L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Human Rights (195)

Roberto Fantini
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             Secondo l’UNICEF, nel mondo sarebbero almeno 125 milioni le donne e le ragazze che sono state fatte oggetto di mutilazioni genitali (MGF), mentre secondo la World Health Organisation (WHO) si tratterebbe addirittura di ben 200 milioni. E, benché negli ultimi tre decenni sia stato registrato un calo complessivo della pratica, sulla base degli attuali trend demografici è possibile calcolare che ogni anno altri 3 milioni di bambine al di sotto dei quindici anni potrebbero essere aggiunti a queste statistiche. 

Le MGF sono tuttora praticate soprattutto in 30 paesi africani e in alcuni paesi del Medio Oriente (Yemen, Emirati Arabi), ma praticate anche in alcune comunità dell’Asia, dell’America Latina e degli Stati arabi. Vanno inoltre considerate a rischio anche le ragazze che vivono in comunità di emigrati sparse per il mondo. In Europa, ad esempio, si stima la presenza di ben 500.000 vittime.

E’ soltanto a partire dagli anni ’90 che la comunità internazionale ha cominciato a riconoscere le mutilazioni genitali femminili come una grave violazione dei diritti delle donne e delle bambine. Nella Dichiarazione sulla violenza contro le donne del 1993, infatti, le MGF vennero dichiarate una forma di violenza nei confronti della donna e, nel 1994, la collaborazione tra le agenzie dell’ONU e le ONG condusse al varo di un Piano di azione per eliminare le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute della donna e delle bambine, intenzione poi riaffermata con la Conferenza di Pechino nel 1995. Le mutilazioni sono anche vietate dall’art.21 della Carta Africana sui diritti e il benessere del fanciullo e, fatto fondamentale, sono state messe al bando a livello globale con la risoluzione della 67° Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 20 dicembre 2012.

Va detto, poi, che l’Unione Europea ha adottato, nel 2012 e 2014, due importanti Risoluzioni a favore della lotta contro le MGF, ed anche l’Italia ha segnato alcune tappe significative per la prevenzione e il contrasto alle mutilazioni, quali la legge 7/2006, e la legge 119 del 2013 contro il femminicidio e l’Intesa siglata tra Stato e Regioni nel dicembre 2012.

Purtroppo, però, nonostante questi importanti atti di carattere legislativo, questa orribile violazione dei più elementari diritti umani , che devasta la carne e l’anima in maniera atroce e indelebile, continua in molti casi ad essere percepita come indissolubilmente legata ad antiche e irrinunciabili radici culturali e, di conseguenza, difesa e mantenuta al fine di salvaguardare l’identità culturale del gruppo.

Fortunatamente, in questi ultimi giorni è stato possibile registrare un incoraggiante segnale positivo: il 30 aprile, infatti, il governo di transizione del Sudan ha annunciato la messa al bando, grazie ad un nuovo articolo del codice penale, delle MGF.

 

Pertanto, chiunque sarà considerato responsabile di tale crimine potrà essere punito con la reclusione fino a tre anni e con il pagamento di una multa.

Si tratta, indubbiamente, di un ulteriore importante passo avanti da parte delle nuove autorità sudanesi al potere dal 2019, dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir.

Secondo le organizzazioni locali per la difesa dei diritti umani, infatti, più della metà delle bambine sarebbe ancora sottoposta a questa pratica crudele (l’UNICEF parla addirittura dell’87%).*

Tra tutti i paesi africani, il Sudan è considerato quello in cui il radicamento nelle tradizioni culturali della pratica delle MGF sarebbe più evidente, tanto che le donne integre sono considerate “gulfa”, un termine di disprezzo che indica vergogna ed esclusione sociale.**

C’è da augurarsi, adesso, che, dopo questa importante scelta legislativa, possa essere avviato un indispensabile percorso di sensibilizzazione e di educazione a tutti i livelli, e che, inoltre, tale svolta possa risultare di stimolo prezioso soprattutto per gli altri stati del continente africano.

A tale proposito, Paola Magni, referente per i progetti di contrasto alle MGF di AMREF in Italia, ha recentemente dichiarato:

                       “Purtroppo, è una pratica identitaria, e non penso che una legge sia sufficiente a porre fine alle FGM. Molte volte, nella storia, abbiamo avuto modo di notare il divario tra esistenza di una legge e la sua applicazione nelle aree più remote. Ad accompagnare una legge approvata da uno Stato, servono dei piani regolatori locali, volti ad incoraggiare implementazione della legge in questione all’interno delle Contee, delle Regioni e delle zone rurali. Inoltre, essendo una pratica molto diffusa e molto radicata, le norme che vietano le FGM devono essere accompagnate da processi di formazione e sensibilizzazione, sia all’interno delle comunità locali, sia tra coloro che fanno parte del settore legale e delle forze di polizia.” ***

*https://www.amnesty.it/sudan-saranno-vietate-le-mutilazioni-dei-genitali-femminili/

