di persona umana, nel senso che ha degli spazi personali a disposizione, chiari, luminosi, e che in qualche modo lo "ristrutturano* dentro e dove può organizzarsi anche per ricevere i suoi familiari. Infatti, è frequente che si organizzino anche pranzi insieme ai bambini degli ex detenuti che sono in visita dai genitori, ad esempio nei fine settimana.
Il programma prevede inoltre una collaborazione con il S.E.R.T. (struttura della ASL che si occupa dei tossicodipendenti) al fine di concordare, con la nostra equipe, un programma che accompagni all'esterno i tossicodipendenti/detenuti.
Si può fruire anche dell’assistenza socio-sanitaria, presso il proprio domicilio, che preveda la partecipazione ad attività strutturate, volte a favorire un processo pedagogico e curativo suscettibile di modificare in senso socialmente adeguato il comportamento del soggetto, tale da rendere favorevole la prognosi di un reinserimento sociale.
Sono previste anche “uscite protette” per i detenuti, ovvero in sicurezza, effettuate con gli operatori specializzati del Centro. E in fine è disponibile anche un “sostegno telefonico”, organizzato in fasce orarie concordate, con lo scopo di fornire supporto in situazioni di forte stress emotivo.
La passione in questo lavoro guida le azioni di ogni giorno, l’obiettivo è quello di reinserire il soggetto che vive nel buio del suo tunnel senza uscita, in un nuovo possibile e radioso futuro.
Non ci rimane che ringraziare Giada e Massimo, per la loro collaborazione, nonché la disponibilità a mostrarci questa splendida e promettente realtà.
per info: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Nello scorso maggio, per i Quaderni Satyagraha prodotti dal Centro Gandhi di Pisa, è uscito, a cura di Maria Elena Bertoli, un volume di indubbia attualità contenente vari pregevoli saggi, dal titolo La nonviolenza al tempo del coronavirus. Nell’esaminarlo, subito, mi hanno particolarmente colpito l’originalità e l’incisività delle tesi proposte da Francesco Pistolato* nel suo La necessità di un nuovo paradigma nei Peace Studies** .
In esso, partendo dall’antica concezione mistico-teosofica (rivisitata e brillantemente corroborata in sede scientifica) secondo cui tutti i prodotti della psiche rappresenterebbero energie vere e proprie capaci di influire oggettivamente sul mondo circostante, si sostiene l’urgenza di passare, nell’ambito del pensiero e della ricerca dell’attuale pacifismo, da un paradigma incentrato prevalentemente su cause materiali dei conflitti ad uno che conferisca centrale rilevanza alle cause energetiche. Ciò perché la dimensione del pensare e del sentire non potrebbe più essere ritenuta come qualcosa di semplicemente “astratto”: pensieri, emozioni e sentimenti, infatti, di natura agapica ed amorevole generano inevitabilmente una realtà fenomenica di pace, mentre, in caso contrario, innescano e alimentano, altrettanto inevitabilmente, fenomeni di tensione e conflittualità.
Alla luce di tale tesi, e rifacendosi esplicitamente al pensiero e all’opera di Gandhi, Francesco Pistolato ci invita ad intendere il principio etico del trasformare se stessi in vista della trasformazione del mondo non più semplicemente come un insegnamento di impronta nobilmente ascetica, bensì come un progetto strategico rigorosamente logico e concretamente pragmatico.
Basandosi, poi, soprattutto su un’affermazione di Max Planck, si arriva anche a postulare che tutta l’energia cosmica non sia mera forza cieca, ma sottenda una coscienza immanente, che i Peace Studies dovrebbero, pertanto, seriamente cominciare a rendere oggetto di indagine.
Una coerente presa in considerazione dell'insegnamento di Gandhi, quindi, alla luce anche della scienza d'avanguardia contemporanea, dovrebbe, secondo Pistolato, poter favorire un'autentica “rivoluzione copernicana” nel campo del dibattito pacifista-nonviolento e nell'approccio individuale di chiunque intenda operare efficacemente a favore della pace.
Assai positivamente stimolato dalle tesi presentate nel suddetto saggio, non ho potuto resistere al desiderio (prontamente realizzato) di dare vita ad una corposa intervista con il suo Autore.
- La tua interessante dissertazione prende le mosse dal timore che il mondo del pacifismo contemporaneo non abbia preso nella dovuta considerazione l'invito gandhiano ad impegnarsi a trasformare se stessi in vista di una possibile trasformazione del mondo. Si tratta di un semplice sospetto o della registrazione di un fenomeno da te effettivamente riscontrato sulla base dei tuoi studi e della assidua frequentazione di molteplici ambienti pacifistico-nonviolenti, in Italia e in altri Paesi?
- Quello che intendo sottolineare con il mio articolo non è la perfettibilità dell'ambiente pacifista e nonviolento, cosa che si può dare per scontata a priori in ogni ambito e per ogni singolo individuo. Da quando seguo e studio i temi di pace e nonviolenza ho conosciuto un gran numero di persone molto in gamba e di ottime intenzioni. Ciascuno fa del proprio meglio, e non lo si può rimproverare per questo. Chi si mette d'impegno, per raddrizzare un po' questo mondo così pieno di ingiustizie e violenza, va incontro a molte frustrazioni. E' questo un punto molto delicato, al quale secondo me non ci si prepara adeguatamente. Il risultato è che spesso si reagisce a quanto si vede anche in modi che, pur risultando perfettamente urbani, generano una controreazione, finendo così per alimentare tensioni, anziché scioglierle. Ogni nostro pensiero, parola e sentimento, la scienza comincia ora a dimostrarlo (e il mio articolo questo intende sottolineare), genera effetti in un campo condiviso con gli altri. Occorre quindi essere consapevoli che ogni più recondito moto del nostro animo immette nel campo energie che, se non sono perfettamente pulite, "inquinano", cioè non migliorano una situazione che già spesso è grave per conto suo, ma la rafforzano. Ovvero proprio il contrario di quello che si vuole ottenere.
Nonviolenza è un'attitudine dell'animo tale per cui quello che esce da noi è sempre pacificante, anche per una controparte particolarmente agguerrita che, se pure continua con i suoi comportamenti, quantomeno non se li ritrova rafforzati dalla nostra reazione e che, alla lunga, è suscettibile di ammorbidire le sue posizioni. Per arrivare a cotanto risultato bisogna che ci chiediamo, noi pacifisti e amici della nonviolenza, se davvero non solo i nostri atti e le nostre parole, ma persino i nostri pensieri e le nostre emozioni, non siano mai di rabbia e di volontà punitiva nei confronti di chi pratica apertamente la violenza. Per arrivare a essere scevri di queste emozioni c'è molto lavoro da fare su se stessi. Se non lo si fa, le emozioni si riversano nell'ambiente - diciamo così, con un'immagine di tipo ecologico - e arrivano fino agli altri oggetto della nostra critica, i quali molto probabilmente reagiranno con ancora maggiore violenza. Questo Gandhi lo sapeva bene, perciò ogni sua iniziativa di protesta era preceduta da giorni di digiuno e purificazione da parte di tutti coloro che l'avrebbero messa in atto.
- Si potrebbe dire che, di fatto, ispirandoti a Gandhi, hai cercato, con il tuo lavoro, di convalidare e di riproporre quanto asserito in maniera cristallina nelle prime meravigliose righe del Dhammapada buddhista?
“Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo è prodotto dalla nostra mente.
Ogni parola o azione che nasce da un pensiero torbido è seguita dalla sofferenza, come la ruota del carro segue lo zoccolo del bue.
Siamo ciò che pensiamo.
Tutto ciò che siamo è prodotto dalla nostra mente.
Ogni parola o azione che nasce da un pensiero limpido è seguita dalla gioia, come la tua ombra ti segue, inseparabile.”
Non pensi, però, che ciò potrebbe far arricciare il naso a più di un esponente del movimento pacifista, di formazione culturale marxista o positivista?
- Domanda elegante ma di facile risposta. Sia la cultura positivista che la marxista risalgono all'Ottocento, un'epoca in cui si tendeva a pensare che tutto l'esistente fosse materiale e il resto fumo per i gonzi. Dagli inizi del Novecento, però, i fisici, che studiano la materia, hanno cominciato a riconoscere che essa, come ricordo nell'articolo in questione, esiste solo in senso molto relativo. Tuttavia gran parte degli scienziati, trovandosi in difficoltà con una dimensione immateriale di cui non sanno come servirsi, hanno continuato ad operare secondo linee positivistiche. Questo spiega il perdurare di una visione del mondo condivisa che, pur giustificandosi sempre meno, corrisponde alla nostra percezione sensibile e per questo appare fondata.
Questa messa da parte di evidenze scientifiche vecchie ormai di 100 anni - e dalle quali sono derivati i laser e la telefonia cellulare, tanto per fare esempi molto chiari - non può durare in eterno. Prima o poi bisognerà prendere atto non dell'esistenza di una dimensione energetica, che nessuno scienziato ormai nega, ma delle sue implicazioni, tanto più che il nostro corpo ad essa reagisce, e la nostra mente anche. Questo per quanto attiene al positivismo. Discorso analogo per il marxismo, che annega di fronte a una messa in second' ordine della materia, su cui esso si fonda. Se ritiene di avere basi scientifiche per riaffermare, oggi, la preminenza della materia, anzi la sua assoluta ed esclusiva esistenza, come faceva nella seconda metà dell'Ottocento, le mostri e apra un dibattito all'interno del mondo scientifico.
Aggiungo due ulteriori osservazioni: né il positivismo, né il marxismo, si sono mai posti fino in fondo il problema della violenza, e se mai il discorso è emerso, l'hanno giustificata ampiamente. Un discorso di pace e nonviolenza su basi positivistiche o marxiste, quindi, non ha senso.
