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Non pochi pregiudizi, da sempre, ruotano intorno al concetto di nonviolenza. E sempre i suoi grandi alfieri ed annunciatori hanno avvertito l’urgente necessità di fugare equivoci e di combattere ed abbattere fuorvianti e svilenti fraintendimenti.
Il primo errore (diffusissimo) da evitare è il ritenere che la nonviolenza sia qualcosa di semplicemente “negativo”, ovvero una prassi che si limiterebbe a voler evitare l’esercizio della violenza. Nonviolenza non è soltanto astensione dalla violenza. Nonviolenza è, come dice Aldo Capitini (che non a caso ha sempre preferito parlare di nonviolenza invece che di non violenza), “scelta di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani.”
Questo significa che non si tratta soltanto di un mero divieto morale, ovvero di un semplice non dover fare qualcosa , bensì di una vera e propria filosofia di vita, di una vera e propria visione del mondo che pretende di essere radicalmente alternativa a quella imperante, condivisa e rispettata in maniera schiacciante nel mondo di oggi, come nel mondo di ieri.
La nonviolenza - dice sempre Capitini - “non è cosa negativa, come parrebbe dal nome, ma è attenzione e affetto per ogni singolo essere proprio nel suo essere lui e non un altro, per la sua esistenza, libertà, sviluppo.” 1)
La nonviolenza non andrebbe mai confusa con aprioristico rifiuto di ogni genere di conflitto. La nonviolenza è rivolta, è ribellione contro un presente che divinizza la forza, che esalta “lo schiaffo e il pugno”, che assolutizza il dominio incondizionato degli arroganti, degli spregiudicati, dei prevaricatori. E’ tensione continua, sempre imperfetta e sempre insoddisfatta, sempre assetata di trasformazione e attraversata da una perenne e operosa impazienza.
“Chi sceglie la nonviolenza parla col suo atto a tutti: segnala una via per tutti, e rompe l’indifferenza o l’incantamento mentre si prepara un’altra guerra.”2)
La nonviolenza non è cosa - dice Gandhi - con cui ammantarsi e nobilitarsi, senza aver spazzato via da se stessi tutto ciò che sa di meschinità e di egoismo.
La prima grande operazione necessaria non è, quindi, tanto deporre la spada impugnata dalla nostra mano, bensì di gettare via quella che insanguina il nostro cuore. Cioè liberare la nostra anima da ogni sudditanza nei confronti di ogni ideologia e di ogni prassi che prevedano, tollerino o addirittura auspichino o magnifichino forme di oppressione e di distruzione dell’Altro, inteso come sostanzialmente diverso da me, come tale inconciliabile con i miei valori, con il mio “stile di vita”, inteso, cioè, come pericolo, come fonte di contaminazione, di disordine morale, come sottrazione di sicurezza, di benessere, ecc …
La nonviolenza si fonda sull’affratellante apertura verso i membri della “famiglia umana”, al di là delle innumerevoli e più o meno fantasiose etichette che giustapponiamo ad essi in base alle differenze etniche, linguistiche, religiose, sessuali, ecc …
La nonviolenza, pertanto, non andrebbe mai vista come una scelta comoda, come un tirarsi indietro, un fuggire la mischia, una sorta di “lathe biosas (λάθε βιώσας) ”, mosso da opportunismo, pigrizia o, ancor peggio, da viltà. Non ha nulla a che fare col “lasciarsi vivere”. Il suo primo bersaglio, anzi, è, semmai, proprio l’indifferenza. Perché l’indifferenza - come ci spiega Elie Wiesel -“è più pericolosa della rabbia e dell’odio”. Perché la rabbia e l’odio possono anche risultare stimolanti e produttivi. Mai, invece, l’indifferenza. Perché l’indifferenza non è e non potrà mai essere un inizio, ma sempre soltanto una fine, la fine di qualsiasi possibilità di cambiamento e di miglioramento. L’indifferenza “è sempre amica del nemico, perché giova all’aggressore”. Consente all’aguzzino, al torturatore di lavorare indisturbati. 3)
L’indifferenza è la grande tentatrice, la grande maga che ci affascina e ci seduce, che ci paralizza e che ci fa sentire lontane le sofferenze altrui, che ci fa sentire irraggiungibilmente e irreparabilmente lontane tutte le vittime di tutte le ingiustizie che ogni giorno massacrano il nostro mondo.
La nonviolenza nulla ha a che vedere, quindi, con rassegnazione, mediocre tatticismo e fuga dalla realtà verso astratti mondi di sogni chimerici e consolatori. “Non accetta - dice sempre Capitini - nemmeno le violenze passate, e perciò non approva l’umanità, la società, la realtà, come sono ora.” 4)
E’ sempre schierata dalla parte delle vittime, sempre pronta a difendere i deboli, gli emarginati. E’ “dramma tormentoso”, è lotta vivificata dalla convinzione che “non può mettersi nel mondo com’è, e lasciarlo tale e quale” 5), ma che sia doveroso battersi con forza travolgente per affermare e difendere l’insostituibilità di ogni singolo essere.
La nonviolenza è impegno “a parlare apertamente su ciò che è male, costi quel che costi, non cedendo mai su questa libertà, e rivendicandola per tutti”. 6)
Il “nonviolento è portato ad avere simpatia particolare con le vittime della realtà attuale, i colpiti dalle ingiustizie, dalle malattie, dalla morte, gli umiliati, gli offesi, gli storpiati, i miti e i silenziosi, e perciò tende a compensare queste persone ed esseri (anche il gatto malato e sfuggito) con maggiore attenzione e affetto, contro la falsa armonia del mondo ottenuta buttando via le vittime.” 7)
La nonviolenza è nemica severa e scomodissima sia della prepotenza dei tiranni, sia dell’indifferenza degli ignavi, sia di quello che Martin Luther King ebbe efficacemente a chiamare “lo spaventoso silenzio dei buoni”. 8)
La nonviolenza è insistente e inesausta operazione di sgretolamento di falsità e menzogne, di censure pianificate e subite, di omissioni meschine e di rimozioni vigliacche, di miti consolatori e di timori paralizzanti. Aspira continuamente a portare allo scoperto le piaghe che avvelenano il nostro mondo, convinta che soltanto quando l’ingiustizia sarà esposta in tutta la sua brutale ripugnanza “alla luce della coscienza umana e all’aria dell’opinione pubblica” potrà essere compresa, combattuta e curata nelle sue radici più profonde. 9)
In questo nostro mondo e in questo nostro tempo, in cui a dominare sono sempre i fabbricanti e i mercanti di morte, chiediamoci, allora, con estrema umiltà ed onestà:
siamo sempre nel mondo iperuranico delle meravigliose utopie create dai grandi sognatori per asciugare le lacrime roventi sul volto delle anime fragili e belle?
Siamo sempre sul piano delle cose buone e auspicabili, ma troppo lontane e troppo difficili?
Delle cose tanto sperabili proprio perché tanto irrealizzabili?
NOTE
1) A. Capitini, Religione aperta, p.106
2) ivi, p.108
3) E. Wiesel, The Perils of Indifference, discorso alla Casa Bianca del 12 aprile 1999, in A. Cassese, Voci contro la barbarie, Feltrinelli, Milano 2008, p.363
4) ivi, p.109
5) ivi, p.110
6) A. Capitini, Azione nonviolenta, in Le ragioni della nonviolenza, Ed. ETS, Pisa, 2004, p.179
7) ib
8) M.L.King, Lettera dal carcere di Birmingham, Edizioni del Movimento Nonviolento, Verona, 1993, p. 10
9) Ib
Gaza, 7 aprile 2018 - In questo momento, ora locale 2 del pomeriggio, si stanno svolgendo i funerali dell’ultima mattanza israeliana, regolarmente e impunemente annunciata, in risposta alla marcia pacifica del popolo di Gaza che chiede il rispetto delle Risoluzioni Onu. Ma l’Onu, al di là della ridondanza del nome e dei palazzi che occupa, è un’organizzazione timida, e di fronte a Israele si limita, quando lo fa, ad esprimere qualche rimprovero, e generalmente a posteriori!
Chiunque conosca anche soltanto l’alfabeto del Diritto, sa che senza sanzioni non c’è efficacia della norma. Anche all’Onu lo sanno bene e infatti in molti casi le sanzioni scattano anche per una sola Risoluzione violata. Ma Israele no, Israele ne ha violate molte decine, praticamente tutte quelle che lo riguardano e questa continua violazione senza sanzioni è in parte la causa del discredito ormai evidente che ha reso l’Organizzazione delle Nazioni Unite simile a un orso addestrato, capace di mostrare la sua imponente figura, ma muovendo i passi decisi dal suo addestratore.
Questo è il regalo che Israele ha fatto al mondo, mentre sua intenzione era soltanto quella di liberarsi dei palestinesi scomodi.
Ieri, secondo venerdì della “grande marcia del ritorno” l’esercito israeliano ha ferito ancora un migliaio di manifestanti pacifici e ne ha uccisi almeno sette. Il numero potrebbe crescere anche mentre noi scriviamo, perché pare che alcuni dei proiettili usati siano del tipo butterfly, vietati. Ma questo non è un problema per chi ha usato il fosforo bianco per bruciare vivi un bel numero di bambini nell’ultima aggressione militare. Pare che anche Yaser Muntaja, il giovane giornalista palestinese ucciso ieri mentre filmava la marcia a Khuza’a, nei pressi di Khan Younis, sia stato colpito all’addome da un proiettile butterfly. Così ci dicono dall’European Gaza Hospital in cui hanno provato a salvarlo, ma senza successo.
Yaser portava il giubbetto con la scritta PRESS e quindi era ben riconoscibile. Qui a Gaza molti avanzano l’ipotesi che proprio quella scritta l’abbia reso target per i cecchini. Non sappiamo se ciò sia vero, ma sappiamo quanto Israele tema il resoconto reale dei fatti, capace di interrompere la vulgata offerta dagli opinion makers internazionali tra cui, triste a dirsi, quelli italiani brillano.
L’Italia delle testate mediatiche importanti non ha nessun inviato nella Striscia di Gaza per cui le notizie fornite non sono testimonianze ma solo opinioni, opinioni acquisite sotto dettatura e contrastanti con quella realtà che Yaser Muntaja spandeva per il mondo attraverso i social. Con lui sono stati feriti altri giornalisti palestinesi col giubbetto ben in vista e questo rinforza l’ipotesi che quella scritta sia stata un target piuttosto che una protezione, visibile nonostante il fumo nero di migliaia di pneumatici bruciati come tattica difensiva dai manifestanti. Proprio due giorni fa testimoniavamo la determinazione a resistere verificata di persona a Khuza’a e osservata durante una delle normali serate del “popolo degli accampamenti” che partecipa alla grande marcia. E proprio a Khuza’a, cittadina massacrata oltre ogni dire durante l’aggressione del 2014, è stata spenta la voce di un testimone mediatico tanto bravo quanto scomodo. Questo venerdì la nostra testimonianza riguarda il concentramento di Al Breji, Nusseirat, nella zona centrale della Striscia, dove l’esercito occupante ha fatto 5 martiri la scorsa settimana e 2 ieri oltre a 118 feriti.