** https://www.unicef.ch/it/il-nostro-operato/programmi/lotta-alle-mutilazioni-genitali-femminili-sudan

***http://www.vita.it/it/article/2020/05/07/paola-magni-per-contrastare-le-mutilazioni-genitali-femminili-solo-la-/155397/

   Uccidere intenzionalmente un’altra persona è sbagliato e, nella veste di governatore, non supervisionerò l’esecuzione di nessun individuo. Sotto tutti i punti di vista, il nostro sistema capitale si è rivelato un fallimento. È stato discriminatorio nei confronti di imputati mentalmente infermi, afroamericani o scuri di carnagione, o che non possono permettersi una rappresentanza legale dispendiosa. Non ha portato vantaggi alla pubblica sicurezza e non ha nessuna utilità come deterrente. Ha disperso milioni di dollari dei contribuenti. Ma più di tutto, la pena di morte è assoluta e, nel caso di un errore umano, è irreversibile e del tutto insanabile.”

                         Gavin Newsom, governatore della California, 13 marzo 2019

             Norberto Bobbio, in uno dei suoi preziosissimi saggi dedicati al tema della pena di morte, prende le mosse dalla constatazione alquanto sconcertante secondo la quale, nel corso della storia umana, il dibattito intorno alla abolizione della pena capitale sarebbe “appena cominciato”. Proseguendo, poi, col sottolineare che, per lunghi millenni, il problema in merito alla legittimità o meno di tale pena non sia stato neppure minimamente sollevato e che nessun dubbio e nessuna perplessità siano stati avanzati in merito al fatto di ritenere la pena di morte come la pena massimamente capace di soddisfare “il bisogno di vendetta, di giustizia e di sicurezza del corpo collettivo” nei confronti dei suoi membri considerati moralmente e socialmente “infetti” e infettanti.

E, dopo una ricca serie di corpose analisi e dissertazioni in merito alle tesi filosofiche che dovrebbero indurci a ritenere razionalmente inaccettabile tale pratica, arriva ad affermare che la “scomparsa totale della pena di morte dal teatro della storia” costituirà, senza alcun dubbio, un fondamentale traguardo per l’intera famiglia umana.

Se mi chiedete - conclude subito dopo - quando si compirà questo destino, vi rispondo che non lo so. So soltanto che il compimento di questo destino sarà un segno indiscutibile di progresso morale.”*

         Ora, una analoga compresenza di luci ed ombre, di lacrime e di gioie, di amarezze e di speranze possiamo registrarla nell’ esaminare l’ultimo Rapporto annuale dedicato da Amnesty International alla presenza della pena capitale nel mondo nel corso del 2019 (il testo integrale del Rapporto può essere scaricato gratuitamente: https://www.amnesty.it/campagne/pena-di-morte/ ).

Infatti, se, da una parte,l’analisi condotta dalla nota associazione mondiale per i diritti umani in merito all’uso della pena di morte ha confermato il perdurare della tendenza globale verso la sua abolizione, nel contempo si riscontra in alcuni paesi una inquietante inversione di orientamento.

Per cui, mentre il numero delle esecuzioni documentate è diminuito del 5% rispetto al 2018 (da 690 a 657), raggiungendo il valore più basso registrato in almeno dieci anni e confermando, così, la riduzione anno per anno in atto dal 2015, non mancano di certo fatti di ben altra natura:

-          Iraq, Arabia Saudita, Sudan del Sud e Yemen hanno incrementato in modo rilevante il numero delle persone messe a morte;

-          Bahrain e Bangladesh hanno ripreso le esecuzioni dopo l’interruzione di un anno;

-          il parlamento delle Filippine ha presentato delle proposte di legge per la reintroduzione della pena capitale;

-          Sri Lanka e le autorità federali degli Stati Uniti d’America hanno minacciato di riprendere le esecuzioni, ferme ormai da anni.

Inoltre, la mancanza di trasparenza da parte di diversi stati o la diffusione di mere stime parziali hanno impedito ad Amnesty International di effettuare una valutazione esauriente sull’uso della pena di morte nel mondo: i paesi che eseguono più condanne a morte, come Cina, Corea del Nord e Vietnam, hanno continuato a nascondere l’effettiva estensione dell’uso della pena capitale, limitando l’accesso alle informazioni al riguardo.

La Cina, in particolare, resta il maggiore esecutore al mondo, anche se la reale entità del fenomeno (sicuramente nell’ordine di alcune migliaia di sentenze capitali) continua a rimanere ignota.

Alcuni stati, poi, hanno eseguito sentenze capitali senza annunciarle in anticipo e senza fornire notizie sulle persone messe a morte a familiari e avvocati.