Che la sinistra si sia ritrovata o si ritrovi su posizioni pacifiste è un dato di fatto, ma qui siamo fuori dalla dottrina marxista. Né Marx, né Engels, né Lenin hanno mai condannato la violenza, considerandola anzi un mezzo legittimo per il raggiungimento e la difesa del potere.
- Ma, al di là di tutte le possibili differenziazioni e controversie ideologiche, è fuori discussione che la questione di centralissima importanza è quale sia il modo più efficace (non ancora trovato) per pacificare il mondo. Giusto?
- Esatto. Ma se questo è l'interrogativo prioritario - e non il progresso scientifico tout court, né l'instaurazione di un regime definito giusto, o di una determinata religione considerata l'unica vera, o qualsivoglia altro obiettivo che prometta la felicità e il benessere - se, ripeto, l'interrogativo è: come facciamo ad arrivare ad una condizione priva di violenza, allora dobbiamo cominciare da noi stessi, non solo per dare il buon esempio, ma perché è l'unico modo che ora la scienza ci sta indicando che funziona.
Se poi tutto questo finisce per implicare il riconoscimento che quanto Buddha diceva 2500 anni fa era fondato, non vedo dove sia il problema. Che cosa importa chi lo ha detto per primo? Che danno potrò mai ricevere io positivista o marxista o cristiano dal riconoscere che qualcuno di un'altra cultura aveva visto più in là dei miei ispiratori? Se andiamo a guardare più da vicino, Cristo, però, non era in contraddizione con Buddha, si esprimeva solo diversamente. E' vero che il cattolicesimo rivendica di essere l'unico interprete doc degli insegnamenti di Gesù, ma, all'interno del cattolicesimo, ci sono sempre state, nella prassi, interpretazioni opposte: San Francesco e la Santa Inquisizione non si assomigliano molto.
Concludendo: per un pacifista e un nonviolento l'obiettivo è lavorare per la pace. Come lo si è fatto finora, non ha funzionato. Il mio articolo indica un'altra strada e si onora di essere nella scia di insegnamenti antichissimi, pur non fondando le sue argomentazioni su di essi.
- Tu attribuisci una grande importanza alle ricerche portate avanti dall’Heartmath Institute (www.heartmath.org) sul tema della cosiddetta “coerenza cardiaca”, considerata indicatore prezioso della salute della persona, in stretta correlazione con il concetto di campi magnetici propri ed altrui, addirittura anche di ordine planetario.
Di cosa si tratterebbe esattamente e come si è giunti ad una simile scoperta?
- All'inizio degli anni Novanta l'Heartmath Institute cominciò a indagare non solo l'effetto negativo prodotto sul sistema nervoso, su quello ormonale e sull'immunitario, da emozioni che provocano stress, ma anche l'effetto di emozioni positive generate da apprezzamento, empatia e accudimento. Misurando le onde cerebrali, la conduttività della pelle, effettuando elettrocardiogrammi, verificando la pressione sanguigna e i livelli ormonali, i ricercatori si resero conto che l'indicatore più significativo e dinamico di tutti quelli presi in considerazione erano i ritmi cardiaci. Il cuore, cioè, era l'organo che reagiva di più non solo alle emozioni, ma anche ai pensieri. Ciò indicava un collegamento del cuore con tutto l'apparato e, in particolare, col cervello. Si misero così a studiare la relazione cuore-cervello, notando che il cuore si comportava come se disponesse di una mente propria ed era in grado di influenzare la consapevolezza, le percezioni e l'intelligenza. L'influenza esercitata dal cuore sul corpo, particolarmente sul cervello, sulle ghiandole endocrine e sul sistema nervoso venne denominata coerenza cardiaca, e questa, a sua volta, definita come “la misura dell’ordine, della stabilità e dell’armonia nell’oscillazione dei sistemi di regolazione [corporea]”. In parole povere, la coerenza cardiaca è un indicatore della salute della persona, dello stato di equilibrio (o disequilibrio) generale all’interno del corpo.
-Nel tuo articolo, sempre a proposito della coerenza cardiaca, fai riferimento al cosiddetto “effetto Maharishi”. In che relazione sarebbero le due cose?
- L' ”effetto Maharishi” è provocato dalla pratica simultanea della Meditazione Trascendentale da parte di un certo numero di persone in un dato luogo, al fine preciso di determinare un maggiore livello di pace sull'ambiente circostante. Gli studi rivelano che basta la radice quadrata dell'1% della popolazione del luogo interessato per determinare livelli considerevoli di abbassamento di violenze, crimini e addirittura incidenti stradali nel luogo in cui la meditazione si tiene con l'intento descritto. L'affinità con la coerenza cardiaca è data dal fatto che la meditazione calma la mente e le emozioni del meditante, e, di conseguenza, il cuore è in maggiore coerenza, cioè più in armonia col resto del corpo, e in particolare col cervello.
- Ritorniamo ora alla questione-pacifismo.
Tu batti e ribatti sul concetto ilozoistico-panteistico, tanto caro al grande Giordano Bruno, secondo cui tutto sarebbe colmo di vita, anzi, che tutto sarebbe Vita, ovvero Energia.
Quindi?
- Allora, se tutto è energia, l'energia è dappertutto, non occorre andarla a cercare sventrando la terra, provocando guerre, inquinamento e conseguente distruzione del pianeta (sembra che Tesla e altri fossero arrivati a questa conclusione e, mentre stavano lavorando all'applicazione pratica, alla liberazione cioè del mondo da tutti gli inquinamenti e da tutte le distruzioni, siano stati "invitati" a smettere).
E se l'energia, che è tutto, è stata capace di costruire l'universo, allora tanto stupida non deve essere. Quindi il Geist, la Mente, postulata da Planck - come dico nel mio articolo in questione - quella che ben prima Buddha aveva riconosciuto essere la fonte di tutto, come molto opportunamente hai ricordato tu - è un altro degnissimo, anche se difficilissimo, oggetto di investigazione, di un'investigazione che comunque è già cominciata, v. Chopra, Deepak et al.. How Consciousness Became the Universe: Quantum Physics, Cosmology, Relativity, Evolution, Neuroscience, Parallel Universes, Cambridge, Cosmology Science Publishers. 2016.
- In pratica?
- Qui viene il bello, che ci riguarda direttamente: se noi pacifisti e amici della nonviolenza vogliamo smetterla di essere i paria della ricerca scientifica, nonché l'oggetto di canzonatura del potere, che di tanto in tanto ci elargisce briciole per i nostri convegni in cui ci asciughiamo vicendevolmente le lacrime (perché abbiamo ragione noi!), ma il mondo non ci capisce, mentre fondi immensi dalle stesse tasche - che alla fine sono le nostre - vanno per la distruzione del pianeta e dei suoi abitanti, se tutto questo ci ha stufato, e ci siamo anche stancati di leggere e magari, di tanto in tanto, anche scrivere, trattati di politica, sociologia, economia, teologia, filosofia, che ci spiegano perché le cose vanno male e come dovrebbero invece andare, se ... etc. etc. Tutto questo lo abbiamo già fatto: ci siamo acculturati e informati su un panorama che è l'oggetto dei nostri tormenti, abbiamo protestato in maniera nonviolenta e ogni tanto raccolto la solidarietà di qualche star mediatica, ma, alla fine, nulla è cambiato.
Ammettiamolo, se ci sembra, oppure andiamo avanti così ad libitum, finché non ce ne saremo convinti. Una volta convinti, e da qui muove il mio articolo, dovremo renderci conto che occorre cambiare occhiali vecchi di 4 secoli, appena ritoccati due secoli dopo, cioè almeno 150 anni fa. Con un paio di occhiali nuovi cominceremo forse a intravvedere quello che Buddha ha visto chiaramente due millenni e mezzo fa. Certo, dovremo ammettere di essere stati preceduti, ma ce ne faremo una ragione: ne abbiamo già mandate giù tante, non moriremo per questo. E in fondo, diciamocelo, arrivare secondi dopo Buddha non è poi così umiliante, c'è di peggio!
E così, se dio vuole, magari scopriremo, cioè vedremo con i nuovi occhiali, che l'Energia, essendo tutto quello che c'è, è onnipresente, è nel qui ed ora, e che la Coscienza che la genera e la guida, non può non essere onnipresente, cioè nel qui ed ora.
E, se tanto mi dà tanto, vuoi vedere che anche la pace, la Pace, è pure essa nel qui ed ora?
*Francesco Pistolato, cofondatore del Centro Interdipartimentale di Ricerca IRENE dell’Università di Udine, ha conseguito, presso l’Università di Granada il Master in Cultura di pace e il Dottorato in Sociologia, con una tesi su Ekkehart Krippendorff. È autore di svariate traduzioni in ambito storico, filosofico e giuridico, di opere di didattica delle lingue e di vari testi di cultura di pace, nonché membro della redazione dei Quaderni Satyāgraha, per il Centro Gandhi Edizioni.
**La necessità di un nuovo paradigma nei Peace Studies, in Maria Elena Bertoli (Ed.), La nonviolenza al tempo del coronavirus, Quaderni Satyagraha n. 37, Pisa, Gandhi Edizioni 2020, pp. 193-205.
Nel caso si incontrassero difficoltà a trovare il QS 37 (di solito è su http://www.ibs.it), si può scaricarne gratuitamente la versione in inglese, diversa in pochi passaggi in modo irrilevante e leggermente meno ricca:
Transforming Ourselves First. The Need of a Paradigm Shift in Peace Research and Peace Education, in In Factis Pax, Volume 14 Number 1, 2020, 56-65 http://www.infactispax.org/journal
Ci sono vicende di fronte alle quali è difficile riuscire a trovare, dentro di sé, un punto di compromesso, una sorta di equilibrio fra ironica amarezza, senso di desolante sconcerto, gioiosa euforia …
Quella di Clifford Williams e di suo nipote Nathan Myers è sicuramente una di queste.
