L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Human Rights (212)

Roberto Fantini
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Questa la tesi sostenuta in un recente Congresso internazionale.

 

 

Una delle tante errate convinzioni intorno alla pratica dei trapianti è quella che, in merito ad essa ed al suo necessario presupposto teorico-pratico rappresentato dalla morte cerebrale, ci sia, all’interno della comunità scientifica, come all’interno del mondo religioso, un consenso totale e universale.

Le cose, in realtà, sono ben diverse. Numerosi sono gli scienziati, i teologi e i filosofi che, da sempre (a cominciare dagli scritti di Hans Jonas), avanzano riserve, sollevano dubbi ed esprimono ferme obiezioni e critiche decise nei confronti sia del criterio della morte cerebrale, sia nei confronti della pratica di espianto-trapianto di organi. Ma di queste voci, molte delle quali di indubbia autorevolezza, si preferisce non parlare. L’intera grancassa mediatica è infatti compattamente impegnata in una inesausta apologia della donazione degli organi e nell’esaltazione delle imprese chirurgiche attuate dalle équipes trapiantistiche. Per i perplessi, i dubbiosi e gli oppositori, sul palcoscenico mediatico non risulta esserci posto, neppure sottoforma di fugace comparsata.

Un importante tentativo di incrinare le alte muraglie che difendono le (presunte) certezze dei sostenitori dell’indiscutibilità dei trapianti di organi ha avuto luogo in questi giorni (20-21/05) a Roma, ad opera della John Paul II Academy for Human life and the Family (fondata da ex docenti dell’Accademia pontificia per la Vita), che ha dato vita ad un convegno internazionale (“La morte cerebrale”. Un’invenzione medico-legale: evidenze scientifiche e filosofiche) a cui hanno preso parte importanti scienziati, filosofi e teologi di fede cattolica, accomunati dal fermo rifiuto nei confronti della morte cerebrale.

Tutte di grosso spessore le relazioni di entrambe le giornate, vere miniere di puntuali informazioni scientifiche e di corpose argomentazioni filosofiche e teologiche.

Il filosofo Josef Seifert, uno dei padri spirituali dell’iniziativa, ha aperto i lavori dedicandosi, in particolar modo, a denunciare l’assoluta mancanza di giustificazioni di ordine scientifico alla base della decisione del Comitato ad hoc di Harvard che, nel 1968, propose-impose il nuovo criterio di definizione di morte, sganciandolo dalle attività respiratoria e circolatoria, e fondandolo unicamente sul riconoscimento della cessazione delle funzioni cerebrali.

Le uniche due motivazioni addotte dal Comitato, infatti, furono esclusivamente di carattere pragmatico ed utilitaristico:

  • sollevare la collettività dal peso di numerosi pazienti mantenuti nelle strutture ospedaliere in condizioni di assenza di coscienza;

  • sollevare i medici espiantatori dal rischio di essere accusati di omicidio nei confronti dei pazienti “donatori”.

La morte cerebrale - ha detto Seifert - è una delle maggiori vergogne della medicina”, responsabile dell’uccisione di migliaia di persone a cui vengono tolti gli organi “da vive”.

 

Il neurologo Thomas Zabiega ha sottolineato, poi, come la morte cerebrale non sia altro che una diversa definizione di quella condizione denominata da Mollaret e Goulon, nel 1959, coma dépassé (ossia coma irreversibile), mettendo anche in luce che i criteri adottati per la morte cerebrale, invece che rafforzarsi, sarebbero stati indeboliti rispetto a quelli precedentemente adottati.

Con particolare incisività, poi, il neurologo si è soffermato nel sostenere l’inaccettabilità morale di criteri di ordine utilitaristico ed emozionale, esulanti da adeguate valutazioni di natura rigorosamente razionale.

Particolarmente coinvolgenti sono risultati i contributi di Paul Byrne, neonatologo statunitense, il quale, anche utilizzando numerose immagini e filmati, ha operato una variegata rassegna di casi (da lui seguiti in prima persona) di individui strappati alle procedure di espianto, grazie ad una serie di circostanze propizie, prima fra tutte l’opposizione dei familiari. Toccantissima, fra le tante, la vicenda di Joseph, nato prematuro nel 1975 che, nonostante l’EEC piatto e la conseguente dichiarazione di morte cerebrale, continuò ad essere curato con eroica caparbietà, potendo così sopravvivere, godere di una vita normale, essere, oggi, felice padre di famiglia.

Quante altre persone - si è chiesto Byrne, vero indomabile combattente a favore degli individui più fragili e vulnerabili - avrebbero potuto essere salvate qualora le cure non fossero state troppo frettolosamente interrotte?

L’anziano pediatra è stato categorico:

Non ha senso - ha detto - essere “donatori”: ogni organo è preso da un essere vivente!

Nel caso di persone veramente morte - ha poi aggiunto - le si porta in obitorio, non in sala operatoria, somministrandole accuratamente farmaci immobilizzanti. Questa si chiama vivisezione!

Davvero molto interessanti, infine, gli interventi densissimi di Doyen Nguyen, ematopatologa e teologa morale,* soprattutto per quanto concerne l’analisi condotta, con rara perizia ermeneutica, delle parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II in uno storico discorso al 18° Congresso Internazionale della Società dei trapianti, del 29 agosto 2000, parole erroneamente ed arbitrariamente intese da molti (cattolici e non) come una sorta di implicita approvazione della pratica trapiantistica.

La Nguyen ha evidenziato, in maniera assai efficace, che il pontefice si trovò ad insistere chiaramente nel sottolineare come l’eventualità del prelevamento degli organi dovrebbe essere sempre inderogabilmente subordinata al rispetto di ben precise pre-condizioni:

  • adeguata corretta informazione e consenso pienamente consapevole ed esplicito da parte del paziente-donatore;

  • accertamento senza il minimo margine di dubbio della reale condizione di morte del paziente-donatore (prelievo “ex cadavere”);

  • applicazione di criteri di accertamento della morte universalmente accolti ed approvati dall’unanime comunità scientifica.

Insomma, pre-condizioni che, nella realtà vigente, non sono mai rispettate e che, nel caso lo fossero davvero, verrebbero a rendere pressoché nulle le reali possibilità di espianto-trapianto di organi.**

 

 

NOTE

*La Nguyen è autrice, tra l’altro, di un monumentale volume:The New Definitions of Death for Organ Donation: A Multidisciplinary Analysis from the Perspective of Christian Ethics. Foreword by Professor Josef M. Seifert  , chemeriterebbe davvero di essere tradotto al più presto.

** PER SAPERNE DI PIU’:

  • Fondamentale il sito della Lega Nazionale contro la Predazione di Organi e la Morte a Cuore Battente : www.antipredazione.org

- Paolo Becchi, Morte cerebrale e trapianto d’organi, Morcelliana, Brescia 2008

- Roberto Fantini, Vivi o morti? Morte cerebrale e trapianto di organi. Certezze vere e false, dubbi e interrogativi, Efesto, Roma 2015

Sabato 25 maggio, presso il Teatro Golden di Roma, si è svolta la cerimonia di premiazione del concorso nazionale per le scuole “Un Corto per i Diritti Umani”.

 

Il concorso, giunto al quarto anno, è un’iniziativa ideata e progettata dall’Associazione per i Diritti Umani e la Tolleranza Onlus nell’ambito del progetto Gioventù per i Diritti Umani, in collaborazione con la prestigiosa Academy del Teatro Golden di Roma, la cui direzione didattica è affidata dal 2004 all’attrice, ballerina e coreografa Laura Ruocco.

Lo scopo del progetto – che anche quest’anno ha visto la partecipazione di un altissimo numero di istituti primari e secondari di tutta la nazione - è promuovere la conoscenza, la divulgazione e l’applicazione dei Diritti Umani, cosi come espresso nella Dichiarazione Universale promulgata dalle Nazioni Unite.