           In ogni modo, benché durante tutto il 2019 nessun ulteriore paese abbia abolito la pena di morte, meritano di essere evidenziati non pochi segnali positivi, che dimostrano come il desiderio di mantenimento della pena si stia affievolendo anche in quei paesi che sembrano ancora lontani dal volerla abolire:

-          negli Stati Uniti d’America, il New Hampshire è diventato il 21° stato ad abolire la pena capitale per tutti i reati;

-          il governatore della California (lo stato con la più alta percentuale di detenuti nel braccio della morte), ha istituito una moratoria sulle esecuzioni;

-          Kazakistan, Federazione russa, Tagikistan, Malesia e Gambia hanno continuato a osservare una moratoria ufficiale sulle esecuzioni;

-          le Barbados hanno eliminato dalla Costituzione la pena di morte con mandato obbligatorio;

-          interventi positivi o pronunce che potrebbero preludere a una abolizione totale, si sono avute nella Repubblica Centrafricana, Guinea Equatoriale, Gambia, Kazakistan, Kenya e Zimbabwe.

           Insomma, le parole di Norberto Bobbio continuano ad essere di perfetta attualità:

difficile, anzi impossibile, fare previsioni in merito alla vittoria finale, ma, intanto, si continua a camminare, anno dopo anno, nella convinzione ferma e ben determinata che questo sia il destino obbligato di una umanità che desideri veramente liberarsi dalla tirannia della violenza.

Per usare ancora efficaci parole del nostro grande pensatore:

     “Certo non basta la fiducia per vincere. Ma se non si ha la minima fiducia, la partita è persa prima di cominciare. Se poi mi si chiede che cosa occorra per aver fiducia, riprenderei le parole di Kant (…):

giusti concetti, una grande esperienza, e soprattutto molta buona volontà.” **

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*N. Bobbio, Contro la pena di morte, in L’età dei diritti, Torino 1992

**N.Bobbio, Le ragioni della tolleranza, in ibidem

ORA TUTTI SAPPIAMO CHE POSSIAMO CAMBIARE MOLTO DEL NOSTRO “STILE DI VITA”. ORA SAPPIAMO CHE SALVARE IL PIANETA “SI PUO’”!

E’ cosa ben risaputa che pochi altri (forse nessuno), nel corso della storia contemporanea, hanno sottoposto a critiche e condanne durissime la moderna borghesia più di Karl Marx e di Friedrich Engels. Ciò nonostante, leggendo il Manifesto del partito comunista (1848), ci troviamo di fronte ad alcune valutazioni di carattere nettamente positivo, quasi apologetico, in merito a quanto la classe borghese, nel suo dirompente, creativo e disincantato dinamismo, avrebbe compiuto ai danni delle antiche gerarchie di valori e di potere. In particolar modo, viene attribuito alla borghesia il merito di aver scardinato in maniera straordinariamente rapida ed efficace il tradizionale sistema ideologico e socio-economico, dimostrando, come mai nessuno era riuscito in precedenza, una verità oggettiva ed incontrovertibile di estrema rilevanza: la storia è un perenne fluire, non esistono strutture e sovrastrutture immodificabili; anche le realtà umane più consolidate e cristallizzate, anche quelle che potrebbero sembrare (e che molto spesso vengono ritenute) destinate a durare in eterno, in quanto prive di alternative realisticamente praticabili, possono cambiare, possono essere corrette, trasformate, spazzate via in pochissimi istanti. Non da vulcani o terremoti, ma dalla manifestazione determinata e convinta dell’iniziativa umana, da una interiore volontà fortissimamente motivata, dall’affermarsi di nuove esigenze e di una fiducia sconfinata nelle risorse della nostra specie. In base a ciò, Marx e Engels ritenevano di poter ricevere la certezza che, da questo esperimento straordinario operatosi sul campo della storia, le masse degli oppressi avrebbero potuto ottenere una fondamentale lezione, imparando a credere maggiormente in se stessi e alla possibilità di ribellarsi ad una realtà iniqua (non più avvertita come fatale e ineluttabile), abbracciando, così, la via della rivoluzione.

Ebbene, non potremmo, allora, ricavare, dalla vicenda pandemica in cui ci troviamo mestamente immersi, la buona novella che tutto quanto del nostro cosiddetto “stile di vita” capitalistico-consumistico pensavamo essere deprecabile ma non modificabile sia, in realtà, ampiamente riducibile, trasformabile, correggibile?

Ovvero, se in poche settimane, in nome della necessità di preservare la nostra salute, abbiamo accettato innumerevoli e (fino a qualche giorno fa) inimmaginabili rinunce e cambiamenti, non si potrebbe, allora, a livello nazionale e internazionale, archiviata questa dolorosa faccenda, continuare ad operare scelte intelligenti, anche drasticamente coraggiose, in nome della sopravvivenza del pianeta e, quindi, della stessa specie umana?

Continuando a sentirci, come ci ricorda papa Francesco, “sulla stessa barca”, chiamati a soccorrerci gli uni con gli altri, in nome del comune interesse, in nome della salvezza della nostra comune Madre Terra?