I due, accusati ingiustamente di aver ucciso una donna in Florida nel 1976, dopo per aver passato ben 43 anni in carcere, hanno ricevuto un cospicuo indennizzo in denaro: il primo (condannato a morte) di 2.150.000 dollari; il secondo (condannato all’ergastolo) di 2.000.000 di dollari.
La relativamente positiva conclusione di una storia tanto orribile è stata resa possibile dalla recente indagine portata avanti dal Conviction Integrity Unit, un nuovo organo giudiziario destinato a riesaminare casi giudiziari presentanti dubbi di un qualche rilievo. Dal rapporto è risultato che nessuna prova fisica era in grado di autorizzare una correlazione fra Williams o Myers e la sparatoria che originò la morte di Jeanette Williams (omonima ma non parente di Clifford). Inoltre, risultò che un altro uomo, tale Nathaniel Lawson, a suo tempo, aveva riferito a diverse persone di essere stato lui l’unico l’autore del crimine.
Dall’inchiesta è anche emerso che la polizia, in un fascicolo del 1976, aveva scritto di aver appreso della presenza di Nathaniel Lawson sulla scena del delitto nel momento in cui il delitto fu commesso.
Il risultato finale è stato quindi inequivocabile, tanto che ha permesso a Shelley Thibodeau, direttrice del sopramenzionato organo giudiziario, di asserire, in maniera lapidaria, che
"l’insieme di tutte le prove, la maggior parte delle quali non vennero viste né sentite dalla giuria, toglie ogni credibilità alle condanne e alla colpevolezza degli accusati.”
Intanto, però, a congelare (e a congedare) subito quel pizzico di soddisfazione derivante da una simile paradossale vicenda, ha provveduto una decisione oltremodo dolorosa:
le esecuzioni capitali nella giurisdizione federale degli Stati Uniti, sospese dal 2003, sono state riprese.
E’ stato infatti ucciso, attraverso iniezione letale, dopo un momentaneo rinvio, Daniel Lee, suprematista bianco accusato nel 1999 della morte di una coppia e della loro figlioletta di 8 anni.
Nei prossimi giorni, dovrebbe essere il turno di Wesley Purkey, Alfred Bourgeois e Dustin Honken.
Da notare che Wesley Purkey, affetto dal morbo di Alzheimer, è ora ritenuto del tutto demente.
“La decisione dell’amministrazione Trump di riavviare le esecuzioni federali dopo una pausa di 16 anni è scandalosa. È l’ultima indicazione del disprezzo di questa amministrazione per i diritti umani“. Così, già la scorsa estate si era espressa Margaret Huang, direttrice esecutiva di Amnesty International Usa.
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Daniel Lee |
C’è da sottolineare, tra l’altro, che la scelta dell’amministrazione Trump appare in contrasto con le crescenti moratorie sulla pena di morte adottate da vari Stati negli ultimi dieci anni: da un lato per le controverse iniezioni letali, accusate di causare eccessiva sofferenza, dall’altro per la carenza delle sostanze da usare, perché le grandi case farmaceutiche rifiutano di fornirle nel timore di essere associate ad una prassi che molti considerano inumana e incivile.
“L’uso della pena di morte - ha aggiunto poi la Huang - non è in linea con le tendenze nazionali e internazionali. Ventuno stati negli Stati Uniti e oltre la metà dei paesi del mondo hanno già stabilito che la pena di morte non rispetta i diritti umani e non ha posto nelle loro leggi”.
"Non posso descrivere il tipo di dolore che provi quando vedi il tuo fratellone, quello a cui ti sei ispirato per tutta la vita intera morire, morire chiedendo della mamma. Si è rivolto ai poliziotti chiamandoli 'signore' - ha continuato Floyd - ha avuto un atteggiamento mite, non ha reagito. All'uomo che gli ha tolto la vita, che lo ha soffocato per otto minuti e 46 secondi lui ha continuato a rivolgersi chiamandolo 'signore' e a supplicarlo".
Philonise Floyd (fratello di George)
In merito al brutale omicidio di George Floyd a Minneapolis, nell’ormai lontano 25 maggio, è emerso con indiscutibile chiarezza che non si è trattato di una tragedia isolata, bensì di uno degli ultimi casi di una lunga serie di atti di violenza di stampo razzista ai danni, in particolar modo, dei neri statunitensi e delle persone di origini ispaniche. Basti pensare, infatti, solo per fare qualche esempio di cronaca, all’uccisione di Ahmaud Arbery, uscito a fare jogging, a quella di Breonna Taylor, che dormiva nel suo appartamento allorquando la polizia ha aperto il fuoco, a quella (nello scorso aprile) del ventisettenne di origini ispaniche Carlos Ingram Lopez, o a quella recentissima (18 giugno) della guardia giurata di origine salvadoregna Andres Guardado di 18 anni.
Negli Stati Uniti, la polizia commette violazioni dei diritti umani a un ritmo estremamente insistente, soprattutto nei confronti delle minoranze, in particolare contro i neri afro-americani. Gli elementi oggettivi a disposizione sono oltremodo impressionanti:
sia nel corso del 2018 che nel corso del 2019, circa 1.000 persone sono state uccise a seguito dell’utilizzo di armi da fuoco da parte degli agenti.
Secondo i dati disponibili, gli afroamericani risultano colpiti dall’uso di forza letale da parte della polizia in maniera sproporzionata: sebbene costituiscano solo il 13 per cento della popolazione, rappresentano il 23 per cento delle vittime di queste uccisioni.
Una ricerca condotta da Amnesty International sulle leggi applicate a livello statale (laddove queste esistono) riguardo all’uso della forza letale da parte degli agenti delle forze di sicurezza, ha rilevato che nessuna di queste rispettava il diritto e gli standard internazionali relative all’uso della forza letale, secondo cui questa dovrebbe essere considerata solo come risorsa estrema, di fronte a una minaccia imminente di morte o ferimento grave.
Inoltre, dal 26 maggio al 5 giugno, i ricercatori di Amnesty International hanno identificato 125 casi in 40 stati degli Usa e nel Distretto federale di Columbia in cui è stata usata forza illegale nei confronti di manifestanti pacifici, giornalisti e persone che si limitavano a osservare.
Il Crisis Evidence Lab di Amnesty International ha raccolto quasi 500 video e fotografie delle proteste attraverso le piattaforme dei social media. Questo materiale è stato verificato, geolocalizzato e analizzato da esperti in armi, in tattiche di polizia e nelle norme vigenti negli Usa e a livello internazionale sull’uso della forza.
In una nota ufficiale, Brian Castner, alto consulente di Amnesty International su armi e operazioni militari, ha dichiarato:
“La nostra analisi è chiara: quando gli attivisti e i sostenitori del movimento Black lives matter sono scesi in strada per manifestare pacificamente, hanno per lo più incontrato una risposta di tipo militare e subito violenze da parte proprio di quella polizia di cui chiedevano la fine dell’attitudine razzista“,.
L’uso illegale della forza, comprendente pestaggi, uso improprio di gas lacrimogeni e spray al peperoncino, impiego inappropriato di proiettili di gomma e granate a spugna, chiama in causa le forze di polizia locali e statali, le agenzie federali e la Guardia nazionale.
Ha poi aggiunto Castner che
“Il tempo per applicare un cerotto sulle ferite e chiedere scusa per poche ‘mele marce’ è finito. Ora occorre una riforma profonda e sistemica delle forze di polizia che ponga termine all’uso eccessivo della forza e alle esecuzioni extragiudiziali dei neri negli Usa. Queste comunità non possono più vivere nel terrore di essere colpite proprio da coloro che hanno giurato di proteggerle. I responsabili dell’uso eccessivo della forza e delle uccisioni illegali devono essere chiamati a rispondere”.
In alcuni casi, i ricercatori di Amnesty International hanno anche avuto modo di intervistare vittime e funzionari dei dipartimenti locali di polizia, che hanno confermato le condotte illegali degli agenti.
La mappa interattiva di Amnesty International ha evidenziato violazioni dei diritti umani da parte delle forze di polizia nell’80 per cento degli stati degli Usa.
Infatti, le forze di polizia si sono rese responsabili di violazioni dei diritti umani non solo nelle grandi città come Minneapolis, Philadelphia e Washington, ma anche in piccoli centri come Louisville in Kentucky, Murfreesboro in Tennessee, Sioux Falls in South Dakota e Albuquerque in New Mexico. A Fort Wayne, in Indiana, ad esempio, un giornalista ha perso un occhio a causa di una granata contenente gas lacrimogeno.
Dal punto di vista giuridico, l’uso eccessivo della forza nei confronti di manifestanti pacifici viola sia la Costituzione degli Usa che il diritto internazionale dei diritti umani.
Le forze di polizia, che hanno, a ogni livello, il dovere di rispettare, proteggere e favorire lo svolgimento di manifestazioni pacifiche, di fronte a episodi di violenza, invece di reagire esclusivamente nei confronti dei responsabili, hanno fatto uso di forza sproporzionata e indiscriminata contro intere proteste, senza operare alcuna distinzione tra chi stesse minacciando realmente la vita di altri (circostanza nella quale l’uso della forza sarebbe stato legittimo) e chi stesse manifestando del tutto pacificamente.
Comunque, in seguito al diffondersi e all’intensificarsi delle proteste, non sono mancati, fortunatamente, concreti segnali di carattere positivo:
- alcuni dipartimenti di polizia locali e di stato hanno avviato riforme parziali, come la sospensione dell’uso di alcune munizioni per il controllo della folla, come i gas lacrimogeni;
- a Minneapolis il Consiglio locale ha votato a maggioranza per lo smantellamento delle forze di polizia e il rafforzamento di istituzioni dedicate a proteggere in modo efficace la sicurezza pubblica.