Quel che abbiamo potuto osservare, e che è testimoniato da migliaia di foto che girano nei social oltre alle nostre, è stata la tattica difensiva usata dai gazawi per limitare gli effetti micidiali dei tiratori scelti: un nutrito gruppo di giovani uomini e donne, facendosi scudo col fumo dei copertoni, si è avvicinato il più possibile al border, restando più o meno a cento metri, sempre all’interno della linea d’assedio, e lì ha dato fuoco a centinaia di pneumatici. Dietro di loro e per una distanza di diverse centinaia di metri, si svolgeva il pacifico e quasi festaiolo concentramento di qualche migliaio di manifestanti. I lacrimogeni superavano comunque la cortina di fumo e arrivavano all’interno della pacifica manifestazione colpendo anche chi stava semplicemente osservando. I nuovi gas usati da Israele sono micidiali e se inalati senza protezione provocano delle strane convulsioni che i medici dello Shifa Hospital stanno cercando di curare. Le maschere artigianali fatte indossare ai bambini hanno una loro efficacia ma solo se l’uso dei gas non è massiccio.
Tra fumo nero dei copertoni, fumo bianco dei lacrimogeni, diversi colpi di fucile sparati dai cecchini, sirene delle ambulanze che raccoglievano i feriti, tende con i nomi dei villaggi distrutti e solenne e commossa commemorazione dei 5 martiri dello scorso venerdì, la manifestazione ha seguitato a svolgersi incredibilmente come una grande festa. Bancarelle con i falafel, i lupini e le nocciole, bancarelle e carretti con frutta fresca, musica, caffè e perfino un clown che mostrava ai bambini come indossare la maschera quasi-anti-gas e, infine, una cosa che forse in occidente sembrerà incredibile: il barbiere mobile. Sì, alla grande marcia per il diritto al ritorno ci si può anche sedere e far tagliare i capelli. Dietro la sedia, il cartello col prezzo e il nome del barbiere. Questa scena ci ha regalato un sorriso, anche se poco prima un candelotto israeliano ci aveva spaccato il parabrezza nonostante fossimo a notevole distanza dalla linea di fuoco. Mi sono chiesta come ci si possa illudere di sconfiggere un popolo così! Passi per le bancarelle, l’offerta del caffè e pure il clown, ma il barbiere da manifestazione è il massimo. O li ammazzano tutti o non ce la potranno mai fare!
Dopo il tramonto, quando ormai si spera che l’esercito si ritiri, si va all’ospedale Al Aqsa, dove le ambulanze della zona centrale portano i feriti. Da un’ambulanza è caduta una scarpa. E’ insanguinata. Quando si muore il piede si rattrappisce e si perdono le scarpe. E’ la scarpa di uno dei due martiri che non ce l’hanno fatta. Vengono portati via correndo su una barella coperta da un telo diventato rosso di sangue. Corrono tutti,sia fuori che dentro l’ospedale. Molti sono volontari. Molti lo sono pur essendo dipendenti dell’ospedale, perché non prendono più lo stipendio in seguito ai tagli dell’UNRWA e alla politica punitiva di Ramallah che l’attentato-farsa del mese scorso ha ottusamente rilanciato.
Non prendono salario né alcuni infermieri né alcuni medici ma non fa niente, sono lì e cercano di ridurre il danno su corpi centrati dai cecchini israeliani. Centrati in modo che sembra scientifico: il bacino, con conseguente asportazione o riduzione della funzionalità dell’apparato genitale, e le gambe nei punti giusti per restare invalidi, come la rotula. Stentiamo a credere che sia voluto e quindi ci limitiamo a riferire quanto ci viene detto dal personale sanitario. Non obiettiamo. Ci troviamo di fronte a situazioni troppo tristi per farlo, come l’uomo cui hanno dovuto amputare entrambe le gambe, il giovane in coma farmaceutico operato al bacino e alla gamba e a rischio di sopravvivenza, l’uomo operato alla gamba che sa di restare invalido e ha 6 bambini, quello operato al fegato per un proiettile che gli ha attraversato il corpo lasciandolo vivo, e anche il ragazzo che non sa come uscirà dall’ospedale né quando né se, ma che riesce a fare un sorriso e a dire shukran, cioè grazie per il supporto dell’Italia.
Per pura umana comprensione non precisiamo che il nostro governo è complice di Israele, ma diciamo soltanto che il popolo italiano che conosce la situazione è con loro. Anche i medici ci ringraziano, e chi scrive non ha il cuore di dirgli che non è l’Italia intesa come Stato né tanto meno come governo a mandare il suo saluto, ma solo quel pezzetto d’Italia che esce dalla narrazione israeliana ed è solidale con la loro lotta. Non possiamo dirglielo in questo momento.
Le parole giuste da dire alle famiglie non ci sono, o almeno chi scrive non le trova, ma l’interprete è bravissima e riesce a trasmettere in arabo quello che in inglese suona solo come frase di circostanza. Usciamo e sappiamo che se la rete ce lo consentirà passeremo la notte a scaricare video e foto per testimoniare di un’altra giornata che poteva essere di festa se la legalità internazionale avesse vinto sulla legge del più forte.
Uscendo i nostri occhi cadono ancora su quella scarpa sporca di sangue. E’ una scarpa da ginnastica, è quasi nuova. Forse portava i passi di un altro sognatore oggi diventato martire. Come Yasser, il giornalista ucciso a Khuza’a, o come Mohammed, lo scultore ucciso lo scorso venerdì. O come tutti gli altri martiri di questa marcia che avendo vinto la paura seguitano ad andare a mani nude di fronte a un nemico armato e micidiale per chiedere al mondo di svegliarsi.
*Articolo pubblicato su Pressenza e riproposto su gentile concessione dell'Autrice
Presentato in Senato il Rapporto Annuale di Associazione 21 luglio. Sono 26 mila i rom in emergenza abitativa in Italia, il monito: «Ancora inadeguate le politiche volte al superamento dei campi, mancano orientamento strategico e coordinamento nazionale delle politiche disgregative ».
Roma – 6 aprile 2018. Il giudizio degli Enti internazionali ed europei di monitoraggio sui diritti umani* appare chiaro: anche nel 2017 l’Italia ha continuato ad essere il “Paese dei campi”, perseverando nell’utilizzo di politiche discriminatorie e segreganti nei confronti delle popolazioni rom e sinte presenti sul territorio nazionale oltre che nelle persistenti operazioni di sgombero forzato.
È stato presentato oggi in Senato, alla presenza del neo direttore UNAR Luigi Manconi, il Rapporto Annuale 2017 di Associazione 21 luglio che come ogni anno - in vista della Giornata Internazionale dei Rom e Sinti celebrata l’8 aprile - fa il punto sullo stato dei diritti delle popolazioni rom e sinte in condizioni di emergenza abitativa e residenti all’interno di baraccopoli formali e informali italiane.
Rom e Sinti in emergenza abitativa in Italia
Secondo i dati raccolti sul campo da Associazione 21 luglio, a fronte di un totale stimato compreso tra 120 e 180 mila presenze di cittadini di origine rom e sinta, sono circa 26 mila quelli in emergenza abitativa che vivono in baraccopoli formali e informali o nei centri di raccolta monoetnici, numero pari allo 0,04% della popolazione italiana. Rispetto all’anno precedente si registra quindi una leggera flessione di presenze (nel 2016 erano 28 mila unità) dettata non da una graduale risoluzione della questione ma piuttosto dalle drammatiche condizioni di vita all’interno di questi insediamenti che hanno spinto alcuni degli abitanti – prevalentemente comunitari – a spostarsi in altri Paesi o a tornare nelle città di origine.
I numeri
In Italia sono 148 le baraccopoli formali, distribuite in 87 comuni di 16 regioni da Nord a Sud, per un totale di circa 16.400 abitanti, mentre 9.600 è il numero di presenze stimato all’interno di insediamenti informali. A fine 2017 in Italia risultavano ancora attivi 2 centri di accoglienza monoetnici riservati alle comunità rom per un totale di 130 residenti, uno nella città di Napoli e uno a Guastalla, in provincia di Reggio Emilia. Dei rom e sinti residenti nelle baraccopoli formali si stima che il 43% abbia la cittadinanza italiana; mentre sono 9.600 i rom originari dell’ex Jugoslavia di cui circa il 30% - pari a 3.000 unità – è a rischio apolidia. Nelle baraccopoli informali e nei micro insediamenti, infine, vivono nell’86% dei casi cittadini di origine rumena.
La condizione dei minori e gli sgomberi forzati
A vivere sulla propria pelle le tragiche conseguenze della segregazione abitativa sono molti minori, il 55% secondo le stime di Associazione 21 luglio, con gravi ripercussioni sulla salute psico-fisica e sul loro percorso educativo e scolastico. A incidere sui livelli di scolarizzazione contribuiscono infatti in modo significativo sia le condizioni abitative sia la forte catena di vulnerabilità perpetrata dalle operazioni di sgombero forzato attuate in assenza delle garanzie procedurali previste dai diversi Comitati delle Nazioni Unite.
Nella sua costante attività di monitoraggio, Associazione 21 luglio ha registrato in tutto il 2017 un totale di 230 operazioni: 96 nel Nord Italia, 91 al Centro (di cui 33 nella città di Roma) e 43 nel Sud.
Antiziganismo e discorsi d’odio
L’antigitanismo rimane uno degli elementi che continua a caratterizzare la nostra società. Nel 2017 l’Osservatorio 21 luglio ha registrato un totale di 182 episodi di discorsi d’odio nei confronti di rom e sinti, di cui 51 (il 28,1% del totale) sono stati classificati di una certa gravità. È da segnalare quindi un incremento del 4% rispetto al 2016, anno in cui l’Osservatorio aveva rilevato un totale di 172 episodi.
La situazione a Roma
La città di Roma detiene il triste primato del maggior numero di insediamenti presenti, 17 in totale di cui 6 formali e 11 cosiddetti “tollerati”. Nella Capitale, nonostante le aspettative create a fine 2016 con la Memoria di Giunta e il “Progetto di Inclusione Rom” presentato il 31 maggio dalla sindaca Raggi che aveva come obiettivo il graduale superamento dei “campi” presenti all’interno della città – piano di cui Associazione 21 luglio aveva fin da subito evidenziato le fragilità (http://www.21luglio.org/21luglio/associazione-21-luglio-svela-critica-piano-rom-della-giunta-raggi/) – nel 2017 non è stato di fatto avviato alcun processo di inclusione. Caso esemplare quello dell’insediamento di Camping River, per il cui superamento la Giunta ha promosso una serie di azioni che si sono dimostrate fallimentari e non hanno fatto altro che “declassare” l’insediamento da formale a informale.
Le dichiarazioni
«Non è più il momento di tergiversare, non è più il momento di risposte nostalgiche che guardano alle soluzioni del passato - ha dichiarato Tommaso Vitale dell’Università Sciences Po, intervenuto oggi nel corso della presentazione del Rapporto - Questo è il momento del diritto anti-discriminatorio. In Europa le città stanno procedendo verso politiche di opportunità e integrazione, il tempo delle misure speciali, segreganti e discriminanti è definitivamente scaduto».
«Ancora una volta ci troviamo a dover constatare il fallimento delle politiche di inclusione rivolte a rom e sinti in emergenza abitativa – ha dichiarato Carlo Stasolla, presidente di Associazione 21 luglio – non ci sono progressi nell’implementazione della Strategia e le politiche non hanno prodotto alcun processo di inclusione. Sono necessari un chiaro orientamento strategico e un coordinamento a livello nazionale rispetto alle politiche di desegregazione abitativa».
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*European Union Agency for Fundamental Rights (FRA); Human Rights Council (HRC); Committee on the Elimination of Discrimination against Women (CEDAW) e European Parliament Committee on Civil Liberties, Justice and Home Affairs (LIBE).