Insomma, usciti fuori da questa triste pagina della storia universale, chi potrà mai più, di fronte alle grandi sfide del vicino futuro, pretendere ancora di blindare dogmaticamente lo statu quo (fatto di irresponsabili aggressioni all’ambiente, di criminali corse agli armamenti, di ignobili diseguaglianze socio-economiche, ecc.), in nome dei tanto ricorrenti “non è possibile …”, “non sarà mai possibile …”?

       Mai come in momenti come il presente, in cui ci troviamo quotidianamente immersi in fiumi di notizie allarmanti, meritano la nostra massima attenzione le notizie che ci permettono di intravedere un futuro migliore.

E’ questo certamente il caso di quanto recentemente accaduto in Colorado, divenuto ufficialmente il 23 marzo il ventiduesimo stato degli Usa ad avere abolito la pena di morte ed il decimo a farlo dal 2004.
Conseguentemente all’approvazione dei due rami del parlamento e la firma del governatore Jared Polis, le tre condanne a morte ancora in attesa di esecuzione sono state prontamente commutate in ergastolo.


Non è stato, però, un risultato semplicissimo da raggiungere, vista la ferma resistenza operata dai repubblicani, schierati a sostegno della necessità assoluta della pena capitale a soddisfazione dei legittimi diritti dei familiari delle vittime di omicidio di vedere definitivamente risolta la propria tragedia grazie alla morte dei responsabili.
Quanto accaduto fornisce una ulteriore, preziosa e gradita conferma del fatto che negli Usa, che per il terzo anno consecutivo non compaiono tra i primi cinque stati per numero di esecuzioni (al settimo posto nel 2016, all’ottavo nel 2017, al settimo nel 2018), il fronte abolizionista stia conquistando sempre più forza e consenso, soprattutto grazie al diffondersi della consapevolezza di quanto ci sia di arbitrario e di iniquo nell’applicazione della pena capitale.*
«Sono commosso dalla testimonianza e dal dibattito che abbiamo ascoltato» - ha dichiarato il presidente dell’Assemblea, il democratico Alec Garnett. «Spero in una società - ha poi aggiunto - in cui spendiamo le nostre risorse in riabilitazione, non in appelli; nel trattamento delle tossicodipendenze e non nella somministrazione di iniezioni letali».

Oltremodo sagge e illuminanti le parole di Robert Dunham, direttore esecutivo del Death Penalty Information Center, il quale, al termine di una lunga dichiarazione, ha così concluso:
“Il parlamento del Colorado si è impegnato in un dibattito sentito, rispettoso e sincero su problematiche molto sensibili. Alla fine, ha basato la sua decisione sulle prove e sui sentimenti personali di ciascun parlamentare riguardo a ciò che fosse giusto fare per il popolo del Colorado. Il Governatore Polis ha riconosciuto che, per quanto orrendi fossero i crimini commessi dagli ultimi tre condannati a morte, era meglio chiudere questo capitolo della storia della giustizia penale del Colorado, piuttosto che lasciare che il problema imputridisse mentre venivano spesi inutilmente milioni di dollari dei contribuenti.”

*Otto stati americani hanno messo a morte nel 2018. Il Texas ha quasi raddoppiato i numeri dell’anno precedente (da 7 a 13), rappresentando poco più della metà del totale nazionale, dopo che la Corte suprema ha concesso un numero inferiore di sospensioni delle esecuzioni. Il Nebraska ha eseguito la sua prima condanna a morte dal 1997, il South Dakota dal 2012 e il Tennessee dal 2009. Tuttavia, a differenza dell’anno precedente, Arkansas, Missouri e Virginia non hanno eseguito sentenze capitali, determinando lo stesso numero di stati esecutori del 2018 come del 2017.

Caro Signor Ambasciatore, chi Le scrive ha avuto occasione di visitare il suo grande Paese diverse volte e ha avuto modo di conoscere e apprezzare il suo popolo e la sua cultura, e soprattutto l’alta considerazione per il mio Paese. Ho avuto modo di vedere che siamo stimati per la nostra arte, per i nostri filosofi, per la nostra cultura e per tante altre qualità che pensavo avessimo perso, e questa vostra considerazione per un momento così difficile per tutti noi mi è di grande conforto. Visitando il suo Paese ho avuto modo di toccare con mano i sacrifici che il suo popolo ha dovuto affrontare nel corso della storia e ho anche avuto modo di vedere che, nonostante le tante avversità che abbiamo vissuto e viviamo, bastavano due parole per fraternizzare e capire che forse ci conosciamo già da millenni. Sa, Signor Ambasciatore, noi siamo un po’ estroversi, forse un po’ chiassosi, ma amiamo quella gioia di vivere che con il nostro modo d’essere cerchiamo di infondere agli altri. Noi crediamo nella Bellezza, in tutte le sue forme e crediamo nell’Amore in tutte le sue manifestazioni, siamo buoni di cuore come voi russi.