Ciò nonostante, Amnesty International ritiene indispensabile e non più procrastinabile una riforma concreta e duratura delle forze di polizia in tutti gli Usa, che dovrebbe comprendere:
In conclusione, si potrebbe constatare come, nelle scorse settimane, siano state davvero numerose le riflessioni e le concrete prese di posizione in merito alla vicenda di George Floyd e dei volti efferati del fenomeno razzista negli USA ancora perduranti a più di mezzo secolo dall’assassinio di Martin Luther King, il quale continuamente ci ricordava che
“Va oltre ogni immaginazione pensare quante vite potremmo trasformare se dovessimo cessare di uccidere.”
Molto efficace, fra le tante parole di dolore e di analisi intelligente che sono state pronunciate, quanto scritto dalla giovane filosofa Marie Moise.
“Il corpo di Floyd, nel momento in cui è percepito come nero è già pericoloso, già da disarmare, già aggredibile per diritto. E ogni gesto di autodifesa del Nero, non può che essere percepito come riprova della sua natura violenta e aggressiva, da cui «legittimamente» difendersi. Ogni suo appello alla vita è inascoltato per definizione – Floyd non respirava, ma il poliziotto non si è preoccupato nemmeno per un attimo che potesse davvero morire – perché dai tempi della schiavitù la vita – e la morte – del Nero dura solo fino a che non può essere rimpiazzata con la successiva. È in particolare il corpo del nero uomo che ricade in questo schema percettivo, quello di una maschilità bruta e bestiale, antitetica all’unica riconosciuta, ovvero quella che crea l’associazione immediata tra maschio bianco e essere umano e che fa del nero un non-maschio e quindi non-umano.”
(http://www.osservatoriorepressione.info/diritto-respirare-nel-nome-george-floyd/)
di Luca Scantamburlo
COMMENTO PERSONALE da non addetto ai lavori
Al secondo comma dell'art.32 Cost. la riserva di legge non solo é assoluta, ma pure é rinforzata: deve sempre essere garantita dal Legislatore, la dignità, il "rispetto della persona umana", nell'eventualità la legge disponga un trattamento sanitario obbligatorio. E ci deve essere una consultazione e vaglio parlamentare. Necessariamente.
Ecco perché la riserva assoluta in Costituzione, ed anche rinforzata, non ammette in tal caso che un provvedimento di ordinanza extra ordinem, imponga un trattamento sanitario obbligatorio non previsto dalla legge.
Figuriamoci poi una circolare ministeriale, semplice atto amministrativo di comunicazione fra Ministero e dirigenti /uffici .
E men che mai un DPCM, norma sublegislativa che non e' un atto avente forza di legge, ma appunto una ordinanza extra ordinem.
Oppure una ordinanza regionale, che voglia imporre un tampone alla popolazione : non lo può fare, può solo invitare e raccomandare. Non imporre un trattamento sanitario obbligatorio.
Per via della riserva di legge, assoluta (e pure rinforzata nello specifico).
Luca Scantamburlo
15 giugno 2020
P.S. per approfondimenti rivolgersi ad un giurista ferrato in diritto costituzionale
P.P.S. alcune ordinanze regionali, recenti, come una di quelle emanate in Sicilia ad esempio, erano e sono ILLEGITTIME, per via della violazione della riserva di legge legata a libertà e diritti civili, che sono stati conculcati senza rispettare la riserva.
Inclusi diversi DPCM, in palese violazione della riserva di legge, a causa della delega in bianco che il Parlamento ha concesso al Governo, in fase conversione dei decreti legge di febbraio e marzo 2020, poi convertiti (ma senza circoscrivere il potere dell'Esecutivo, che e' divenuto arbitrario)
♦️ Cosa è la riserva di legge, ottimo video tutorial esplicativo:
? https://youtu.be/GhddEDoAWBU
“Siamo umani che vogliono la stessa cosa che ogni altro umano vuole: un posto sicuro in cui vivere su questo pianeta che chiamiamo casa. Quindi sebbene il nostro lavoro deve continuare ad essere imparziale e oggettivo, vogliamo far sentire sempre le nostre voci, aggiungendo il chiaro messaggio che il cambiamento climatico è reale, che il responsabile è l’uomo, che gli impatti sono gravi e che dobbiamo agire ora“.
Katharine Hayhoe – Scienziata del clima
“Il cambiamento climatico è una questione di diritti umani non solo perché i suoi impatti devastanti incidono sul godimento dei diritti umani, ma anche perché è un fenomeno creato dall’uomo che può essere mitigato dai governi“.
Kumi Naidoo, Segretario Generale di Amnesty International
Giorno dopo giorno, ci ritroviamo ad essere sempre più consapevoli di come il destino dei diritti umani sia fortemente collegato a quello dei cambiamenti climatici. Questi, infatti, minacciano gravemente la nostra stessa esistenza, arrecando effetti assai preoccupanti sui nostri diritti alla vita, alla salute, al cibo, all’acqua, all’alloggio e ai mezzi di sussistenza.
In merito alla sorte del nostro pianeta, sempre più ammalato e in serio pericolo di vita, un input cristallinamente perentorio scaturì dal Rapporto speciale del gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (IPCC), dell’ormai lontano ottobre 2018:è assolutamente necessario limitare il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 °C, cosa che dovrebbe necessariamente implicare la riduzione del 45% delle emissioni di gas serra entro il 2030, rispetto ai livelli del 2010.
Ma, al contempo, dallo stesso rapporto è possibile evincere chiaramente l’inadeguatezza degli attuali impegni assunti a livello politico internazionale.
A soffrire per le conseguenze catastrofiche causate dai cambiamenti climatici sono già milioni di persone: dalla prolungata siccità nell’Africa sub-sahariana alle devastanti tempeste tropicali che attraversano il Sud-est asiatico, i Caraibi e il Pacifico. Durante la scorsa estate, in particolare, le popolazioni dell’emisfero settentrionale – dal circolo polare artico alla Grecia, dal Giappone al Pakistan e agli Stati Uniti – hanno vissuto devastanti ondate di calore e incendi che hanno provocato la morte di centinaia di persone.
E, nel corso dei prossimi anni, gli effetti dell’umana, dissennata guerra contro il pianeta che ci ha generato potrebbero continuare a crescere e ad aggravarsi, producendo grossi disagi per le generazioni attuali e future. Tale incapacità dei governi di agire sul cambiamento climatico potrebbe rivelarsi come la più grande violazione intergenerazionale dei diritti umani nella storia.
Secondo il 97% degli scienziati climatici, il riscaldamento globale è in gran parte causato dall’uomo. Uno dei maggiori responsabili è di gran lunga l’utilizzo di combustibili fossili, come carbone, gas e petrolio, che ha aumentato la concentrazione di gas serra nella nostra atmosfera. Questo, insieme ad altre attività, come la deforestazione in vista soprattutto degli allevamenti intensivi, sta facendo aumentare la temperatura media del nostro pianeta.
Gli scienziati sono certi della correlazione diretta tra i gas serra e il riscaldamento globale, conclusione a cui, tra l’altro, si era pervenuti già da tempo: gli avvertimenti sul riscaldamento globale hanno iniziato a fare notizia alla fine degli anni ’80, ma - come dicevamo poc’anzi - l’urgente necessità di affrontare i cambiamenti climatici è diventata ancora più chiara dopo la pubblicazione del Rapporto del gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) che ha potuto dare al mondo un preciso termine per evitare la catastrofe:
le emissioni di gas serra devono essere dimezzate dai loro livelli del 2010 entro il 2030, per evitare di raggiungere 1,5°C.
Il cambiamento climatico continuerà, purtroppo, a nuocere a tutti noi, a meno che i governi non prendano provvedimenti immediati. Tuttavia, è probabile che i suoi effetti saranno molto più devastanti per alcune comunità, in particolare quelle dipendenti da mezzi di sussistenza agricoli o costieri, nonché quelle che risultano essere generalmente già vulnerabili e soggette a discriminazione.
E, assai prevedibilmente, i cambiamenti climatici finiranno per esasperare una serie di disparità già esistenti.
- Tra paesi sviluppati e in via di sviluppo:
a livello nazionale, coloro che vivono in piccole isole e in paesi meno sviluppati saranno e sono già tra quelli più colpiti. L’ondata di caldo del 2018 nell’emisfero settentrionale, ad esempio, ha provocato, in Pakistan, la morte di più di 60 persone, prevalentemente operai che lavoravano in condizioni di caldo intenso, con temperature sopra i 44°C.
- Tra etnie e classi:
gli effetti dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento legati ai combustibili fossili variano anche in base all’etnia e alle classi sociali di appartenenza. In Nord America, ad esempio, sono le comunità di colore, in gran parte più povere, ad essere costrette a respirare aria tossica perché i loro quartieri hanno maggiori probabilità di essere situati accanto a centrali elettriche e raffinerie, con tassi notevolmente più alti di malattie respiratorie e tumori.
- Tra i sessi:
le donne sono colpite in modo particolare dai cambiamenti climatici perché in molti paesi sono più soggette ad essere emarginate e svantaggiate, quindi più vulnerabili agli impatti degli eventi climatici.
- Tra comunità:
i popoli nativi sono tra le comunità più colpite dai cambiamenti climatici. Vivono spesso in terre marginali e in ecosistemi fragili, aree particolarmente sensibili alle variazioni del clima. Ovviamente, più i governi aspetteranno ad intraprendere azioni significative e concrete, più difficile diventerà il problema da risolvere e maggiore sarà il rischio che le emissioni vengano ridotte attraverso mezzi destinati ad aumentare le disuguaglianze anziché ridurle.