SCARICA IL RAPPORTO ANNUALE 2017 (http://www.21luglio.org/21luglio/wp-content/uploads/2018/04/Rapporto_Annuale-2017_web.pdf)
“Lo scorso anno il nostro mondo è stato immerso nelle crisi e importanti leader ci hanno proposto una visione da incubo di una società accecata da odio e paura. Ciò ha rafforzato coloro che promuovono l’intolleranza ma ha ispirato ancora più persone a chiedere un futuro di maggiore speranza.”
Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International
Sono trascorsi, ormai, quasi 70 anni da quel 10 dicembre del 1948, in cui venne presentata al mondo la Dichiarazione Universale dei diritti umani, destinata per tracciare le coordinate programmatiche entro cui una umanità finalmente liberata dal “flagello della guerra” avrebbe dovuto procedere verso orizzonti sempre più luminosi di libertà, tolleranza e fraterno reciproco rispetto.
Ma un esame anche molto sommario dell’ultimo Rapporto annuale di Amnesty International* ci obbliga dolorosamente a constatare che il tempo in cui i diritti umani potranno diventare ingrediente fondamentale e universale delle esistenze di tutti i membri della “famiglia umana” è ancora un tempo immerso in nebbie dense e ostili.
Nel corso dell’intero 2017, infatti, milioni di persone hanno subito gli effetti rovinosi di diffuse politiche di demonizzazione; numerosi conflitti, sistematicamente alimentati da un sempre fiorente mercato delle armi, hanno continuato a mietere innumerevoli civili, fra cui moltissimi minori; la crisi globale dei rifugiati ha continuato ad essere affrontata dai leader dei paesi ricchi con inadeguata sensibilità e con carente spirito di solidarietà civile.
Nel 2018, tra l’altro, ricorrono anche 20 anni da quando le Nazioni Unite hanno adottato la Dichiarazione dei difensori dei diritti umani, altro importante documento nato per fornire protezione e sostegno a coloro che scelgono di impegnarsi a favore dei diritti umani. Ma ancora oggi, a distanza di due decenni, chi abbraccia il compito di difendere i diritti umani sa benissimo che, molto spesso, dovrà affrontare le più gravi conseguenze, come è accaduto al Premio Nobel Liu Xiaobo, morto in custodia, il 13 luglio del 2017, per cancro al fegato, dopo che le autorità cinesi gli avevano sistematicamente impedito di ottenere i necessari trattamenti medici.
Il bilancio è quanto mai allarmante: nel corso dell’anno, sono centinaia le attiviste e gli attivisti uccisi e sovente le autorità, piuttosto che schierarsi al fianco delle vittime, hanno preferito tentare di ridurre al silenzio i promotori di campagne e i mezzi di informazione indipendenti. In questa vergognosa repressione, la stessa Amnesty International ha subito minacce al suo lavoro in Ungheria, mentre in Turchia ha subito anche lo sconcertante arresto del suo presidente e della direttrice.
“I governi pensano di poter dichiarare caccia aperta all’attivismo per i diritti umani: possono chiudere quotidiani, sminuire il lavoro dei giudici e incarcerare attivisti ma noi rifiutiamo di rimanere in silenzio. Se il leggendario attivista cinese Liu Xiaobo ci ha insegnato qualcosa è che dobbiamo dire la verità in faccia al potere proprio quando pare impossibile farlo”, ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International.
La tambureggiante e onnipervadente retorica della sicurezza nazionale e della lotta al terrorismo ha poi continuato ad offrire a molti governi una nobilitante giustificazione per una pericolosa erosione della sfera delle libertà personali, scivolando inesorabilmente verso una condizione caratterizzata dalla presenza di misure sempre più aggressive nei confronti dei diritti delle persone.
Ma il Rapporto di Amnesty International non si limita a fotografare i tanti aspetti inquietanti e drammatici di un mondo ancora imbevuto di pensieri deliranti e di atti di inimmaginabile violenza. Intende anche esortarci a rifiutare di abbandonarci alla rassegnazione e a incoraggiarci a non smettere di costruire una cultura della solidarietà in grado di affrontare le innumerevoli sfide dei nostri tempi e capace di porre a fondamento di qualsivoglia decisione e prassi politiche i valori fondamentali dell’uguaglianza dei diritti e della inviolabilità della dignità di ciascun individuo, indipendentemente da ogni possibile tipo di differenza reale e presunta. Intende invitarci anche a migliorare il nostro livello di generosità, a offrire alle frustrazioni, alle paure e alla rabbia sociale risposte costruttive, non improntate al rifiuto e all’esclusione ed inneggianti a nuovi muri, ma ad una rinnovata e ampliata capacità di dialogo e di empatica collaborazione.
“Quest’anno - ha dichiarato Antonio Marchesi, Presidente di Amnesty Italia - la prima chiave di lettura è quella dell’odio: dal discorso d’odio, che avvelena la vita pubblica e la convivenza civile in molti paesi, fino al crimine motivato dall’odio nutrito nei confronti degli appartenenti a determinate categorie di persone, per lo più persone particolarmente vulnerabili che vengono strumentalmente presentate - e di conseguenza viste da molti - unicamente come un problema o, piuttosto, come una minaccia da eliminare. C’è continuità rispetto alla retorica divisiva e alle politiche di demonizzazione che denunciavamo l’anno scorso. Quella retorica e quelle politiche stanno dando i loro frutti. C’è infatti il rischio concreto di una normalizzazione delle discriminazioni massicce ai danni di certi gruppi di persone, minoritari e marginalizzati. Aggiungo che l’ostilità di molti governi tende ad estendersi anche contro chi si schiera a difesa delle vittime: contro organizzazioni della società civile, intimidite e criminalizzate in un numero crescente di paesi. Non solo il “noi contro loro”, ma anche il “noi contro chiunque si metta di traverso”. In Ungheria, pochi giorni fa è stata presentata una proposta di legge che subordina all’autorizzazione preventiva del governo le attività di quelle ONG che il governo stesso ritiene “colpevoli”, in un certo senso, di aiutare i migranti.
Il Rapporto, sulla base dell’ esame di ben 159 paesi, ci fornisce la più completa analisi della situazione attuale dei diritti umani nel mondo, mettendo in luce come, per milioni di persone, sia sempre più arduo accedere a beni e servizi fondamentali, dall’alloggio al cibo, dall’acqua potabile alle cure mediche. Secondo l’organizzazione umanitaria, di conseguenza, qualora i governi continuassero a non affrontare e a non risolvere adeguatamente i problemi della povertà e delle diseguaglianze, dovremo attenderci tensioni sociali sempre più ampie e cruente.
“Sotto i nostri occhi - ha concluso Salil Shetty - si fa la storia: numeri sempre maggiori di persone si attivano per chiedere giustizia. Se i leader non riconosceranno i motivi che spingono le loro popolazioni a protestare, sarà la loro rovina. Le persone hanno reso abbondantemente chiaro che vogliono i diritti umani: sta ai governi mostrare di saperle ascoltare”.
*https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2016-2017/
Con il Rapporto 2016-2017 (Infinito Edizioni)*, presentato in questi giorni, Amnesty International ha lanciato un forte allarme in merito ai rischi di un uso politico sempre più diffuso ed insistito della retorica deleteria e disumanizzante del “noi contro loro“, prassi che sta determinando in moltissimi paesi un inquietante regresso nei confronti dei diritti umani.
“Il 2016 è stato l’anno in cui il cinico uso della narrativa del ‘noi contro loro’, basata su demonizzazione, odio e paura, ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni Tenta dello scorso secolo. Un numero elevato di politici sta rispondendo ai legittimi timori nel campo economico e della sicurezza con una pericolosa e divisiva manipolazione delle politiche identitarie allo scopo di ottenere consenso“, ha dichiarato Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International.
Le politiche di demonizzazione, infatti, diffondendo, in maniera più o meno esplicita, la pericolosa idea che alcune persone siano meno importanti di altre, privano interi gruppi di persone della loro piena umanità e finiscono inesorabilmente per favorire vergognosi passi indietro nel modo di intendere i diritti umani.
“Così - ha messo in guardia Shetty - si rischia di dare via libera ai lati più oscuri della natura umana“.
Al fine di cercare di arginare e contrastare il discorso violento, aggressivo, discriminatorio e l’uso scorretto del linguaggio, Amnesty International Italia, alla vigilia delle elezioni politiche e regionali 2018, ha lanciato “Conta fino a 10”**, una interessante e innovativa campagna di sensibilizzazione che sta mobilitando i suoi attivisti su tutto il territorio nazionale, con l’obiettivo di realizzare il monitoraggio delle dichiarazioni e dei commenti postati sui profili social ufficiali dai candidati alle elezioni, verificando così il livello d’odio nel discorso politico, l’uso di stereotipi, espressioni offensive, razziste e gravide di violenza, in particolar modo nei confronti delle categorie sociali più vulnerabili (migranti, rom, persone Lgbti, donne, comunità islamiche).
“Purtroppo il clima di odio che circola nel paese alla vigilia della campagna elettorale non prelude a nulla di buono. C’è chi l’odio, anziché contrastarlo, lo semina, favorendolo e persino giustificandolo. Speriamo che questa campagna renda ognuno e ognuna più consapevole delle parole che usa e dell’effetto che possono suscitare” ha dichiarato Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia, il quale, insieme a Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia, ha scritto ai leader dei maggiori partiti politici in corsa alle elezioni 2018, informandoli dell’avvio del monitoraggio e chiedendo loro di proporre un linguaggio non discriminatorio.
E per combattere la cosiddetta “fabbrica della paura”, favorita dai discorsi politici che si nutrono della narrativa dell’”invasione” e della retorica del “noi contro loro”, la campagna si servirà dello strumento del “barometro dell’odio“. In merito ad esso, alle sue finalità e al suo auspicato effetto “antibarbarie”, ci siamo rivolti a Viviana Isernia, Responsabile di Amnesty Lazio.
In questi giorni di campagna elettorale, Amnesty International sta portando avanti una originale campagna intitolata “Conta fino a 10”, che ha il suo principale punto di forza nel cosiddetto “barometro dell’odio”. Di cosa si tratta?
Il “barometro dell'odio” è uno strumento di monitoraggio che si basa sull’aggregazione di dati quantitativi e qualitativi raccolti grazie al supporto dei nostri attivisti e vuole rappresentare l’andamento dei discorsi d’odio in campagna elettorale. Il barometro dell’odio misura in che modo (offensivo, grave o molto grave) e contro di chi (i bersagli, le vittime) si sviluppano discorsi d’odio durante la campagna elettorale 2018.
Quali risultano essere, al momento, le manifestazioni di odio più ricorrenti e più pericolose?
Al momento (dati aggiornati al 22/02/2018) le più ricorrenti sono le dichiarazioni rivolte contro migranti, rifugiati, immigrati e rom con 253 frasi. Pericolose, in realtà, sono tutte le dichiarazioni che incitano o cercano di incitare al pregiudizio, all’odio, alla paura, alle discriminazioni o persino alla violenza contro una persona o gruppo di persone sulla base dell’appartenenza, vera o presunta, ad un gruppo sociale, all’identificazione basata sull’etnia, la religione, la lingua, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o particolari condizioni fisiche o psichiche.
Ritieni che questa iniziativa, certamente encomiabile, possa contribuire davvero a rendere meno barbarico e violento il clima politico del nostro paese?
Sì, certo. Il linguaggio di odio, con il suo corredo di fake news, rischia di creare una società sempre più divisa, favorendo gravi passi indietro nei confronti dei diritti umani.La diminuzione dell'uso del linguaggio violento, aggressivo e discriminatorio nei confronti di categorie vulnerabili, migranti e rifugiati, donne e sulla base di ogni altra caratteristica o situazione personale, compresi l'identità di genere e l'orientamento sessuale, può senza dubbio condurre a una società più inclusiva e accogliente.