Nonostante le ferite, abbiamo sempre tirato fuori il positivo, ci siamo abituati signor Ambasciatore, siamo fatti così, e nei momenti importanti i sentimenti li esterniamo con il cuore e non con la mente, forse l’unica via che ci rende insuperabili. Il cuore ci ha sempre legati e sempre ci legherà perché apparteniamo ad una’unica razza, quella umana, sempre più consapevoli che la solidarietà riconosce a noi e a voi quella stessa dignità che il suo popolo conosce bene. La storia ci ha divisi e tenta ancora di dividerci ma i comuni sentimenti di fratellanza non ci hanno mai abbandonato e mai ci abbandoneranno. La solidarietà e la condivisione sono e saranno sempre la nostra salvezza. La vita è un valore universale, a prescindere, e questo bel gesto nei confronti delle persone che stanno morendo vi rende onore. E’  proprio vero, gli amici si vedono nel momento dl bisogno, e io mi unisco a quegli italiani che vi esprimono con il cuore la riconoscenza per esserci vicini, grazie Signor Ambasciatore, non dimenticheremo, ci abbracci la sua gente che ci tiene in così alta considerazione e alla quale ci sentiamo vicini con il cuore e con la mente.

Virgilio Violo

 segue lettera dell'Ambasciatore Sergey Razov alla testata "La Stampa" di Torino

Solo dentro un carcere se ne comprende la follia. Fuori di qui, anche io non sapevo!

La domanda: "cosa si può fare? Cosa si può fare per i detenuti, ma soprattutto per la società  civile?"

La risposta di un detenuto è: va bene un periodo fuori dalla società , purchè serva a una riabilitazione e non ad andare ""fuori di testa"" per sempre, quindi...

Per prima cosa servirebbero celle più umane. Nelle condizioni in cui si trovano ora, i detenuti non possono tornare ""verso"" la società  ma solo ""contro"". Invece di perseguire la ricostruzione di una coscienza civile del rispetto si alimenta quella del disprezzo. Questo non giova a nessuno: né ai detenuti né alla società 

Inoltre, la carenza di personale limita di molto tutte le attività  che dovrebbero giovare al detenuto, cioè¨ quelle fuori dalla cella.

Questo illusorio meccanismo di pena, più che una restrizione della libertà  è un sistema ""criminale involontario"", uno strumento di alienazione che rende ancor più  disarticolate le già  non formate strutture mentali dei detenuti.

Dico ""criminale"" e ""involontario"" perchè inconsapevole dei danni che si creano in questo ambiente disumano e assolutamente distruttivo: apparentemente pianificato, ma inutile per ciò che viene chiamato ""riabilitazione"".

Non sarà  mai riabilitata la ""società  civile"", che non conosce i crimini perpetrati per mantenere lo ""status quo"" di questo manicomio, permesso perchè un muro di omertà  e finta funzionalità  di facciata lo circonda.

Mi trovo in una cella di circa 22 mq, con altri cinque detenuti. Di questi, tre sono molto probabilmente innocenti.

Non lo dico basandomi sulle loro parole (a logica difesa della propria innocenza) ma per quanto ho letto sulle motivazioni delle loro sentenze di ""condanna"". In esse appare, come in una inevitabile cascata, l'errore di ""giudizio di chi indaga"", costruendo una ""macchia di colpevolezza"" che si espande e diviene indelebile, contaminando ogni valutazione successiva. E' quasi logico che un giudice creda a chi porta avanti le indagini, pur miranti solo a provare la colpa e mai (come dovrebbe essere a norma di legge) a raccogliere anche prove a discarico del presunto colpevole (non più presunto innocente).

Questa parentesi è tanto per chiarire che addentrarsi in questo surreale manicomio chiamato carcere, implica conoscerne aspetti impossibili da credere.

Come si può pretendere di riabilitare sei soggetti, di cui 2-3 certamente innocenti, chiusi insieme in 22 mq.? Pensate anche a un solo innocente, con cinque criminali rei confessi che raccontano i loro crimini come vanto... Magari un padre di famiglia, detenuto solo perchè qualcuno a cui dava fastidio ha testimoniato il falso spedendolo nell'inferno del carcere.

Se pure fossero quattro innocenti e due criminali incalliti, questi ultimi, per naturale tendenza, sarebbero in grado di rendere succubi gli altri, fisicamente e  psicologicamente, perchè la mente criminale è sempre prevaricante. Usa astuzie a cui un innocente non potrebbe mai, per sua natura, arrivare.

A volte persino un solo vero criminale, in cella con due innocenti e tre ""borderline"" (nel senso che i loro reati sono pi— errori da procedura civile che penali), può prendere il sopravvento sugli altri, e protrarre indisturbato la sua determinazione a delinquere anche in prigione.

Come si può definire questo sistema ""riabilitante"" se lo stesso cappellano di un famoso carcere, nonché il suo direttore, dichiarano che nel corso degli anni, dal 30 al 50% dei detenuti in attesa di giudizio vengono assolti, in uno dei tre gradi? E qual è  la  percentuale degli innocenti dichiarati colpevoli?

C'è una statistica, o un elenco ben fatto, di tale indicibile inciviltà ? Nessuno calcola questa mostruosità?

Se io fossi il peggiore criminale, un criminale mediocre o un innocente mi ascoltereste allo stesso modo? Fate una prova: consideratemi un pluriomicida, un pluripregiudicato in attesa di giudizio, e rileggete... cosa ne pensate di questo succulento gruppo di ""pecorelle"" che mi offrite da spolpare per facilitarmi l'esistenza anche dentro? Ora consideratemi un mediocre delinquente. Mentre attendo di essere giudicato, apprendo da chi è peggiore di me utili indicazioni per percorrere al meglio la strada del crimine, in cui al momento sono un fallito. Forse non ho ancora scelto completamente quella direzione, ma la detenzione mi indirizzerà  verso l'unica via possibile: se il ""migliore"" in questo posto è il ""peggiore"" in libertà , il male non può che essere la scelta giusta!

Ora consideratemi un innocente con un po' di cultura, ""rinchiuso"" tra criminali senza scampo, con livelli di istruzione che vanno dal più basso al medio-basso (diplomati e laureati sono solo il 2%). In mezzo a detenuti con patologie psichiatriche di vario tipo, nascoste dalla tossicodipendenza o da farmaci che non impediscono loro di delinquere; insieme ad altri innocenti, che sono il più grande tormento (almeno per me). Impossibile per un innocente pensare ""Mal comune mezzo gaudio"", E'una malvagità  troppo grande!

Resta forse altro da dire? Chiunque io sia, criminale, mezza tacca, innocente... come vi sentite? Da ignoto detenuto in attesa di giudizio, non mi aspetto di ottenere niente per me. Il mio sfogo è solo per far conoscere all'opinione pubblica una realtà  di cui ho dato solo un accenno.

C'è molto di più da sapere su questo orrore, nascosto dal muro di gomma che lo circonda. Qualche carcere   ""modello"",   spesso   mostrato   dai  media,   dimostra   solo   una   ""vergogna  perpetuata"" nascondendo dietro il sorriso di pochi scelti sessantottomila esseri distrutti, in disfacimento (numero in costante crescita).

Come potrà la società  essere riabilitata da questa follia, che lei stessa permette?!

RINGRAZIO I RADICALI per la loro volontà  di giustizia.

Un detenuto in attesa di giudizio da un anno e tre mesi. Presunto innocente? Presunto colpevole? Oppure la schizofrenia di entrambe le cose? Perché sto già  pagando? Ora sono in sciopero della fame e della sete. Non ci sono altre scelte.

Per ulteriori informazioni potete contattarci all'indirizzo email This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

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                    Una nuova campagna a favore di Julian Assange è stata annunciata da Amnesty International alla vigilia dell’udienza in merito alla sua possibile estradizione. La campagna è rivolta a chiedere alle autorità statunitensi di annullare completamente le gravi accuse di spionaggio. Ciò perché, nel caso contrario, sarebbe molto alto il rischio che le autorità del Regno Unito possano acconsentire all’estradizione negli USA, paese dove potrebbe ritrovarsi vittima di rilevanti violazioni dei diritti umani.

Al momento, sono in programma ben cinque udienze che dovrebbero concludersi nel mese di maggio, con una sentenza appellabile con una decisione finale attesa per la fine dell’anno.

           “Gli incessanti tentativi del governo Usa di processare Julian Assange per aver reso pubblici documenti riguardanti anche possibili crimini di guerra commessi dalle forze armate statunitensi non sono altro che un assalto su larga scala al diritto alla libertà d’espressione”,

ha dichiarato in una nota stampa Massimo Moratti, vicedirettore di Amnesty International per l’Europa.

Il potenziale effetto raggelante verso i giornalisti e altre persone che denunciano le malefatte dei governi rendendo note informazioni ricevute da fonti credibili potrebbe avere profonde conseguenze sul diritto delle opinioni pubbliche a conoscere cosa stanno facendo i loro governi.

Tutte le accuse mosse nei confronti di Julian Assange a seguito di tali attività devono essere annullate”,

ha aggiunto Moratti.

Merita di essere rammentato e sottolineato il fatto che le accuse rivolte ad Assange scaturiscono direttamente dal fatto di aver pubblicato documenti segreti nell’ambito della sua attività lavorativa con l’archivio documentale online Wikileaks, attività che non dovrebbe essere punita, in quanto riguardante condotte che il giornalismo investigativo è chiamato a svolgere regolarmente nel proprio peculiare ambito professionale.

L’organizzazione per la difesa dei diritti umani, pertanto, ritiene che gli insistenti tentativi del governo USA di sottoporre a processo Julian Assange non siano altro che un palese ed allarmante attacco alla libertà di espressione, e che, di conseguenza, processare Julian Assange  potrebbe comportare ricadute deleterie sul diritto alla libertà di espressione, spingendo l’intero mondo dell’informazione ad adottare e ad applicare la pratica dell’autocensura, al fine di evitare temibili procedimenti giudiziari.