La giornata di premiazioni si è aperta con un laboratorio teatrale – presso la sede dell’omonimo teatro capitolino – offerto alle scuole dalle straordinarie e coinvolgenti docenti dell’Academy del Teatro Golden Laura Ruocco e Barbara Pieruccetti, ed è proseguita con la consegna dei premi ai primi 3 classificati e delle menzioni speciali a 7 corti, scelti fra gli oltre 70 video partecipanti al concorso dalla giuria di esperti, fra cui la giornalista e docente di cinema e regia Ketty Carraffa.

Vincitori della terza edizione del concorso: per la categoria Scuole medie, il corto dal titolo “Libertà di Espressione, realizzato dagli studenti dell'I.C.S. “P. Impastato Polo 1” di Veglie (LE), mentre per la categoria Scuole superiori, il corto dal titolo “Anch’Io, Anche Noi” presentato dall’I.S. “Notarangelo-Rosati” di Foggia.

Tre le menzioni di merito attribuite alle scuole medie in concorso: Menzione per la scenografia e la creatività al corto “Civitafarfalla” presentato dall’Istituto “Ennio Gallice” di Civitavecchia (RM); Menzione per la sceneggiatura e la recitazione al corto “Sopravvissuti” realizzato dalla Scuola secondaria “Dante Alighieri” di Selargius (CA) e Menzione speciale per la recitazione a Sofia Mayer per il ruolo nel corto “Speciale Tg Bullismo” dell’I.C. "Antonio Gramsci" di Aprilia (LT).

Quattro invece le menzioni di merito consegnate alle scuole superiori: Menzione per la grafica e il sound design al corto “Un valore inestimabile” del Liceo Artistico “Camillo Golgi” di Breno (BS); Menzione per la recitazione e l’ambientazione al corto “No Torture” realizzato dalla Rome International School (RM) e Menzione per il soggetto originale al corto “Guardami adesso” presentato dall’I.S.I.S. “EUROPA” di Pomigliano d’Arco (NA). Menzione speciale per la recitazione a Lorenzo Bruni per il ruolo nel corto “Siamo nati tutti uguali” del Liceo Scientifico "A. Messedaglia" di Verona.

 

Anche per questa quarta edizione, la splendida scultura in ceramica omaggiata ai vincitori del concorso è stata realizzata dal ceramista Antonio Grieco, maestro d’arte di grande spicco del panorama artistico romano.

Con la vicenda della professoressa di Palermo sottoposta a severi provvedimenti disciplinari perché ritenuta (direttamente o indirettamente) responsabile del video realizzato da alcuni suoi alunni, in cui vengono proposti accostamenti fra dolorose pagine del nostro passato e molto discusse scelte politiche del nostro presente, ci troviamo di fronte a qualcosa di cui appare davvero arduo quantificare e qualificare la gravità.

Ciò che più appare inquietante ed estremamente allarmante del fatto che delle autorità istituzionali si siano sentite in diritto-dovere di intervenire in merito a quanto operato all’interno di una scuola in un ambito di carattere storico-culturale è l’evidente mancanza di consapevolezza messa in mostra da dette autorità rispetto a princìpi e valori di cui si parla da qualche secolo e che, dopo tanta fatica e tanto sangue, sono stati proclamati diritti inviolabili e inalienabili della persona da tutti i fondamentali documenti del diritto internazionale e da quella cosa non proprio irrilevante che chiamiamo Costituzione della Repubblica Italiana.

Ora, a mio avviso, il problema che dovremmo porci tutti, con la massima determinazione e con la massima urgenza, non è se i fanciulli palermitani dicano cose più o meno giuste, sensate o balorde, e neppure se la loro professoressa li abbia adeguatamente “sorvegliati”, bensì il seguente:

le cariche pubbliche che hanno deciso di applicare ai danni dell’insegnante la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione relativa hanno compiuto qualcosa di legittimo o qualcosa che fuoriesce dalla legalità costituzionale, calpestando libertà di pensiero, libertà di espressione, libertà di insegnamento, ecc.?

E, nel caso si riscontrasse (come a me appare del tutto evidente) che sia stato compiuto un atto totalmente arbitrario e giuridicamente insostenibile, i responsabili del provvedimento disciplinare in questione possono ancora meritare di restare ad occupare il posto che occupano, retribuiti da pubblico danaro?

Un’ultima considerazione:

in queste ultime ore si sta innescando una patetica gara tra ministri e cariche dello Stato nel manifestare solidarietà e/o volontà di incontrarsi con la professoressa umiliata e sospesa.

Possibile che non si comprenda che il potere politico, invece di limitarsi a scrivere letterine e ad esprimere desideri per future cordiali chiacchierate, dovrebbe sentirsi in assoluto dovere di adoperarsi a restituire alla docente la dignità professionale che le è stata sottratta, consentendole di riprendere immediatamente il suo posto in mezzo ai suoi alunni?

Il quadro globale relativo alla pena di morte delineato dall’ultimo rapporto di Amnesty International presenta, nello stesso tempo, dati di segno contrastante. Se, infatti, risulta certamente positivo il fatto che il Burkina Faso abbia adottato un nuovo codice penale abolizionista, che Gambia e Malaysia abbiano annunciato una moratoria ufficiale sulle esecuzioni, che negli USA la legge sulla pena di morte dello stato di Washington sia stata dichiarata incostituzionale e che, nel corso dell’Assemblea delle Nazioni Unite, ben 121 stati abbiano votato a favore di una moratoria (con la sola opposizione di 35 Stati), altri dati risultano assai meno incoraggianti. Fra questi:

l’aumento delle esecuzioni in Bielorussia, Giappone, Singapore, Sud Sudan e Usa; la prima esecuzione in Thailandia dal 2009; il quadruplicarsi delle condanne in Iraq; la crescita del 75 per cento in Egitto, a causa di condanne a morte in massa al termine di processi palesemente iniqui, imperniati su “confessioni” estorte tramite tortura.

In ogni modo, nonostante tali parziali regressi, dai dati complessivi del 2018 la pena di morte risulta stabilmente in declino, essendo il numero delle esecuzioni documentate calato del 30 per cento, raggiungendo pertanto il valore più basso registrato nel corso degli ultimi dieci anni. Inoltre, anche il numero dei paesi che hanno eseguito sentenze capitali appare ridotto.

Va sempre tenuto presente, però, il perdurare in Cina del segreto di stato relativamente all’uso della pena di morte, cosa questa che non impedisce di ritenere, in maniera sufficientemente fondata, che le condanne e le esecuzioni continuino sistematicamente nell’ordine delle migliaia.

                       “La drastica diminuzione delle esecuzioni dimostra che persino gli stati più riluttanti stanno iniziando a cambiare idea e a rendersi conto che la pena di morte non è la risposta”, ha dichiarato Kumi Naidoo, segretario generale di Amnesty International.

Questo bilancio cautamente ottimistico è costretto a fare i conti, però, anche con le recenti informazioni provenienti dall’ Arabia Saudita, dove si è da poco verificata l’esecuzione di ben 37 prigionieri (fra cui anche un minorenne) condannati per “terrorismo”, in seguito a processi irregolari basatisi su “confessioni” ottenute attraverso il ricorso alla tortura.

Undici prigionieri erano stati condannati per spionaggio in favore dell’Iran, mentre almeno altri quattordici per reati violenti nell’ambito di manifestazioni contro il governo che si erano svolte tra il 2011 e il 2012, nella Provincia orientale a maggioranza sciita.

Tra i prigionieri messi a morte c’era anche Abdulkareem al-Hawaj, un giovane sciita arrestato a 16 anni, sempre per reati commessi durante manifestazioni antigovernative. La sua esecuzione costituisce una evidente violazione del divieto assoluto di usare la pena di morte contro minorenni.

                       “Questa esecuzione di massa - ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International - mostra ancora una volta e in modo agghiacciante il profondo disprezzo delle autorità saudite per la vita umana e l’uso della pena di morte come strumento di repressione politica contro la minoranza sciita del paese“,

Finora, nel 2019, in Arabia Saudita sono state eseguite almeno 104 condanne a morte, 44 delle quali nei confronti di cittadini stranieri, per lo più per reati di droga. In tutto il 2018 le esecuzioni erano state 149.