E’ possibile constatare già qualche risultato di una certa importanza?
Da un primo monitoraggio, la quasi totalità delle oltre 500 dichiarazioni discriminatorie o che incitano all'odio segnalate di 117 candidati, sono da attribuire a Lega Nord, Fratelli d'Italia e Forza Italia. E' importante ricordare che il monitoraggio riguarda i candidati di tutti i partiti.
Quando potremo avere un bilancio complessivo della campagna?
I risultati complessivi saranno pubblicati in un report finale dopo il 2 marzo.
* https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2017-2018/
** https://www.amnesty.it/conta-10-luso-del-linguaggio-dodio-campagna-elettorale/
Gli aspetti problematici dei trapianti di cui non si vuole parlare …
E’ indubbiamente toccante la storia di quel padre che ha deciso di intraprendere la ricerca della persona che ha ricevuto, venti anni fa, il cuore trapiantato del figlio, per poter avere la gioia di ascoltare ancora il battito di quel cuore tanto amato. E certamente molto toccante è anche quanto scritto, a proposito del caso analogo di una madre fiorentina, da Ferdinando Camon (Avvenire 1 febbraio 2018), il quale esalta con passione la scelta della donazione degli organi come gesto di grande generosità, definendo il “Donare una parte di se stesso” come dono “immenso”, che, proprio perché tale, sarebbe impossibile da misurare. Dichiarando anche che, se noi italiani “stiamo diventando un discreto popolo di donatori”, ciò si starebbe verificando perché staremmo “passando da una concezione per cui ‘ il mio corpo è mio, appartiene a me e basta’, a un’altra concezione, per cui ‘ il mio corpo appartiene all’umanità, se a me non serve più ma all’umanità serve ancora, può prenderlo’”.
Ciò nonostante, trovo assai discutibile che, in nome della tanto esaltata sconfinata bellezza del donare, non si prendano in considerazione con la necessaria lucidità alcuni aspetti critici della questione:
Venerdì 2 febbraio, un sit-in organizzato dalla sezione italiana di Amnesty International, nei pressi dell’Ambasciata turca a Roma, ha tentato di richiamare l’attenzione sulle gravi violazioni dei diritti umani che continuano ad accadere in Turchia, anche in vista dell’ormai imminente visita di Erdogan nel nostro paese.
In particolar modo, si è inteso protestare con fermezza contro la decisione di arrestare nuovamente il presidente di Amnesty International Turchia, soltanto poche ore dopo un provvedimento di rilascio da parte di un tribunale.
Il presidente di Amnesty International Turchia Taner Kılıç, è stato arrestato il 6 giugno, mentre altri dieci difensori, tra cui İdil Eser, direttrice dell’organizzazione, sono stati arrestati un mese dopo. Dopo quasi quattro mesi nella prigione di massima sicurezza di Silivri, otto di loro, in seguito alla prima udienza, sono stati rilasciati su cauzione. Per tutti l’accusa è gravissima: “appartenenza a un’organizzazione terroristica”.
L’accusa contro i difensori dei diritti umani sostiene, in pratica, che normali attività in favore dei diritti umani possano essere ritenute equivalenti a fornire “assistenza a un’organizzazione terroristica“.
Taner Kılıç è accusato di aver scaricato e usato l’applicazione di messaggistica ByLock, che, secondo la procura, era stata usata dal movimento gülenista per le proprie comunicazioni. Ma ben due perizie indipendenti commissionate da Amnesty International hanno avuto modo di dimostrare che quell’applicazione, sull’apparecchio di Taner Kılıç, non è neppure mai stata installata.
In questi mesi, numerosi sono stati i rappresentanti della cultura e della politica che hanno chiesto alle autorità turche di annullare le grottesche accuse di terrorismo nei confronti di Taner e degli altri difensori dei diritti umani. Oltre 20 parlamentari britannici hanno sottoscritto una mozione che chiede l’immediato rilascio di Taner Kılıç e l’annullamento delle accuse nei confronti degli altri difensori dei diritti umani. Lo stesso hanno fatto 22 membri del Congresso Usa, così come il segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjørn Jagland, il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani e il presidente della Commissione diritti umani del Parlamento europeo Pier Antonio Panzeri.
Il rilascio di Taner Kılıç è stato richiesto, inoltre, da un lungo elenco di governi, istituzioni e leader politici, tra cui la Commissione europea, il dipartimento di Stato Usa, rappresentanti delle Nazioni Unite, Angela Merkel e il governo tedesco e i governi di Austria, Belgio e Irlanda.
“Nelle ultime 24 ore - ha detto il segretario generale di Amnesty International, Salil Shetty - abbiamo assistito a una parodia della giustizia di proporzioni epiche. Ottenere il rilascio solo per vedersi spietatamente chiudere in faccia la porta della libertà è devastante per Taner, la sua famiglia e per tutti quelli che in Turchia sono dalla parte della giustizia. Quest’ultimo episodio, un arresto pretestuoso, ha distrutto le speranze di Taner e quelle di sua moglie e delle sue figlie, che lo avevano aspettato tutto il giorno all’esterno della prigione per accoglierlo”.
Il nuovo arresto di Taner Kılıç è avvenuto poche ore dopo la decisione presa il 31 gennaio da un tribunale di porlo in libertà condizionata in attesa del processo, decisione contro cui il procuratore ha fatto appello.
“Questo - ha aggiunto Salil Shetty - è l’ultimo esempio della crisi del sistema giudiziario turco, che continua a distruggere vite e a svuotare di senso il diritto a un processo equo”.
“Il nuovo arresto di Taner, che è un affronto alla giustizia e non tiene conto delle schiaccianti prove della sua innocenza, non fa che rafforzare la determinazione a continuare la nostra battaglia per lui. Un milione di voci si sono già levate chiedendo il suo rilascio. Non avrebbe mai dovuto essere arrestato, e non ci fermeremo finché non sarà di nuovo libero”.
Intanto, in attesa della prossima udienza del 21 giugno, l’Associazione invita tutti i suoi membri e simpatizzanti, nonché tutti coloro che hanno a cuore la causa dei diritti umani, a sottoscrivere il seguente appello:
https://www.amnesty.it/appelli/turchia-liberare-difensori-dei-diritti-umani/
Siamo quotidianamente costretti a constatare il carattere sempre più ferocemente becero dell`informazione imperante. Un caso di questi ultimi giorni su cui credo valga la pena provare a riflettere con la necessaria lucidità è senza dubbio quello dell`alunna adolescente che avrebbe rivelato in un tema scolastico di aver subito approcci sessuali da parte del padre.
Di questa dolorosa quanto delicata vicenda il tritacarne mediatico si è immediatamente impadronito, con incontenibile avidità, vivisezionandola, sbranandola, divorandola e rigurgitandola con libidinosa e ripugnante morbosità. Senza che i giornalisti coinvolti abbiano manifestato la più elementare attenzione per la tutela di una ragazza che si è certamente venuta a trovare catapultata in un marasma caotico di laceranti conflitti interiori.
Procedendo come rulli compressori, senza rispettare le doverose precauzioni deontologiche, senza preoccuparsi della madre, dell`intera famiglia (la ragazza ha numerose sorelle), inesorabilmente incatenate alla vetrina-gogna mediatica. Senza usare alcuna cautela nei confronti del padre, immediatamente e inappellabilmente `orchizzato`. Il quale, dopo qualche giorno di impietoso linciaggio, ha scelto di darsi la morte, gettando l`intero nucleo familiare (la figlia accusatrice in particolare) in chissà quali tormenti, rimorsi, rimpianti e incancellabili sensi di colpa.
Di fronte alla morte di quest`uomo, di fronte ad una famiglia disintegrata, mi chiedo, qualcuno si sentirà forse in dovere di domandarsi se altre strade avrebbero potuto essere percorse?
Qualcuno si chiederà mai se, usando maggiore rispetto verso (presunta) vittima e (presunto) carnefice, questo esito tragico avrebbe potuto essere evitato?
Qualcuno si chiederà mai cosa sarebbe potuto accadere qualora si fosse consentito a scuola, magistratura, operatori sociali, terapeuti specializzati, ecc., di intervenire, nei tempi e nei modi necessari, per fare chiarezza, per fare luce, per arginare i crolli, per curare e, nei limiti del possibile, anche per tentare di ricucire gli strappi e ricostruire i rapporti tanto gravemente feriti?
“La tortura non ha luogo solo perché i singoli torturatori sono dei sadici, anche se i testimoni affermano che spesso lo sono. La tortura fa di solito parte dell’apparato controllato dallo stato per sopprimere il dissenso. Sono il potere e la responsabilità dello stato che si concentrano nell’elettrodo o nella siringa del torturatore. Per quanto possano essere perverse le azioni dei singoli torturatori, la tortura in sé ha un fondamento logico: l’isolamento, l’umiliazione, la pressione psicologica ed il dolore fisico sono tutti mezzi per ottenere informazioni, per far crollare il prigioniero ed intimorire quanti gli sono vicini. Il torturatore può volere qualcosa in particolare, come la firma di una confessione, la rinuncia a delle convinzioni, o la denuncia di parenti, colleghi ed amici, che a loro volta possano essere presi, torturati e, se possibile, fatti crollare.
La tortura è spesso usata come parte integrante della strategia di un governo per la propria sicurezza.”
Così possiamo leggere in un rapporto di Amnesty International di più di trenta anni fa (Tortura anni ’80, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1985, p. 10), in cui, oltre ad esaminare il fenomeno nelle sue cause e nella sua ampia diffusione a livello mondiale, si avanzavano concrete proposte (recepite in buona parte dalla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti delle Nazioni Unite), non soltanto di proibizione legislativa, ma anche miranti ad una efficace opera di prevenzione nei confronti del fenomeno, inteso in tutte le sue declinazioni.
Da quel tremendo volume di più di 400 pagine, due sono le tesi che sbucano prepotentemente fuori:
“La tortura ha luogo a seguito di una carenza dei “governi” i quali non assumono le loro responsabilità legali per prevenirla, per indagare e correggere gli abusi dichiarati di autorità da parte dei suoi agenti. Il fatto che la tortura o il maltrattamento abbiano luogo in decine di nazioni, mentre sono proibiti ai sensi della costituzione di almeno 136 nazioni, mostra chiaramente che una semplice proibizione legislativa non è sufficiente a bandire la tortura. Dove esista la volontà politica, comunque, ciò potrebbe permettere ad un governo di fermare la tortura. Al contrario, se sono state adottate poche misure preventive e pochi rimedi oggettivamente verificabili, allora è giusto concludere che l’opposizione di un governo alla tortura è men che seria.” (ivi, p. 137)
Da allora ad oggi, l’opposizione alla tortura si è andata sempre più definendo in maniera ferma e categorica a livello di diritto internazionale e, per quanto concerne l’Italia, dopo estenuanti e vergognosi ritardi, intralci, ostacoli e fallimenti, si è potuto da poco ottenere una apposita legge, criticata e criticabile, ma pur sempre significativa.