Questi, poi, sono alcuni dei modi, individuati da una recente analisi di Amnesty International, in cui è possibile prevedere che il cambiamento climatico andrà drammaticamente a rovesciarsi sui diritti umani:
Gli stati hanno l’obbligo di cercare di mitigare gli effetti dannosi dei cambiamenti climatici, adottando le misure più drastiche per prevenire o ridurre le emissioni di gas serra nel più breve tempo possibile. Gli stati ricchi dovrebbero aprirsi, sia internamente che attraverso la cooperazione internazionale, a tutti i paesi, prendendo tutte le misure ragionevoli per ridurre le emissioni nella misura massima delle loro capacità.
Tutti gli stati, indipendentemente dal fatto che siano più o meno responsabili di tali effetti, dovrebbero adottare tutte le misure necessarie per aiutare tutti i cittadini all’interno della propria giurisdizione ad adattarsi agli effetti dei cambiamenti climatici, riducendo al minimo l’impatto dei cambiamenti climatici sui loro diritti umani.
Nei loro sforzi per fronteggiare il cambiamento climatico, inoltre, dovranno evitare di fare ricorso a misure che violano direttamente o indirettamente i diritti umani.
Ad esempio, le aree protette o i progetti di energia rinnovabile non dovranno essere creati nelle terre dei popoli indigeni senza consultarli e ottenere il loro consenso.
Gli stati dovrebbero, poi, rispettare e garantire il diritto all’informazione e alla partecipazione di tutte le persone colpite.
Anche le aziende hanno il dovere di rispettare i diritti umani. Per far fronte a questa responsabilità, esse dovrebbero valutare i potenziali effetti delle loro attività sui diritti umani e mettere in atto misure per prevenire gli impatti negativi. Dovrebbero, inoltre, rendere pubblici tali risultati e qualsiasi misura di prevenzione, nonché adottare misure per porre rimedio alle violazioni dei diritti umani che esse provocano o alle quali contribuiscono, da sole o in cooperazione con altri attori.
Le aziende, e, in particolare, le società produttrici di combustibili fossili, dovranno anche attuare immediatamente misure per ridurre al minimo le emissioni di gas serra – anche spostando la loro attenzione verso le energie rinnovabili – e rendere pubbliche le informazioni pertinenti sulle loro emissioni.
Le aziende di combustibili fossili sono state storicamente le maggiori responsabili dei cambiamenti climatici – ed è così ancora oggi. La ricerca mostra che 100 aziende produttrici di combustibili fossili sono, da sole, responsabili del 71% delle emissioni globali di gas serra dal 1988.
Vi sono prove sempre più evidenti che le principali società di combustibili fossili conoscono da decenni gli effetti dannosi della combustione di combustibili fossili e hanno tentato di sopprimere tali informazioni e bloccare gli sforzi per affrontare i cambiamenti climatici.
Per concludere: uno scenario senza speranza?
Direi proprio di no. Possediamo, infatti, le conoscenze, il potere e la capacità di fermare il cambiamento climatico. Molte persone stanno già ammirevolmente ed intelligentemente lavorando a soluzioni creative, stimolanti e innovative per affrontarlo, dai cittadini alle aziende alle città. Ci sono persone in tutto il mondo che lavorano attivamente su politiche, campagne e soluzioni che potranno proteggere le persone e il pianeta.
E i popoli nativi, che hanno sviluppato per millenni modi di vivere sostenibili con l’ambiente, percependolo e rispettandolo come “casa comune”, potrebbero, in questa sfida epocale, costituire un prezioso modello di riferimento, fonte di immensi insegnamenti.
Possiamo certamente imparare molto da loro e beneficiare delle loro pratiche ed esperienze per trovare un modo diverso di vivere il nostro pianeta. Stando ben attenti a non dimenticare che, come recita un proverbio Sioux,
“Gli alberi sono le colonne del mondo, quando gli ultimi alberi saranno stati tagliati, il cielo cadrà sopra di noi.”
FONTI:
https://www.amnesty.it/campagne/cambiamenti-climatici-e-diritti-umani/
https://ipccitalia.cmcc.it/ipcc-special-report-global-warming-of-1-5-c/
https://www.rinnovabili.it/ambiente/cambiamenti-climatici/
https://www.wwf.it/il_pianeta/cambiamenti_climatici/
Secondo l’UNICEF, nel mondo sarebbero almeno 125 milioni le donne e le ragazze che sono state fatte oggetto di mutilazioni genitali (MGF), mentre secondo la World Health Organisation (WHO) si tratterebbe addirittura di ben 200 milioni. E, benché negli ultimi tre decenni sia stato registrato un calo complessivo della pratica, sulla base degli attuali trend demografici è possibile calcolare che ogni anno altri 3 milioni di bambine al di sotto dei quindici anni potrebbero essere aggiunti a queste statistiche.
Le MGF sono tuttora praticate soprattutto in 30 paesi africani e in alcuni paesi del Medio Oriente (Yemen, Emirati Arabi), ma praticate anche in alcune comunità dell’Asia, dell’America Latina e degli Stati arabi. Vanno inoltre considerate a rischio anche le ragazze che vivono in comunità di emigrati sparse per il mondo. In Europa, ad esempio, si stima la presenza di ben 500.000 vittime.
E’ soltanto a partire dagli anni ’90 che la comunità internazionale ha cominciato a riconoscere le mutilazioni genitali femminili come una grave violazione dei diritti delle donne e delle bambine. Nella Dichiarazione sulla violenza contro le donne del 1993, infatti, le MGF vennero dichiarate una forma di violenza nei confronti della donna e, nel 1994, la collaborazione tra le agenzie dell’ONU e le ONG condusse al varo di un Piano di azione per eliminare le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute della donna e delle bambine, intenzione poi riaffermata con la Conferenza di Pechino nel 1995. Le mutilazioni sono anche vietate dall’art.21 della Carta Africana sui diritti e il benessere del fanciullo e, fatto fondamentale, sono state messe al bando a livello globale con la risoluzione della 67° Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 20 dicembre 2012.
Va detto, poi, che l’Unione Europea ha adottato, nel 2012 e 2014, due importanti Risoluzioni a favore della lotta contro le MGF, ed anche l’Italia ha segnato alcune tappe significative per la prevenzione e il contrasto alle mutilazioni, quali la legge 7/2006, e la legge 119 del 2013 contro il femminicidio e l’Intesa siglata tra Stato e Regioni nel dicembre 2012.
Purtroppo, però, nonostante questi importanti atti di carattere legislativo, questa orribile violazione dei più elementari diritti umani , che devasta la carne e l’anima in maniera atroce e indelebile, continua in molti casi ad essere percepita come indissolubilmente legata ad antiche e irrinunciabili radici culturali e, di conseguenza, difesa e mantenuta al fine di salvaguardare l’identità culturale del gruppo.
Fortunatamente, in questi ultimi giorni è stato possibile registrare un incoraggiante segnale positivo: il 30 aprile, infatti, il governo di transizione del Sudan ha annunciato la messa al bando, grazie ad un nuovo articolo del codice penale, delle MGF.
Pertanto, chiunque sarà considerato responsabile di tale crimine potrà essere punito con la reclusione fino a tre anni e con il pagamento di una multa.
Si tratta, indubbiamente, di un ulteriore importante passo avanti da parte delle nuove autorità sudanesi al potere dal 2019, dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir.
Secondo le organizzazioni locali per la difesa dei diritti umani, infatti, più della metà delle bambine sarebbe ancora sottoposta a questa pratica crudele (l’UNICEF parla addirittura dell’87%).*
Tra tutti i paesi africani, il Sudan è considerato quello in cui il radicamento nelle tradizioni culturali della pratica delle MGF sarebbe più evidente, tanto che le donne integre sono considerate “gulfa”, un termine di disprezzo che indica vergogna ed esclusione sociale.**
C’è da augurarsi, adesso, che, dopo questa importante scelta legislativa, possa essere avviato un indispensabile percorso di sensibilizzazione e di educazione a tutti i livelli, e che, inoltre, tale svolta possa risultare di stimolo prezioso soprattutto per gli altri stati del continente africano.
A tale proposito, Paola Magni, referente per i progetti di contrasto alle MGF di AMREF in Italia, ha recentemente dichiarato:
“Purtroppo, è una pratica identitaria, e non penso che una legge sia sufficiente a porre fine alle FGM. Molte volte, nella storia, abbiamo avuto modo di notare il divario tra esistenza di una legge e la sua applicazione nelle aree più remote. Ad accompagnare una legge approvata da uno Stato, servono dei piani regolatori locali, volti ad incoraggiare implementazione della legge in questione all’interno delle Contee, delle Regioni e delle zone rurali. Inoltre, essendo una pratica molto diffusa e molto radicata, le norme che vietano le FGM devono essere accompagnate da processi di formazione e sensibilizzazione, sia all’interno delle comunità locali, sia tra coloro che fanno parte del settore legale e delle forze di polizia.” ***
*https://www.amnesty.it/sudan-saranno-vietate-le-mutilazioni-dei-genitali-femminili/
** https://www.unicef.ch/it/il-nostro-operato/programmi/lotta-alle-mutilazioni-genitali-femminili-sudan
“Uccidere intenzionalmente un’altra persona è sbagliato e, nella veste di governatore, non supervisionerò l’esecuzione di nessun individuo. Sotto tutti i punti di vista, il nostro sistema capitale si è rivelato un fallimento. È stato discriminatorio nei confronti di imputati mentalmente infermi, afroamericani o scuri di carnagione, o che non possono permettersi una rappresentanza legale dispendiosa. Non ha portato vantaggi alla pubblica sicurezza e non ha nessuna utilità come deterrente. Ha disperso milioni di dollari dei contribuenti. Ma più di tutto, la pena di morte è assoluta e, nel caso di un errore umano, è irreversibile e del tutto insanabile.”