Ed è proprio in nome del diritto alla libertà di espressione che, con un appello rivolto al Procuratore Generale degli Stati Uniti William P. Barr, si sta procedendo alla richiesta di annullamento totale delle accuse rivolte a Julian Assange:

https://www.amnesty.it/appelli/annullare-le-accuse-contro-julian-assange/

Dopo numerose manifestazioni tenutesi in varie località italiane, anche a Roma, finalmente, si è potuta svolgere (soprattutto grazie ad Amnesty International) una manifestazione di solidarietà nei confronti di Patrick Zaki, lo studente egiziano (iscritto ad un master presso l’Università di Bologna), arrestato al suo rientro in Egitto.

I pubblici ministeri di Mansoura hanno ordinato la detenzione preventiva di Patrick George Zaki in attesa di indagini su accuse tra cui “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici”.

Il 22 febbraio, allo scadere dei primi 15 giorni di detenzione, un tribunale egiziano ha ottenuto il prolungamento di ulteriori 15 giorni.*

Patrick è stato definito da Amnesty International “prigioniero di coscienza”, in quanto detenuto esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.

Giovedì scorso, in tanti, a piazza della Rotonda, davanti al Pantheon, con candele, striscioni e cartelli con la scritta “PATRICK LIBERO”, si sono dati appuntamento per richiedere al governo egiziano di rilasciare immediatamente Zaki.

Fra le numerose persone presenti, abbiamo raccolto le significative parole di persone da tempo impegnate sul fronte della difesa dei diritti umani: Riccardo Noury (portavoce della sezione italiana di Amnesty International); Claudia Pacini (responsabile di Amnesty International-Lazio); Claudio Rossi (volontario di Emergency).

Riccardo Noury

 - Quali informazioni Amnesty International è riuscita a raccogliere sulle reali condizioni di Patrick?

Esteriormente appare in buone condizioni, ma è evidente che sia provato, anche perché le attuali condizioni detentive non sono adeguate (una cella di una stazione di polizia con altre 30 persone). I suoi avvocati hanno sporto formale denuncia per le torture subite al Cairo nelle ore successive all'arresto in aeroporto.

- In base a quali elementi AI ha potuto dichiararlo "prigioniero di coscienza"?

La storia di Patrick ci dice molto chiaramente che i capi d'accusa contenuti nel mandato d'arresto non trovano corrispondenza in alcun asserito suo comportamento criminale. La sua è un'esperienza alla luce del sole di attivista per i diritti umani, di studio e di ricerca. Del resto, quei capi d'accusa sono una fotocopia di quelli mossi nei confronti di innumerevoli altri esponenti della società civile egiziana in questi ultimi anni.

Claudia Pacini

-          Dopo il caso di Giulio Regeni,  eccoci di nuovo in piazza a parlare di diritti umani in Egitto. Soltanto tristi episodi isolati o solo due dei tanti casi di cui Amnesty è a conoscenza?

No, purtroppo i casi di Giulio Regeni e Patrick George Zaki non sono assolutamente isolati: la situazione dei diritti umani in Egitto è da anni in una situazione di profondissima crisi, con continue violazioni da parte delle autorità, che sappiamo hanno applicato tortura, maltrattamenti e sparizioni forzate su centinaia di persone. Senza dimenticare le esecuzioni extragiudiziali! Chiunque sia critico verso il governo, o ritenuto tale, quali manifestanti pacifici, giornalisti, attivisti politici e difensori dei diritti umani, vanno spesso incontro ad arresti e detenzioni arbitrarie.

-          Dopo la fiaccolata romana, quali altre iniziative sono previste e cosa pensi che, realisticamente parlando, sia possibile fare?

In questi giorni si sono susseguite tante manifestazioni di piazza in tutta Italia con cui Amnesty International sta chiedendo al governo egiziano il rilascio immediato di Zaki, per il quale si teme che sia sottoposto a tortura. Inoltre, Amnesty sta partecipando, e continuerà a farlo, a una serie di eventi e incontri, anche in università e scuole, in cui continuare a parlare dell' arresto arbitrario di Zaki e della situazione di costante e grave violazione dei diritti fondamentali in Egitto.

E' fondamentale sensibilizzare, far conoscere quanto accade in un paese così vicino al nostro e, soprattutto, mantenere accesa l'attenzione su questo caso: chiediamo che Patrick venga liberato subito e possa ritornare presto ai suoi studi presso l'Università di Bologna!

Claudio Rossi

-        Cosa ti ha spinto a prendere parte alla manifestazione a favore di Patrick Zaki ?

La delusione. Ero convinto che, dopo la vicenda di Giulio Regeni, il regime di Al Sisi non dico provasse un po' di vergogna, ma almeno cercasse di sopire, di coprire la sua brutalità e ancora una volta nei confronti di giovani legati all'Italia. La vicenda di Patrick, oltre all'assenza di democrazia, dimostra il livello di protervia di quel
governo.


- In una situazione così complessa come quella egiziana, che peso potrà mai avere una piccola fiaccolata di persone di buona volontà?