Ma questo certo non testimonia affatto che il problema sia stato risolto o che sia in via di rapida soluzione. I dati raccolti e denunciati da Amnesty International e da altre organizzazioni umanitarie continuano a risultare inquietanti sia per qualità sia per quantità. * La tortura è ancora ben lontana dal poter essere relegata negli angoli oscuri del nostro passato, remoto o anche recente. La tortura è ancora prassi adottata e diffusa, studiata, coltivata, insegnata, applicata e, ovviamente, sperimentata e atrocemente subìta. Qualcosa, quindi, che non può essere sottovalutata né tantomeno ignorata. Verità, questa, dolorosamente scomoda quanto incontestabile che Maria Rita Prette (Marita per gli amici) riesce assai efficacemente a presentarci grazie al suo ultimo libro, Tortura-Una pratica indicibile (Sensibili alle foglie, marzo 2017)), fonte di numerosi elementi di conoscenza, preziose chiavi di lettura e di lucide proposte interpretative.
1. Parlare di tortura significa riferirsi alla sofferenza fisica e psichica inflitta “da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”, quindi non certo di mera “crudeltà insita nell’essere umano” o di esplosione occasionale, casuale, arbitraria (e, come tale, imprevedibile) di “rabbia incontrollata”. (p. 12)
“Parlare di tortura significa parlare del processo di deumanizzazione messo in atto per renderla possibile” (p. 7). La tortura non è qualcosa da poter affidare all’improvvisazione: “richiede tempo e competenze”. (p. 8)
Per esserci la tortura deve esserci il torturatore e il torturatore va programmato, va costruito.
“Nessun essere umano è in grado di torturare scientemente un’altra persona, a meno che non sia uno psicopatico, e quindi, per poter trasformare un gruppo di persone, per esempio di poliziotti, in una squadra di torturatori si deve lavorare su di loro, li si deve addestrare, li si deve a tutti gli effetti formare …” (p. 48)
E per poterlo fare occorrono abili programmatori e formatori capaci.
“La tortura - infatti - non può essere inflitta se non si è stati autorizzati - quando non addestrati - a praticarla, e nessun agente potrebbe disporre del corpo del torturato se non fosse messo nelle condizioni logistiche di poterne disporre.” (p. 12)
E questo implica che tutto un settore delle istituzioni dello Stato lavori al fine di rendere pensabili, auspicabili, adottabili e applicabili determinate forme di esercizio della violenza, in determinate circostanze, in vista di determinati obiettivi, su determinati soggetti che si vengono a trovare (totalmente inoffensivi e impossibilitati a difendersi) sotto il pieno potere dello Stato.
E’ necessario, inoltre, che il futuro torturatore venga abituato “a guardare a chi subisce la sua violenza come a un oggetto, come se non appartenesse alla specie umana.” (ibidem)
Ovviamente, i “soggetti torturabili” saranno tanto più tali, tanto più saranno collocati e percepiti all’interno delle categorie degli “esclusi”, dei “nemici” e degli “indesiderabili”, “vale a dire tutte quelle persone che possono essere de-umanizzate senza suscitare scandalo o indignazione nei cittadini.”
La tortura, come “pratica indicibile” dovrà essere celata e negata, restare “confinata nel corpo delle persone torturate”.
2. La tortura è “un’istituzione totale, poiché il dominio del torturatore sulla completa impotenza del torturato è assoluto e perché l’esercizio del potere, attraverso la sofferenza inflitta al corpo del torturato è totale”. (p. 9)
Come afferma Jean Améry, nel suo straordinario Intellettuale a Auschwitz, la tortura è una vera e propria sorta di
“rovesciamento totale del mondo sociale, nel quale possiamo vivere solo se concediamo la vita anche al prossimo, se dominiamo la tendenza espansiva del nostro io, se mitighiamo la sua sofferenza. Nel mondo della tortura invece l’uomo sussiste solo nell’annientamento dell’altro.” (Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino, 1988, p. 76)
E due - spiega la Prette - sono i concetti di cui l’istituzione ha irrinunciabile bisogno: eccezione/emergenza e pericolosità sociale.
E’ necessario, cioè, che ci si senta in guerra, che ci si senta sotto attacco, vulnerabili e, quindi, “costretti” a difendersi. Nell’ottica dei cosiddetti “mali estremi” curabili soltanto con rimedi altrettanto “estremi”. E’ necessario sentirsi assillati e angosciati da una minaccia indefinita (tanto più potentemente ansiogena quanto meno definibile e circoscrivibile). Solo su questa strada è possibile ottenere quella che possiamo considerare la dissoluzione massima dei rapporti più elementari e vitali di solidarietà e di comune appartenenza a quella cosa che siamo soliti chiamare “umanità”…
Il torturato, ammanettato, imbavagliato, incappucciato, ecc., è totalmente in balìa di mani estranee che esercitano sul suo corpo, e (cosa immensamente più brutale e insanabile) sulla sua anima un potere illimitato, senza alcun confine, in alcun modo contrastabile. La sua solitudine è la solitudine più abissale. E’ l’essere gettato al di fuori dell’umano, è l’essere rapinato del diritto di sentirsi umano in mezzo ad altri umani. E’ il perdersi stesso della nozione di “umanità”.
Come scrive sempre Améry,
“Chi ha subìto la tortura non può più sentire suo il mondo. L’onta dell’annientamento non può essere cancellata. La fiducia nel mondo crollata in parte con la prima percossa, ma definitivamente con la tortura, non può essere riconquistata. Nel torturato si accumula lo sgomento di avere vissuto i propri simili come avversi: da questa posizione nessuno riesce a scrutare verso un mondo in cui regni il principio della speranza. Chi è stato martoriato è consegnato inerme all’angoscia.” (ivi, p. 82)
3. Se non si colgono le connessioni del fenomeno tortura con le istituzioni statuali non soltanto si rischia di farsene una rappresentazione banalizzata, impoverita e distorta, ma si finisce per non comprenderne la gravità e la pericolosità, cadendo nell’errore che essa riguardi soltanto i cosiddetti “gruppi bersaglio” (i mafiosi, i terroristi, i criminali, i nemici, ecc.), solo alcune persone, cioè, avvertite come lontane, come altre, come, tutto sommato, non rilevanti e, pertanto, non degne della nostra attenzione e preoccupazione, quando non addirittura “meritevoli” di esserne oggetto. Se non si guarda, cioè, al sistema, al “dispositivo” si rischia di non capire che, una volta accettato e reso operativo, potrà sempre essere applicato a seconda delle “necessità” di ogni particolare momento storico.
“Per questo - spiega la Prette - con la fine dell’esperienza armata l’apparato della tortura ha potuto occuparsi dell’emergenza mafia senza destare la minima preoccupazione nella nostra società democratica.” (p. 64)
Inoltre, non andrebbe certo sottovalutato il fatto che insegnare ad una persona a torturare un proprio simile non può che produrre “effetti devastanti anche sui torturatori”: affinché comportamenti crudelmente violenti possano diventare
“naturali la persona che li attua deve a sua volta essere passata per una sorta di addestramento alla de-umanizzazione” (p. 47).
E questo può aiutarci a comprendere come possa accadere che le persone così “addestrate” arrivino a sentirsi autorizzate a fare uso arbitrario della forza non soltanto al di fuori della legalità, ma anche al di fuori degli ambiti previsti dallo stesso dispositivo, come ritenendosi investiti di una sorta di “sacra” autorità e sempre tutelati da una inattaccabile impunità.
4. Al contrario di quanto si possa essere orientati facilmente ed ingenuamente a supporre,
“La tortura non ha lo scopo di ottenere delle informazioni, in quanto, notoriamente, esse non sarebbero credibili. La tortura ha lo scopo di distruggere l’identità della persona torturata per sostituirla con un’altra, consona alle esigenze dei torturatori. Serve a umiliare e degradare e perciò incute terrore. Per questo, sin dall’antichità, essa viene usata dai potenti per garantire l’acquiescenza e l’innocuità dei sudditi.” (p. 83)
E, mentre nei paesi insanguinati dai conflitti imposti dagli interessi occidentali, la tortura, oltre a seminare il terrore, svolge la funzione di eliminare persone ritenute di particolare “scomodità”, in Italia avrebbe assunto come eminente obiettivo quello di produrre i cosiddetti “collaboratori di giustizia”.
A questo proposito, molto a lungo Maria Rita Prette si sofferma sul processo verificatosi proprio all’interno del nostro paese, processo che ha fatto in modo che il fenomeno tortura, fino all’inizio degli anni ’80 legato alla “occasionalità territoriale” - riguardante, cioè, soltanto “certe procure, certe questure, certe caserme” (p. 23), con percentuale minima dei torturati sul totale degli arrestati per banda armata - si sia potuto evolvere in “pratica ordinaria, quotidiana”, non tanto perché usata in maniera sistematica e continuativa, quanto per il fatto che il ricorso a tale dispositivo sia diventato “possibile, accettabile, ordinario.” (p. 36)
E questo tipo di ricostruzione storica ragionata la conduce ad esaminare e ad intrecciare fra loro vari momenti della nostra storia e numerose vicende umane di vittime sconosciute ai più o tristemente risucchiate nel magma stagnante della dimenticanza: dalla nascita come “gruppi caldi” delle organizzazioni dedite alla lotta armata alla cosiddetta “strategia del pentimento”, dalla costituzione dei NOCS (Nuclei Operativi Centrale Sicurezza) al sequestro Dozier, dalle pratiche ignobili della Caserma della Celere di Padova alla istituzione del GOM (Gruppo Operativo Mobile), dal caso di Cesare Di Lenardo a quello di Salvatore Marino, da quello di Giuseppe Vesco a quello di Vincenzo Scarantino.
Il libro di Maria Rita Prette, già apprezzata curatrice del monumentale Progetto Memoria**, ci offre, quindi, una utilissima panoramica ed una analisi attenta e penetrante del fenomeno della tortura, sia nei suoi aspetti strettamente psicologici e sociologici, sia in quelli storici e politici. Merita, pertanto, di essere accolto senza alcun dubbio come un prezioso contributo alla conoscenza di quello che possiamo ritenere il crimine più terribile dell’uomo contro l’uomo, nonché di uno degli enigmi maggiori dell’animo umano e della sua intera storia.
*Vedi http://www.flipnews.org/human-rights/stop-alla-tortura-e-verita-per-giulio-regeni.html
** Dal 1994, Maria Rita Prette è curatrice, per Sensibili alle foglie, del Progetto Memoria e, successivamente, della collana Indicibili sociali.
http://www.libreriasensibiliallefoglie.com/catalogo.asp?sid=847820620160808070952&categoria=12
In Russia una delle nuove leggi interessanti, che andrà in vigore nel 2018, sarà sicuramente quella del diritto di dell’assistenza economica per i bambini senza padre e madre. Un gruppo di senatori guidati da Valentina Matvienko presidente del Consiglio della Federazione, ha risolto il problema che stagnava dal 1956.
Precedentemente solo chi aveva perduto il capofamiglia ne aveva il diritto, ora anche il trovatello e tutti i bambini che non hanno mai avuto informazioni sui loro genitori potranno usufruire del reddito.
Durerà per 18 anni la pensione e sarà di 10.068 rubli al mese, se poi dopo il 18esimo anno di età ci sarà il periodo universitario, questo reddito durerà fino a 23 anni.
Il Fondo Pensione della Russia inizierà a pagare le pensioni a circa quattromila giovani e questi soldi andranno direttamente sui conti bancari dei
bambini.
Valentina Matvienko
Comunque interessante sapere che il numero dei bambini negli orfanotri russi e' diminuito e molti di loro hanno trovato nuovi genitori. Nel 2017 il numero registrato nella banca dati dei bambini orfani era di 55.000 minori e circa dieci anni fa, sempre nella banca dati, erano registrati 180.000 orfani ! Significa che un terzo di abbandoni e' diminuito, vale a dire che ciò per la Russia e' una riduzione senza precedenti, quasi un record !