Gavin Newsom, governatore della California, 13 marzo 2019
Norberto Bobbio, in uno dei suoi preziosissimi saggi dedicati al tema della pena di morte, prende le mosse dalla constatazione alquanto sconcertante secondo la quale, nel corso della storia umana, il dibattito intorno alla abolizione della pena capitale sarebbe “appena cominciato”. Proseguendo, poi, col sottolineare che, per lunghi millenni, il problema in merito alla legittimità o meno di tale pena non sia stato neppure minimamente sollevato e che nessun dubbio e nessuna perplessità siano stati avanzati in merito al fatto di ritenere la pena di morte come la pena massimamente capace di soddisfare “il bisogno di vendetta, di giustizia e di sicurezza del corpo collettivo” nei confronti dei suoi membri considerati moralmente e socialmente “infetti” e infettanti.
E, dopo una ricca serie di corpose analisi e dissertazioni in merito alle tesi filosofiche che dovrebbero indurci a ritenere razionalmente inaccettabile tale pratica, arriva ad affermare che la “scomparsa totale della pena di morte dal teatro della storia” costituirà, senza alcun dubbio, un fondamentale traguardo per l’intera famiglia umana.
“Se mi chiedete - conclude subito dopo - quando si compirà questo destino, vi rispondo che non lo so. So soltanto che il compimento di questo destino sarà un segno indiscutibile di progresso morale.”*
Ora, una analoga compresenza di luci ed ombre, di lacrime e di gioie, di amarezze e di speranze possiamo registrarla nell’ esaminare l’ultimo Rapporto annuale dedicato da Amnesty International alla presenza della pena capitale nel mondo nel corso del 2019 (il testo integrale del Rapporto può essere scaricato gratuitamente: https://www.amnesty.it/campagne/pena-di-morte/ ).
Infatti, se, da una parte,l’analisi condotta dalla nota associazione mondiale per i diritti umani in merito all’uso della pena di morte ha confermato il perdurare della tendenza globale verso la sua abolizione, nel contempo si riscontra in alcuni paesi una inquietante inversione di orientamento.
Per cui, mentre il numero delle esecuzioni documentate è diminuito del 5% rispetto al 2018 (da 690 a 657), raggiungendo il valore più basso registrato in almeno dieci anni e confermando, così, la riduzione anno per anno in atto dal 2015, non mancano di certo fatti di ben altra natura:
- Iraq, Arabia Saudita, Sudan del Sud e Yemen hanno incrementato in modo rilevante il numero delle persone messe a morte;
- Bahrain e Bangladesh hanno ripreso le esecuzioni dopo l’interruzione di un anno;
- il parlamento delle Filippine ha presentato delle proposte di legge per la reintroduzione della pena capitale;
- Sri Lanka e le autorità federali degli Stati Uniti d’America hanno minacciato di riprendere le esecuzioni, ferme ormai da anni.
Inoltre, la mancanza di trasparenza da parte di diversi stati o la diffusione di mere stime parziali hanno impedito ad Amnesty International di effettuare una valutazione esauriente sull’uso della pena di morte nel mondo: i paesi che eseguono più condanne a morte, come Cina, Corea del Nord e Vietnam, hanno continuato a nascondere l’effettiva estensione dell’uso della pena capitale, limitando l’accesso alle informazioni al riguardo.
La Cina, in particolare, resta il maggiore esecutore al mondo, anche se la reale entità del fenomeno (sicuramente nell’ordine di alcune migliaia di sentenze capitali) continua a rimanere ignota.
Alcuni stati, poi, hanno eseguito sentenze capitali senza annunciarle in anticipo e senza fornire notizie sulle persone messe a morte a familiari e avvocati.
In ogni modo, benché durante tutto il 2019 nessun ulteriore paese abbia abolito la pena di morte, meritano di essere evidenziati non pochi segnali positivi, che dimostrano come il desiderio di mantenimento della pena si stia affievolendo anche in quei paesi che sembrano ancora lontani dal volerla abolire:
- negli Stati Uniti d’America, il New Hampshire è diventato il 21° stato ad abolire la pena capitale per tutti i reati;
- il governatore della California (lo stato con la più alta percentuale di detenuti nel braccio della morte), ha istituito una moratoria sulle esecuzioni;
- Kazakistan, Federazione russa, Tagikistan, Malesia e Gambia hanno continuato a osservare una moratoria ufficiale sulle esecuzioni;
- le Barbados hanno eliminato dalla Costituzione la pena di morte con mandato obbligatorio;
- interventi positivi o pronunce che potrebbero preludere a una abolizione totale, si sono avute nella Repubblica Centrafricana, Guinea Equatoriale, Gambia, Kazakistan, Kenya e Zimbabwe.
Insomma, le parole di Norberto Bobbio continuano ad essere di perfetta attualità:
difficile, anzi impossibile, fare previsioni in merito alla vittoria finale, ma, intanto, si continua a camminare, anno dopo anno, nella convinzione ferma e ben determinata che questo sia il destino obbligato di una umanità che desideri veramente liberarsi dalla tirannia della violenza.
Per usare ancora efficaci parole del nostro grande pensatore:
“Certo non basta la fiducia per vincere. Ma se non si ha la minima fiducia, la partita è persa prima di cominciare. Se poi mi si chiede che cosa occorra per aver fiducia, riprenderei le parole di Kant (…):
giusti concetti, una grande esperienza, e soprattutto molta buona volontà.” **
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*N. Bobbio, Contro la pena di morte, in L’età dei diritti, Torino 1992
**N.Bobbio, Le ragioni della tolleranza, in ibidem
ORA TUTTI SAPPIAMO CHE POSSIAMO CAMBIARE MOLTO DEL NOSTRO “STILE DI VITA”. ORA SAPPIAMO CHE SALVARE IL PIANETA “SI PUO’”!
E’ cosa ben risaputa che pochi altri (forse nessuno), nel corso della storia contemporanea, hanno sottoposto a critiche e condanne durissime la moderna borghesia più di Karl Marx e di Friedrich Engels. Ciò nonostante, leggendo il Manifesto del partito comunista (1848), ci troviamo di fronte ad alcune valutazioni di carattere nettamente positivo, quasi apologetico, in merito a quanto la classe borghese, nel suo dirompente, creativo e disincantato dinamismo, avrebbe compiuto ai danni delle antiche gerarchie di valori e di potere. In particolar modo, viene attribuito alla borghesia il merito di aver scardinato in maniera straordinariamente rapida ed efficace il tradizionale sistema ideologico e socio-economico, dimostrando, come mai nessuno era riuscito in precedenza, una verità oggettiva ed incontrovertibile di estrema rilevanza: la storia è un perenne fluire, non esistono strutture e sovrastrutture immodificabili; anche le realtà umane più consolidate e cristallizzate, anche quelle che potrebbero sembrare (e che molto spesso vengono ritenute) destinate a durare in eterno, in quanto prive di alternative realisticamente praticabili, possono cambiare, possono essere corrette, trasformate, spazzate via in pochissimi istanti. Non da vulcani o terremoti, ma dalla manifestazione determinata e convinta dell’iniziativa umana, da una interiore volontà fortissimamente motivata, dall’affermarsi di nuove esigenze e di una fiducia sconfinata nelle risorse della nostra specie. In base a ciò, Marx e Engels ritenevano di poter ricevere la certezza che, da questo esperimento straordinario operatosi sul campo della storia, le masse degli oppressi avrebbero potuto ottenere una fondamentale lezione, imparando a credere maggiormente in se stessi e alla possibilità di ribellarsi ad una realtà iniqua (non più avvertita come fatale e ineluttabile), abbracciando, così, la via della rivoluzione.
Ebbene, non potremmo, allora, ricavare, dalla vicenda pandemica in cui ci troviamo mestamente immersi, la buona novella che tutto quanto del nostro cosiddetto “stile di vita” capitalistico-consumistico pensavamo essere deprecabile ma non modificabile sia, in realtà, ampiamente riducibile, trasformabile, correggibile?
Ovvero, se in poche settimane, in nome della necessità di preservare la nostra salute, abbiamo accettato innumerevoli e (fino a qualche giorno fa) inimmaginabili rinunce e cambiamenti, non si potrebbe, allora, a livello nazionale e internazionale, archiviata questa dolorosa faccenda, continuare ad operare scelte intelligenti, anche drasticamente coraggiose, in nome della sopravvivenza del pianeta e, quindi, della stessa specie umana?
Continuando a sentirci, come ci ricorda papa Francesco, “sulla stessa barca”, chiamati a soccorrerci gli uni con gli altri, in nome del comune interesse, in nome della salvezza della nostra comune Madre Terra?
Insomma, usciti fuori da questa triste pagina della storia universale, chi potrà mai più, di fronte alle grandi sfide del vicino futuro, pretendere ancora di blindare dogmaticamente lo statu quo (fatto di irresponsabili aggressioni all’ambiente, di criminali corse agli armamenti, di ignobili diseguaglianze socio-economiche, ecc.), in nome dei tanto ricorrenti “non è possibile …”, “non sarà mai possibile …”?
Mai come in momenti come il presente, in cui ci troviamo quotidianamente immersi in fiumi di notizie allarmanti, meritano la nostra massima attenzione le notizie che ci permettono di intravedere un futuro migliore.
E’ questo certamente il caso di quanto recentemente accaduto in Colorado, divenuto ufficialmente il 23 marzo il ventiduesimo stato degli Usa ad avere abolito la pena di morte ed il decimo a farlo dal 2004.
Conseguentemente all’approvazione dei due rami del parlamento e la firma del governatore Jared Polis, le tre condanne a morte ancora in attesa di esecuzione sono state prontamente commutate in ergastolo.
Non è stato, però, un risultato semplicissimo da raggiungere, vista la ferma resistenza operata dai repubblicani, schierati a sostegno della necessità assoluta della pena capitale a soddisfazione dei legittimi diritti dei familiari delle vittime di omicidio di vedere definitivamente risolta la propria tragedia grazie alla morte dei responsabili.
Quanto accaduto fornisce una ulteriore, preziosa e gradita conferma del fatto che negli Usa, che per il terzo anno consecutivo non compaiono tra i primi cinque stati per numero di esecuzioni (al settimo posto nel 2016, all’ottavo nel 2017, al settimo nel 2018), il fronte abolizionista stia conquistando sempre più forza e consenso, soprattutto grazie al diffondersi della consapevolezza di quanto ci sia di arbitrario e di iniquo nell’applicazione della pena capitale.*
«Sono commosso dalla testimonianza e dal dibattito che abbiamo ascoltato» - ha dichiarato il presidente dell’Assemblea, il democratico Alec Garnett. «Spero in una società - ha poi aggiunto - in cui spendiamo le nostre risorse in riabilitazione, non in appelli; nel trattamento delle tossicodipendenze e non nella somministrazione di iniezioni letali».
Oltremodo sagge e illuminanti le parole di Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center, il quale, al termine di una lunga dichiarazione, ha così concluso:
“Il parlamento del Colorado si è impegnato in un dibattito sentito, rispettoso e sincero su problematiche molto sensibili. Alla fine, ha basato la sua decisione sulle prove e sui sentimenti personali di ciascun parlamentare riguardo a ciò che fosse giusto fare per il popolo del Colorado. Il Governatore Polis ha riconosciuto che, per quanto orrendi fossero i crimini commessi dagli ultimi tre condannati a morte, era meglio chiudere questo capitolo della storia della giustizia penale del Colorado, piuttosto che lasciare che il problema imputridisse mentre venivano spesi inutilmente milioni di dollari dei contribuenti.”
*Otto stati americani hanno messo a morte nel 2018. Il Texas ha quasi raddoppiato i numeri dell’anno precedente (da 7 a 13), rappresentando poco più della metà del totale nazionale, dopo che la Corte suprema ha concesso un numero inferiore di sospensioni delle esecuzioni. Il Nebraska ha eseguito la sua prima condanna a morte dal 1997, il South Dakota dal 2012 e il Tennessee dal 2009. Tuttavia, a differenza dell’anno precedente, Arkansas, Missouri e Virginia non hanno eseguito sentenze capitali, determinando lo stesso numero di stati esecutori del 2018 come del 2017.
Caro Signor Ambasciatore, chi Le scrive ha avuto occasione di visitare il suo grande Paese diverse volte e ha avuto modo di conoscere e apprezzare il suo popolo e la sua cultura, e soprattutto l’alta considerazione per il mio Paese. Ho avuto modo di vedere che siamo stimati per la nostra arte, per i nostri filosofi, per la nostra cultura e per tante altre qualità che pensavo avessimo perso, e questa vostra considerazione per un momento così difficile per tutti noi mi è di grande conforto. Visitando il suo Paese ho avuto modo di toccare con mano i sacrifici che il suo popolo ha dovuto affrontare nel corso della storia e ho anche avuto modo di vedere che, nonostante le tante avversità che abbiamo vissuto e viviamo, bastavano due parole per fraternizzare e capire che forse ci conosciamo già da millenni. Sa, Signor Ambasciatore, noi siamo un po’ estroversi, forse un po’ chiassosi, ma amiamo quella gioia di vivere che con il nostro modo d’essere cerchiamo di infondere agli altri. Noi crediamo nella Bellezza, in tutte le sue forme e crediamo nell’Amore in tutte le sue manifestazioni, siamo buoni di cuore come voi russi.
Nonostante le ferite, abbiamo sempre tirato fuori il positivo, ci siamo abituati signor Ambasciatore, siamo fatti così, e nei momenti importanti i sentimenti li esterniamo con il cuore e non con la mente, forse l’unica via che ci rende insuperabili. Il cuore ci ha sempre legati e sempre ci legherà perché apparteniamo ad una’unica razza, quella umana, sempre più consapevoli che la solidarietà riconosce a noi e a voi quella stessa dignità che il suo popolo conosce bene. La storia ci ha divisi e tenta ancora di dividerci ma i comuni sentimenti di fratellanza non ci hanno mai abbandonato e mai ci abbandoneranno. La solidarietà e la condivisione sono e saranno sempre la nostra salvezza. La vita è un valore universale, a prescindere, e questo bel gesto nei confronti delle persone che stanno morendo vi rende onore. E’ proprio vero, gli amici si vedono nel momento dl bisogno, e io mi unisco a quegli italiani che vi esprimono con il cuore la riconoscenza per esserci vicini, grazie Signor Ambasciatore, non dimenticheremo, ci abbracci la sua gente che ci tiene in così alta considerazione e alla quale ci sentiamo vicini con il cuore e con la mente.
Virgilio Violo
segue lettera dell'Ambasciatore Sergey Razov alla testata "La Stampa" di Torino
Solo dentro un carcere se ne comprende la follia. Fuori di qui, anche io non sapevo!
La domanda: "cosa si può fare? Cosa si può fare per i detenuti, ma soprattutto per la società civile?"
La risposta di un detenuto è: va bene un periodo fuori dalla società , purchè serva a una riabilitazione e non ad andare ""fuori di testa"" per sempre, quindi...
Per prima cosa servirebbero celle più umane. Nelle condizioni in cui si trovano ora, i detenuti non possono tornare ""verso"" la società ma solo ""contro"". Invece di perseguire la ricostruzione di una coscienza civile del rispetto si alimenta quella del disprezzo. Questo non giova a nessuno: né ai detenuti né alla società
Inoltre, la carenza di personale limita di molto tutte le attività che dovrebbero giovare al detenuto, cioè¨ quelle fuori dalla cella.
Questo illusorio meccanismo di pena, più che una restrizione della libertà è un sistema ""criminale involontario"", uno strumento di alienazione che rende ancor più disarticolate le già non formate strutture mentali dei detenuti.
Dico ""criminale"" e ""involontario"" perchè inconsapevole dei danni che si creano in questo ambiente disumano e assolutamente distruttivo: apparentemente pianificato, ma inutile per ciò che viene chiamato ""riabilitazione"".
Non sarà mai riabilitata la ""società civile"", che non conosce i crimini perpetrati per mantenere lo ""status quo"" di questo manicomio, permesso perchè un muro di omertà e finta funzionalità di facciata lo circonda.
Mi trovo in una cella di circa 22 mq, con altri cinque detenuti. Di questi, tre sono molto probabilmente innocenti.
Non lo dico basandomi sulle loro parole (a logica difesa della propria innocenza) ma per quanto ho letto sulle motivazioni delle loro sentenze di ""condanna"". In esse appare, come in una inevitabile cascata, l'errore di ""giudizio di chi indaga"", costruendo una ""macchia di colpevolezza"" che si espande e diviene indelebile, contaminando ogni valutazione successiva. E' quasi logico che un giudice creda a chi porta avanti le indagini, pur miranti solo a provare la colpa e mai (come dovrebbe essere a norma di legge) a raccogliere anche prove a discarico del presunto colpevole (non più presunto innocente).
Questa parentesi è tanto per chiarire che addentrarsi in questo surreale manicomio chiamato carcere, implica conoscerne aspetti impossibili da credere.
Come si può pretendere di riabilitare sei soggetti, di cui 2-3 certamente innocenti, chiusi insieme in 22 mq.? Pensate anche a un solo innocente, con cinque criminali rei confessi che raccontano i loro crimini come vanto... Magari un padre di famiglia, detenuto solo perchè qualcuno a cui dava fastidio ha testimoniato il falso spedendolo nell'inferno del carcere.
Se pure fossero quattro innocenti e due criminali incalliti, questi ultimi, per naturale tendenza, sarebbero in grado di rendere succubi gli altri, fisicamente e psicologicamente, perchè la mente criminale è sempre prevaricante. Usa astuzie a cui un innocente non potrebbe mai, per sua natura, arrivare.
A volte persino un solo vero criminale, in cella con due innocenti e tre ""borderline"" (nel senso che i loro reati sono pi— errori da procedura civile che penali), può prendere il sopravvento sugli altri, e protrarre indisturbato la sua determinazione a delinquere anche in prigione.
Come si può definire questo sistema ""riabilitante"" se lo stesso cappellano di un famoso carcere, nonché il suo direttore, dichiarano che nel corso degli anni, dal 30 al 50% dei detenuti in attesa di giudizio vengono assolti, in uno dei tre gradi? E qual è la percentuale degli innocenti dichiarati colpevoli?
C'è una statistica, o un elenco ben fatto, di tale indicibile inciviltà ? Nessuno calcola questa mostruosità?
Se io fossi il peggiore criminale, un criminale mediocre o un innocente mi ascoltereste allo stesso modo? Fate una prova: consideratemi un pluriomicida, un pluripregiudicato in attesa di giudizio, e rileggete... cosa ne pensate di questo succulento gruppo di ""pecorelle"" che mi offrite da spolpare per facilitarmi l'esistenza anche dentro? Ora consideratemi un mediocre delinquente. Mentre attendo di essere giudicato, apprendo da chi è peggiore di me utili indicazioni per percorrere al meglio la strada del crimine, in cui al momento sono un fallito. Forse non ho ancora scelto completamente quella direzione, ma la detenzione mi indirizzerà verso l'unica via possibile: se il ""migliore"" in questo posto è il ""peggiore"" in libertà , il male non può che essere la scelta giusta!
Ora consideratemi un innocente con un po' di cultura, ""rinchiuso"" tra criminali senza scampo, con livelli di istruzione che vanno dal più basso al medio-basso (diplomati e laureati sono solo il 2%). In mezzo a detenuti con patologie psichiatriche di vario tipo, nascoste dalla tossicodipendenza o da farmaci che non impediscono loro di delinquere; insieme ad altri innocenti, che sono il più grande tormento (almeno per me). Impossibile per un innocente pensare ""Mal comune mezzo gaudio"", E'una malvagità troppo grande!