Tra coloro che restano in attesa di esecuzione vi sono Ali al-Nimr, Dawood al-Marhoon e Abdullah al-Zaher, tre sciiti minorenni al momento del reato per cui sono stati condannati a morte.

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Aveva sicuramente ragione Norberto Bobbio quando ci diceva che la realtà dei diritti umani è in perenne movimento e destinata ad espandersi e ad arricchirsi sempre più. Ma è anche vero che si tratta di una realtà fragile e vulnerabile, che può subire, in tempi anche molto brevi, attacchi gravi e dolorosi regressi e limitazioni .

E’ proprio quanto si sta verificando nel piccolo stato del Brunei, in cui, a partire dal 3 aprile, entrerà in vigore il nuovo codice penale basato sulla shari’a, che comporterà l’introduzione di punizioni crudeli e disumane, quali la lapidazione per atti sessuali compiuti da persone dello stesso sesso e l’amputazione per il reato di furto.

Rachel Chhoa-Howard, ricercatrice di Amnesty International per il Brunei, ha dichiarato che

                 “Il Brunei deve fermare immediatamente questi feroci provvedimenti e deve rivedere il codice penale in conformità con i suoi obblighi in materia di diritti umani. La comunità internazionale deve condannare urgentemente la decisione del Brunei di applicare queste pene crudeli”.

Aggiungendo anche che

         “Legittimare sanzioni così crudeli e disumane è già terrificante, ma alcuni dei ‘reati’ previsti, come ad esempio i rapporti fra persone dello stesso sesso consenzienti non dovrebbero nemmeno essere considerati tali ”.

In realtà, già dal lontano aprile del 2014, in occasione dell’entrata in vigore della prima parte dello stesso codice penale, Amnesty International aveva prontamente espresso le proprie preoccupazioni, in quanto tale codice (limitando anche in modo evidente i diritti alla libertà di espressione, religione e credo, e legittimando la discriminazione nei confronti dei soggetti femminili) risulta viziato da una serie di disposizioni lesive dei diritti umani più elementari.

E’ da precisare che il sultanato del Brunei non ha ancora ratificato la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, respingendo tutte le raccomandazioni provenienti dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.

Ciò benché le norme internazionali sui diritti umani proibiscano con fermezza tutte le punizioni corporali come la lapidazione, l’amputazione o la flagellazione, ritenute a tutti gli effetti vere e proprie forme di  tortura.

Tale divieto, tra l’altro, è riconosciuto come una norma perentoria del diritto internazionale consuetudinario e quindi vincolante anche nei confronti di stati non aventi siglato alcun trattato in merito: tutti gli atti di tortura costituiscono crimini in base al diritto internazionale.

Ha destato grandissimo sgomento e dolore in tutto il mondo il duplice attentato terroristico che nella città di Christchurch ha colpito i fedeli musulmani riuniti in moschea per la preghiera  comunitaria del Venerdì. Ben 49 vite sono state stroncate.

In tutto il mondo, accanto alla condanna nei confronti di questo crimine brutale, tanto più grave in quanto perpetrato nei confronti di vittime innocenti raccolte in un luogo di culto, è stata    espressa una forte solidarietà nei confronti delle vittime, dei loro familiari, delle  comunità musulmane e del popolo neozelandese sconvolto da questo evento tragico accaduto nel proprio  paese, solidarietà alla quale ci associamo umanamente e spiritualmente attraverso la preghiera.

Di fronte a tali orrori, che si aggiungono ad altri analoghi ai quali abbiamo assistito in questi anni, esprimere solidarietà implica anche interrogarsi a fondo sulle cause che spingono certe menti,  magari più ossessionate e disperate, a sviluppare strategie di morte nella tragica illusione di rimuovere la sfida della coesistenza nelle differenze, resa ancor più delicata ed impegnativa in  questo cambiamento d’epoca indotto dalla globalizzazione.

Gli attentatori si sono richiamati senza remore ad una “_white supremacy_” in nome della quale si sarebbero impegnati in modo militante fino alla perversa azione terroristica.

Lasciamoci interrogare da questo “bisogno”, che in loro è diventato ossessivo, di _supremacy_.

Come persone delle differenti fedi e religioni, come leaders politici, come educatori , come uomini e donne di cultura, abbiamo fatto abbastanza ed in modo appropriato per arginare in noi stessi ed intorno a noi la tendenza “istintiva” alla _supremacy_ religiosa, culturale, comunitaria, etnica e nazionale nei confronti degli altri?

Molto è stato fatto dopo il disastro del secondo conflitto mondiale e certamente, oltre alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ha avuto un significato fondamentale l’avvio di un  cambiamento di rapporti tra le religioni in direzione del riconoscimento reciproco, del dialogo e della cooperazione per il bene comune, ma molta strada resta da fare affinché non si continui a  disattendere il comandamento fondamentale del “_Non Uccidere_” in nome di ideologie e scontri di civiltà.

www.religioniperlapaceitalia.org

                                       Papa Francesco non ha certo perso tempo. Nei confronti della pena di morte, infatti, fin dall’inizio del suo pontificato, e in più circostanze, ha assunto una ferma posizione di condanna. Ne costituisce un esempio particolarmente significativo la corposa Lettera rivolta al Presidente della Commissione internazionale contro la pena di morte (20 marzo 2015), in cui vengono formulate numerose tesi che, a parte qualche riferimento dottrinale, risultano in palese sintonia con i punti cardine su cui, da qualche secolo, si incentrano i discorsi e le battaglie del movimento abolizionista mondiale.

Eccole:

- Soltanto Dio è Signore della vita umana e nessun criminale, anche il più spietato, potrà perdere del tutto la sua dignità personale (di cui Dio stesso è garante).

-          A favore della pena di morte non può essere invocata la legittima difesa, in quanto tale pena viene applicata per danni commessi nel passato (a volte molto lontano), a persone già totalmente neutralizzate, private della propria libertà.

-          Per quanto, quindi, possano essere gravi i delitti del condannato, la pena di morte risulta essere un’offesa all’inviolabilità della vita e alla dignità della persona umana.

-          Non solo la pena di morte è incapace di rendere giustizia alle vittime, ma finisce per fomentare mentalità e comportamenti vendicativi.

-          La pena di morte, costringendo lo Stato di diritto ad uccidere “in nome della giustizia”, rappresenta un suo tragico fallimento, non potendosi mai raggiungere vera giustizia sopprimendo vite umane.

-          L’innegabile e ineliminabile “difettosa selettività del sistema penale” implica l’impossibilità di escludere con certezza il verificarsi di errori giudiziari. L’irrazionale rifiuto di prendere atto di ciò potrebbe sempre trasformare l’imperfetta giustizia umana in fonte di ingiustizie.

-          Con l’applicazione della pena capitale si viene a negare irrimediabilmente al condannato la possibilità di portare avanti un percorso di riparazione del danno prodotto, nonché di esperire un processo di conversione interiore e di “contrizione, portico del pentimento e dell’espiazione”.

-          La pena di morte è risultata essere uno strumento tristemente efficace nelle mani dei regimi totalitari per l’eliminazionedi dissidenti politici, di minoranze, e di ogni soggetto etichettato come «pericoloso»”.

-          La pena di morte, implicando un trattamento crudele, disumano e degradante “è contraria al significato dell’humanitas e alla misericordia divina, che devono essere modello per la giustizia degli uomini.” Essa, infatti, oltre alla sofferenza che viene inflitta al condannato al momento dell’esecuzione, comporta un’incalcolabile “angoscia previa al momento dell’esecuzione e la terribile attesa tra l’emissione della sentenza e l’applicazione della pena, una «tortura» che, in nome del dovuto processo, suole durare molti anni, e che nell’anticamera della morte non poche volte porta alla malattia e alla follia”.