Dalla nascita dei primi movimenti pacifisti del XIX secolo, il cammino del pacifismo si è arricchito di molteplici forme di pensiero e di straordinarie esperienze di lotta nonviolenta.
Tante, tantissime cose sono cambiate. I pacifisti, per lo più, oggi, sono trattati con moderato rispetto, non più sbeffeggiati in quanto “anime belle” malate di “panciafichismo”, ma, al contempo, senza mai essere presi veramente sul serio, né in ambito mediatico né tantomeno in ambito politico.
Le vicende balcaniche di fine secolo e l’imperante “guerra al terrorismo” del dopo 11 settembre hanno tragicamente relegato il pensiero pacifista nelle estreme periferie dell’attenzione collettiva, in una sorta di nicchia platonico-epicurea, quasi una dimensione teoretica astrattissima e metastorica. Detto in altre parole, prevale spesso la sensazione che, nel mondo brutale e spietato in cui siamo costretti a vivere, non ci sia più alcuno spazio per chi pretenda di continuare a sognare (e a costruire!) un mondo senza eserciti, con arsenali svuotati e granai riempiti.
Ma la cultura della pace e della nonviolenza è tutt’altro che estinta e tutt’altro che rassegnata a scivolare nella dimenticanza generale. E numerose sono le iniziative che testimoniano la volontà di continuare a difendere e a diffondere i valori del dialogo, dell’amicizia fra i popoli, del rifiuto della violenza in tutte le sue forme, prime fra tutte quelle istituzionalizzate.
In merito al pacifismo di ieri e a quello di oggi, nonché in merito alle reali possibilità di continuare a sperare in un mondo liberato da quello che è stato opportunamente definito “il flagello della guerra”, è nata la conversazione con Francesco Pistolato, antico e prezioso compagno di strada, fondatore del Centro Interdipartimentale “Irene” di Ricerca sulla Pace, all’Università di Udine.*
Nei testi di scuola in circolazione, dei pacifisti non si parla quasi mai. La scena del cammino storico viene occupata quasi per intero da chi la guerra l'ha voluta e l'ha fatta. Molto poco da chi l'ha subita. Quasi per nulla da chi ha cercato di impedirla. Non ti sembra che bisognerebbe ripensare in maniera sostanziale il modo di concepire, descrivere e tramandare il nostro passato?
Non si tratta solo di un discorso che riguarda il passato.
Per cecità e scarsa consapevolezza delle conseguenze che ciò comporta, noi roviniamo anche il nostro presente sommergendolo in notizie e considerazioni su ciò che di peggio avviene a livello macro, meso e micro.
È come se ci interessasse solo il negativo, come se tutta la bellezza che ancora esiste sul nostro pianeta, e al di là di esso nella meraviglia di un cosmo, che se non altro per la sua immensa vastità dovrebbe incantarci, tutto l’amore che pure è presente nel mondo – pensiamo solo all’amore di ogni madre – non solamente umana – per i suoi figli, ai legami affettivi al di là della propria famiglia, alla solidarietà che per molti non è una parola vana, ai capolavori dell’arte, al fatto di avere un corpo, di respirare, di poter comunicare con la voce, e non solo, i nostri sentimenti e pensieri e tante altre cose che il semplice fatto di essere in vita ci permette di fare, come se insomma la vita per noi non fosse di per sé un’occasione meravigliosa di apprendere e di amare, in onore a un programma propostoci e ripropostoci dagli spiriti più elevati, i quali sì che dovrebbero accompagnare sempre i nostri pensieri, anziché occuparci noi di affari meschini, di dare importanza a gente che non ha nulla da dire, di lamentarci per questo e per quello, di prendere per buone le balle che ci raccontano i media sull’economia, sulla necessità della crescita, sui nuovi despoti ai quali bisogna fare la guerra.
Insomma: se non siamo capaci di immaginare per noi stessi una vita davvero bella, se nutriamo i nostri animi di immondizia, è normale che ci raccontino la storia così, allo stesso modo in cui i telegiornali e i giornali ci inondano di schifezze.
Ma molti ci dicono che la realtà è questa, solo questa, e che sarebbe infantile cercare di baloccarsi nel sogno ingannevole di altri mondi impossibili …
Perché si racconti la storia in modo diverso, bisogna concepire la vita in modo diverso.
La diversa concezione della vita cui alludo – tra l’altro – non contempla l’opzione della guerra, se non come interruzione del processo vitale della società da parte di pochi – interruzione destinata a divenire sempre più marginale.
Mi rendo perfettamente conto che questo mio discorso può apparire uno sfogo utopistico di qualcuno che vive fuori dal mondo. Eppure l’uomo può scegliere il proprio destino, lo si insegna a scuola, l’esistenza del libero arbitrio appare essere un concetto condiviso a livello di mainstream. Possiamo anche decidere di fare un uso migliore della nostra libertà di scegliere, perché disponiamo appunto di libertà.
Chi vede sempre tutto nero, alimenta ciò che considera negativo e crea un alibi per il proprio e altrui disimpegno.
Purtroppo, però, la storia dei movimenti pacifisti appare come una storia dolorosa, ricchissima di luce intellettuale e morale, ma costellata da continui fallimenti e sconfitte. Pensi che la situazione attuale del fronte pacifista consenta qualche ragionevole speranza o ritieni che ci sia ben poco di cui rallegrarsi ?
Le cose, per cambiare, richiedono un cambiamento del livello di coscienza generale, per il quale i pacifisti lavorano. Se i tempi sono lunghi, non credo che la cosa si possa imputare loro. Smettere di lavorare per la pace è come chiudere gli ospedali perché la gente continua a morire.
D’altra parte, fallimenti e sconfitte sono interpretazioni. Ogni serio impegno a favore della convivenza è di per sé un successo - considerate le forze che alacremente lavorano per la guerra - e porta a risultati a volte macroscopici, ma minimizzati dai professionisti dei media e dagli storici di professione. Pensiamo alla caduta del muro di Berlino, frutto di un lavoro nonviolento pluridecennale e non solo dell’implosione dell’Unione Sovietica e della RDT. Pensiamo alla stessa Unione Europea, che nel 2012 ha ricevuto il Nobel per la Pace: l’Unione è stata concepita da alcune personalità in epoche in cui le guerre imperversavano – erano anche loro pacifisti, e il loro progetto si è realizzato.
Il pacifista austriaco Alfred Hermann Fried, nel suo "Diario di guerra" (1914-19),** di cui hai recentemente curato la traduzione e la pubblicazione, scrive che ogni qualvolta gli capitava di sentir parlare le persone piene di odio nei confronti delle altre nazioni, in lui si faceva strada prepotentemente il pensiero che fosse "assolutamente necessario penetrare maggiormente nella psicologia dell'odio tra le nazioni", nella convinzione che la presenza e la forza dell'odio fossero in stretta correlazione con l'assenza di vere idee e con la latitanza della ragione.
Quanto ti sembrano travasabili nel tempo contemporaneo queste sue riflessioni?
L'attualità c'è naturalmente tutta, e i meccanismi dell'odio irrazionale sono stati studiati sufficientemente nel corso del Novecento. Per il secolo in corso e per quelli a venire proporrei una ripresa del programma mai realizzato di duemila anni fa: scoprire la presenza dell'amore nella vita umana e nella natura. Dove una luce si accende, il buio scompare. Giornali e telegiornali ci parlano delle tenebre, cioè di dove la ragione latita. Così facendo latitano anche loro nel buio e invitano noi a restarci, a rimanere nella disperazione per un mondo sempre più folle. Una ragione illuminata ci parlerebbe piuttosto del buono e del bello e così ne aiuterebbe la manifestazione in questo mondo: le persone comincerebbero a parlare di fatti piacevoli di cui hanno sentito o hanno letto, i bambini crescerebbero meno disincantati.
Vorrei ribadire questo concetto e poi venire al pratico, per non essere preso per un sognatore al limite della demenza.
Evitare di dipingere e proporre solo il peggio di quello che succede, come fanno i media costantemente, e soffermarsi invece sul tanto di buono che c'è - e già sento, come Socrate nel Gorgia quando proponeva i re filosofi, i tanti che sghignazzano e dicono: "ma questo è un idiota, di che cosa ci sta parlando?" - è possibile, perché mai non dovrebbe esserlo? Chi obbliga i giornalisti a rovesciare addosso alla gente solo l'immondizia? Non sarebbe ragionevole e un gran sollievo per tutti parlare anche e soprattutto d'altro? Proprio non riesco a vedere perché non si possa fare a meno di propinarci tante schifezze. O meglio, so perché questo accade, e vengo al punto successivo, alla proposta pratica.
Ma se questo oggi è il mondo dell’informazione, non sembrerebbero esserci molte possibilità per valide alternative. Forse dovremmo recuperare, dal mondo classico e dalla civiltà illuministica, un po’ della straordinaria fiducia nutrita nella autonomia della nostra ragione, nella sua illimitata potenzialità critica …
La ragione, questa facoltà splendida che ci permette di godere di tanti frutti in termini di civiltà, cultura e scienza, da sola non basta. Da sola, usata in modo unilaterale, la ragione produce esiti perversi. Esempi ne abbiamo dappertutto: in economia, ove razionalizzazione significa aumento dei profitti a scapito della forza lavoro; nella scienza, ove di fronte alla possibilità tecnica di realizzazione di un quid, magari nefasto - l'esempio della bomba atomica vale per tutti - lo scienziato non ritiene di doversi tirare indietro. Per questo nelle scienze per la pace viene introdotto l'elemento etico e negata la cosiddetta neutralità della ricerca, che è una neutralità finta, in quanto a priori c'è sempre una scelta sul da farsi e questa scelta a qualcosa si ispira, cioè non è affatto neutra. Il discorso sull'etica tuttavia è vastissimo e molto soggettivo, oltre che culturalmente determinato.
Viviamo però in un'epoca fantastica, ove menti più avanzate, che non si nutrono dell'immondizia propinataci giornalmente, ma guardano oltre, stanno cominciando a scoprire che l'uomo è molto di più di quello che comunemente si crede e che, strutturalmente, siamo perfettamente attrezzati per elevare le nostre esistenze. Mi riferisco in particolare alle ricerche dell'HeartMath Institute - Home - HeartMath Institute e in italiano Coerenza Cardiaca - HeartMath® in Italia! Controllo dello stress, miglioramento dello stato di salute e della performance umana , laddove si vede, e si può apprendere, dato che viene spiegato a chi voglia conoscere, come il nostro cuore abbia la capacità di metterci in armonia con l'ambiente sociale in cui viviamo. Un lavoro di questo genere è realmente trasformativo e costituisce una metodologia pratica di diffusione della pace, partendo da noi stessi.
Il buon Fried, dal quale siamo partiti, viveva in un'epoca in cui tutte queste cose non erano ancora a portata di mano. Oggi lo sono, e con esse si potrebbero riempire TG e giornali.
In attesa che ciò avvenga, chi è veramente interessato alla pace, parta da queste indicazioni e inizi un percorso serio e proficuo.
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NOTE
*Francesco Pistolato, romano di nascita, insegna tedesco alle scuole medie superiori. Laureato in Giurisprudenza e in Lingue Straniere presso l’Università di Roma, ha conseguito un PhD in Sociologia presso l’Università di Granada. Nella sua vita di studioso ha privilegiato un approccio multidisciplinare, approfondendo tematiche nell’ambito della psicologia, della politica, della filosofia occidentale e orientale, della religione, della storia. Alla cultura di pace ha dedicato gran parte dei suoi sforzi negli ultimi anni.
