L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
ORA TUTTI SAPPIAMO CHE POSSIAMO CAMBIARE MOLTO DEL NOSTRO “STILE DI VITA”. ORA SAPPIAMO CHE SALVARE IL PIANETA “SI PUO’”!
E’ cosa ben risaputa che pochi altri (forse nessuno), nel corso della storia contemporanea, hanno sottoposto a critiche e condanne durissime la moderna borghesia più di Karl Marx e di Friedrich Engels. Ciò nonostante, leggendo il Manifesto del partito comunista (1848), ci troviamo di fronte ad alcune valutazioni di carattere nettamente positivo, quasi apologetico, in merito a quanto la classe borghese, nel suo dirompente, creativo e disincantato dinamismo, avrebbe compiuto ai danni delle antiche gerarchie di valori e di potere. In particolar modo, viene attribuito alla borghesia il merito di aver scardinato in maniera straordinariamente rapida ed efficace il tradizionale sistema ideologico e socio-economico, dimostrando, come mai nessuno era riuscito in precedenza, una verità oggettiva ed incontrovertibile di estrema rilevanza: la storia è un perenne fluire, non esistono strutture e sovrastrutture immodificabili; anche le realtà umane più consolidate e cristallizzate, anche quelle che potrebbero sembrare (e che molto spesso vengono ritenute) destinate a durare in eterno, in quanto prive di alternative realisticamente praticabili, possono cambiare, possono essere corrette, trasformate, spazzate via in pochissimi istanti. Non da vulcani o terremoti, ma dalla manifestazione determinata e convinta dell’iniziativa umana, da una interiore volontà fortissimamente motivata, dall’affermarsi di nuove esigenze e di una fiducia sconfinata nelle risorse della nostra specie. In base a ciò, Marx e Engels ritenevano di poter ricevere la certezza che, da questo esperimento straordinario operatosi sul campo della storia, le masse degli oppressi avrebbero potuto ottenere una fondamentale lezione, imparando a credere maggiormente in se stessi e alla possibilità di ribellarsi ad una realtà iniqua (non più avvertita come fatale e ineluttabile), abbracciando, così, la via della rivoluzione.
Ebbene, non potremmo, allora, ricavare, dalla vicenda pandemica in cui ci troviamo mestamente immersi, la buona novella che tutto quanto del nostro cosiddetto “stile di vita” capitalistico-consumistico pensavamo essere deprecabile ma non modificabile sia, in realtà, ampiamente riducibile, trasformabile, correggibile?
Ovvero, se in poche settimane, in nome della necessità di preservare la nostra salute, abbiamo accettato innumerevoli e (fino a qualche giorno fa) inimmaginabili rinunce e cambiamenti, non si potrebbe, allora, a livello nazionale e internazionale, archiviata questa dolorosa faccenda, continuare ad operare scelte intelligenti, anche drasticamente coraggiose, in nome della sopravvivenza del pianeta e, quindi, della stessa specie umana?
Continuando a sentirci, come ci ricorda papa Francesco, “sulla stessa barca”, chiamati a soccorrerci gli uni con gli altri, in nome del comune interesse, in nome della salvezza della nostra comune Madre Terra?
Insomma, usciti fuori da questa triste pagina della storia universale, chi potrà mai più, di fronte alle grandi sfide del vicino futuro, pretendere ancora di blindare dogmaticamente lo statu quo (fatto di irresponsabili aggressioni all’ambiente, di criminali corse agli armamenti, di ignobili diseguaglianze socio-economiche, ecc.), in nome dei tanto ricorrenti “non è possibile …”, “non sarà mai possibile …”?
Mai come in momenti come il presente, in cui ci troviamo quotidianamente immersi in fiumi di notizie allarmanti, meritano la nostra massima attenzione le notizie che ci permettono di intravedere un futuro migliore.
E’ questo certamente il caso di quanto recentemente accaduto in Colorado, divenuto ufficialmente il 23 marzo il ventiduesimo stato degli Usa ad avere abolito la pena di morte ed il decimo a farlo dal 2004.
Conseguentemente all’approvazione dei due rami del parlamento e la firma del governatore Jared Polis, le tre condanne a morte ancora in attesa di esecuzione sono state prontamente commutate in ergastolo.
Non è stato, però, un risultato semplicissimo da raggiungere, vista la ferma resistenza operata dai repubblicani, schierati a sostegno della necessità assoluta della pena capitale a soddisfazione dei legittimi diritti dei familiari delle vittime di omicidio di vedere definitivamente risolta la propria tragedia grazie alla morte dei responsabili.
Quanto accaduto fornisce una ulteriore, preziosa e gradita conferma del fatto che negli Usa, che per il terzo anno consecutivo non compaiono tra i primi cinque stati per numero di esecuzioni (al settimo posto nel 2016, all’ottavo nel 2017, al settimo nel 2018), il fronte abolizionista stia conquistando sempre più forza e consenso, soprattutto grazie al diffondersi della consapevolezza di quanto ci sia di arbitrario e di iniquo nell’applicazione della pena capitale.*
«Sono commosso dalla testimonianza e dal dibattito che abbiamo ascoltato» - ha dichiarato il presidente dell’Assemblea, il democratico Alec Garnett. «Spero in una società - ha poi aggiunto - in cui spendiamo le nostre risorse in riabilitazione, non in appelli; nel trattamento delle tossicodipendenze e non nella somministrazione di iniezioni letali».
Oltremodo sagge e illuminanti le parole di Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center, il quale, al termine di una lunga dichiarazione, ha così concluso:
“Il parlamento del Colorado si è impegnato in un dibattito sentito, rispettoso e sincero su problematiche molto sensibili. Alla fine, ha basato la sua decisione sulle prove e sui sentimenti personali di ciascun parlamentare riguardo a ciò che fosse giusto fare per il popolo del Colorado. Il Governatore Polis ha riconosciuto che, per quanto orrendi fossero i crimini commessi dagli ultimi tre condannati a morte, era meglio chiudere questo capitolo della storia della giustizia penale del Colorado, piuttosto che lasciare che il problema imputridisse mentre venivano spesi inutilmente milioni di dollari dei contribuenti.”
*Otto stati americani hanno messo a morte nel 2018. Il Texas ha quasi raddoppiato i numeri dell’anno precedente (da 7 a 13), rappresentando poco più della metà del totale nazionale, dopo che la Corte suprema ha concesso un numero inferiore di sospensioni delle esecuzioni. Il Nebraska ha eseguito la sua prima condanna a morte dal 1997, il South Dakota dal 2012 e il Tennessee dal 2009. Tuttavia, a differenza dell’anno precedente, Arkansas, Missouri e Virginia non hanno eseguito sentenze capitali, determinando lo stesso numero di stati esecutori del 2018 come del 2017.
Caro Signor Ambasciatore, chi Le scrive ha avuto occasione di visitare il suo grande Paese diverse volte e ha avuto modo di conoscere e apprezzare il suo popolo e la sua cultura, e soprattutto l’alta considerazione per il mio Paese. Ho avuto modo di vedere che siamo stimati per la nostra arte, per i nostri filosofi, per la nostra cultura e per tante altre qualità che pensavo avessimo perso, e questa vostra considerazione per un momento così difficile per tutti noi mi è di grande conforto. Visitando il suo Paese ho avuto modo di toccare con mano i sacrifici che il suo popolo ha dovuto affrontare nel corso della storia e ho anche avuto modo di vedere che, nonostante le tante avversità che abbiamo vissuto e viviamo, bastavano due parole per fraternizzare e capire che forse ci conosciamo già da millenni. Sa, Signor Ambasciatore, noi siamo un po’ estroversi, forse un po’ chiassosi, ma amiamo quella gioia di vivere che con il nostro modo d’essere cerchiamo di infondere agli altri. Noi crediamo nella Bellezza, in tutte le sue forme e crediamo nell’Amore in tutte le sue manifestazioni, siamo buoni di cuore come voi russi.
Nonostante le ferite, abbiamo sempre tirato fuori il positivo, ci siamo abituati signor Ambasciatore, siamo fatti così, e nei momenti importanti i sentimenti li esterniamo con il cuore e non con la mente, forse l’unica via che ci rende insuperabili. Il cuore ci ha sempre legati e sempre ci legherà perché apparteniamo ad una’unica razza, quella umana, sempre più consapevoli che la solidarietà riconosce a noi e a voi quella stessa dignità che il suo popolo conosce bene. La storia ci ha divisi e tenta ancora di dividerci ma i comuni sentimenti di fratellanza non ci hanno mai abbandonato e mai ci abbandoneranno. La solidarietà e la condivisione sono e saranno sempre la nostra salvezza. La vita è un valore universale, a prescindere, e questo bel gesto nei confronti delle persone che stanno morendo vi rende onore. E’ proprio vero, gli amici si vedono nel momento dl bisogno, e io mi unisco a quegli italiani che vi esprimono con il cuore la riconoscenza per esserci vicini, grazie Signor Ambasciatore, non dimenticheremo, ci abbracci la sua gente che ci tiene in così alta considerazione e alla quale ci sentiamo vicini con il cuore e con la mente.
Virgilio Violo
segue lettera dell'Ambasciatore Sergey Razov alla testata "La Stampa" di Torino
Solo dentro un carcere se ne comprende la follia. Fuori di qui, anche io non sapevo!
La domanda: "cosa si può fare? Cosa si può fare per i detenuti, ma soprattutto per la società civile?"
La risposta di un detenuto è: va bene un periodo fuori dalla società , purchè serva a una riabilitazione e non ad andare ""fuori di testa"" per sempre, quindi...
Per prima cosa servirebbero celle più umane. Nelle condizioni in cui si trovano ora, i detenuti non possono tornare ""verso"" la società ma solo ""contro"". Invece di perseguire la ricostruzione di una coscienza civile del rispetto si alimenta quella del disprezzo. Questo non giova a nessuno: né ai detenuti né alla società
Inoltre, la carenza di personale limita di molto tutte le attività che dovrebbero giovare al detenuto, cioè¨ quelle fuori dalla cella.
Questo illusorio meccanismo di pena, più che una restrizione della libertà è un sistema ""criminale involontario"", uno strumento di alienazione che rende ancor più disarticolate le già non formate strutture mentali dei detenuti.
Dico ""criminale"" e ""involontario"" perchè inconsapevole dei danni che si creano in questo ambiente disumano e assolutamente distruttivo: apparentemente pianificato, ma inutile per ciò che viene chiamato ""riabilitazione"".
Non sarà mai riabilitata la ""società civile"", che non conosce i crimini perpetrati per mantenere lo ""status quo"" di questo manicomio, permesso perchè un muro di omertà e finta funzionalità di facciata lo circonda.
Mi trovo in una cella di circa 22 mq, con altri cinque detenuti. Di questi, tre sono molto probabilmente innocenti.
Non lo dico basandomi sulle loro parole (a logica difesa della propria innocenza) ma per quanto ho letto sulle motivazioni delle loro sentenze di ""condanna"". In esse appare, come in una inevitabile cascata, l'errore di ""giudizio di chi indaga"", costruendo una ""macchia di colpevolezza"" che si espande e diviene indelebile, contaminando ogni valutazione successiva. E' quasi logico che un giudice creda a chi porta avanti le indagini, pur miranti solo a provare la colpa e mai (come dovrebbe essere a norma di legge) a raccogliere anche prove a discarico del presunto colpevole (non più presunto innocente).
Questa parentesi è tanto per chiarire che addentrarsi in questo surreale manicomio chiamato carcere, implica conoscerne aspetti impossibili da credere.
Come si può pretendere di riabilitare sei soggetti, di cui 2-3 certamente innocenti, chiusi insieme in 22 mq.? Pensate anche a un solo innocente, con cinque criminali rei confessi che raccontano i loro crimini come vanto... Magari un padre di famiglia, detenuto solo perchè qualcuno a cui dava fastidio ha testimoniato il falso spedendolo nell'inferno del carcere.
Se pure fossero quattro innocenti e due criminali incalliti, questi ultimi, per naturale tendenza, sarebbero in grado di rendere succubi gli altri, fisicamente e psicologicamente, perchè la mente criminale è sempre prevaricante. Usa astuzie a cui un innocente non potrebbe mai, per sua natura, arrivare.
A volte persino un solo vero criminale, in cella con due innocenti e tre ""borderline"" (nel senso che i loro reati sono pi— errori da procedura civile che penali), può prendere il sopravvento sugli altri, e protrarre indisturbato la sua determinazione a delinquere anche in prigione.
Come si può definire questo sistema ""riabilitante"" se lo stesso cappellano di un famoso carcere, nonché il suo direttore, dichiarano che nel corso degli anni, dal 30 al 50% dei detenuti in attesa di giudizio vengono assolti, in uno dei tre gradi? E qual è la percentuale degli innocenti dichiarati colpevoli?
C'è una statistica, o un elenco ben fatto, di tale indicibile inciviltà ? Nessuno calcola questa mostruosità?
Se io fossi il peggiore criminale, un criminale mediocre o un innocente mi ascoltereste allo stesso modo? Fate una prova: consideratemi un pluriomicida, un pluripregiudicato in attesa di giudizio, e rileggete... cosa ne pensate di questo succulento gruppo di ""pecorelle"" che mi offrite da spolpare per facilitarmi l'esistenza anche dentro? Ora consideratemi un mediocre delinquente. Mentre attendo di essere giudicato, apprendo da chi è peggiore di me utili indicazioni per percorrere al meglio la strada del crimine, in cui al momento sono un fallito. Forse non ho ancora scelto completamente quella direzione, ma la detenzione mi indirizzerà verso l'unica via possibile: se il ""migliore"" in questo posto è il ""peggiore"" in libertà , il male non può che essere la scelta giusta!
Ora consideratemi un innocente con un po' di cultura, ""rinchiuso"" tra criminali senza scampo, con livelli di istruzione che vanno dal più basso al medio-basso (diplomati e laureati sono solo il 2%). In mezzo a detenuti con patologie psichiatriche di vario tipo, nascoste dalla tossicodipendenza o da farmaci che non impediscono loro di delinquere; insieme ad altri innocenti, che sono il più grande tormento (almeno per me). Impossibile per un innocente pensare ""Mal comune mezzo gaudio"", E'una malvagità troppo grande!
Resta forse altro da dire? Chiunque io sia, criminale, mezza tacca, innocente... come vi sentite? Da ignoto detenuto in attesa di giudizio, non mi aspetto di ottenere niente per me. Il mio sfogo è solo per far conoscere all'opinione pubblica una realtà di cui ho dato solo un accenno.
C'è molto di più da sapere su questo orrore, nascosto dal muro di gomma che lo circonda. Qualche carcere ""modello"", spesso mostrato dai media, dimostra solo una ""vergogna perpetuata"" nascondendo dietro il sorriso di pochi scelti sessantottomila esseri distrutti, in disfacimento (numero in costante crescita).
Come potrà la società essere riabilitata da questa follia, che lei stessa permette?!
RINGRAZIO I RADICALI per la loro volontà di giustizia.
Un detenuto in attesa di giudizio da un anno e tre mesi. Presunto innocente? Presunto colpevole? Oppure la schizofrenia di entrambe le cose? Perché sto già pagando? Ora sono in sciopero della fame e della sete. Non ci sono altre scelte.
Per ulteriori informazioni potete contattarci all'indirizzo email This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
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Una nuova campagna a favore di Julian Assange è stata annunciata da Amnesty International alla vigilia dell’udienza in merito alla sua possibile estradizione. La campagna è rivolta a chiedere alle autorità statunitensi di annullare completamente le gravi accuse di spionaggio. Ciò perché, nel caso contrario, sarebbe molto alto il rischio che le autorità del Regno Unito possano acconsentire all’estradizione negli USA, paese dove potrebbe ritrovarsi vittima di rilevanti violazioni dei diritti umani.
Al momento, sono in programma ben cinque udienze che dovrebbero concludersi nel mese di maggio, con una sentenza appellabile con una decisione finale attesa per la fine dell’anno.
“Gli incessanti tentativi del governo Usa di processare Julian Assange per aver reso pubblici documenti riguardanti anche possibili crimini di guerra commessi dalle forze armate statunitensi non sono altro che un assalto su larga scala al diritto alla libertà d’espressione”,
ha dichiarato in una nota stampa Massimo Moratti, vicedirettore di Amnesty International per l’Europa.
“Il potenziale effetto raggelante verso i giornalisti e altre persone che denunciano le malefatte dei governi rendendo note informazioni ricevute da fonti credibili potrebbe avere profonde conseguenze sul diritto delle opinioni pubbliche a conoscere cosa stanno facendo i loro governi.
Tutte le accuse mosse nei confronti di Julian Assange a seguito di tali attività devono essere annullate”,
ha aggiunto Moratti.
Merita di essere rammentato e sottolineato il fatto che le accuse rivolte ad Assange scaturiscono direttamente dal fatto di aver pubblicato documenti segreti nell’ambito della sua attività lavorativa con l’archivio documentale online Wikileaks, attività che non dovrebbe essere punita, in quanto riguardante condotte che il giornalismo investigativo è chiamato a svolgere regolarmente nel proprio peculiare ambito professionale.
L’organizzazione per la difesa dei diritti umani, pertanto, ritiene che gli insistenti tentativi del governo USA di sottoporre a processo Julian Assange non siano altro che un palese ed allarmante attacco alla libertà di espressione, e che, di conseguenza, processare Julian Assange potrebbe comportare ricadute deleterie sul diritto alla libertà di espressione, spingendo l’intero mondo dell’informazione ad adottare e ad applicare la pratica dell’autocensura, al fine di evitare temibili procedimenti giudiziari.
Ed è proprio in nome del diritto alla libertà di espressione che, con un appello rivolto al Procuratore Generale degli Stati Uniti William P. Barr, si sta procedendo alla richiesta di annullamento totale delle accuse rivolte a Julian Assange:
https://www.amnesty.it/appelli/annullare-le-accuse-contro-julian-assange/
Dopo numerose manifestazioni tenutesi in varie località italiane, anche a Roma, finalmente, si è potuta svolgere (soprattutto grazie ad Amnesty International) una manifestazione di solidarietà nei confronti di Patrick Zaki, lo studente egiziano (iscritto ad un master presso l’Università di Bologna), arrestato al suo rientro in Egitto.
I pubblici ministeri di Mansoura hanno ordinato la detenzione preventiva di Patrick George Zaki in attesa di indagini su accuse tra cui “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”.
Il 22 febbraio, allo scadere dei primi 15 giorni di detenzione, un tribunale egiziano ha ottenuto il prolungamento di ulteriori 15 giorni.*
Patrick è stato definito da Amnesty International “prigioniero di coscienza”, in quanto detenuto esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.
Giovedì scorso, in tanti, a piazza della Rotonda, davanti al Pantheon, con candele, striscioni e cartelli con la scritta “PATRICK LIBERO”, si sono dati appuntamento per richiedere al governo egiziano di rilasciare immediatamente Zaki.
Fra le numerose persone presenti, abbiamo raccolto le significative parole di persone da tempo impegnate sul fronte della difesa dei diritti umani: Riccardo Noury (portavoce della sezione italiana di Amnesty International); Claudia Pacini (responsabile di Amnesty International-Lazio); Claudio Rossi (volontario di Emergency).
Riccardo Noury
- Quali informazioni Amnesty International è riuscita a raccogliere sulle reali condizioni di Patrick?
Esteriormente appare in buone condizioni, ma è evidente che sia provato, anche perché le attuali condizioni detentive non sono adeguate (una cella di una stazione di polizia con altre 30 persone). I suoi avvocati hanno sporto formale denuncia per le torture subite al Cairo nelle ore successive all'arresto in aeroporto.
- In base a quali elementi AI ha potuto dichiararlo "prigioniero di coscienza"?
La storia di Patrick ci dice molto chiaramente che i capi d'accusa contenuti nel mandato d'arresto non trovano corrispondenza in alcun asserito suo comportamento criminale. La sua è un'esperienza alla luce del sole di attivista per i diritti umani, di studio e di ricerca. Del resto, quei capi d'accusa sono una fotocopia di quelli mossi nei confronti di innumerevoli altri esponenti della società civile egiziana in questi ultimi anni.
Claudia Pacini
- Dopo il caso di Giulio Regeni, eccoci di nuovo in piazza a parlare di diritti umani in Egitto. Soltanto tristi episodi isolati o solo due dei tanti casi di cui Amnesty è a conoscenza?
No, purtroppo i casi di Giulio Regeni e Patrick George Zaki non sono assolutamente isolati: la situazione dei diritti umani in Egitto è da anni in una situazione di profondissima crisi, con continue violazioni da parte delle autorità, che sappiamo hanno applicato tortura, maltrattamenti e sparizioni forzate su centinaia di persone. Senza dimenticare le esecuzioni extragiudiziali! Chiunque sia critico verso il governo, o ritenuto tale, quali manifestanti pacifici, giornalisti, attivisti politici e difensori dei diritti umani, vanno spesso incontro ad arresti e detenzioni arbitrarie.
- Dopo la fiaccolata romana, quali altre iniziative sono previste e cosa pensi che, realisticamente parlando, sia possibile fare?
In questi giorni si sono susseguite tante manifestazioni di piazza in tutta Italia con cui Amnesty International sta chiedendo al governo egiziano il rilascio immediato di Zaki, per il quale si teme che sia sottoposto a tortura. Inoltre, Amnesty sta partecipando, e continuerà a farlo, a una serie di eventi e incontri, anche in università e scuole, in cui continuare a parlare dell' arresto arbitrario di Zaki e della situazione di costante e grave violazione dei diritti fondamentali in Egitto.
E' fondamentale sensibilizzare, far conoscere quanto accade in un paese così vicino al nostro e, soprattutto, mantenere accesa l'attenzione su questo caso: chiediamo che Patrick venga liberato subito e possa ritornare presto ai suoi studi presso l'Università di Bologna!
Claudio Rossi
- Cosa ti ha spinto a prendere parte alla manifestazione a favore di Patrick Zaki ?
La delusione. Ero convinto che, dopo la vicenda di Giulio Regeni, il regime di Al Sisi non dico provasse un po' di vergogna, ma almeno cercasse di sopire, di coprire la sua brutalità e ancora una volta nei confronti di giovani legati all'Italia. La vicenda di Patrick, oltre all'assenza di democrazia, dimostra il livello di protervia di quel
governo.
- In una situazione così complessa come quella egiziana, che peso potrà mai avere una piccola fiaccolata di persone di buona volontà?
Certamente un peso molto relativo; ma ogni lungo viaggio comincia con un passo. Abbiamo visto grandi trasformazioni insinuarsi in sistemi granitici grazie a piccoli esempi: è quello che chiamiamo “sensibilizzazione”. Ma, soprattutto, non possiamo, di fronte alle nostre coscienze, aspettare certezze di successo quando si parla di combattere per principi irrinunciabili.
- Al contrario del caso Regeni, qui ci troviamo di fronte ad un'azione giudiziaria del governo egiziano nei confronti di un suo cittadino.
Manifestazioni come quella di stasera non potrebbero correre il rischio di essere percepite come una intromissione arbitraria negli affari interni di un paese sovrano?
Il concetto stesso di “diritti umani” non avrebbe senso se non travalicasse le frontiere e le legislazioni nazionali.
La difesa dei diritti che definirei “assoluti” ha invece particolare significato proprio dove l'assetto politico, le norme vigenti o le prassi del potere li calpestino; tanto nei confronti degli stranieri quanto dei propri cittadini. Non può bastare una legge per negare un “diritto umano”!
*VEDI: RIFIUTATA LA RICHIESTA DI SCARCERAZIONE PER IL RICERCATORE EGIZIANO PATRICK GEORGE ZAKI.
Purtroppo, sembra proprio che il ricercatore egiziano Patrick George Zaki, partito da Bologna per trascorrere un periodo di vacanza ad al-Mansoura, sua città natale, e arrestato al Cairo il 7 febbraio, dovrà restare in stato di detenzione preventiva ancora per almeno 15 giorni.
I suoi avvocati hanno riferito ad Amnesty International che gli agenti dell’Agenzia di sicurezza nazionale (NSA), durante l’ interrogatorio all’aeroporto, hanno tenuto Patrick bendato e ammanettato per ben 17 ore, picchiandolo sulla pancia e sulla schiena, sottoponendolo anche a scosse elettriche.
Obiettivo dell’interrogatorio risulterebbe essere quello di raccogliere informazioni in merito al suo lavoro in materia di diritti umani durante il suo soggiorno in Egitto e allo scopo della sua residenza in Italia.
Zaki è stato poi trasferito in una struttura di detenzione della NSA (non rivelata) ad al-Mansoura.
Il giorno seguente all’arresto, i pubblici ministeri di al-Mansoura hanno ordinato la sua detenzione per 15 giorni, in attesa di indagini su accuse tra cui “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici. Tale scelta è stata giustificata sulla base di una decina di post pubblicati su Facebook, senza che, però, sia stato consentito né a Patrick né al suo avvocato di poterli esaminare.
Sabato 15 febbraio, i giudici hanno confermato la detenzione preventiva, con nuovo appuntamento in tribunale per il 22 febbraio.
Intanto, dopo aver potuto vedere, seppur per pochissimo, i suoi familiari, Zaki dovrà restare a Talkha, poco lontano da al-Mansoura, in un’altra struttura detentiva.
“L’arresto arbitrario e la tortura di Patrick Zaki rappresentano un altro esempio della sistematica repressione dello stato egiziano nei confronti di coloro che sono considerati oppositori e difensori dei diritti umani, una repressione che raggiunge livelli sempre più spudorati giorno dopo giorno - ha dichiarato in una nota ufficiale Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International -. Chiediamo alle autorità egiziane il rilascio immediato e incondizionato di Patrick, in stato di fermo esclusivamente per il suo lavoro sui diritti umani e per le idee espresse sui social. È necessario che le autorità conducano un’indagine indipendente sulle torture che ha subito e che sia garantita la sua protezione in maniera tempestiva“.
Amnesty International ha dichiarato Patrick George Zaki prigioniero di coscienza, detenuto, cioè, esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.
Molte le iniziative di questi giorni per richiedere la scarcerazione di Zaki:
Ha certamente buone ragioni Giuseppe Anzani nel dire che, nelle scarne parole dei recenti rescritti con cui papa Francesco ha abolito il segreto pontificio sulle denunce, i processi e le decisioni relative ai crimini pedofili commessi da ecclesiastici, ci sarebbe “qualcosa che somiglia a un fuoco”, un “fuoco di dolore che risponde al pianto delle vittime, una fermezza dura fino a stringer la vite nella definizione dei reati, una purificazione invocata e intrapresa, una trasparenza risoluta e totale.” (https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/per-la-chiesa-e-per-tutti-squarcio-e-conversione)
Un fuoco che, da lunghi anni, oramai, sta dando vita a quella che merita, senza alcun dubbio, di essere definita come una delle pagine più importanti della storia della Chiesa cattolica. Una pagina iniziata a scrivere (dopo secoli di imperdonabili silenzi ed occultamenti, ignobili ambiguità e contraddizioni) da un vecchio e travagliato Giovanni Paolo II, nel lontano aprile del 2002, nel suo discorso alla riunione interdiscasteriale con i cardinali degli Stati Uniti d’America, quando, palesemente preoccupato per la crescente “diffidenza” nei confronti dell’intera Chiesa, in seguito al dilagare rovinoso degli scandali, si dichiarò “profondamente addolorato” per il “grande male fatto da alcuni sacerdoti e religiosi”, definendo gli abusi non solo come atti criminosi ma anche come “peccato orrendo agli occhi di Dio”.
Pagina proseguita con le toccanti parole di Benedetto XVI in terra d’Irlanda, quando, nella sua Lettera Pastorale del 2010, rivolgendosi alle vittime di abuso, si trovò ad esprimere, a nome della Chiesa tutta, “vergogna” e “rimorso” (parole fondamentalissime, di importanza veramente epocale), in particolar modo per quanto riguardava l’indicibile sofferenza a cui erano state condannate nel vedere tradita la propria fiducia e la propria dignità, in seguito, soprattutto, alla disperante assenza di un doveroso ascolto.
Una pagina che ha trovato, poi, un momento di grande intensità nell’Omelia del luglio del 2014, nella Cappella della Domus Sanctae Marthae, in cui papa Francesco, rivolgendosi ad alcune vittime di abusi sessuali da parte del clero, ebbe a parlare di “profondo dolore” avvertito da tempo nel proprio cuore, per quelli che non possono essere più definiti come meri “atti deprecabili”.
“E’ come un culto sacrilego - dirà - perché questi bambini e bambine erano stati affidati al carisma sacerdotale per condurli a Dio ed essi li hanno sacrificati all’idolo della loro concupiscenza.”
Oggi, proseguirà Francesco, la Chiesa (schiacciata da vergogna e rimorso!) “Chiede la grazia di piangere di fronte a questi atti esecrabili di abuso perpetrati contro i minori.”
Ma la tappa cruciale è senza dubbio rappresentata dalla Lettera Apostolica in forma di “Motu proprio”, Sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili (26 marzo 2019), in cui vergogna e rimorso non si limitano più a manifestare solidarietà e richieste di perdono, ma si traducono (finalmente!) nell’affermazione categorica del “dovere di segnalare gli abusi alle Autorità competenti e di cooperare con esse nelle attività di prevenzione e contrasto”, unitamente al riconoscimento del diritto di essere “accolti, ascoltati e accompagnati” a tutti coloro che “affermano di essere stati vittima di sfruttamento, di abuso sessuale o di maltrattamento”, e del dovere di offrire alle vittime e alle loro famiglie “una cura pastorale appropriata, nonché un adeguato supporto spirituale, medico psicologico e legale”.
Ed eccoci, così, ai due rescritti di questi ultimi giorni, che giustamente tanto hanno suscitato clamore: il Rescriptum ex audientia SS.mi, in cui si promulga l’Istruzione Sulla riservatezza delle cause ; e il Rescriptum ex audientia SS.mi, in cui si introducono alcune modifiche alle Normae de gravioribus delictis . Due documenti di capitale importanza, frutti maturi (da tanto tempo attesi e invocati) di un cammino storico inimmaginabilmente faticoso, e non certamente di una decisione frettolosa ed impulsiva.
Con essi Francesco spazza (anzi spezza!) via il segreto pontificio relativo ai casi di violenza sessuale e di abuso sui minori commessi dai chierici, e decide, al contempo, di cambiare la norma riguardante il delitto di pedopornografia, classificando nella fattispecie dei “delicta graviora” (i delitti più gravi) anche la detenzione e la diffusione di immagini pornografiche relative a minori (fino all’età di 18 anni - altro importantissimo cambiamento - e non più di 14).
Conseguenza inevitabile della decisione di Bergoglio sarà che, d’ora in poi, denunce, testimonianze, documenti processuali relativi a vicende di abuso archiviati e tutelati dal segreto pontificio potranno essere consegnati ai magistrati inquirenti che ne facciano richiesta, in modo da sgretolare l’immonda prassi consolidata della mancata denuncia e della copertura degli abusatori da parte delle istituzioni religiose.
Il commento migliore a queste innovazioni davvero “storiche” è arrivato dalla irlandese Marie Collins, vittima negli anni Sessanta, all’età di tredici anni, di abusi da parte di un prete. Nominata dal papa nella prima Commissione antipedofilia, nel 2014, dopo tre anni preferì dimettersi, frustrata e irritata dalle resistenze vaticane.
“Una notizia eccellente - ha dichiarato - Lo avevamo raccomandato durante il primo mandato della commissione, è bello vedere che è stato applicato. Finalmente un cambiamento reale e positivo.” (https://www.corriere.it/cronache/19_dicembre_17/preti-pedofili-voci-chi-ha-subito-abusi-tanti-vescovi-contro-papa-425eb360-210c-11ea-ad99-8e4d121df86f.shtml)
E la dimostrazione oggettiva che siamo davvero di fronte a qualcosa di “reale e positivo” ci proviene da quanto recentemente dichiarato all’agenzia Associated Press da monsignor John Joseph Kennedy, capo Ufficio della Sezione disciplinare della Congregazione per la dottrina della fede, annunciando che, nel corso del 2019 è stata raggiunta la cifra record di ben 1.000 casi segnalati in tutto il mondo (riguardanti in particolare Stati Uniti, Argentina, Messico, Cile, Italia e Polonia).
“Stiamo effettivamente assistendo - ha detto Kennedy - a uno “tsunami” di casi che spesso riguardano situazioni di anni o decenni fa”.
(Avvenire, 20/ 12/ 2019)
Il fatto che dalle diocesi, soprattutto in Italia, arrivino segnalazioni risalenti addirittura a 30-40 anni, a parere di Lorenzo Ghizzoni, arcivescovo e presidente del Servizio nazionale Cei per la tutela dei minori, costituirebbe, indubbiamente, la chiara conferma della bontà della strada intrapresa:
il vergognoso atteggiamento tradizionale volto a tutelare, prima di ogni altra cosa e sopra ogni altra cosa, l’immagine della Chiesa (“castissima sposa di Cristo”), proteggendo i carnefici e umiliando le vittime, sembra irreversibilmente destinato a lasciare il posto ad un vento nuovo, fatto di trasparenza, volontà di collaborazione con le autorità giudiziarie e di collaborazione solidale con le vittime e le loro famiglie.
“Vorrei qui ribadire chiaramente: se nella Chiesa si rilevasse anche un solo caso di abuso – che rappresenta già di per sé una mostruosità – tale caso sarà affrontato con la massima serietà. Fratelli e sorelle: nella rabbia, giustificata, della gente, la Chiesa vede il riflesso dell’ira di Dio, tradito e schiaffeggiato da questi disonesti consacrati. L’eco del grido silenzioso dei piccoli, che invece di trovare in loro paternità e guide spirituali hanno trovato dei carnefici, farà tremare i cuori anestetizzati dall’ipocrisia e dal potere. Noi abbiamo il dovere di ascoltare attentamente questo soffocato grido silenzioso.”
Papa Francesco
(Discorso conclusivo per l’Incontro “La protezione dei minori nella Chiesa”, Vaticano, 21-24 febbraio 2019)
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Sulla questione della piaga della pedofilia all’interno della Chiesa, si veda:
https://www.flipnews.org/spirituality/scandalo-pedofilia-papa-francesco-ringrazia-i-media.html
Da molti anni, oramai, la Comunità di Sant’Egidio si è collocata in prima linea nel combattere la perdurante pratica della pena di morte. Impegno questo, in realtà, evidenziatosi, già nel corso dei primi anni ’80, quando numerosi suoi membri divennero soci di Amnesty International, svolgendo anche attività di un certo rilievo sia all’interno della struttura regionale che nazionale, e favorendo, in tal modo, in maniera certamente significativa, la crescita delle posizioni abolizioniste all’interno di una Chiesa Cattolica, che la pena di morte ha, per lunghissimi secoli, tollerata, propugnata e benedetta.
Fra le varie iniziative promosse di recente dalla Comunità al fine di promuovere, difendere e potenziare una cultura efficacemente abolizionista, merita certamente di essere menzionata ed elogiata l’organizzazione del XII Congresso dei Ministri della Giustizia, svoltosi a Roma alla fine dello scorso mese, presso la Nuova Aula del Palazzo dei Gruppi parlamentari della Camera dei deputati.
Impossibile riassumere, anche a grandi linee, i molteplici contenuti, appelli e messaggi, nonché le appassionate testimonianze che sono stati offerti ad un pubblico composto anche da attentissime scolaresche. E’ però possibile affermare che tutti i relatori, seppur provenienti da realtà culturali lontanissime fra loro, si sono dedicati a sottolineare come la pena di morte sia espressione evidente di una millenaria cultura dell’odio, caratterizzata da un atteggiamento di profonda sfiducia nella capacità dell’umanità di rinnovarsi, di aprirsi e di autoeducarsi in vista del conseguimento progressivo di una condizione sempre crescente di armonia e di concordia (sia interiori che esteriori).
Tutti i relatori hanno evidenziato, con rigore intellettuale e anche con sincera partecipazione emotiva, come la pena di morte sia qualcosa di partorito e alimentato da una visione del mondo in cui fatica a trovare ascolto e diritto di cittadinanza il principio umanistico-illuministico del valore assoluto ed inviolabile della dignità umana. Tutti hanno ribadito come la pena capitale rappresenti una sorta di “soluzione militare semplificata” da parte dello Stato contro il cittadino, una vera e propria “cicatrice sulla coscienza collettiva dell’umanità”, una strategia brutale quanto miope, non soltanto sterile, ma anche gravemente distruttiva (l’odio distrugge non solo chi ne è vittima, ma anche chi lo coltiva e lo esercita!), generata dalla paura e dall’ignoranza.
E con insistenza si è sovente evidenziato come, nella attuale situazione internazionale, ci si trovi sempre più di fronte ad un vero e proprio bivio: da una parte una affermazione sempre più
Suzana Norlihan, penalista |
coerente e convinta di una cultura abolizionista incentrata sulla comprensione ed accettazione della grande rivoluzione valoriale rappresentata dall’irrompere sulla scena della storia mondiale della filosofia dei Diritti Umani; dall’altra il dilagare di una cultura del disprezzo, del rifiuto e dello scarto, che assolutizza il potere della forza, innalzato ad unica panacea per i mali del mondo, espresso anche nelle forme più estreme e violente.
Fra i tanti interventi di grande pregio, merita un particolarissimo apprezzamento il contributo offerto da Suzana Norlihan, avvocato penalista e sorella di un condannato a morte, imprigionato nel 2002.
La Norlihan, divenuta penalista con il chiaro intento di aiutare i più svantaggiati, ha messo in luce come la pena capitale non costituisca un deterrente, ma che, oltre a colpire con crudeltà anche i familiari del reo, rappresenti, invece, una legittimazione e nobilitazione della violenza, comunicando la tesi secondo cui la vita possa essere tolta, attribuendo, così, al potere degli uomini un potere divino, e scegliendo di “gettare la spugna” di fronte all’errore umano.
Mentre “Dio - ha sottolineato con toccante intensità - non getta mai la spugna”!
Mentre soltanto attraverso la via dell’amore, della misericordia e del perdono, sarà possibile costruire un mondo in cui sarà sempre possibile offrire e sperimentare “un’ altra possibilità”.
Antonio Marchesi |
Poche cose (forse davvero nessuna) sono paragonabili, nell’ambito delle infinite cose terribili inventate e praticate dall’umanità, all’ orrore rappresentato dalla tortura. “Chi nel leggere le storie - scriveva Cesare Beccaria - non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti che da uomini, che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti?” E chi, ancora oggi, può non rimanere sgomento di fronte alle notizie che, a volte ci giungono, di episodi di tortura?
Sono passati diversi decenni, ormai, dal 10 dicembre del 1984, anno in cui l’Assemblea generale adottò la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, e quel testo è stato (ed è ancora) innumerevoli volte tragicamente ignorato e tradito. Basti pensare che il numero dei paesi che l’hanno ratificato, impegnandosi a prevenire e a punire la tortura, è soltanto di poco superiore a quello dei paesi in cui risulta tuttora essere praticata, e che almeno tre paesi su quattro, fra quelli che si erano vincolati a non più farvi ricorso, hanno finito, in questi ultimi anni, per farne uso (in maniera isolata o seriale).
Nel Rapporto sulla tortura nel mondo del 1973, Amnesty International si trovò costretta ad ammettere, con oggettiva amarezza, che fino ad allora troppo poco era stato fatto “per definire e, in ultima analisi, per debellare l’uso della tortura.” Tanti anni, da allora, sono passati. E, senza dubbio alcuno, non in modo del tutto sterile.
L’uomo - leggiamo sempre nel Rapporto - “Ha imparato a porre dei limiti all’esercizio del potere da parte dei pochi per proteggere i molti e per proteggere in ultima analisi tutti. La tortura è il più flagrante diniego dell’umanità dell’uomo, è la corruzione umana ultima. Per questa ragione l’uomo l’ha proibita. Questa conquista umana deve essere difesa.” Arrivando poi a concludere, con la peculiare pragmatica saggezza amnestiana, che compito irrinunciabile della comunità internazionale sarebbe dovuto essere l’ elaborazione di “rimedi efficaci per la prevenzione della tortura.”
Ed è proprio in questa prospettiva pedagogicamente preventiva che merita di essere inteso, letto ed apprezzato (molto!) l’ultimo libro di Antonio Marchesi, docente appassionato e instancabile alfiere della cultura dei diritti umani: libro che, passando in rassegna numerosi casi (più o meno noti) di tortura della nostra epoca, da Abu Ghraib a Giulio Regeni, dall’Argentina dei desaparecidos alla vergogna della s
cuola Diaz di Genova, ha l’indubbio pregio di riuscire a permetterci di penetrare dentro il cupo universo della tortura, mettendoci in contatto con le esistenze di tante persone reali che la tortura l’hanno subita e combattuta, oppure praticata e occultata.
Con Antonio Marchesi, amico di lunga data, è nata la conversazione che segue:
- Antonio, come mai, pur essendo tu un giurista e non un cronista o uno storico, invece che proporci una trattazione di tipo filosofico-giuridico del fenomeno della tortura, hai preferito presentarci una rosa di vicende relative a vittime della tortura, conferendo ampio spazio, in particolare, agli sviluppi giudiziari, spesso estremamente complessi e travagliati, dei singoli casi?
Ho voluto illustrare gli ostacoli che rendono difficile, se non impossibile, ottenere verità e giustizia quando di mezzo c’è l’apparato dello stato e, in particolare, quando l’accusa, particolarmente infamante, è di tortura. Nel tentativo di arrivare a un pubblico poco avvezzo (e forse poco interessato) ai ragionamenti dei filosofi del diritto, mi sono affidato al racconto di vicende concrete, tutte realmente accadute, narrando sia gli abusi commessi sia, soprattutto, l’occultamento, i depistaggi, la rimozione che sono seguiti.
- Jean Améry, un intellettuale che la tortura l’ha patita in maniera devastante, afferma che chi ha provato sulla propria pelle e nella propria anima una simile indicibile esperienza, ha visto crollare, dentro di sé, la fiducia nel prossimo, la fiducia nell’intera specie umana.
Sulla base delle tue ricerche, nonché della tua pluridecennale militanza in Amnesty International, ritieni sia possibile, da parte delle vittime, una ricostruzione, seppur lenta e parziale, di un rapporto col mondo degli umani animato e sorretto da un efficace sentimento fiducia?
Spero di sì, spero (e credo) che sia quantomeno possibile, dopo la tortura, tornare a condurre una vita “normale”. Credo però che, anche quando questo avviene, anche quando il percorso di ricostruzione viene completato definitivamente e con successo, il rischio che i fantasmi del passato ritornino non possa essere completamente eliminato. In altre parole, non so se dalla tortura si guarisca mai del tutto.
- Per quanto concerne, invece, l’entità del fenomeno della tortura e la sua evoluzione storica, credi sia possibile, dati alla mano, da parte nostra, guardare al futuro con ragionevole speranza?
Il fatto che i torturatori - chi la tortura la esegue ma anche chi la ordina o in qualche modo la legittima - sentano il bisogno di nascondersi, di negare i fatti e le proprie responsabilità, che il tabù della tortura resista, è già una buona notizia. Su queste basi si può costruire una strategia di eliminazione effettiva, e non solo di ripudio formale, della tortura.
Ci vorrà sicuramente molto tempo prima di ottenere una significativa diminuzione del fenomeno a livello mondiale. Ma il risultato complessivo e finale è la somma di tanti piccoli risultati parziali, importanti in quanto tali. E, in ogni caso, per raggiungere una meta distante bisogna pur muovere dei passi, per piccoli che possano essere, nella giusta direzione.
- In Italia, con ben 11.000 giorni di ritardo rispetto a quanto proclamato a livello internazionale, e dopo inenarrabili resistenze, nell’estate del 2017, è stato finalmente introdotto nel codice penale il reato di tortura. A proposito dell’ arduo, travagliato e controverso cammino che ci ha condotto a questo risultato (vicenda questa che ti ha visto, in quanto presidente della sezione italiana di AI, a lungo impegnato in primissima fila), tu stesso ti sei attentamente chiesto se sia “stato fatto un passo avanti, sia pure insufficiente, oppure no”, approdando ad una valutazione di cauta positività.
In base a quali considerazioni?
Non hanno forse valide motivazioni coloro che parlano di legge inadeguata, inaccettabile o, addirittura, di “legge truffa”?
Criticare la definizione del reato è ovviamente lecito … anzi, condivido molte delle critiche (anche se talvolta espresse con una nettezza fuori luogo, visto che è ben difficile anticipare con certezza come verranno interpretate e applicate quelle norme poco chiare). Dire che sarebbe stato meglio niente è, invece, secondo me un grave errore di prospettiva e riflette un atteggiamento di chi è più interessato ad avere ragione che a cambiare le cose (un atteggiamento difficilmente riconciliabile con le strategie graduali tipiche di organizzazioni come Amnesty International, che, un pezzettino alla volta, non disdegnando i compromessi, hanno ottenuto risultati impensabili, di grandissimo rilievo). Se non altro, il fatto che un reato di tortura oggi ci sia segna la fine di quella rimozione della nozione stessa di tortura di cui il silenzio del codice penale era espressione. Una rimozione che era molto cara ai “negazionisti” (che per decenni hanno ripetuto che del reato di tortura non c’era bisogno perché la tortura in Italia non c’è!).
- E le norme di prevenzione della tortura, inoltre, ti sembra che siano state ben formulate? Cosa sarebbe stato possibile fare di più e di meglio? E cosa si potrà, a tuo avviso, realisticamente migliorare nei prossimi anni?
Alcune delle altre norme contenute nella nuova legge sono sicuramente una novità positiva. Da quella che riafferma con forza il principio di non refoulement, a quella che chiarisce l’inutilizzabilità in un processo di informazioni ottenute mediante tortura, fino alla norma che esclude l’immunità degli organi stranieri. Peccato invece che non sia stata accolta la proposta di allungare (raddoppiandoli) i termini di prescrizione rispetto al sistema di calcolo ordinario.
- Riccardo Noury, nella sua prefazione, dopo aver detto che esistono “più pentiti di mafia che pentiti di tortura”, fa riferimento a Pierre Yambuya, definito come l’unico, da lui conosciuto, ad essersi sinceramente e coerentemente “pentito mentre collaborava alla tortura”. Sono sicuro che anche tu, nel corso della tua lunga militanza amnestiana, abbia avuto modo di conoscerlo bene e di apprezzarne lo spessore morale.
Sì ... l'ho conosciuto tanti anni fa, poco dopo il suo coraggioso rifiuto di prendere ulteriormente parte, da pilota militare qual era, alla macchina repressiva del regime congolese e la sua rocambolesca fuga in Europa. E l'ho rivisto tante volte da allora. La sua scelta (una scelta unica, o quasi, come ha giustamente sottolineato Riccardo) Pierre l'ha pagata molto cara. Ha vissuto una vita da esule, nella continua speranza che si creassero le condizioni affinché potesse tornare nella sua Africa (cosa che è avvenuta solo per un breve periodo). E quella vita l'ha trascorsa portando avanti, per decenni, con una tenacia ammirevole, la sua missione di testimone di violazioni dei diritti umani.
E' morto in esilio mentre era ospite di attivisti di Amnesty suoi amici.
Ci mancherà.
*Antonio Marchesi insegna Diritto internazionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Teramo e ha tenuto corsi di lezioni in diverse università italiane e straniere. È autore di oltre cinquanta saggi e ha scritto o curato libri soprattutto sulla protezione internazionale dei diritti umani. È iscritto alla sezione italiana di Amnesty International dal 1977 e ne è stato presidente dal 1990 al 1994 e dal 2013 al 2019. Per il Segretariato internazionale di Amnesty International ha svolto missioni di ricerca e partecipato a conferenze internazionali. Ha collaborato su progetti in tema di diritti umani con il Consiglio d’Europa, il Parlamento europeo, la Commissione europea e diverse organizzazioni non governative ed è attualmente consulente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
Antonio Marchesi
Contro la tortura – Trent’anni di battaglie politiche e giudiziarie
Prefazione di Riccardo Noury
Introduzione di Mauro Palma
Con il patrocinio di Amnesty International
Infinito Edizioni
25 Novembre: Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne, vittime ignare di uno stereotipo di genere OVVERO la Degenerazione del Femminismo.
… Correa l’anno 1791, in una Francia “illuminata”, giovanissima figlia della Rivoluzione per eccellenza, viene proclamata la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, di quelle donne scese in piazza, insieme agli uomini, a rivendicare i diritti politici e civili negati dall’assolutismo monarchico.
Inconsapevolmente, in quella sede, si sono poste le basi di un movimento, oggi, irreparabilmente viziato nel mondo occidentale, un fenomeno che, ai giorni nostri, contraddice i primigeni, nobili, intenti di uguaglianza e libertà… “Sua Maestà il Femminismo”!
Un movimento destinato a durare nei secoli.
Pace, Pane e Libertà reclamavano le donne di San Pietroburgo nel non così lontano 1917.
Spezzati gli antichi pregiudizi sedimentati sul fondo di un’arcaica incoscienza patriarcale, nel 1929, si innalzano le “Torce della libertà”.
Ma dov’è finita la razionalità promossa, in tempi non sospetti, da Mary Wollstonecraft, prima femminista in assoluto e quali le deviazioni che sono maturate, nel corso degli anni, man mano che, dai suoi primi, timidi tentativi, il fenomeno si trasformava da movimento culturale elitario in fenomeno di massa, più o meno esasperato, non tanto nelle premesse, quanto negli esiti?
E sì, perché, a giudicare da quello che oggi ci propone e ci sottopone il panorama mediatico, di razionale sembra esserci davvero molto poco!
Si cominciò nel ’68, toccando quei temi scottanti, quali divorzio e aborto, fino ad allora protetti da un’aura quasi sacrale, pensando, in qualche modo, che l’affrancamento della donna fosse, in primis, affrancamento sessuale, quindi libertà dall’obbligo di procreare.
Da quel momento la parabola discendente del femminismo occidentale non subirà più arresti.
Lentamente, si è passati, dalla legittima pretesa di parità, a quella, più insensata che inesaudibile, di un’arrogante castrazione maschile.
Prerogativa di chi rivendica un diritto negato è il rifiuto della prevaricazione, a buon rigor di logica!
Ma quello che è nato con il preciso intento di liberare la donna è diventato la sua prima causa di schiavitù, perché, nel tentativo di modificare un rapporto di forza precostituito, ne è diventata vittima volendolo ribaltare.
E per farlo non ha certo badato a spese, servendosi della diffusione mediatica ossia la manipolazione delle masse più riuscita dopo quella della Chiesa.
Le pubblicità inneggiano, in maniera palese, alla mortificazione fisica e mentale dell’uomo, sminuendo drasticamente, nell’immaginario collettivo, la figura maschile.
La violenza verbale è ammessa e concessa, gli aborti morfologici proponibili in nome di una battaglia a senso unico senza precedenti.
E, qualora tutto ciò non si dimostrasse sufficiente a ribaltare un clichet, tiriamo fuori le accuse di sessismo noi POPOLO ROSA!
Basta una parola, un’accusa di violenza per rovinare la vita di un uomo, non facendosi scrupolo di denigrare la figura paterna anche nei confronti dei figli. La parola, l’arma più potente di cui il genere umano dispone.
Ma è il furore ideologico tipicamente adolescenziale che, proprio per la sua natura di “minorenne”, è condannato ad una visione schematica che non sa andare oltre il bianco e il nero, ignorando la complessità e le contraddizioni del mondo e del genere umano.
Questi poveri maschi improvvisamente sono diventati dei sempre meno efficienti padri, mariti, lavoratori, quasi una categoria a rischio, sì, perché fanno tutto loro, LE DONNE, o, almeno, così dicono…
Poi però rivendichiamo le quote rosa e, nei divorzi, pretendiamo l’assegno di mantenimento, ci sono padri che mantengono figli che non vedono mai.
Quanta ipocrisia!
Ci sono padri che, nel silenzio e, con dignità, hanno svolto lavori umilianti, massacranti per sostenere la propria famiglia.
Questa è memoria storica oltre che grande esempio di coraggio, civiltà e senso del dovere.
Un abominio che nulla ha a che vedere con la gloriosa storia di Olympe de Gouges o, molto presumibilmente, una degenerazione funzionale all’attuale sistema economico-sociale.
L’emancipazione avvenuta, non è quella della donna dall’uomo, ma quella della donna da se stessa.
L’emancipazione della donna dalla sua maternità, la caratteristica biologica più spiccata, permette di disporre di lavoratrici più efficienti.
Via, quindi, alla virilizzazione del femminile, a quella mortificazione della femminilità che, a volte raggiunge livelli davvero aberranti.
Urge il recupero di un’autentica coscienza di genere da contrapporre al femminismo più spietato, bacino ideologico del capitalismo imperante.
“UMANO TROPPO UMANO” urlava Nietzsche già nel 1878!
Oggi, nel tempo della tecnica, non c’è più spazio per l’uomo e, quindi, neanche per la donna.
Dove “Dio è morto”, volendo ancora citare Nietzsche, anche l’uomo deve morire.
Ormai vige il principio che una donna se non si realizza nel lavoro è una persona frustrata, sempre a detta delle stesse, incapaci di capire che la scelta è una possibilità. Che c’è sempre un “padrone” da asservire e che una donna può realizzarsi ed esercitare il proprio, legittimo, autorevole potere in seno alla famiglia al di là di quanto rende in termini economici.
Perché, diciamocelo chiaro, signori miei, il vero potere delle donna, delle grandi società matriarcali, è proprio quello!
Oggi la donna dovrebbe un pochino imparare a svestire i panni dismessi di Wonder Woman, a liberarsi da quel furore mistico di cui si è auto investita, fare pace con se stessa e non la guerra con l’altro sesso, nella sana accettazione del fatto che, aver bisogno dell’altro non è segno di debolezza ma il naturale completamento di due identità parallele.
L’onnipotenza non è di questo mondo!
Appena qualche giorno dopo l’annuncio di un aumento delle tariffe dei trasporti pubblici a Santiago del Cile, diverse migliaia di persone si sono mobilitate per chiedere un congelamento dell’aumento delle tasse e soluzioni concrete in merito a una varietà di scelte politiche che stanno gravando su vasti settori della società cilena e che hanno un pesante impatto sui diritti economici, sociali e culturali dell’intera popolazione.
In seguito a diversi episodi di violenza nelle strade, il governo ha deciso di sospendere il servizio di trasporto pubblico e di decretare uno stato di emergenza il 18 ottobre, cosa questa che ha comportato l’invio del comando di difesa nazionale alle manifestazioni e l’imposizione del coprifuoco nell’area metropolitana di Santiago e in altri città.
In base ai dati diffusi dal governo cileno, durante le manifestazioni, lo stato d’emergenza e il coprifuoco, risulterebbero decedute ben diciotto persone.
Secondo l’Istituto nazionale dei diritti umani (Indh), cinque di queste persone sarebbero state uccise dalle forze di sicurezza. La stessa fonte segnala l’arresto di 2600 persone, 584 feriti (245 dei quali a colpi d’arma da fuoco) e altre gravi violazioni dei diritti umani.
Con una lettera aperta inviata al presidente Sebastián Piñera, l’organizzazione mondiale per la difesa dei diritti umani Amnesty International ha rammentato alle autorità cilene gli ineludibili obblighi in materia di diritti umani, esortandole insistentemente ad ascoltare le richieste della popolazione e ad agire efficacemente con adeguati provvedimenti.
“Invece di paragonare le manifestazioni a uno ‘stato di guerra’ e di definire coloro che protestano nemici dello stato, aumentando così il rischio che subiscano violazioni dei diritti umani - ha dichiarato in una nota ufficiale Erika Guevara-Rosas, direttrice di Amnesty International per le Americhe - il governo del presidente Piñera dovrebbe ascoltare e prendere seriamente in considerazione le ragioni del malcontento“.
Le autorità cilene hanno infatti l’obbligo di indagare in modo approfondito, rapido e imparziale su tutte le denunce di uso eccessivo della forza, arresti arbitrari, maltrattamenti e torture e su ogni ulteriore violazione dei diritti umani commessa durante lo stato d’emergenza, così come investigare sulle circostanze e sulle responsabilità nei casi in cui persone hanno perso la vita.
“Criminalizzare le proteste non è la risposta. - ha aggiunto Guevara-Rosas - Se le autorità cilene devono prendere misure per prevenire ed evitare azioni violente, in nessuna maniera queste azioni possono essere usate come pretesto per limitare i diritti alla libertà di espressione e di manifestazione pacifica o per fare uso eccessivo della forza.”
Inoltre, con una nota ufficiale, Amnesty ha annunciato l’invio di una missione in Cile per indagare sulle violazioni dei diritti umani commesse nel contesto dello stato d’emergenza e del coprifuoco.
“Il mondo sta osservando quello che accade in Cile - ha dichiarato sempre la Guevara-Rosas - Esortiamo ancora una volta il presidente Sebastián Piñera a porre fine alla violenta repressione scatenata contro coloro che esercitano il legittimo diritto di manifestazione pacifica. Nonostante i suoi messaggi conciliatori e di discolpa, la presenza aggressiva di polizia ed esercito nelle strade continua a impaurire la popolazione”.
“Il governo cileno deve ascoltare in modo adeguato le richieste della popolazione e realizzare le riforme sostanziali e strutturali affinché tutte le cilene e tutti i cileni possano beneficiare dei diritti umani e vivere in condizioni di dignità“, ha proseguito Guevara-Rosas.
L’ unità regionale di crisi di Amnesty International raccoglierà testimonianze ed esaminerà informazioni che possano aiutare le vittime a pretendere e ad ottenere giustizia, verità e riparazione da parte dello stato, nonché a corroborare le denunce di violazioni dei diritti umani e di possibili crimini di diritto internazionale.
L’associazione, in questi giorni, attraverso i canali messi a disposizione della società civile cilena, sta ricevendo numerose denunce di gravi violazioni dei diritti umani (dall’uso eccessivo della forza alle irruzioni e perquisizioni illegali, dalla tortura agli arresti arbitrari), e i suoi esperti digitali stanno esaminando accuratamente le fotografie e i video sin qui ricevuti.
Lo hanno strappato alla vita, in questi giorni se ne apprende la la notizia. Un agguato di taglialegna intenti a tagliare alberi all’interno del territorio indigeno di Araribóia, regione di Bom Jesus das Selvas, Maranhão.
Gli hanno sparato nel mezzo ai villaggi di Lagoa Comprida e Jenipapo. Riverso in terra come ad abbracciarla ancora un’ultima volta. Lo hanno trovato così, venerdì 1° novembre, un giovane indigeno, si chiamava Paul Paulino Guajajara.
Secondo le informazioni ottenute ad oggi, anche il guardaboschi assegnato formalmente a quella zona, Laércio Guajajara è stato colpito durante l’attentato. Pare che nell’attentato sia morto anche uno dei taglialegna, il corpo poi fatto sparire dagli altri taglialegna prima dell’arrivo delle autorità brasiliane.
Siamo di fronte all’incapacità dello Stato brasiliano governato da Bolsonaro di proteggere i territori indigeni, di salvaguardare la foresta, i “Guardiani della foresta” i popoli indigeni in questo momento ne stanno pagando il prezzo più alto, con morti e uccisioni che avvengono tutte le settimane, una incapacità che spesso sfocia nella complicità del governo brasiliano, nell’aver promesso ai grandi proprietari terrieri e alle grandi aziende multinazionali di poter sfruttare vaste zone della foresta amazzonica
Invase da accaparratori di terra e taglialegna, le terre indigene di Maranhão sono da tempo teatro di una lotta impari, in cui piccoli gruppi di Indigeni Guardiani scelgono di difendere, spesso con le loro vite, l’integrità dei loro territori.
Paulino e Laércio sono solo le ultime vittime di uno stato che rifiuta di rispondere alla Costituzione federale.
“Ripudiamo e diciamo basta a una vera e propria ondata di violenza quella generata dall’incapacità dello Stato di adempiere minimamente al suo dovere di proteggere questo e tutti i territori indigeni del Brasile, chiediamo l’adozione di misure immediate per prevenire ulteriori conflitti e morti nella regione.” così hanno affermato i rappresentanti di Greenpeace del Brasile, riguardo all’ennesima morte di un indigeno
“Siamo dalla parte e solidarizziamo con i coraggiosi guerrieri Guajajara dell’Arariboia Indigenous Land e i Guardiani della Foresta nel Maranhão e in tutto il Brasile, che continuano a combattere quotidianamente per il diritto all’esistenza.” hanno continuato i rappresentanti di Greenpeace del Brasile.
Aggiungiamo che questa battaglia per la salvaguardia dei popoli indigeni e della foresta dell’Amazzonia anche se pare lontana, è vicinissima a noi e alle sorti di tutto il nostro pianeta. Secondo le ultime previsioni riportate in un precedente articolo, proseguendo al ritmo odierno con l’abbattimento di vaste aree forestali amazzoniche, in capo a pochi anni, (chi afferma 2 anni, altri 5, i più ottimisti 10), si ridurrà la foresta amazzonica all’incapacità di auto-produrre sufficienti piogge per il suo stesso mantenimento, venendosi a creare così una specie di punto di non ritorno, ormai molto vicino secondo i dati, e che una volta oltrepassato, la foresta amazzonica sarebbe destinata a scomparire nel tempo, per trasformarsi in un’area molto più simile ad una savana che a una foresta.
Ciò comprometterebbe pesantemente il ciclo delle piogge, di fatto condannando l’intero pianeta a stravolgimenti climatici e ambientali enormi che cambierebbero il volto stesso del pianeta così per come è adesso.
Si parla quindi nel breve termine di una lotta per la protezione e la salvezza dei popoli indigeni e della foresta dell’Amazzonia, ma nel medio periodo, la loro distruzione significherebbe anche la condanna del mondo, almeno per come lo conosciamo.
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa internazionale Pressenza