-          I vari tentativi portati avanti, nel corso della storia, per rendere (o far apparire) meno doloroso e meno disumano il meccanismo di morte sono decisamente fallimentari, in quanto non esiste e non potrà mai esistere “una forma umana di uccidere un’altra persona” .

-          Nel tempo attuale, è necessario tenere presente che, oltre all’esistenza di mezzi idonei alla repressione del crimine “ senza privare definitivamente della possibilità di redimersi chi lo ha commesso (cfr. Evangelium vitae, n. 27)”, si va affermando sempre più una sensibilità morale che, in nome del valore della vita, esprime crescente dissenso verso la pena di morte e crescente sostegno verso chi si batte contro di essa.

La Lettera, poi, dopo aver messo in luce come la pena dell’ergastolo, implicando, per il condannato, non soltanto la perdita della libertà, ma anche quella della speranza, meriti di essere considerata una sorta di “pena di morte occulta”, si conclude con l’affermare che la pena capitale verrebbe ad implicare “la negazione dell’amore per i nemici, predicata nel Vangelo”, e con l’incitare (attraverso una citazione del precedente discorso del 23 ottobre) tutti i credenti a battersi a favore dell’abolizione:

«Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà».

Ma il fatto più rilevante e, per certi versi, più clamoroso, della predicazione abolizionista condotta da Francesco è l’essersi tradotta nella richiesta di revisione di quanto asserito nel Catechismo cattolico. Il quale, nella prima edizione del 1992, ribadiva che “l’insegnamento tradizionale della Chiesa ha riconosciuto fondato il diritto e il dovere della legittima autorità pubblica di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto, senza escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte”. Formulazione che, in seguito alle non poche critiche suscitate, era stata successivamente modificata, nel 1997, in modo da arrivare a ritenere la pena capitale (pur non ancora del tutto esclusa a livello teorico) oramai anacronistica, non ponendosi praticamente mai (o quasi mai) “casi di assoluta necessità di soppressione del reo”.

Ora, la nuova versione approvata da papa Francesco ha l’enorme pregio di abbandonare qualsiasi incertezza ed ambiguità, esprimendo finalmente un rifiuto radicale ed assoluto della pena di morte.

Il nuovo paragrafo 2267, dopo aver ricordato che “per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune”, asserisce che, nel mondo di oggi, “è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi”, nonché “una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato”.

E, dopo aver sottolineato che sono oramai “stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi”, si arriva solennemente ad affermare (citando sempre il discorso di Francesco dell’ottobre del 2017) che

la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che ‘la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona’, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo.

Secondo monsignor Fisichella (Rino Fisichella, La pena di morte è inammissibile, Osservatore Romano del 2 agosto 2018), la riformulazione del pensiero della Chiesa in merito alla pena di morte (giustificata e praticata per lunghi, terribili secoli) è una evidente oggettivazione di “un vero progresso nella comprensione dell’insegnamento sulla dignità della persona”. Ci troveremmo dinanzi, infatti, ad “un vero progresso dogmatico con il quale si esplicita un contenuto della fede che progressivamente è maturato fino a far comprendere l’insostenibilità della pena di morte ai nostri giorni.”

Prosegue Fisichella, nel sovrumano tentativo di riuscire ad occultare l’abissale contraddizione di quanto si afferma oggi con quanto si è detto (e fatto!) in passato, che l’aver assunto posizione abolizionista non rappresenterebbe un radicale cambiamento di rotta, bensì soltanto “uno sviluppo” e “un progresso nella comprensione del Vangelo che apre orizzonti rimasti in ombra”.

Insomma, per parlare chiaramente e onestamente, la Chiesa cattolica, che da qualche millennio si arroga il diritto di essere la vera ed unica depositaria e interprete della parola rivelata, finalmente riconosce che le incalcolabili vittime delle esecuzioni capitali verificatesi nel corso del tempo col suo beneplacito (o, addirittura, per sua volontà) non sono che l’effetto di una sua errata comprensione del Vangelo!

Ma non sarebbe, allora, più corretto parlare di palese e dolorosa conseguenza di una vergognosa dimenticanza del Vangelo, o, meglio, di un ancor più vergognoso tradimento dei fondamentali valori del Vangelo?!

E sarebbe eccessivo a questo punto, mi domando, pretendere che la stessa Chiesa, dopo aver riconosciuto (per dirla con le parole di papa Francesco) di non essere stata in grado, fino ad ora, di percepire la “luce del Vangelo” in merito all’”inviolabilità e dignità della persona”, si senta perlomeno in dovere di chiedere perdono alle innumerevoli vittime e a tutti coloro che, per aver tentato di aiutarla a scorgere un po’ di quella luce, sono stati da lei vessati, perseguitati e spesso soppressi in qualità di “eretici”? … nonché, infine, a tutta l’umanità che dal suo magistero ha ricevuto non luce ma tenebra?!

 

 

Roberto Fantini

CONVERSAZIONE CON MARIA GEMMA GRILLOTTI DI GIACOMO*.

 

                     In pochi ne hanno sentito parlare. Pochi, molto pochi sanno di cosa si tratti. Eppure, siamo di fronte ad uno dei fenomeni più inquietanti del nostro tempo, un fenomeno che sta attaccando duramente i diritti fondamentali di intere popolazioni. Si chiama Land grabbing, ovvero accaparramento di terre, un’operazione predatoria che colpisce i soggetti più deboli del pianeta e che rischia di produrre (e che sta già producendo) conseguenze di straordinaria gravità.

Ne parliamo con Maria Gemma Grillotti Di Giacomo, autrice e curatrice, insieme a Pierluigi De Felice, di una pregevole pubblicazione (Land grabbing e land concentration. I predatori della terra tra neocolonialismo e crisi migratorie, FrancoAngeli, Milano 2018)** che raccoglie numerosi contributi di fondamentale importanza i quali, “pur partendo da ottiche, metodi ed estrazioni disciplinari diverse, hanno affrontato il tema arrivando a formulare gli stessi auspici e a individuare analoghe forme di contrasto del land grabbing.”

 

-            Nell’Introduzione al volume da voi curato, leggiamo del vostro desiderio di rivolgervi soprattutto al grande pubblico e ai mass media. Perché? Con quali obiettivi e con quali aspettative?

Da oltre dieci anni all’inizio dei corsi universitari di Geografia dell’agricoltura e del mercato alimentare e di Alimentazione nel mondo (due insegnamenti obbligatori dei Corsi di Laurea in Scienze dell’Alimentazione e della Nutrizione Umana presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma) rivolgo agli studenti frequentanti la stessa domanda: “chi di voi conosce o ha mai sentito parlare del fenomeno land grabbing?” e, nonostante si tratti di una platea di giovani culturalmente informati, in un solo caso cioè da parte di un solo studente, è arrivata una risposta affermativa. Siamo dunque spettatori ignari di un processo di accaparramento fondiario di cui ignoriamo gravità e conseguenze inevitabili e che si sta consumando nell’apparente disinteresse generale. Con il nostro libro abbiamo cercato di arrivare al “grande pubblico” del mondo occidentale, mass media compresi, in modo da sensibilizzarlo e informarlo dell’attuale, grave processo di accaparramento e concentrazione delle risorse naturali, in particolare di quelle fondiarie, nelle mani di pochi “signori della terra”. Un processo di neocolonialismo di cui si parla poco o niente e del quale siamo tutti responsabili, anche se in larga parte (la totalità?) siamo solo spettatori ignari che assistono – senza averne piena consapevolezza – ai danni ambientali che esso produce su tutto il pianeta; agli effetti devastanti che crea nell’economia dei Paesi industrializzati e ai drammi sociali che genera nei Paesi in via di sviluppo.

 

-          Soltanto, quindi, un lavoro mirante a fare buona informazione?