Selezione bibliografica degli studi per la pace di Francesco Pistolato
(Ed.) Per un’idea di pace, Padova, CLEUP 2006
(Ed.) catalogo della mostra Die verborgene Tugend / La virtù nascosta Treviso, Europrint Edizioni, 2007
Traduttore di: E. Krippendorff, Lo Stato e la guerra (Staat und Krieg, Frankfurt, Suhrkamp 1985), Pisa, Gandhi Edizioni 2008
(Ed.): Le rose fioriscono in autunno, Pisa, Gandhi Edizioni 2009
(Ed. e traduttore): A.H. Fried, La guerra è follia, Pisa, Gandhi Edizioni 2015
Nel web:
Hans-Peter Dürr’s thought as a source for peace work, en: “In Factis Pax”, Volume 2 Number 2 (2008): pp. 185-194, en: http://www.infactispax.org/Volume_special_IIPE/Pistolato.pdf
Ekkehart Krippendorff, La paz como cultura étca y libertad: http://digibug.ugr.es/handle/10481/40806
**Alfred Hermann Fried, La guerra è follia. Diario di un pacifista austriaco dal 1914 al 1919, traduttore e curatore Francesco Pistolato, Centro Gandhi Edizioni, Pisa 2015
28.11.2017 - Il CISDA – Coordinamento Italiano in sostegno donne afgane – è una rete che da anni opera a fianco delle donne afgane per la dignità della persona, contro tutti i fondamentalismi e le guerre. Ne parliamo con Laura Quagliuolo, una delle attiviste.
Quando è cominciata la vostra attività?
Il CISDA come onlus registrata si è costituito nel 2004 per poter accedere ai fondi destinati ai progetti di cooperazione, ma in realtà il nostro lavoro con le donne afgane va avanti dal 1999. In quel momento il paese era sotto i talebani, dopo una sanguinosa guerra civile avvenuta tra il 1992 e il 1996 e i signori della guerra, finanziati a seconda dell’etnia dagli Stati Uniti, dall’Arabia Saudita eccetera, si contendevano il controllo del territorio. Non si parlava delle violenze di tutti i tipi a cui erano sottoposte le donne, fino ad arrivare alla lapidazione per adulterio. Il gruppo RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan; www.rawa.org), nato nel 1977, ha deciso di far conoscere la situazione e ha scritto a vari gruppi femministi in Europa, Stati Uniti e Canada. In Italia il loro appello è stato raccolto dalle Donne in Nero, dalle donne che orbitavano intorno all’Arci Isolotto di Firenze e in particolare da Luisa Morgantini, che le ha invitate a partecipare alla Marcia Perugia-Assisi e poi a raccontare la situazione in vari incontri e conferenze.
Nel 2001, dopo l’invasione americana, sempre Luisa Morgantini ha guidato una delegazione composta da europarlamentari, attivisti e giornalisti nei campi profughi in Pakistan (in quel momento era troppo pericoloso andare in Afghanistan). C’è stato un altro viaggio nel marzo 2002 e da allora fino al 2014 almeno una delegazione all’anno si è recata in Pakistan e Afghanistan. Inoltre organizziamo un incontro annuale nazionale/internazionale in Italia e convegni anche in altri paesi, invitando le donne afgane delle varie associazioni che sosteniamo – oltre a Rawa, HAWCA (Humanitarian assistance of the Women and Children of Afghanistan; www.hawca.org) ) OPAWC (Organization for Promoting Afghan Women’s Capabilities); AFCECO (Afghan Child Education and Care Organization) e SAAJS (Social Afghan Association Justice Seekers). Nel 2015 c’è stato un convegno a Berlino, organizzato dalle donne tedesche, di cui abbiamo tradotto gli atti.
In Italia il primo nucleo formatosi nel 1999 si è poi allargato ad altre associazioni e a singole donne interessate a collaborare e oggi il CISDA è oggi attivo a Milano, Firenze, Trieste, Como, Roma, Torino, Piadena e Belluno. Il nostro scopo principale non è raccogliere fondi, ma portare fuori dall’Afghanistan il messaggio politico dei movimenti di lotta (laici e non fondamentalisti) del paese.
Da allora quali attività si sono sviluppate?
Le donne di Rawa sono le più dure, tanto che Meena, la loro fondatrice, è stata uccisa da sicari del fondamentalista Gulbuddin Hekmatyar. Fin dall’inizio hanno creato ospedali e ambulatori mobili e organizzato corsi di alfabetizzazione per donne e scuole per bambine e bambini sia nei campi profughi in Pakistan sia in Afghanistan. Molti giovani che si sono formati nelle scuole di RAWA hanno poi fatto dei percorsi nella società civile, formando varie Ong registrate e riconosciute, che con il nostro sostegno hanno creato orfanotrofi e scuole di musica e organizzato corsi di alfabetizzazione e professionali per consentire alle donne di lavorare e di valorizzare le loro capacità. Vengono anche erogati micro-crediti alle vedove per permettere loro di mantenere i figli, sottraendole così alla prostituzione e dell’accattonaggio. Le case per donne maltrattate offrono protezione e cure a chi ha subito violenza all’interno della famiglia e sono previsti anche interventi per monitorare la situazione. Nessuno di questi progetti viene proposto da noi; sono loro a definire via via le esigenze e poi lavoriamo insieme per realizzarli, cercando fondi e donazioni e partecipando a bandi anche europei. E’ stato anche avviato un lavoro con i parenti delle vittime di anni di violenze commesse, partito soprattutto per documentare i crimini dei signori della guerra e dei talebani. Oggi una Procuratrice del Tribunale dell’Aia sta chiedendo autorizzazioni per istituire un processo contro talebani, forze afghane – polizia, servizi segreti, esercito – e truppe americane (per queste ultime a partire dal 2003).
Com’è adesso la situazione nel paese?
Ancora disastrosa, soprattutto nelle zone rurali, dove domina una società tribale e arretrata. L’85% delle donne è analfabeta, la mortalità infantile e femminile è altissima, mancano acqua pulita, elettricità, strutture sanitarie ecc. In compenso la corruzione dilaga (anche approfittando dei fondi per la ricostruzione sviati dai progetti tipo scuole e ospedali), si spendono ancora milioni per la guerra (noi italiani ci mettiamo 1 milione di euro al giorno) e gli americani pur di mantenere le loro basi continuano a sostenere i vari signori della guerra. Ormai i talebani controllano gran parte del territorio. L’Afghanistan produce il 92% dell’oppio del mondo ed è ancora pieno di milioni di mine. Durante la nostra ultima visita, nel marzo di quest’anno (per tre anni abbiamo dovuto interrompere i viaggi perché la situazione era troppo pericolosa), dovevamo andare in giro con una scorta armata di uomini, eppure in occasione dell’8 marzo è sempre stata organizzata una celebrazione in un luogo chiuso, ma pubblico, con canti, poesie e testimonianze.
Da dove ti viene il coraggio per affrontare queste situazioni pericolose?
Non credo di essere molto coraggiosa, ma sono sempre stata una militante pacifista e ho voluto far parte fin dall’inizio delle delegazioni che andavano in Pakistan e Afghanistan. Non è solo questione di dare, ma anche di ricevere e io ho ricevuto tanto da loro. Sono le donne afgane a darmi forza e a spingermi e io non intendo certo mollarle. E poi questi viaggi sono un’esperienza incredibile, ti danno un altro angolo da cui vedere il mondo.
C’è qualche situazione che ti ha particolarmente toccato e commosso?
Il contatto diretto con le violenze tremende subite da tante donne e la loro capacità di ridere anche delle situazioni più tragiche. Le tante situazioni comiche che capitano quando ci si sposta in un paese dove spesso le fogne sono a cielo aperto e le strade ben diverse da quelle a cui siamo abituate.
Come vedi il futuro del paese e delle vostre attività in rete con le donne afgane?
Ecco, questo del “fare rete” è un punto fondamentale, anche perché ultimamente l’Afghanistan è un po’ sparito dall’orizzonte e quindi ogni occasione di portare qui qualche attivista e parlare della situazione precaria del paese è preziosa. Loro sono consapevoli dell’enorme lavoro che c’è ancora da fare per liberarsi non solo dei signori della guerra e della droga, ma anche delle tradizioni oppressive che calpestano i più elementari diritti umani. Noi siamo una piccola associazione di volontarie, ma stiamo facendo la nostra parte, anche se è una goccia nel mare. E questo aiuta ad andare avanti e a sentirsi meno impotenti.
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza
“Sulla questione dei trapianti convergono elementi assai diversi quali: slanci etici da parte dei singoli; interesse personale nel caso prima o poi si avesse bisogno di organi altrui; grave disinformazione da parte del mainstream mediatico; pressappochismo e incompetenza dei decisori politici (e a volte anche corruzione); indecidibilità scientifica e filosofica sull’esatto statuto ontologico del morire; enormi -e preponderanti- interessi finanziari da parte di una varietà di soggetti.
Non si tratta di stabilire statisticamente se e quanti escano dal coma cerebrale. Si tratta di impedire che il bisogno di organi e il loro scambio medico-affaristico prendano il sopravvento sul diritto di ciascuno di essere curato con la massima attenzione possibile, senza che i corpimente ancora pulsanti diventino un semplice materiale di ripristino di corpimente altrui, anche con le migliori intenzioni.” 1)
Alberto G. Biuso (professore associato di Filosofia teoretica nel «Dipartimento di Scienze Umanistiche» dell’Università di Catania)
Una delle persone più attive nel nostro paese nel portare avanti la lotta contro le teorie e le pratiche trapiantistiche, che legittimano, esaltano e attuano il prelievo degli organi da persone dichiarate “cerebralmente morte”, ma con cuore battente e organismo ancora caldo e funzionante, è certamente Silvana Mondo, Consigliera nazionale della Lega contro la Predazione di Organi e la Morte
a cuore battente 2), madre di un ragazzo, Paolo, espiantato dei suoi organi, quasi 20 anni fa.
“Mio figlio Paolo - scrive la signora Mondo - a 19 anni è stato macellato a cuore battente dopo essere stato abbandonato per 4 ore nel corridoio del pronto soccorso dell'ospedale di Trieste e poi sequestrato in rianimazione al Cattinara, ma non per salvarlo. L'espianto di mio figlio è stato un atto ingiusto e crudele. Se lo avessero curato sarebbe vivo e avrebbe 37 anni …”
L'ideologia del trapianto di organi come “cosa buona e giusta”, atto sommamente filantropico, volto a distribuire salute e anni di vita a malati in situazioni di grande gravità, non sarebbe altro che un “falso culturale”, una ideologia palesemente e spietatamente utilitaristica propagandata come solidarietà, un vero e proprio inganno “gestito dai comitati d'affari della sanità trapiantistica e della sperimentazione coatta, che vivono sul dominio assoluto degli esseri umani trasformati in cavie e in merce.”
“ La sanità - afferma perentoriamente Silvana Mondo - coltiva la malattia e la morte come spauracchi per piegarci al suo volere. Non siamo noi il fine, ma gli affari e la ricerca.”
Lo Stato, infatti, risparmierebbe sui traumatizzati cranici e i malati in coma (obiettivo questo, tra l’altro, esplicitamente dichiarato dagli stessi membri della Commissione di Harvard che, nel 1969, coniò e rapidamente diffuse il concetto di “morte cerebrale”), utilizzandoli nel crescente multimiliardario mercato dei trapianti.