Certamente un peso molto relativo; ma ogni lungo viaggio comincia con un passo. Abbiamo visto grandi trasformazioni insinuarsi in sistemi granitici grazie a piccoli esempi: è quello che chiamiamo “sensibilizzazione”. Ma, soprattutto, non possiamo, di fronte alle nostre coscienze, aspettare certezze di successo quando si parla di combattere per principi irrinunciabili.


- Al contrario del caso Regeni, qui ci troviamo di fronte ad un'azione giudiziaria del governo egiziano nei confronti di un suo cittadino.
Manifestazioni come quella di stasera non potrebbero correre il rischio di essere percepite come una intromissione arbitraria negli affari interni di un paese sovrano?


Il concetto stesso di “diritti umani” non avrebbe senso se non travalicasse le frontiere e le legislazioni nazionali.

La difesa dei diritti che definirei “assoluti” ha invece particolare significato proprio dove l'assetto politico, le norme vigenti o le prassi del potere li calpestino; tanto nei confronti degli stranieri quanto dei propri cittadini. Non può bastare una legge per negare un “diritto umano”!


*VEDI: 
RIFIUTATA LA RICHIESTA DI SCARCERAZIONE PER IL RICERCATORE EGIZIANO PATRICK GEORGE ZAKI.

Purtroppo, sembra proprio che il ricercatore egiziano Patrick George Zaki, partito da Bologna per trascorrere un periodo di vacanza ad al-Mansoura, sua città natale, e arrestato al Cairo il 7 febbraio, dovrà restare in stato di detenzione preventiva ancora per almeno 15 giorni.

I suoi avvocati hanno riferito ad Amnesty International che gli agenti dell’Agenzia di sicurezza nazionale (NSA), durante l’ interrogatorio all’aeroporto, hanno tenuto Patrick bendato e ammanettato per ben 17 ore, picchiandolo sulla pancia e sulla schiena, sottoponendolo anche a scosse elettriche.

Obiettivo dell’interrogatorio risulterebbe essere quello di raccogliere informazioni in merito al suo lavoro in materia di diritti umani durante il suo soggiorno in Egitto e allo scopo della sua residenza in Italia.

Zaki è stato poi trasferito in una struttura di detenzione della NSA (non rivelata) ad al-Mansoura.

Il giorno seguente all’arresto, i pubblici ministeri di al-Mansoura hanno ordinato la sua detenzione per 15 giorni, in attesa di indagini su accuse tra cui “diffusione di notizie false”, “incitamento alla protesta” e “istigazione alla violenza e ai crimini terroristici. Tale scelta è stata giustificata sulla base di una decina di post pubblicati su Facebook, senza che, però, sia stato consentito né a Patrick né al suo avvocato di poterli esaminare.

Sabato 15 febbraio, i giudici hanno confermato la detenzione preventiva, con nuovo appuntamento in tribunale per il 22 febbraio.

Intanto, dopo aver potuto vedere, seppur per pochissimo, i suoi familiari, Zaki dovrà restare a Talkha, poco lontano da al-Mansoura, in un’altra struttura detentiva.

                           “L’arresto arbitrario e la tortura di Patrick Zaki rappresentano un altro esempio della sistematica repressione dello stato egiziano nei confronti di coloro che sono considerati oppositori e difensori dei diritti umani, una repressione che raggiunge livelli sempre più spudorati giorno dopo giorno -  ha dichiarato in una nota ufficiale Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International -. Chiediamo alle autorità egiziane il rilascio immediato e incondizionato di Patrick, in stato di fermo esclusivamente per il suo lavoro sui diritti umani e per le idee espresse sui social. È necessario che le autorità conducano un’indagine indipendente sulle torture che ha subito e che sia garantita la sua protezione in maniera tempestiva“.

Amnesty International ha dichiarato Patrick George Zaki prigioniero di coscienza, detenuto, cioè, esclusivamente per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.

Molte le iniziative di questi giorni per richiedere la scarcerazione di Zaki:

  • 14 febbraio, Pescara, sit in dalle 19 in piazza Salotto (piazza della Rinascita);
  • 14 febbraio, Padova, flash mob dalle 18 organizzato dagli studenti universitari UDU e ASU presso il Palazzo comunale;
  • 15 febbraio, Milano, sit in dalle 18, via Sondrio, parcheggio limitrofo al Consolato d’Egitto;
  • 15 febbraio, Firenze, presidio e raccolta firme dalle 15.30, Piazza San Marco;
  • 16 febbraio, Forlì, ore 11, sit in per la liberazione di Patrick in collaborazione con associazioni studentesche dell’università;
  • 16 febbraio, Brescia, ore 16, mobilitazione per Patrick presso Largo Formentone;
  • 19 febbraio, Verona, ore 18.30, presidio presso il ponte Pietra.
  • Prevista, per mercoledì 19 (nel pomeriggio), una mobilitazione a Roma, nei pressi dell’ambasciata d’Egitto.

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