In realtà il nostro lavoro non si esaurisce nell'individuare la platea degli “innocenti spettatori” semplicemente per informarli e per indicare i “troppi attori” direttamente responsabili dell’accaparramento (società finanziarie, gruppi multinazionali, fondi di investimento, banche e governi stranieri e locali); vorremmo infatti arrivare anche a smascherare l’ipocrisia delle tante, troppe motivazioni (ecologica, economica, giuridica, sociale) addotte a “giustificazione” di questi lucrosi “investimenti”. È ora che la conoscenza del land grabbing e della land concentration esca dagli ambienti di studio, accademici e non, per arrivare fino all’“uomo della strada”, il più esposto ai mutamenti climatici e quasi sempre il più pronto a fruire delle offerte di alimenti al ribasso, così come a respingere il diverso, sfruttato sia in patria che nei Paesi di “accoglienza”.

 

-          In che senso il fenomeno di accaparramento di terre fertili messo in atto dai Paesi ricchi, internazionalmente noto come land grabbing meriterebbe di essere definito come vero e proprio processo di “saccheggio fondiario” o come “neoimperialismo coloniale di matrice economica”?

La concentrazione di terre fertili, che contrappone latifondismo e microproprietà terriera, ha caratterizzato l’intera storia umana. Tuttavia, solo in alcune fasi storiche particolarmente critiche, quale quella attuale, ha assunto i caratteri esasperati dell’accaparramento e della sopraffazione, perpetrati da parte di ricchi imprenditori e governi ai danni dei lavoratori più poveri e attuati con espropri e acquisizioni di terre, ovunque e sempre accompagnati da ribellioni cruente: rivolte sociali, lotte contadine e migrazioni di massa. Si tratta di fenomeni che purtroppo agitano anche la nostra società contemporanea e che, secondo quanto ci insegna la storia, si ripresentano dopo ogni periodo involutivo caratterizzato prima da una crisi economica globale e poi dalla riscoperta del “bene rifugio terra”. Processo e dinamica economico sociale cui abbiamo infatti assistito a partire dagli anni 2000. Come conseguenza della forte crisi economica globale d’inizio millennio, la corsa ai “beni immobili” viene denunciata dall’Unione europea come land concentration e il neoimperialismo coloniale di matrice economica è condannato come land grabbing e water grabbing anche dalle principali organizzazioni internazionali (ONU, FAO).

Quella fame di terra che, fino alla prima metà del XX secolo, aveva generato le lotte contadine e spinto gli europei a colonizzare gli spazi del nuovo e nuovissimo continente (America, Australia, Nuova Zelanda), oggi è riproposta alla scala planetaria e a tutto svantaggio dei Paesi in via di sviluppo, dove non mancano pregiate risorse naturali ancora poco o non utilizzate (Africa, America Latina, Europa orientale). Land grabbing e water grabbing cioè sottrazione di risorse naturali vitali ad alcune popolazioni e concentrazione delle stesse nelle mani di pochi proprietari stranieri, non solo creano nuove forme di schiavitù e servile dipendenza (sfruttamento della manodopera e assoggettamento tecnologico), ma provocano anche una forte spinta sul fenomeno migratorio perché alimentano i flussi eufemisticamente definiti economici e ambientali.

 

-          Ma, nella sostanza, non si tratta di un fenomeno da sempre riscontrabile all’interno di quella immane tragedia rappresentata dal colonialismo?

Per chiarire la differenza tra l'attuale land grabbing e i processi di land concentration che accomunano fasi storiche e realtà economiche lontane e diverse è innanzi tutto utile distinguere tra ampliamento della proprietà fondiaria e accaparramento di terre e tra quest’ultimo e le diverse forme di espansionismo coloniale. Mentre i primi due si consumano sempre ai danni delle classi sociali più deboli, all’interno di singoli Stati, anche e soprattutto di quelli a economia liberale e/o retti da regimi totalitari, dando vita al fenomeno della land concentration; il land grabbing è stato a ragione definito “neocolonialismo e neoimperialismo” perché è perpetrato dagli Stati più ricchi (governi, enti, società multinazionali, aziende pubbliche e private, fondi di investimento) a spese dei Paesi economicamente e tecnologicamente meno sviluppati. A questi ultimi vengono sottratte le terre da sfruttare sia per la fertilità dei suoli (colture di speculazione a basso costo di esercizio ed elevati ricavi), sia per la ricchezza delle risorse minerarie e petrolifere (esportazione), sia per le bellezze naturalistiche (elitari e ciclopici impianti turistici), sia per operazioni di industrializzazione e urbanizzazione.

 

-          Ma quali sono gli attori responsabili dell'accaparramento?

Il processo di acquisizione è tutt’altro che scontato e lineare: coinvolge istituzioni e imprese sia dei Paesi venditori, che dei Paesi compratori, spesso attraverso società multinazionali che in alcuni casi hanno sede sociale nello stesso Paese preda o in “Paesi terzi”, i cosiddetti “paradisi fiscali”, e quindi difficilmente localizzabili. È perciò necessario fare chiarezza anche sui termini da utilizzare per definire i Paesi venditori e i Paesi compratori; nel linguaggio internazionale si parla di Paesi investitor e di Paesi target. I primi sarebbero “portatori di interessi” – in realtà paesi predatori di risorse sulle quali speculare (più di 50 Paesi secondo i dati di febbraio 2018); i secondi identificati come Paesi “obiettivo di tali interessi” (una novantina) sono invece paesi preda in cui avvengono le speculazioni. Né questa distinzione esaurisce il quadro complessivo. La complessità del fenomeno è infatti aggravata perché in alcuni casi la sede societaria degli investitor/predatori è localizzata in Paesi terzi (a bassa o nulla fiscalità) i quali, lungi dall’essere i veri investitor, mascherano l’origine dei veri interessi speculativi. Si tratta di Paesi che, pur inseriti nell’elenco dei Paesi target/predati, sono investitor/predatori per un numero di ettari di gran lunga superiore a quello delle terre predate al loro interno (Malaysia con più di 3 milioni di ha; Cina con più di 4,5 milioni di ha; India con più di 1milione e mezzo; Sud Africa e Mauritius con poco meno di mezzo milione di ettari, ecc.).

Alcune società accaparratrici hanno creato una o più aziende/società con sede nello stesso Stato dove fanno i loro investimenti, per cui lo stesso Paese preda risulta anche predatore (67 casi) e addirittura predatore di se stesso (più di 20 casi) e di altri Paesi preda (ben 32 casi). Per tutti questi casi è preferibile adottare la dizione di Paesi ombra con l’intento di esplicitare l’oscura trama delle loro politiche di acquisizione fondiaria. Si tratta in particolare di una decina di Paesi che, pur essendo predati, hanno acquistato superfici molto più ampie della loro stessa estensione, superiori anche al 1000% e addirittura al 10.000% di quelle a loro sottratte dal land grabbing (India, Mauritius, Sri Lanka, Tailandia).

 

-          E che ruolo giocano i governi locali, perlopiù di carattere antidemocratico?

L’appropriazione avviene comunque e quasi ovunque con la stessa complicità dei governi locali antidemocratici e corrotti e, fenomeno ancora più grave, con la sempre più frequente copertura offerta dai paesi terzi/ombra (circa una decina) ad aziende, gruppi e/o filiali, con sede ufficiale nel paese oggetto di investimenti e capitali riconducibili a Società multinazionali, localizzate nei Paesi ricchi. E ciò spiega peraltro perché alcuni Stati, pur essendo inseriti nell’elenco dei paesi target/preda, sono da ritenersi paesi investitor/predatori: in questi casi, infatti, la differenza tra superfici vendute e acquistate mostra scarti, paradossalmente a loro vantaggio, che ammontano anche ad alcuni milioni di ettari (Federazione russa, Cina, Malaysia, Sud Africa, Cile, India e Mauritius).

 

-          Spesso, i soggetti accaparratori avanzano, a giustificazione del proprio operato, l’obiettivo di voler favorire una preziosa forma di risanamento ambientale. Siamo di fronte a un palese ed ipocrita tentativo di nobilitante autoassoluzione?

In questa prima decade del XXI secolo l’obiettivo di risanare i guasti prodotti alle risorse naturali dagli eccessi dello sfruttamento agroindustriale – lo stesso obiettivo che negli anni Novanta era servito in Europa a dare “giustificazione etica” alla politica agricola comunitaria del set aside – ha mutato programma ed è stato coniugato con l’impegno a potenziare il consumo energetico “sostenibile”, cioè ottenuto dalle fonti rinnovabili: eolico, fotovoltaico e biomasse (Pacchetto Clima Energia “20 20 20”). Non più dunque incentivi per rinunciare a coltivare i terreni, set aside, ma premi alla loro riconversione verso colture no food (oleaginose, canna da zucchero, colza, jatropha, ecc.).

Come non sottolineare allora, assurdità e ipocrisie nascoste dietro il tentativo di “tutelare l’ambiente naturale” coltivando no food su terre fertili sottratte all’agricoltura di sussistenza nei Paesi in cui ancora si muore di fame? Gli investitori, per giustificare i loro accordi finanziari, sostengono farisaicamente di farlo proprio per la sostenibilità ambientale, perché le terre accaparrate vengono destinate alla produzione delle biomasse per l'energia rinnovabile. In realtà il risultato di tante transazioni è solo la povertà generata dall’alienazione delle terre all’agricoltura famigliare di sussisten­za e l’al­lon­tanamento coatto dai territori d’origine di interi gruppi umani costretti ad emigrare.

La sostenibilità delle nuove formule di sfruttamento agricolo è infatti platealmente contraddetta dalla vastità delle superfici predate e scandalosamente mai messe a coltura, più dei 4/5 del totale accaparrato, con valori di superficie coltivata (SAC) sul totale acquisito che, in alcuni casi, non raggiungono nemmeno l’1% (Liechtenstein, Korea, Djibouti, Emirati Arabi), come pure dalla scelta degli ordinamenti monocolturali (canna da zucchero, jatropha, olio di palma) tipici dell’economia di piantagione, che accelera i cambiamenti climatici in atto, sfruttando e abbandonando i terreni desertificati dall’aggressività dei mezzi meccanici e chimici.                                                                                                      

C'è da chiedersi piuttosto quanto incida sul cambiamento climatico globale l’agricoltura di speculazione, oggi in gran parte no food, che espone migliaia e centinaia di migliaia di ettari all’inquinamento e alla desertificazione e per contro quanto pesa sull’abbattimento dei costi di produzione degli alimenti (poche decine di centesimi di euro per un chilo di farina o per un pacco di pasta o per una bottiglia di pomodoro o di latte) la concorrenza garantita da spese di esercizio pressoché nulle (terreni a meno di 1 dollaro l’ettaro e manodopera assoggettata al caporalato). E, infine, chiediamoci anche da dove partono i flussi migratori dei disperati che perdono, insieme alla terra espropriata con la forza, la possibilità stessa di assicurare la sopravvivenza a sé e alle loro famiglie tanto da essere pronti ad affrontare viaggi “della speranza” carichi di sevizie e di morte.

 

 

-          E' quindi difficile ravvisare effetti positivi del fenomeno?

Purtroppo è proprio così. Gli effetti del land grabbing sono oltremodo rovinosi:

sottrazione senza adeguata compensazione del solo mezzo da cui intere comunità umane traggono il necessario per l’autoconsumo; fame e forzato, definitivo abbandono di quelle terre che assicuravano la magra economia di sussistenza.

Più che l’esportazione di pratiche agricole sostenibili e la produzione di energia rinnovabile, azioni ipocritamente invocate a giustificazione dei loro accordi dagli investitori, il risultato di tante transazioni è dunque l’al­lon­tanamento coatto dai territori d’origine di interi gruppi umani costretti ad emigrare.

 

 

* MARIA GEMMA GRILLOTTI DI GIACOMO

Professore Ordinario di Geografia e responsabile delle problematiche "Alimentazione nel mondo" all’Università Campus-BioMedico di Roma, è Membre d’Honneur della Société de Géographie di Parigi ed è stata insignita del Grand Prix de Catographie 2001 per aver realizzato l’opera Atlante tematico dell’agricoltura italiana e del Premio Letterario Nazionale 2013 gli scrittori dalla penna verde "Parco della Maiella", conferito alla prima edizione del volume Nutrire l'uomo, vestire il pianeta. E’ Corresponding member e National Network Coordinator for Italy della Commissione UGI "Sustainability of Rural Systems" nell’ambito della quale è stata nominata National Network Coordinator for Italy. Coordinatore Scientifico del Gruppo di Ricerca Interuniversitario "Geografia comparata delle aree agricole europee ed extraeuropee" (GECOAGRI-LANDITALY) ha messo a punto una metodologia di indagine innovativa, applicata in varie ricerche condotte in Italia e all'estero e nello studio condotto sulla realtà dei Monti Lepini, cui è stato attribuito il Premio paesaggio Europa 2011. In occasione della presentazione del Codex Alimentarius del 2005, ha organizzato presso la FAO, il Colloquium internazionale Quality Agriculture: Historical Heritage and Environmental Resources for an Integrated Development of Territories e ha realizzato la mostra scientifica Ouer countryside’ s agri-cultures: quality of landscapes, values and tastes. Consulente scientifico per la stesura del Disegno di Legge n. 1600 del 25-05- 2007 “Disposizioni per la Tutela e la Valorizzazione del Paesaggio Rurale”, ha coordinato la 29° sessione del Congresso Geografico Italiano 2017 dedicata a L'attuale rivoluzione dei modelli alimentari e gli effetti colti nello straordinario dinamismo delle campagne italiane. Tra le circa 180 pubblicazioni si segnalano le due opere Atlante tematico dell’agricoltura italiana e Atlante tematico delle acque d’Italia; i testi metodologici Una geografia per l'agricoltura (vol. I e II); il volume La regione della geografia. Verso la cultura del territorio; la seconda edizione del libro Nutrire l'uomo, vestire il pianeta Alimentazione-Agricoltura-Ambiente tra imperialismo e cosmopolitismo e il volume curato con Pierluigi De Felice Land grabbing e land concentration I predatori della terra tra neocolonialismo e crisi migratorie.

 

 

**Land grabbing e land concentration. I predatori della terra tra neocolonialismo e crisi migratorie

Autori e curatori

Maria Gemma Grillotti Di GiacomoPierluigi De Felice

Contributi

Francesco Bruno, Francesca Krasna, Mario Lettieri, Paolo Raimondi, Vittoradolfo Tambone

Dati

pp. 166,   1a ristampa 2019,    1a edizione  2018   

Edizioni Franco Angeli, Milano.

Spiragli di luce in Pakistan per il caso Asia Bibi, la giovane madre pakistana di religione cattolica processata, imprigionata e violentata in carcere in virtù di una discussa legge del paese che punisce la blasfemia. Dopo l'assoluzione lo scorso 31 ottobre, che ha scatenato l'ira degli islamisti che ne chiedono la condanna a morte, la Corte Suprema potrebbe emettere il pronunciamento definitivo entro la fine di gennaio. Il Tribunale, secondo una possibilità prevista dall’ordinamento giudiziario pakistano, è chiamato a esprimersi sulla «istanza di revisione del verdetto», presentata dall'accusa alla fine del processo. Senza udienza né dibattimento, la Corte dovrà riesaminare la sentenza, per rilevare eventuali vizi formali e sostanziali. Che la Corte rinneghi e capovolga un giudizio che essa stessa ha emesso due mesi fa, in un caso tanto sensibile e di alto profilo, appare decisamente improbabile. Il team dei legali di Asia Bibi «crede al 100% del rigetto di quella istanza». Sarebbe la fine del caso e renderebbe Asia, una volta per tutte, una donna realmente libera. Libera di disporre della sua vita.

La Corte Suprema del Pakistan, proprio per dare al paese un segnale di tutela dello Stato di Diritto contro ogni connivenza politica, ha da poco emesso una sentenza “suo motu” imponendo ai governi federali e provinciali di risarcire i cittadini che hanno subito danni di beni e proprietà durante i tre giorni di proteste organizzate dai partiti islamisti all'indomani dell'assoluzione di Asia Bibi. E restano in carcere gli oltre 300 militanti e i leader del gruppo Tehreek-e-Labbaik Pakistan (TLP) come Khadim Hussain Rizvi, organizzatori di quelle manifestazioni violente contro Asia Bibi.

Non possiamo che auspicare l'esito positivo del caso di Asia, perché sia l'inizio di una nuova stagione politica in Pakistan di rispetto dei Diritti umani. Auspichiamo inoltre che il caso di Asia possa scuotere le coscienze. In Pakistan, dove rimane in vigore la legge per la quale Asia ha rischiato la condanna a morte e che i gruppi islamisti utilizzano per discriminare la minoranza cristiana e negare il diritto alla libertà religiosa. E nel resto del mondo, nel quale le persecuzioni contro i cristiani e le discriminazioni a sfondo etnico-religioso sono aumentate in modo esponenziale di anno in anno nell'indifferenza dei media e dei governi.

Benedetto Delle Site
Responsabile Gruppo di lavoro Diritti civili - Disagio giovanile - Città Internazionale


 
Vittorio Barbanotti  (al centro)

Anche la ripresa di questa terza “” Pedalata Longa per i Diritti Umani “”come quella effettuata nel Settembre 2015 dal 15 al 28 e quella che dal 12 Maggio 2018 mi vide partire per arrivare a Strasburgo dove incontrai la Diplomazia Italiana al Consiglio d'Europa il 6 Giugno ( su GOOGLE , digitare : pedalata longa per i diritti umani ) , nasce per sensibilizzare ed informare l’opinione pubblica sulle tematiche dei Diritti Umani. Lo scopo che si prefigge è quello di far conoscere, soprattutto ai giovani, l’importanza della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, documento che ha sancito i diritti fondamentali di ogni individuo, forse il documento più importante mai scritto dalla società moderna. L’intento è di sollecitare le amministrazioni comunali, provinciali e a livello nazionale, a reintrodurre nelle scuole un momento di incontro per la discussione e la conoscenza di questa importante Dichiarazione che si avvia ormai al compimento del suo 70anniversario e la cui applicazione , urge , oggi più che più di ieri .

Sicuramente non farebbe altro che arricchire il bagaglio umano delle nuove generazioni e sarebbe un mezzo in più per combattere quelle realtà difficili che ormai quotidianamente irrompono nella nostra vita, come il bullismo giovanile sia maschile che femminile, l’omofobia, la segregazione e la ghettizzazione degli immigrati, e tutti quei fenomeni anche come la Mafia , che nascono dall’ignoranza e dalla mancata consapevolezza del rispetto dell’individuo, come sancito nell’articolo 1 della Costituzione Italiana : le tappe saranno così suddivise : Partenza ( tra le ore 10,30 e le 11 ) il 13 ( Sabato ) Aprile da Milano ed il giorno medesimo arriverò a Pavia , dopo di che al mattino sucessivo ( il 14 Domenica ) , ripartirò per Tortona , poi il 15 ( Lunedi ) sarò a Serravalle Scrivia dove farò il primo giorno di riposo ( ogni 3 giorni di pedalata il quarto sarà sempre di riposo ) il 17 Mercoledi ) ripartirò per Genova e così via , il 18 ( Giovedi ) a Rapallo , il 19 ( Venerdi ) a La Spezia ( secondo riposo ) , il 21 ( Domenica ) a Viareggio , il 22 ( Lunedi ) a Livorno , il 23 ( Martedi ) California-Bibbona , provincia di Livorno ( terzo giorno di riposo ) , il 25 (Giovedi ) a Follonica , il 26 ( Venerdi ) a Grosseto , il 27 ( Sabato ) a Montalto di Castro ( quarto giorno di riposo ) , il 29 ( Lunedi ) a Cerveteri , il 30 ( Martedi ) a Roma ( dove farò un riposo suplementare per alcune iniziative già in essere per il mio passaggio ) e poi il 2 Maggio ( Giovedi ) a Fiumicino , il 3 Maggio ( Venerdi ) a Latina , il 4 ( Sabato ) a Formia ( sesto giorno di riposo ), il 6 ( Lunedi ) a Napoli , il 7 (Martedi ) a Battipaglia , l'8 (Mercoledi ) ad Agropoli ( settimo giorno di ripooso ) , il 10 ( Venerdi ) a Scalea , l'11 (Sabato ) a Cosenza , il 12 ( Domenica ) a Nicastro ( ottavo giorno di riposo ) , il 14 (Martedi ) a Bagnara Calabra e poi il giorno dopo attraversamento dello stretto , dove da Messina , il 16 ( Giovedi ) ripartirò per Milazzo , il 17 (Venerdi ) a Santo Stefano di Camastra , il 18 ( Sabato ) a Cinisi , dove andrò a rendere omaggio alla memoria di Peppino Impastato ed il 19 ( Domenica ) a Palermo dove l'arrivo e la fine della Pedalata Longa per i Diritti Umani si concluderàò dinanzi all'albero dedicato alla Memoria di Falcone e Borsellino e delle loro scorte , dove inoltre . spero che potrò incontrare , associazioni ed Istituzioni del posto !!!

Dichiarazione Universali dei Diritti Umani

Art. 1

“Tutti gli essere umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscenza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito e fratellanza”.

L’iniziativa si svolgerà con una pedalata individuale in solitario di Vittorio Barbanotti ( fresco di nomina , come Ambasciatore dei Diritti Umani ) e con qualsiasi condizione atmosferica , a meno che non avvengano bufere o Grandinate durante l'intero tragitto e tali eventi atmosferici , potrebbero arrecare ritardi nelle ripartenze e negli arrivi .

Tale percorso sarà suddiviso in 29 Tappe che andranno a toccare 29 città , quali , dove spero di incontrare più autorità possibili quali Sindaci , Assessori , Consiglieri Comunali che per dare la loro

massima Solidarietà a tale iniziativa , firmeranno l'Appello che nel frattempo sarà inviato precedente al mio arrivo e alla loro attenzione.

NB: Ogni 3 tappe ( ovvero tra l'arrivo della terza e la partenza della quarta ) , l'autore della Pedalata Longa , farà riposo il giorno sucessivo e perciò si augura che possa essere ospitato e dove possa anche rifocillarsi !!!

Auspichiamo che le varie amministrazioni comunali, oltre al patrocinio di questa iniziativa vorranno aprire un tavolo di discussione, magari in consiglio comunale, per poi sottoscrivere all’unanimità l’appello (allegato).

L’iniziativa è organizzata dal Comitato Diritti Umani di Milano e dal Coordinamento Nazionale per la Promozione e Protezione dei Diritti Umani di cui il referente Nazionale è Maurizio Gressi ( 3382478680 ) e dall'Associazione "" Arte e Cultura per i Diritti Umani Onlus ""e verrà portata a compimento dal responsabile del Comitato Sig. Vittorio Barbanotti , fresco di nomina come "" Ambasciatore dei Diritti Umani "".

Alla fine della “” Pedalata Longa per i Diritti Umani “” e una volta tornato a casa , l'autore delle Pedalata Longa , si recherà a Roma per consegnare nelle mani di un rappresentante del Ministero della Pubblica Istruzione, con l’intento di chiedere che in tutte le Istituzioni Scolastiche possa rientrare od entrare EX NOVO l’insegnamento della tematica dei Diritti Umani , firmato e sottoscritto da tutte le città attraversate dalla Pedalata Longa.

Nel Progetto di questa “” Pedalata Longa per i Diritti Umani “” è chiaramente evidente che le Province e i Comuni che vorranno aderire, contemporaneamente alla sottoscrizione dell’appello nelle Giunte o nei Consigli Comunali, devono comunicare ai riferimenti sotto riportati la persona alla quale fare riferimento per le necessarie comunicazioni organizzative.

Auspichiamo inoltre che ad ogni tappa, ci siano Gruppi Sportivi od Associazioni che desiderino accompagnare Vittorio per alcuni kilometri o per una intera tappa, soprattutto negli ultimi kilometri per dare una maggiore rilevanza all’iniziativa .

NB ; A TUTTE LE PERSONE ED ANCHE ISTITUZIONI CHE INCONTRERO' , CHIEDERO' , DI APPORRE LA PROPRIA FIRMA ANCHE SULLA BANDIERA PER I DIRITTI UMANI CHE MI PORTERO' A DIETRO IN QUESTA PEDALATA LONGA !!!

 

 

Vittorio Barbanotti ( Ambasciatore dei Diritti Umani )

Presidente Comitato Diritti Umani Milano

Anni 66 ( compirà i 67 il 2 Giugno 2019 ) , cardiopatico con velleita sportive , che si descriverebbe in una sola citazione.

“un diritto non e altro che l’aspetto di un dovere”

Dopo anni di battaglie , e mille altre campagne sulla solidarieta, è stato anche premiato con la medaglia d’oro dalla provincia di Milano (23 Dicembre 1997), per il suo coinvolgimento diretto nella battaglia sui diritti civili.

Volendo impegnarsi in modo piu concreto per divulgare ed informare le nuovo generazioni, sull’importanza ed il rispetto dell’individuo. E preso atto che umanamente si puo sempre dare di più, ha deciso di organizzare un evento che unendo sport ed informazione civica porterà in alcune provincie italiane , Svizzere e Francesi ,la sua testimonianza, promuovendo un iniziativa tanto semplice quanto impegnativa,

A far si che possa nascere una sensibilizzazione ed un interessamento intorno alla tematica di una cultura sui e per i Diritti Umani e lo stimolo a riportare in tutti gli Istituti scolastici , fino a partire da quelli Elementari , momenti di incontro , discussione , dibattito e conoscenza della tematica sui Diritti , con più e svariati modi .

Come detto nella prima riga di questa presentazione della persona , Vittorio Barbanotti ha ( quasi ) 67 li compirà il 2 Giugno del 2019 e nel Giugno del 2008 ha subito un intervento chirurgico per l’installazione di una valvola meccanica Aortica .

Porterà a compimento questa sorta di impresa , attraversando 38 città Italiane , Svizzere e Francesi , nelle quali si augura di incontrare le varie amministrazioni comunali e far si che esse condividano l’appello da presentare al Ministero della Pubblica Istruzione , le quali spera che al momento del suo arrivo nelle città , organizzino a loro volta momenti di incontro e discussione sul tema e così si facciano anche loro promotori e promotrici a favore dei Diritti Umani , inoltre che diano conseguentemente il loro Patrocinio /Contributo.

Vittorio Barbanotti, ha sempre creduto che lo Sport , se vissuto soprattutto con amore e passione , possa essere un mezzo straordinario per trasmettere e far conoscere quei valori che sono fondamentali non solo per il nostro presente e futuro ma anche per una analisi di quello che è stato il passato di ognuno di noi , come i valori del rispetto di ognuno di noi e per questo desidera impegnarsi per una conoscenza e diffusione dei Diritti Umani.

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APPELLO

PER L’INTRODUZIONE DELL’INSEGNAMENTO DEI DIRITTI UMANI NELLE SCUOLE

 

I Diritti Umani sono universali, indivisibili e interdipendenti. Come affermava Norberto Bobbio, i diritti civili e politici senza i diritti economici, sociali e culturali sono vuoti. Ciò significa che non vi è gerarchia tra di essi, in quanto sono tutti ugualmente necessari per la libertà e la dignità di ogni essere umano. Ottenere i diritti per tutti significa anche e soprattutto promuoverli e proteggerli attraverso una pratica quotidiana, che richiama la nostra responsabilità individuale e collettiva.

Il mondo in cui viviamo è attraversato da enormi contraddizioni e da crescenti disuguaglianze   sociali. Fame, miseria e guerre costringono milioni di esseri umani a cercare fortuna e speranza di vita lontano dai propri paesi d'origine, spesso in viaggi lunghi e pericolosi, in troppe occasioni nelle mani di trafficanti e a costo della vita stessa.

Ma non possiamo e non dobbiamo rimanere inerti di fronte a questi drammi che si consumano all'estero e in casa nostra, in occidente e in Italia. Sabino Cassese, chiude il suo libro «Il sogno dei diritti umani» con un messaggio di speranza: «Malgrado la crescente diffusione della cultura dei diritti umani, la violenza ci assedia sempre di più, ogni giorno, e le prevaricazioni, gli arbitri e gli abusi della nostra vita e della nostra mente sono sempre più frequenti. Bisogna disperare? Credo di no, soprattutto se guardiamo ai diritti umani nella loro dimensione storica e cerchiamo di vedere le differenze con il passato».

E' altrettanto indubitabile che il percorso di affermazione dei diritti umani nel mondo sia un tragitto tutt'altro che lineare, dove a piccoli passi avanti, fatti non solo di convenzioni e trattati internazionali ma anche di una cultura del rispetto della dignità delle persone che sempre più si afferma nelle nostre società, si contrappongono numerosi passi indietro. Quando parlo di passi indietro penso non solo alle guerre e alle grandi crisi internazionali ma anche a realtà vicine alla nostra esistenza quotidiana, nei confronti delle quali non dobbiamo voltare la testa. La crisi economica che stiamo vivendo e di cui non si vede ancora la fine ha allargato il divario sociale e creato nuove povertà. Alla mancanza di lavoro e alla disoccupazione giovanile, che ha raggiunto ormai livelli allarmanti si aggiunge un'emergenza abitativa assai grave nel nostro Paese, dove la bolla della speculazione edilizia regredisce a livelli non sufficienti per garantire il diritto alla casa. Assistiamo ad un degrado sociale materiale e culturale progressivo. Basti, pensare, ad esempio alla situazioni dei molti campi Rom che sorgono ai margini delle nostre città, dove le condizioni di vita sono inaccettabili per una società democratica. Alla condizioni di molti migranti, sia regolari che irregolari o, semplicemente, rifugiati non accolti e abbandonati al loro destino. O, ancora, alla condizione delle nostre carceri, dove vige una situazione di illegalità strutturale; agli episodi di tortura, che ancora si verificano nel nostro paese, alla violenza sulle donne e al femminicidio, ai crescenti fenomeni come l'omofobia e il bullismo nelle scuole, il linguaggio violento in politica e sui social network.

I passi in avanti da compiere sono ancora moltissimi per trasformare l'affermazione dei diritti umani in quanto valore a pratica quotidiana delle istituzioni e delle singole persone. E' indispensabile che una formazione sui diritti umani avvenga fin dalla scuola, dai bambini e dai ragazzi che vivono nel nostro paese: per abituarli fin dai primi anni di vita al rispetto dell'altro, al dialogo, al confronto culturale, alla tolleranza, alle differenze. E dall'altro è ormai imprescindibile che il nostro paese si doti di alcuni strumenti normativi per trasformare la tutela e la difesa dei diritti umani da impegno ideale a prassi istituzionale. Prima, tra tutte, l'istituzione in Italia di un'autorità indipendente per la promozione e protezione dei diritti umani, conforme ai principi di Parigi, cui le Nazioni Unite da tempo ci chiamano. Così come la legge contro la tortura che il nostro paese ancora non ha: nonostante il Parlamento abbia approvato l'Opcat (il protocollo opzionale della Convenzione contro la tortura), ancora non si riesce ad introdurre tale reato nel nostro codice penale.

Promuovere la cultura dei diritti umani nelle scuole, allinearci alle convezioni internazionali e realizzare strumenti a protezione di essi, rappresenterebbe un concreto passo in avanti per trasformare i diritti umani in realtà.

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Per informazioni : This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.  Barbanotti Vittorio ( Ambasciatore dei Diritti Umani ) : cell: +393450577882

 

 

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