Resta forse altro da dire? Chiunque io sia, criminale, mezza tacca, innocente... come vi sentite? Da ignoto detenuto in attesa di giudizio, non mi aspetto di ottenere niente per me. Il mio sfogo è solo per far conoscere all'opinione pubblica una realtà di cui ho dato solo un accenno.
C'è molto di più da sapere su questo orrore, nascosto dal muro di gomma che lo circonda. Qualche carcere ""modello"", spesso mostrato dai media, dimostra solo una ""vergogna perpetuata"" nascondendo dietro il sorriso di pochi scelti sessantottomila esseri distrutti, in disfacimento (numero in costante crescita).
Come potrà la società essere riabilitata da questa follia, che lei stessa permette?!
RINGRAZIO I RADICALI per la loro volontà di giustizia.
Un detenuto in attesa di giudizio da un anno e tre mesi. Presunto innocente? Presunto colpevole? Oppure la schizofrenia di entrambe le cose? Perché sto già pagando? Ora sono in sciopero della fame e della sete. Non ci sono altre scelte.
Per ulteriori informazioni potete contattarci all'indirizzo email This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
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Una nuova campagna a favore di Julian Assange è stata annunciata da Amnesty International alla vigilia dell’udienza in merito alla sua possibile estradizione. La campagna è rivolta a chiedere alle autorità statunitensi di annullare completamente le gravi accuse di spionaggio. Ciò perché, nel caso contrario, sarebbe molto alto il rischio che le autorità del Regno Unito possano acconsentire all’estradizione negli USA, paese dove potrebbe ritrovarsi vittima di rilevanti violazioni dei diritti umani.
Al momento, sono in programma ben cinque udienze che dovrebbero concludersi nel mese di maggio, con una sentenza appellabile con una decisione finale attesa per la fine dell’anno.
“Gli incessanti tentativi del governo Usa di processare Julian Assange per aver reso pubblici documenti riguardanti anche possibili crimini di guerra commessi dalle forze armate statunitensi non sono altro che un assalto su larga scala al diritto alla libertà d’espressione”,
ha dichiarato in una nota stampa Massimo Moratti, vicedirettore di Amnesty International per l’Europa.
“Il potenziale effetto raggelante verso i giornalisti e altre persone che denunciano le malefatte dei governi rendendo note informazioni ricevute da fonti credibili potrebbe avere profonde conseguenze sul diritto delle opinioni pubbliche a conoscere cosa stanno facendo i loro governi.
Tutte le accuse mosse nei confronti di Julian Assange a seguito di tali attività devono essere annullate”,
ha aggiunto Moratti.
Merita di essere rammentato e sottolineato il fatto che le accuse rivolte ad Assange scaturiscono direttamente dal fatto di aver pubblicato documenti segreti nell’ambito della sua attività lavorativa con l’archivio documentale online Wikileaks, attività che non dovrebbe essere punita, in quanto riguardante condotte che il giornalismo investigativo è chiamato a svolgere regolarmente nel proprio peculiare ambito professionale.
L’organizzazione per la difesa dei diritti umani, pertanto, ritiene che gli insistenti tentativi del governo USA di sottoporre a processo Julian Assange non siano altro che un palese ed allarmante attacco alla libertà di espressione, e che, di conseguenza, processare Julian Assange potrebbe comportare ricadute deleterie sul diritto alla libertà di espressione, spingendo l’intero mondo dell’informazione ad adottare e ad applicare la pratica dell’autocensura, al fine di evitare temibili procedimenti giudiziari.
Ed è proprio in nome del diritto alla libertà di espressione che, con un appello rivolto al Procuratore Generale degli Stati Uniti William P. Barr, si sta procedendo alla richiesta di annullamento totale delle accuse rivolte a Julian Assange:
https://www.amnesty.it/appelli/annullare-le-accuse-contro-julian-assange/
Dopo numerose manifestazioni tenutesi in varie località italiane, anche a Roma, finalmente, si è potuta svolgere (soprattutto grazie ad Amnesty International) una manifestazione di solidarietà nei confronti di Patrick Zaki, lo studente egiziano (iscritto ad un master presso l’Università di Bologna), arrestato al suo rientro in Egitto.
I pubblici ministeri di Mansoura hanno ordinato la detenzione preventiva di Patrick George Zaki in attesa di indagini su accuse tra cui “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”.
Il 22 febbraio, allo scadere dei primi 15 giorni di detenzione, un tribunale egiziano ha ottenuto il prolungamento di ulteriori 15 giorni.*
Patrick è stato definito da Amnesty International “prigioniero di coscienza”, in quanto detenuto esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.
Giovedì scorso, in tanti, a piazza della Rotonda, davanti al Pantheon, con candele, striscioni e cartelli con la scritta “PATRICK LIBERO”, si sono dati appuntamento per richiedere al governo egiziano di rilasciare immediatamente Zaki.
Fra le numerose persone presenti, abbiamo raccolto le significative parole di persone da tempo impegnate sul fronte della difesa dei diritti umani: Riccardo Noury (portavoce della sezione italiana di Amnesty International); Claudia Pacini (responsabile di Amnesty International-Lazio); Claudio Rossi (volontario di Emergency).
Riccardo Noury
- Quali informazioni Amnesty International è riuscita a raccogliere sulle reali condizioni di Patrick?
Esteriormente appare in buone condizioni, ma è evidente che sia provato, anche perché le attuali condizioni detentive non sono adeguate (una cella di una stazione di polizia con altre 30 persone). I suoi avvocati hanno sporto formale denuncia per le torture subite al Cairo nelle ore successive all'arresto in aeroporto.
- In base a quali elementi AI ha potuto dichiararlo "prigioniero di coscienza"?
La storia di Patrick ci dice molto chiaramente che i capi d'accusa contenuti nel mandato d'arresto non trovano corrispondenza in alcun asserito suo comportamento criminale. La sua è un'esperienza alla luce del sole di attivista per i diritti umani, di studio e di ricerca. Del resto, quei capi d'accusa sono una fotocopia di quelli mossi nei confronti di innumerevoli altri esponenti della società civile egiziana in questi ultimi anni.
Claudia Pacini
- Dopo il caso di Giulio Regeni, eccoci di nuovo in piazza a parlare di diritti umani in Egitto. Soltanto tristi episodi isolati o solo due dei tanti casi di cui Amnesty è a conoscenza?
No, purtroppo i casi di Giulio Regeni e Patrick George Zaki non sono assolutamente isolati: la situazione dei diritti umani in Egitto è da anni in una situazione di profondissima crisi, con continue violazioni da parte delle autorità, che sappiamo hanno applicato tortura, maltrattamenti e sparizioni forzate su centinaia di persone. Senza dimenticare le esecuzioni extragiudiziali! Chiunque sia critico verso il governo, o ritenuto tale, quali manifestanti pacifici, giornalisti, attivisti politici e difensori dei diritti umani, vanno spesso incontro ad arresti e detenzioni arbitrarie.
- Dopo la fiaccolata romana, quali altre iniziative sono previste e cosa pensi che, realisticamente parlando, sia possibile fare?
In questi giorni si sono susseguite tante manifestazioni di piazza in tutta Italia con cui Amnesty International sta chiedendo al governo egiziano il rilascio immediato di Zaki, per il quale si teme che sia sottoposto a tortura. Inoltre, Amnesty sta partecipando, e continuerà a farlo, a una serie di eventi e incontri, anche in università e scuole, in cui continuare a parlare dell' arresto arbitrario di Zaki e della situazione di costante e grave violazione dei diritti fondamentali in Egitto.
E' fondamentale sensibilizzare, far conoscere quanto accade in un paese così vicino al nostro e, soprattutto, mantenere accesa l'attenzione su questo caso: chiediamo che Patrick venga liberato subito e possa ritornare presto ai suoi studi presso l'Università di Bologna!
Claudio Rossi
- Cosa ti ha spinto a prendere parte alla manifestazione a favore di Patrick Zaki ?
La delusione. Ero convinto che, dopo la vicenda di Giulio Regeni, il regime di Al Sisi non dico provasse un po' di vergogna, ma almeno cercasse di sopire, di coprire la sua brutalità e ancora una volta nei confronti di giovani legati all'Italia. La vicenda di Patrick, oltre all'assenza di democrazia, dimostra il livello di protervia di quel
governo.
- In una situazione così complessa come quella egiziana, che peso potrà mai avere una piccola fiaccolata di persone di buona volontà?
Certamente un peso molto relativo; ma ogni lungo viaggio comincia con un passo. Abbiamo visto grandi trasformazioni insinuarsi in sistemi granitici grazie a piccoli esempi: è quello che chiamiamo “sensibilizzazione”. Ma, soprattutto, non possiamo, di fronte alle nostre coscienze, aspettare certezze di successo quando si parla di combattere per principi irrinunciabili.
- Al contrario del caso Regeni, qui ci troviamo di fronte ad un'azione giudiziaria del governo egiziano nei confronti di un suo cittadino.
Manifestazioni come quella di stasera non potrebbero correre il rischio di essere percepite come una intromissione arbitraria negli affari interni di un paese sovrano?
Il concetto stesso di “diritti umani” non avrebbe senso se non travalicasse le frontiere e le legislazioni nazionali.
La difesa dei diritti che definirei “assoluti” ha invece particolare significato proprio dove l'assetto politico, le norme vigenti o le prassi del potere li calpestino; tanto nei confronti degli stranieri quanto dei propri cittadini. Non può bastare una legge per negare un “diritto umano”!
*VEDI: RIFIUTATA LA RICHIESTA DI SCARCERAZIONE PER IL RICERCATORE EGIZIANO PATRICK GEORGE ZAKI.