Nell’ultimo comunicato della Lega Antipredazione degli Organi 3), la signora Mondo sostiene, poi, la tesi secondo cui quanto previsto dalla legge recentemente introdotta relativa al delitto di “tortura” dovrebbe essere applicato senza alcuna esitazione alla pratica degli espianti di organi vivi dal corpo di coloro che sono classificati come “cadaveri” solo grazie a fittizie e discutibilissime convenzioni prive di scientifica oggettività.
L’Art. 613 bis (Tortura) della Legge 14 luglio 2017, n. 110, infatti, prevede che
“Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni … se i fatti sono commessi da un pubblico ufficiale... da cinque a dodici anni...
Se dai fatti deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta.
Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell'ergastolo”.
Secondo questa madre ferita quanto profondamente e sinceramente impegnata, sarebbe indubitabile che l'espianto debba essere ritenuto un atto programmato e volontario finalizzato al procacciamento di organi e che, di conseguenza, sarebbe doveroso parlare di tortura già al momento in cui una persona (con lesione cerebrale per incidente o malattia) venga sequestrata nella Rianimazione per essere posta sotto ventilazione, non col fine di essere curata, bensì per compiere esami non autorizzati e dannosi, finalizzati unicamente agli accertamenti dei caratteri immuno-genetici per la compatibilità al trapianto e la valutazione della qualità degli organi.
E si tratterebbe di tortura anche per quanto concerne l'esecuzione di test dannosi per la dichiarazione autoritaria di “morte cerebrale” effettuata a cuore battente (angiografia cerebrale, test dell'apnea che può produrre lo stato di “non ritorno”, ecc.).
“Ai genitori - spiega (con chiari e dolorosi riferimenti di carattere personale) - non è permesso di capire cosa sta succedendo, di stare vicino al proprio figlio, di trasmettergli amore ed energia. Poi i genitori frastornati vengono posti di fronte al bivio crudele di donare gli organi o staccare la spina, comunque in entrambi i casi un'esecuzione di morte nella tortura. Infatti di omicidio volontario si tratta quando sotto farmaci paralizzanti i chirurghi affondano il bisturi dall'ugola al pube per asportare organi pulsanti o quando viene sospesa la ventilazione senza svezzamento ai non donatori.”
“Al nostro Paolo 19enne - prosegue - non curato, hanno espiantato prima le cornee poi, nel buio della cecità, il cuore, il fegato, i reni, in 7 lunghe ore di tortura sotto farmaci paralizzanti per contrastare le contrazioni del suo corpo.
Se questa non è tortura crudele e degradante con omicidio volontario sotto l'egida delle autorità sanitarie dello Stato, che cos'è?”
A noi, denuncia mamma Silvana, “hanno estorto una firma con l’inganno”, perché nulla le sarebbe stato detto (come d’altronde a tanti altri genitori in analoghe condizioni) in merito alle reali modalità che caratterizzano le operazioni di espianto, operazioni che riguardano non un cadavere in senso proprio, ma un individuo biologicamente vivo, privo di manifestazioni (accertabili) di coscienza.
E qui, ovviamente, ci imbattiamo nella questione cruciale: quando parliamo di “morte cerebrale”, di cosa realmente parliamo? Per poter negare a Silvana Mondo e ai tanti filosofi, teologi e scienziati che avanzano riserve sulla fondatezza scientifica della nozione di “morte cerebrale” il diritto di lanciare l’accusa di “tortura”, dovremmo essere certi della totale assenza di qualsiasi forma di coscienza nella persona del potenziale “espiantato-donatore”. Ma quanto è possibile e quanto potrà mai essere possibile conseguire una simile certezza sul piano della assoluta incontrovertibilità scientifica?
Le accuse della signora Mondo potranno pure apparire abnormi, frutto di un’anima irreparabilmente colpita, ma fintanto che non si riuscirà a dimostrare che il cervello del “morto cerebrale” abbia veramente raggiunto un livello di totale, definitiva e irreversibile privazione di tutte le sue funzioni (come, tra l’altro, prevede categoricamente la legislazione vigente nel nostro paese), non potranno essere ignorate.
Tali accuse, infatti, dovrebbero, come minimo, indurci a riflettere, con abissale senso di responsabilità e con inesausto senso critico, su quelli che sono i parametri, i criteri, le metodologie e le tecnologie attualmente adottati per approdare alla dichiarazione di “morte cerebrale”, evitando di continuare a ritenere dogmaticamente indiscutibile, inattaccabile e immodificabile la prassi attualmente adottata e applicata.
Potrebbe venire, infatti, un tempo un cui saremo obbligati a chiederci come possa non essere stato a tutti evidente il carattere “crudele, disumano e degradante” dell’ estrarre cuore, fegato e polmoni caldi e pulsanti da un organismo umano farmacologicamente paralizzato incatenato ad un letto. E a chiederci come sia stato possibile non concedere ascolto, con la doverosa attenzione, al grido di dolore di madri come Silvana che cercano, con commovente dignità, di far nascere in noi dubbi salutari e spiragli di sensibilità critica …
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Anno XXXIII, n. 16, 23 Novembre 2017
10.11.2017 - L’affollato incontro “Cosa succede davvero al di là del Mediterraneo?”, organizzato giovedì 9 novembre nella magnifica cornice delle scuderie di Villa Borromeo ad Arcore ha visto momenti di rabbia e indignazione per tragedie che si potrebbero benissimo evitare, ma anche di commozione e speranza davanti agli esempi di coerenza e solidarietà che mostrano un lato dell’essere umano ben diverso dal cinismo e dalla mala fede di tanti rappresentanti della politica e dei media.
Il giornalista Stefano Pasta introduce l’incontro inserendolo in un momento particolare, in cui al rischio di indifferenza e fastidio (se non aperto razzismo) davanti alle continue morti in mare si contrappone quella “normalità del bene” che fa da sfondo al libro di Daniele Biella “L’isola dei Giusti – Lesbo , crocevia dell’umanità”. Gli ultimi quattro anni vissuti in Europa si potrebbero così raccontare sottolineando i muri, il filo spinato, la xenofobia, i famigerati accordi dell’Unione Europea con la Turchia e dell’Italia con la Libia, ma anche parlando di corridoi umanitari, di iniziative di aiuto ai profughi da parte di chi viene poi accusato di “reato di solidarietà”. Tornano così alla mente episodi commoventi e incancellabili come la folla che alla stazione di Monaco accoglie i profughi siriani cantando l’Inno alla Gioia, o gli austriaci che si organizzano con cortei di auto per aiutare i rifugiati ad attraversare le frontiere. Conoscere queste due Europe, insiste Pasta, aiuta a scegliere da che parte stare e a non restare indifferenti.
Ed è davvero difficile restare indifferenti davanti ai dati esposti nel corso dell’incontro: gli arrivi in Italia sono diminuiti, ma il numero di morti nel Mediterraneo è aumentato (2.097 accertati nel solo 2017), arrivando alla mostruosa proporzione di 1 persona che muore in mare ogni 34 o 42.
Il racconto delle storie di solidarietà dei sette Giusti di Lesbo risolleva l’animo con una semplice constatazione: ci sono ancora persone capaci di mettersi al posto, a disposizione dell’altro, non per pietismo, ma perché sanno che domani la stessa sorte tragica potrebbe toccare a loro. E questo rende ancora più assurda e indignante l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” , una criminalizzazione della solidarietà che colpisce chi, non solo a Lesbo, sceglie di seguire la propria coscienza e ignorare una legge iniqua per soccorrere esseri umani in fuga da guerra, miseria e sofferenze.
Il periodo trascorso a Lesbo per la preparazione del libro ha creato amicizie che durano ancora adesso, racconta Daniele, passando poi a descrivere l’attuale, drammatica situazione, con migliaia di persone bloccate in hotspot sovraffollati, in condizioni spaventose, costrette ad attendere mesi per conoscere la loro sorte e spesso rimandate in Turchia. Nawal, la protagonista del suo primo libro, si trova ormai da tempo proprio a Lesbo, impegnata a denunciare i continui abusi da parte di autorità e polizia e a difendere chi li subisce.
Un intermezzo intenso e commovente viene offerto dalla performance di teatro sociale “Alt! Farsi conoscere – Corpi vulnerabili in scena” della compagnia Camparada – Consorzio Comunità Brianza: dieci ragazzi provenienti da Ghana, Mali, Senegal, Gambia e Costa d’Avorio si raccontano con canti, musica, mimo e brevi discorsi scanditi dal ritmo dei bonghi e trasmettono al pubblico un messaggio semplice e profondo, accolto da calorosi applausi: “Siamo come voi. Abbiamo gli stessi diritti e vogliamo solo vivere in Italia senza essere giudicati in base al colore della pelle.” Esprimono l’affetto e la riconoscenza per la comunità che li ha accolti in un’atmosfera commossa che coinvolge tutto il pubblico.
La serata prosegue con video girati a Lesbo, ricchi di testimonianze in greco sottotitolate in inglese, che ancora una volta esprimono la scelta di aiutare gli altri senza sentirsi un eroe, ma facendo semplicemente quello che è giusto e necessario.
Si passa poi agli otto giorni trascorsi da Daniele Biella in settembre sulla nave Aquarius della ONG Sos Mediterranée, impegnata in operazioni di salvataggio dei migranti con l’aiuto di Medici senza Frontiere, più volte definita “una delle esperienze più importanti della mia vita.” Anche qui foto, video e racconti che coinvolgono il pubblico in un alternarsi di momenti drammatici e liberatori e aiutano a sentirsi vicini a chi ha superato sofferenze indicibili per arrivare in Italia.
L’intervento di Martina Cresta, referente per i corridoi umanitari della Diaconia Valdese, si contrappone alle immagini e ai dati sconvolgenti visti e ascoltati finora: è possibile arrivare in Italia in modo sicuro, in areo, con i propri bagagli, senza pagare trafficanti e rischiare di finire negli orridi centri di detenzione in Libia. E tutto questo grazie a un accordo tra i Ministeri degli Esteri e degli Interni, la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle chiese evangeliche, la Tavola Valdese e la CEI (Conferenza episcopale italiana). Un accordo che ha già portato in Italia mille siriani provenienti dai campi profughi in Libano e che, rinnovato di recente, porterà ad altri 1.000 arrivi anche da Marocco ed Etiopia. Le persone “selezionate” sono tra le più vulnerabili (spesso mutilate o con alle spalle esperienze terribili). Una volta in Italia, grazie all’impegno degli operatori della Diaconia Valdese, ottengono lo status di rifugiati in tempi molto più veloci di quanto succeda in genere e vengono aiutate a intraprendere percorsi di studio e di lavoro
Certo, i numeri sono bassi a fronte dell’enorme crisi umanitaria in corso, ma quest’esperienza dimostra che un’alternativa esiste; se la si applica solo a pochi è per una scelta degli Stati europei, che preferiscono gli accordi con la Turchia e la Libia a una politica che metta in primo piano i diritti umani.
L’incontro tocca il suo apice drammatico con la testimonianza audio di Gennaro Giudetti, giovane volontario imbarcato sulla nave Sea-Watch, che racconta l’ultimo, tragico “incontro-scontro” con la Guarda Costiera libica, con un bilancio finale di 5 morti, tra cui un bambino piccolo e oltre 50 dispersi. E tutto questo permesso e avvallato dall’accordo stipulato dal nostro governo con la Libia!
E le emozioni non sono finite: tra gli interventi del pubblico spicca la commovente testimonianza di Vito Fiorino, il pescatore presente durante la strage del 3 ottobre 2013, che racconta come è riuscito a salvare 43 persone.
Una serata necessaria, coinvolgente e intensa, che spinge all’azione…
Per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza