L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Human Rights (208)

Roberto Fantini
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Nove carabinieri oggi sono stati raggiunti da misure cautelari in un’indagine su presunti reati nella zona di Massa Carrara. Quattro gli arrestati, uno in carcere e gli altri ai domiciliari.

Sono decine gli episodi di violenza che vengono contestati ai militari, in particolare pestaggi.

Dei nove carabinieri sei erano in servizio alla caserma di Aulla e tre presso quella di Albiano Magra, sempre in provincia di Massa Carrara. Secondo l’accusa, non siamo di fronte a episodi isolati, bensì i carabinieri sottoposti a indagine si sarebbero accaniti su più persone, sia italiane che extracomunitarie. “Erano metodici, sistematici” ha sottolineato il PM Giubilaro. Al vaglio degli inquirenti vi sono quasi un centinaio di episodi: uno riguarderebbe anche una prostituta che, portata in caserma, avrebbe subito abusi sessuali.

Questa è solo l’ultima di una lunga serie di reati fatti di abusi, pestaggi, soprusi, spesso torture vere e proprie, fino ad arrivare alle uccisioni di poveri disperati, operati da persone che operano e rivestono la figura dello Stato quando sono in servizio.

Pestaggi, scosse elettriche e umiliazioni sessuali sono fra le numerose accuse di abusi, si legge in un rapporto di Matteo de Bellis, che s’impegna da tempo per Amnesty International.

“I leader dell’UE hanno spinto le autorità italiane al limite e oltre il limite di ciò che è legale. Il risultato è che persone traumatizzate, che arrivano in Italia dopo viaggi strazianti, vengono sottoposte a definizioni fallaci del loro status e in alcuni casi a spaventosi abusi da parte della polizia, così come a espulsioni illegali.

Decine e decine i casi, citati nel rapporto: una donna eritrea di 25 anni ha raccontato di essere stata schiaffeggiata ripetutamente sul volto da un poliziotto finché non ha acconsentito a lasciarsi prendere le impronte.

Altri raccontano di essersi visti negare cibo e acqua. In un caso è stata negata l’assistenza medica a una donna in gravidanza che aveva già fornito generalità e le proprie impronte digitali.

In alcuni casi le detenzioni preventive superano le 48 ore. Il rapporto di Matteo de Bellis ricorda che anche oggi pur non avendo una seria legge sul reato di tortura, la legge italiana non prevede azioni coercitive per ottenere campioni fisici da individui che non cooperano.

In un altro passaggio del rapporto si legge: “Un ragazzo di 16 anni e un uomo di 27 hanno raccontato che la polizia li ha umiliati sessualmente e ha inflitto loro dolore ai genitali. L’uomo ha riferito che alcuni poliziotti a Catania lo hanno picchiato, gli hanno inflitto scosse elettriche prima di farlo spogliare e di usare su di lui delle pinze a tre punte: “Ero su una sedia di alluminio che aveva un’apertura nel sedile. Mi tenevano per le braccia e per le spalle, mi hanno stretto i testicoli con le pinze e hanno tirato due volte. Non riesco neanche a spiegare quanto sia stato doloroso.’”

In Italia si dibatte da oltre 40 anni ormai dell’introduzione di una legge seria che possa impedire tutto questo. A maggio purtroppo con l’ultima approvazione del DDL sul reato di tortura, si è di fatto prodotto aria fresca, un Decreto Legge che è stato contestato e bocciato da tutte le organizzazioni e associazioni che si battono per il rispetto dei diritti umani. Persino alcuni rappresentanti di sigle sindacali dei corpi di Polizia hanno bollato l’introduzione di questo DDL come totalmente inutile ed inefficace a prevenire e fermare il reato di tortura operato da alcuni rappresentanti delle Forze dell’ordine.

“Introdurre una legge seria sul reato di tortura è necessario”, affermava poco tempo fa Luigi Notari. Non stiamo parlando di un attivista, né d’un parlamentare, ma di un uomo in divisa. Uno “sbirro”.

Luigi Notari è stato poliziotto per oltre 40 anni. Arrivato alla segreteria nazionale del Siulp, il “sindacato unitario lavoratori polizia”, in pensione da un paio di anni. Notari da tempo ha deciso di intervenire nel dibattito aperto dalle modifiche in commissione Giustizia del Senato alla legge contro la tortura, modifiche che impongono concetti quali “reiterazione” […] “crudeltà” e “verificabile trauma psichico”.

“E’ necessario rassicurare le persone e sancire un nuovo patto democratico fra le forze dell’ordine e la popolazione” affermava poco tempo fa prima dell’approvazione del DDL. A nulla sono valsi il suo impegno e i suoi appelli; nel 2017 continuiamo adessere uno Stato facente parte dell’Unione Europea che non ha una serie legge per prevenire il reato di tortura.

In una recente intervista Notari ha affermato che le posizioni oltranziste del sindacato di Polizia Sap contro l’introduzione del reato di tortura non rappresentano la posizione diffusa tra la maggior parte degli agenti, che da una parte sono obbligati dallo Stato stesso ad operare in condizione di stress e pressione psicologica, e dall’altra sono stanchi di essere affiancati a colleghi che operano in nome dello Stato tradendo tutti i principi fondamentali del rispetto dei diritti umani. “Una maggioranza di agenti” come affermava Notari, “che ad oggi però è troppo silenziosa.”

Boicottando persino il testo della Convenzione di Ginevra, sostiene Notari: “La polizia dimostra uno spirito revanchista che fa male alla democrazia. È una reazione da appartenenti a un corpo e non da tutori della legge”.

Sì, avete letto bene, la Convenzione di Ginevra, perché l’alta Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per le violenze alla scuola Diaz e per non aver introdotto il reato nel codice penale, come prevede la Convenzione Onu dal 1984. Un Parlamento, quello italiano, che ha fatto di tutto pur di non tener fede agli impegni presi, approvando nel mese scorso un impresentabile DDL che non tocca nessuno dei punti per cui l’Italia era stata richiamata.

A questo punto stando così le cose, la maggioranza degli agenti dei vari corpi di Polizia, “finora rimasta troppo silenziosa”, come affermava Notari, per lo meno quella maggioranza che sente operare di nel rispetto della legge e dei diritti dei propri cittadini, dovrebbe distinguere con forza la propria posizione da quei colleghi che sempre più spesso abusano della propria divisa, del proprio ruolo e funzione, perché questi colleghi, sebbene apparentemente operino al loro fianco, in realtà con il loro comportamento infangano tutti gli appartenenti ai corpi di Polizia.  Una maggioranza che dovrebbe far sentire più forte la propria voce. Ciò quantomeno perché non siano dichiarati moralmente e tacitamente d’accordo con tutti quei casi dove i più elementari diritti delle persone vengano abusati e calpestati.

Personalmente sono convinto di quello che in molti affermano, ovvero che seppur siano tanti i casi di abuso delle Forze di Polizia, che si tratti di mele marce da isolare dal resto delle Forze dell’Ordine. Sono convinto che ancora oggi nonostante il moltiplicarsi dei casi siano molte di più le brave persone che rivestono una divisa onorandone il ruolo, rispetto a quelle che invece la infangano. Proprio in nome di questa convinzione, è adesso che la voce di chi mela marcia non lo èdovrebbe farsi sentire forte e chiara. Difendendo la propria divisa e i valori ad essa legati, chiedendo con forza che le mele marce vengano punite alla stessa stregua di un normale cittadino che compie un crimine, con la vile aggravante però che tale crimine viene commesso in una condizione privilegiata, una condizione di forza, quasi d’intoccabilità garantita solo dall’indossare una divisa nel nome e per conto dello Stato.

A luglio dell’anno scorso durante una manifestazione a Taranto, dove a manifestare contro le allora scelte del governo sull’Ilva, c’erano gli abitanti del posto, colpiti a migliaia dai tumori per via dell’emissioni inquinanti dell’Ilva, a un certo punto un poliziotto in assetto antisommossa, mandato a tenere sotto controllo la manifestazione, si ricordò il suo essere umano prima ancora che poliziotto. Si abbracciò commosso con Elena, una mamma che portava al collo un cartello con un hashtag, #siamotutti048,  il codice di esenzione del sistema sanitario per i malati di cancro.  Il poliziotto la strinse forte  a sé e si commosse mentre tutti intorno urlavano.  Elena disse al poliziotto “Ognuno di noi ha un caso in famiglia, aspettiamo da anni un nuovo ospedale. Qui i reparti chiudono, manca l’oncoematologia pediatrica e per diversi esami bisogna rivolgersi fuori città, Io lo so che siete anche voi con noi, lo so. Perché siete figli, padri e fratelli di questa terra, siete poveri cristi come noi, come gli operai dell’Ilva portate il pane a casa” Così parlò Elena all’agente di Polizia.

Sono queste le cose che dovrebbe sempre cercare di ricordarsi un rappresentante delle Forze dell’Ordine quando compie il proprio servizio. Rammentarsi anzitutto, come fece questo collega che abbracciò questa mamma, il proprio essere umano, prima ancora che poliziotto, carabiniere o altro.

Così come spero possano essere d’ispirazione le parole di Luigi Notari che ha vestito una divisa per oltre 40 anni. “Io sono stato educato in un altro modo. I miei superiori mi hanno insegnato che una persona in stato di fermo, indifesa, consegnata alla nostra tutela, non si tocca. Mai. A volte anch’io ho rischiato di sbagliare, ma sono stato richiamato in tempo. Fermato dai miei colleghi più lucidi in quel momento, perché meno stanchi o meno coinvolti emotivamente»” [….] “È un meccanismo di autotutela consolidato e necessario, anche i controllori devono essere controllati.” Il perché servirebbe una vera legge sulla tortura, non questo abuso nell’abuso prodotto con l’ultimo DDL, lo si può trovare nelle parole di Notari. “Perché chi ha paura del controllo, chi si oppone al reato di tortura, dimostra a sua volta di non potere e non sapere controllare il suo ufficio, i propri agenti nell’esercizio delle loro funzioni”.

 

per gentile concessione dell'agenzia di stampa Pressenza

ewApprendiamo spesso, da notiziari più o meno telegrafici o da servizi giornalistici marcatamente enfatici, che, in seguito ad un triste evento, i parenti di un qualche poveretto (spesso un bambino), avrebbero dato il consenso per la “donazione degli organi” del loro congiunto. La notizia o viene fatta scivolare via, quasi come mero episodio di routine, oppure viene ben sottolineata al fine di innalzare la scelta della donazione a modello esemplare di comportamento, a paradigma di generosità e sensibilità civile.

Mai e poi mai ci è dato di imbatterci in qualcuno a cui sia consentito sollevare un seppur minimo dubbio, esprimere una perplessità, magari lieve lieve, cauta e blanda. Mai e poi mai qualcuno che si dedichi a spiegarci (senza finalità apologetico-propagandistiche) cosa sia effettivamente la cosiddetta “morte cerebrale”, quando essa sia riscontrabile, quando e come, pertanto, sia possibile effettuare il prelievo degli organi, secondo quali criteri, ecc. Solo fiumi di potenti e belle emozioni, nel deserto sconfinato del generale non sapere …

Ci si limita a dire che tizio sfortunatamente “non ce l’ha fatta” e che, quindi, i parenti hanno encomiabilmente concesso l’autorizzazione a procedere all’espianto degli organi … cosa che consentirà a tanti individui di avere una nuova vita, ecc.

Nessuno si preoccupa di renderci conto dei numerosi e considerevoli aspetti problematici insiti nel concetto di morte cerebrale. Nessuno che ci spieghi o ci ricordi che il morto cerebrale non è un gelido cadavere, bensì un organismo con il cuore che batte e con gli organi ben irrorati dal sangue. Nessuno che si preoccupi di informarci del fatto che, secondo la legge italiana vigente, la morte cerebrale può essere dichiarata solo a condizione che “tutte le funzioni cerebrali” siano indubitabilmente cessate. E nessuno ci fa notare che non è poi così semplice capire come sia possibile avere certezze assolute in merito a tale eventualità. Chi può dire, infatti, di conoscere tutte (proprio tutte) le nostre funzioni cerebrali? Non ci viene forse continuamente insegnato, dai più autorevoli esperti della materia, che l’organo ancora più inesplorato è proprio il nostro meravigliosamente sconfinato cervello? E chi può ritenersi davvero in grado di possedere   (e di saper correttamente applicare) metodi di accertamento in merito all’esserci o meno di tali funzioni, con validità assoluta e senza alcuna possibilità di errore? Errore che comporterebbe - fatto non certo proprio irrilevante - di trattare da morto un paziente in gravi condizioni (quindi soltanto probabilmente moribondo), provocandone, di conseguenza, la vera morte (quindi uccidendolo).

Chi potrebbe asserire, con apodittica certezza, ad esempio, che, negli individui dichiarati cerebralmente morti, sia del tutto assente qualsiasi forma, seppur minima, di attività intellettiva? E stiamo parlando - occorre ribadirlo con insistenza - di organismi con cuore pulsante, sangue circolante, polmoni (magari sostenuti da ausilio meccanico) respiranti. Non certo di organismi in via di disfacimento, né tantomeno affetti da “rigor mortis”.

Ma chi potrebbe escludere che, pur avendo constatato, per qualche ora soltanto, il fenomeno dell’encefalogramma piatto (che dovrebbe fornirci le garanzie necessarie per poter considerare totalmente e definitivamente distrutto l’apparato cerebrale), sia del tutto impossibile un recupero della funzionalità? E chi potrebbe ritenere inattaccabile la pretesa di considerarsi perfettamente in grado di registrare in modo oggettivo l’esserci ancora o il non esserci più (anche in forma ridottissima) di tutte le facoltà cerebrali?

In altre parole, come possiamo decretare (senza il sospetto del benché minimo margine di errore) che quell’organismo, all’apparenza soltanto addormentato, immerso nella condizione di coma profondo (condizione che un tempo veniva chiamato “coma dépassé”) sia davvero del tutto privo di vita mentale, sia del tutto svuotato di coscienza, ovvero soltanto un respirante simulacro di vita? Soltanto, cioè, un appetibile serbatoio di organi funzionanti, benché non più in alcun modo “diretti” e coordinati dal proprio cervello, irrimediabilmente “fuori uso”?

In definitiva, chi potrà mai davvero garantirci, al di là di qualsiasi possibile ragionevole e doveroso dubbio, che la vera morte, quella sì incontestabilmente irreversibile, non sia quella prodotta dalle mani del chirurgo che, armato di bisturi, preleva, da un organismo (che certamente morto non è) organi vivi e palpitanti, che, proprio perché vivi, potranno continuare a vivere in altri corpi … facendo vivere i corpi degli altri?

E se provassimo tutti, lasciando da parte ogni sorta di partito preso (in particolare la convinzione secondo cui, siccome trapiantare organi aiuterebbe a continuare a vivemhklre e a vivere meglio tante persone, tutto, di conseguenza, andrebbe fatto per agevolare tale pratica, evitando, in particolar modo, tutto quello che potrebbe frenarla), a porci, in totale onestà, qualche ulteriore insidiosa domanda?

La mancata percezione, ad esempio, della manifestazione di funzioni cerebrali quanto può essere ritenuta prova incontrovertibile della loro assenza totale e definitiva? Ovvero: il manifestarsi coincide totalmente con l’essere e viceversa?

Non potremmo essere noi semplicemente non in grado di percepire la loro presenza? Non potrebbero, dette funzioni, essere entrate in una fase di latenza o semplicemente essere tanto flebili da non poter essere registrate? Non potrebbero i nostri attuali criteri risultare fallaci? Non potrebbe la tecnologia di cui attualmente disponiamo risultare inadeguata? E, in ogni caso, chi potrebbe darci la certezza che la coscienza sia qualcosa di pienamente coincidente e dipendente dalle (da noi percepibili) funzioni cerebrali? E quanto potremmo considerare il credere nell’indiscutibilità di tale corrispondenza come qualcosa di correttamente sostenibile in sede strettamente scientifica? Non si potrebbe, infatti, pensare che, in questo modo, il sapere scientifico verrebbe ad arrogarsi indebitamente il diritto di invadere il territorio della metafisica … facendosi esso stesso metafisica?!

Quanto ci possiamo, noi umani, sentire in diritto di mettere le mani (nonché bisturi e sega elettrica) sul corpo caldo di un nostro simile, soltanto perché lo abbiamo, sulla base di criteri e protocolli convenzionali, strumentalmente ideati, mutevoli e ovviamente opinabili (differenti, tra l’altro, da un paese all’altro!), classificato come “cadavere”, ovvero espulso dalla “famiglia umana”, retrocesso a “cosa”, non più “res cogitans” ma “res extensa”?

E, in particolare, mi chiedo, come mai il mondo cattolico, perlopiù appassionato sostenitore di donazioni e trapianti (anche se sono molte le autorevoli e ignorate voci critiche dissenzienti), non si sente moralmente obbligato a meditare con attenzione e serietà sulle parole terribili pronunciate dall’allora cardinale J. Ratzinger?

                             “Siamo testimoni di un’autentica guerra dei potenti contro i deboli, una guerra che mira all’eliminazione degli handicappati, di coloro che danno fastidio e perfino semplicemente di coloro che sono poveri e inutili, in tutti i momenti della loro esistenza. Con la complicità degli Stati, mezzi colossali sono impiegati contro le persone, all’alba della loro vita, oppure quando la loro vita è resa vulnerabile da una malattia e quando essa è prossima a spegnersi.

Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma irreversibile, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno, anch’essi, alla sperimentazione medica (cadaveri caldi).”

O su quelle successivamente pronunciate da Giovanni Paolo II?

                       “Del resto, è noto il principio morale secondo cui anche il semplice dubbio di essere in presenza di una persona viva già pone l’obbligo del suo pieno rispetto e dell’astensione da qualunque azione mirante ad anticipare la morte.”*

Come possono le alte gerarchie ecclesiastiche non avvertire l’evidentissima monumentale contraddizione che le vede scendere pugnacemente in campo a difesa di feti ed embrioni, a scagliare anatemi contro un povero Welby o un papà Englaro, e, al contempo, abbandonare nelle mani delle équipes trapiantistiche i cuori pulsanti e i polmoni respiranti di individui che si suppone (in palese contrasto con la propria stessa millenaria speculazione teologica, oltre che con il più elementare buon senso) oramai abbandonati dalla propria coscienza e, perché no, da quella cosa che una volta non si aveva vergogna di chiamare ANIMA? Quella cosa misteriosa, cioè, che si è fermissimamente pronti ad attribuire anche ad un minuscolo embrione esistente da poche ore, mentre la si nega, con altrettanta (quanto ingiustificata) fermezza al corpo (vivo) di una persona dichiarata cerebralmente morta … solo da qualche ora …

*Mie le evidenziazioni.

PER SAPERNE DI PIU’:

Roberto de Mattei (a cura di), Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007.

R.Barcaro, P.Becchi, P.Donadoni, Prospettive bioetiche di fine vita. La morte cerebrale e il trapianto di organi, Franco Angeli, Milano 2008.

P.Becchi, Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica giuridica, Morcelliana, Brescia 2008.

R.Fantini, Vivi o morti? Morte cerebrale e trapianto di organi: certezze vere e false, dubbi e interrogativi, Efesto, Roma 2015.

www.antipredazione.org

 

18.04.2017 - Più di 1500 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane ieri hanno iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato. Scopo di questa clamorosa forma di protesta nonviolenta, quello di richiedere delle condizioni carcerarie migliori e di porre fine alla detenzione preventiva amministrativa, una procedura che consente ai militari israeliani di imprigionare cittadini palestinesi basandosi su prove segrete, senza incriminarli, né processarli, tenendoli detenuti senza un termine prestabilito, in attesa di un processo che potrebbe non arrivare mai.

Sebbene tale procedura venga usata quasi esclusivamente per i palestinesi dei Territori Occupati, comprendenti Gerusalemme Est, la West Bank e la Striscia di Gaza, talvolta anche cittadini israeliani o stranieri sono stati detenuti in via amministrativa da Israele, quasi sempre in seguito alle proteste solidali a favore della causa palestinese.

E’ sorprendente apprendere che Israele è l’unico Stato al mondo che ha ben tre differenti leggi per poter incarcerare a tempo indefinito e senza un regolare processo.

I palestinesi sottoposti alla detenzione amministrativa, così come molti altri prigionieri palestinesi, subiscono maltrattamenti e torture nel corso degli interrogatori e trattamenti crudeli e degradanti durante il periodo di carcere, talvolta come forma di punizione proprio per aver intrapreso scioperi della fame o altre forme di protesta.

Inoltre, sia i palestinesi sottoposti alla detenzione amministrativa che le loro famiglie sono costretti a vivere nell’incertezza: non sanno per quanto tempo resteranno privi della libertà e nemmeno perché sono detenuti. Come altri prigionieri palestinesi, vanno incontro a divieti di visite familiari, trasferimenti forzati, espulsioni e periodi d’isolamento.

Queste pratiche non solo rappresentano una palese violazione dei diritti umani fondamentali e dei principi del diritto internazionale da parte del governo d’Israele, ma violano anche ogni principio di rispetto della dignità umana.

In occasione della ricorrenza della “Giornata dei prigionieri palestinesi”, i prigionieri hanno iniziato lo sciopero della fame sotto il motto “Libertà e Dignità” rasandosi la testa come segno distintivo.

Lunedì scorso, poco prima dell’inizio di questa clamorosa protesta, l’ufficio del Presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva rilasciato una dichiarazione contenente l’elenco delle richieste degli scioperanti della fame.

I prigionieri palestinesi, secondo il testo, chiedono attenzione ai loro “bisogni fondamentali, ai loro diritti come prigionieri, chiedono di porre fine alla pratica (israeliana) della detenzione amministrativa, alle torture, ai maltrattamenti, alla privazione di ogni forma di dignità”. La nota specifica inoltre che la detenzione amministrativa ormai viene applicata da tempo persino a bambini palestinesi al di sotto dei 12 anni di età. Si arriva a negare loro il diritto alla sanità e all’istruzione, si impone l’isolamento come trattamento degradante e si impediscono persino le visite dei familiari.

In quasi 50 anni di occupazione israeliana della Cisgiordania, di Gerusalemme Est e della Striscia di Gaza sono stati arrestati e detenuti più di 800.000 palestinesi, proprio tramite la pratica della detenzione amministrativa.n Attualmente nelle carceri israeliane sono detenuti 6.500 prigionieri politici palestinesi, tra cui 57 donne, 300 bambini, 13 membri istituzionali, 18 giornalisti e oltre 800 prigionieri che hanno bisogno urgente di cure mediche.

Vista la sua ampiezza, questa protesta nonviolenta per il rispetto dei diritti e della dignità umana quanto meno dovrebbe trovare largo spazio nei media; purtroppo invece ne danno nota solo fugacemente e marginalmente, come se i diritti umani del popolo palestinese fossero da considerare di serie B.

 

Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa Pressenza

La situazione femminile nel paese africano è realmente drammatica. Lo rivelano fonti della cooperazione internazionale che da anni cercano di alleviare il dramma delle donne nigerine.

Il Niger è il paese con il tasso di fertilità più alto nel mondo,  un paese poverissimo dove solo il 20% della popolazione sa leggere e scrivere, dove le donne vengono abbandonate o rimangono vedove che hanno già 4 o 5 figli.

Circa la metà dei casi  penali in Niger riguarda casi di infanticidio.

Questo è quanto riportano fonti diplomatiche dell’Unione Europea che rivelano quanto sia terribile la condizione femminile in questo paese.

Il Niger è il paese con il tasso di fertilità più alto nel mondo,  un paese poverissimo dove solo il 20% della popolazione sa leggere e scrivere, dove le donne vengono abbandonate o rimangono vedove che hanno già 4 o 5 figli. Spesso per disperazione cedono alle lusinghe del primo uomo che dimostra loro un po’ di attenzione e questa è la migliore delle ipotesi, altrimenti rimangono incinte perché devono fare chilometri per avere del cibo, ossia qualche manciata di riso  alle volte per avere quel riso devono dare in cambio il loro corpo.

In Niger le donne si vestono con grandi stoffe che possono facilmente nascondere una gravidanza. L'ipocrisia nei villaggi va di pari passo all'ignoranza. L'uomo colpevole intima alla donna di non dire nulla.

La poveretta per fuggire alla vergogna di un figlio fuori dal matrimonio, lo uccide appena nato, e questo quando sono relativamente fortunate perché  quante tenteranno di abortire muorendo? Non si hanno numeri precisi purtroppo, soltanto delle istantanee di situazioni drammatiche.

Non ci dicono le fonti quante muoiono insieme al loro figlio mentre rompono il cordone ombelicale con un sasso o con le unghie.

Quante, senza ancora figli, scappano all'estero e diventano magari prostitute. Quando vengono scoperte, nonostante la clemenza dei giudici, vengono loro inflitti quattro o cinque anni di carcere.

Ma in questi anni i figli della donna rimangono abbandonati a loro stessi.  

Le figlie cresceranno nella povertà e nell'ignoranza e il tutto ricomincerà da capo. Le donne che vengono condannate in realtà sono vittime con i figli che hanno ucciso.

Vittime incoscienti della povertà e dell’ignoranza e del maschilismo imperante e accettato e veramente tanto difficile da debellare.

L'uomo che le ha messe incinta non è mai presente al momento del processo e non è mai sul banco degli imputati, tutt'al più è presente come testimone.

Le fonti sottolineano come il vero problema del paese sia la mancanza di una legge sulla famiglia che tenga il passo con i tempi,  tutti i tentativi di applicarla  si sono scontrati con le associazioni islamiche che sono minoritarie  ma ben organizzate,  non c'è pianificazione delle nascite.

Per quanto sia terribile ciò che commettono queste donne,  in realtà non viene data loro molta scelta,  e la via è ancora lunga da percorrere.

Sarò sincero. Anno dopo anno, il sempre più oliato ingranaggio dei “viaggi della memoria”, con visite turistico-didattiche nei campi di concentramento e di sterminio, commemorazioni, celebrazioni, progetti scolastici (con tanto di premiazioni),   “giornate internazionali”, ecc., mi risulta sempre più fastidioso ed irritante …

Mi irritano l’episodicità, la lacrimosa retorica del ricordare, la spettacolarizzazione dell’orrore, le grandi abbuffate dei buoni sentimenti annaffiate da copiose cascate emozionali …

Mi irrita, soprattutto, e mi preoccupa anche, il rischio di banalizzare anche le cose più misteriose, oscure e sconcertanti della natura umana e gli eventi più dolorosi e ignobili della nostra storia, portandoci a naufragare in fiumi di melassa consolatrice, acida e appiccicosa …

Per cui, quando ho sentito parlare di praticanti Zen che vanno organizzando meditazioni di gruppo ad Auschwitz, la cosa mi ha lasciato alquanto perplesso. Reduce, tra l’altro, da una ricerca pluriennale nel campo variegatissimo e affascinante delle pratiche e delle esperienze meditative *, questa nuova scoperta mi ha suscitato, però, accanto ad un certo scetticismo, una discreta dose di curiosità. E la curiosità, ancora una volta, si è rivelata ottima guida, permettendomi di entrare in contatto con lo Zen Peacemaker Order, gruppo fondato da Bernie Glasmann che, dal 1996, si dedica ad organizzare e guidare annualmente il ritiro Portare Testimonianza ad Auschwitz.                 

L’ultimo di questi ritiri si è svolto nel novembre dello scorso anno e, grazie soprattutto all’iniziativa dell’editrice Kathleen Battke, che aveva già avuto modo di partecipare al ritiro del 2011 e a quello del 2014, si è potuto dare vita ad un libro costruito con le testimonianze di coloro che vi hanno preso parte.

Ma, potremmo chiederci, quale può essere il senso, il fine di questa insolita pratica meditativa all’interno di un luogo tanto lugubre, tanto impregnato di dolore? Difficile dare una risposta razionalmente ben definita e convincente … Sembra quasi che gli Zen Peacemacker vogliano cimentarsi in una esoterica operazione di alchimia spirituale, tentando di bonificare, con la forza del pensiero e, soprattutto, con l’irraggiamento di sentimenti di perdono, concordia e armonia, una terra oppressa da un passato oltremodo aberrante ed immondo. Ma, forse, è soprattutto dentro il proprio io che aspirano a compiere una simile operazione. Come se, immergendosi in uno sconfinato baratro di orrore, volessero trovare all’interno della propria anima la capacità di trasformare ogni molecola di odio in pietas e ogni traccia di egoismo in caritas

La pratica degli Zen Peacemacker - leggiamo in un capitolo introduttivo del libro - è di aiutare individui e comunità a riconoscere e realizzare l’unità – l’interconnessione – della vita per arrivare a una riduzione della sofferenza sia individuale che collettiva.”

E i principi fondativi della loro “spiritualità socialmente impegnata” sono:

-          il non sapere, ovvero lo sforzarsi di accantonare tutto quel monumentale insieme di preconcetti sulla nostra realtà interiore e sul mondo intorno a noi che costituisce ciò che ingannevolmente chiamiamo “conoscenza”;

-          portare testimonianza, sia al dolore che alla gioia del mondo”;

-          far diventare il proprio non sapere e il proprio portare testimonianza una forza di pace costruttrice di azioni autenticamente terapeutiche (“La pace e la guarigione infatti non si trovano distogliendo lo sguardo, ma volgendolo proprio lì dove il dolore è più grande.”)

Nella realizzazione del ritiro, un elemento fondamentale è rappresentato dalla condivisione in piccoli gruppi (council) delle proprie emozioni, sempre cercando di arginare la tendenza mentale al giudicare e sempre cercando di dare il massimo spazio e la massima attenzione alle esperienze più sottili e non mediate.

Il libro curato da Kathleen Battke e pubblicato da Sensibili alle foglie (che si conferma come una delle realtà più originali e interessanti del pur ricco mondo editoriale nazionale) raccoglie quanto provato e vissuto, in questa straordinaria avventura dell’anima, dai partecipanti provenienti da ben diciassette nazioni, appartenenti a varie tradizioni religiose come il buddhismo, l’ebraismo, il cristianesimo, ma anche di orientamento sincretistico e agnostico.

A tutti sono state poste due domande come linee guida:

“- Che cosa provate in questo preciso istante se tornate con la mente all’esperienza del portare testimonianza ad Auschwitz-Birkenau?

-          Avete l’impressione che qualcosa sia cambiato dopo il ritiro? In che misura e in che modo il ritiro ha inciso sulla vostra vita?

Ne è uscito fuori un vero piccolo tesoro di esperienze interiori toccantissime e liberatorie, dalla forte componente catartica. In tutte le parole degli autori circola una luce calda fatta di sentimenti empatici, di superamento di ogni ostilità e barriera, di abbandono di ogni pulsione vendicativa e di pretesa di giudizio.

Percepisco con chiarezza - ci dice la statunitense Greg Rice - il messaggio che ci arriva dai morti, dai prati e dagli alberi che crescono dalla cenere, dalla cenere di mia madre e di tutti gli esseri viventi che sono defunti: vivi con il cuore aperto, respira il respiro della vita per tutti quelli che non ci sono più. Trasforma il lutto in dedizione alla vita, in un cammino d’amore, di unità, di diversità.”

E la palestinese Dina Awwad ci rivela che, mentre era assorta nella meditazione, le sono entrate nella testa le seguenti parole:

Non sono morto per la guerra. Sono morto perché potesse esserci la pace. Vi prego, fate in modo che accada.”

Per il prossimo mese di maggio gli Zen Peacemaker promuoveranno un ritiro Portare Testimonianza in terra di Bosnia, a Sarajevo e a Srebrenica, mentre per novembre si prevede il ventunesimo ritiro ad Auschwitz.

L’augurio che gli autori, i curatori e gli editori di Perle di Cenere è che, grazie al loro libro, si possa riuscire a “trasmettere almeno in parte il sapore di queste esperienze: assolutamente uniche per ciascuno dei partecipanti ma anche comuni proprio nella loro interezza.”

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*Roberto Fantini, Cesare Maramici, Esperienze di meditazione – 54 praticanti si raccontano, ed.Efesto, 2017.

KATHLEEN BATTA (a cura di)

PERLE DI CENERE

VENTI ANNI DI RITIRI

PORTARE TESTIMONIANZA AD AUSCHWITZ

Edizioni Sensibili alle Foglie, febbraio 2017

www.sensibiliallefoglie.it

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                   

Gabriele Del Grande è da lunedì gentile ospite delle autorità turche, fermato nella provincia di Hatay e in stato di fermo e, dicono fonti diplomatiche, in procinto di essere espulso perché non avrebbe avuto le carte necessarie per fare interviste al confine con la Siria. Gabriele era nella zona per scrivere parte del suo nuovo libro “Un partigiano mi disse“, in cui vuole raccontare la guerra in Siria e la nascita dell’ISIS.

Gabriele Del Grande è un giornalista e ricercatore diventato giustamente famoso per Fortress Europe, un sito e progetto di documentazione sui disastri dell’immigrazione clandestina, dei morti in mare e così via che ha prodotto e continua a produrre la “Fortezza Europa”. Nel 2014 è uscito col film “Io sto con la sposa” che racconta le vicende di profughi siriani che fanno finta di andare a sposarsi in Svezia. Un film di forte denuncia dei disastri dell’immigrazione clandestina e delle assurde leggi di limitazione delle possibilità di movimento degli Esseri Umani. Per approfondimenti leggere l’intervista di Anna Polo sul film.

Nonostante le notizie rassicuranti che sembrano arrivare in queste ore, non abbiamo notizia di iniziative diplomatiche di alto livello per chiedere alle autorità turche spiegazioni su questo fermo e sull’eventuale espulsione di un giornalista di alto valore, in prima linea nella difesa dei diritti umani.

Giunge voce in queste ore di un’ipotesi di interrogazione parlamentare sul caso al Ministro Alfano; va bene ma chiediamo piuttosto che Alfano informi l’opinione pubblica sullo stato della situazione e se intende ufficialmente protestare per come viene trattato il nostro connazionale; e questo nel contesto generale della libertà di stampa in Turchia, tema che abbiamo già abbondantemente trattato e ci preoccupa in modo particolare.

E che Gabriele non venga espulso ma possa invece continuare a svolgere il suo prezioso lavoro sul campo.

Chiediamo ai colleghi giornalisti di aderire a questa richiesta e rilanciarla.

Sui social l’hashtag da rilanciare è #iostocongabriele

 

Ginevra 11 aprile - Lo scorso fine settimana lo staff dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) in Libia e in Niger ha raccolto orribili storie accadute lungo le rotte migratorie del nord Africa, veri e propri racconti che parlano di un “mercato degli schiavi” che affligge centinaia di giovani africani che si recano in Libia.

Nello specifico i funzionari dell’OIM di Niamey hanno condiviso la testimonianza di SC, un migrante senegalese che questa settimana tornerà a casa dal Niger dopo mesi di prigionia in Libia.

SC ha raccontato di aver viaggiato dal Senegal fino ad Agadez, dopo ha dovuto corrispondere ad alcuni trafficanti l’equivalente di circa 320 dollari per poter raggiungere la Libia a bordo di un pick-up.

I due giorni di viaggio nel deserto sono andati abbastanza bene rispetto a quanto succede a molti migranti: l’OIM ha infatti sentito di molti casi in cui i migranti sono abbandonati dopo esser caduti dal camion, o in cui i migranti sono stati assaliti da banditi lungo il percorso.

La storia di SC è stata diversa: una volta arrivato a Sahba – sud ovest della Libia – il ragazzo è stato accusato dal conducente del pick-up di non aver mai pagato la somma pattuita dal trafficante, ed è stato portato insieme a tutti gli altri compagni di viaggio in un’area di parcheggio dove ha potuto assistere a un vero e proprio “mercato degli schiavi”.

“In quel luogo migranti subsahariani erano venduti e comprati da libici, con il supporto di persone di origine ghanese e nigeriana che lavoravano per loro”, spiega lo staff OIM.

SC ha raccontato di essere stato “comprato” e di essere stato trasferito nella sua prima prigione, una casa privata dove oltre 100 migranti erano tenuto come ostaggi. In quel posto, i rapitori costringevano i migranti a chiamare le loro famiglie a casa, e spesso erano picchiati durante la telefonata proprio per fare sentire ai loro cari le torture subite.

A SC è stato chiesto di pagare 300.000 franchi CFA (circa 480 dollari). Soldi che non aveva. E’ stato quindi “comprato” da un altro libico, che lo ha portato in una casa più grande, dove è stato fissato un nuovo prezzo per il suo rilascio: 600.000 franchi CFA (970 dollari), da pagare tramite Western Union o Money Gram a una persona chiamata “Alhadji Balde’, basata in Ghana.

SC è riuscito a raccogliere qualche soldo grazie all’aiuto ottenuto dalla famiglia e ha lavorato come interprete per i rapitori, in modo da evitare ulteriore torture. Le condizioni sanitarie erano spaventose e il cibo veniva dato solo una volta al giorno. Alcuni migranti che non erano in grado di pagare erano uccisi o lasciati morire di fame.

SC ha riferito all’OIM che quando qualcuno moriva o veniva rilasciato, i rapitori tornavano al mercato per “comprare” altri migranti. Anche le donne erano comprate – apparentemente da persone di nazionalità libica – e portate in abitazioni dove erano costrette a diventare schiave sessuali.

“Negli scorsi giorni”, racconta un funzionario dell’OIM Niger, “ho parlato con molti migranti di queste storie, che di solito raccogliamo nei centri di transito di Agadez e Niamey, dove i migranti passano di ritorno dalla Libia. Tutti quanti confermano il rischio di essere venduti come schiavi in piazze o in altri luoghi a Sabha, sia dai conducenti dei pick-up, sia da persone del luogo che dapprima assumono i migranti per lavoretti giornalieri e poi, invece di pagarli, li vendono a nuovi compratori.”

“Alcuni migranti – in particolar modo nigeriani, ghanesi e gambiani – sono costretti a lavorare per i rapitori come guardie delle case di detenzione o negli stessi ‘mercati’”.

Ai racconti dell’OIM Niger si aggiungono le testimonianze raccolte dallo staff OIM in Libia.Tra queste la storia di Adam, rapito insieme ad altri 25 connazionali del Gambia mentre da Sabha si dirigeva verso Tripoli. Anche in questo caso i prigionieri erano picchiati ogni giorno e costretti a chiamare le loro famiglie per chieder loro di pagare un riscatto. Adam è riuscito a versare la somme richiesta solo dopo 9 mesi: soldi che i suoi parenti hanno potuto raccogliere solo vendendo la casa di famiglia.

A quel punto il giovane è stato portato a Tripoli, dove una persona lo ha trovato per strada in condizioni di estrema difficoltà e lo ha portato all’ospedale. Lì la sua foto è stata postata su Facebook e a quel punto l’OIM ha inviato lì un proprio medico per farlo visitare. Ci sono volute 3 settimane di ricovero per farlo riprendere: al momento dell’ospedalizzazione pesava 35 chili e presentava serie ferita da tortura.

L’OIM ha in seguito trovato una famiglia disposto ad ospitarlo per un mese e, dopo un percorso di recupero, è stato possibile inserirlo in un programma di ritorno volontario. Il 4 aprile è tornato in Gambia, accompagnato da un medico dell’organizzazione, ha potuto incontrare la sua famiglia ed è stato portato in un altro ospedale per un ulteriore periodo di cure, pagate da OIM Libia, che fornirà al ragazzo anche un aiuto economico per la reintegrazione nel paese di origine.

Un altro caso di cui l’OIM è venuta a conoscenza riguarda una giovane ragazza tenuta prigioniera da rapitori somali in una sorta di capannone situato non lontano dal porto di Misurata. Pare sia stata tenuta reclusa per almeno 3 mesi e che sia stata vittima di stupri e violenze fisiche. Il marito e il figlio, che vivono in Gran Bretagna dal 2012, hanno ricevuto richieste di soldi per la sua liberazione.

Il marito è riuscito a pagare tramite la sua famiglia e membri della comunità somale la somma di 7.500 dollari, ma gli è stato appena chiesto di effettuare un secondo pagamento della stessa cifra.

L’OIM Libia è stata informata dalla “UK Crisis Response and Hostage Negotiation Unit”, che sta seguendo il caso insieme alla Mezzaluna Rossa libica, che ha già avuto a che fare con situazioni simili.

“La situazione è disperata”, ha affermato Mohammed Abdiker – Direttore del Dipartimento per le Operazioni e le Emergenze dell’OIM – tornato di recente da una missione a Tripoli.

“Più l’OIM si impegna in Libia e più ci rendiamo conto di come il paese sia una vera e propria valle di lacrime per i migranti. Alcuni racconti sono veramente terribili e le ultime testimonianze relative a un “mercato degli schiavi” si aggiungono a una lunga lista di efferatezze”

Abdiker ha raccontato che negli ultimi mesi lo staff OIM ha potuto avere accesso ad alcuni centri di detenzione in Libia e cerca di migliorarne le condizioni. “Sappiamo che i migranti che cadono nelle mani dei trafficanti sono costretti a vivere in uno stato di grave malnutrizione e ad affrontare abusi sessuali. A volte rischiano anche di essere uccisi. L’anno scorso, in un solo mese, 14 migranti sono morti in uno di questi posti a causa di malattie e malnutrizione. Ci giungono anche notizie della presenza di fosse comuni nel deserto”.

“I migranti che vanno in Libia nel loro percorso verso l’Europa non hanno idea dell’inferno di torture che li aspetta una volta passato il confine libico”, afferma Leonard Doyle, Portavoce dell’OIM a Ginevra. “In Libia diventano ‘merce’ da comprare, vendere e gettare via quando non ha più valore”.

“Proprio per far sì che questa realtà sia conosciuta in tutta l’Africa, stiamo registrando testimonianze di migranti che sono passati per queste terribili esperienze e le stiamo diffondendo sui social media e sulle radio. I testimoni più credibili di queste sofferenze sono spesso proprio i migranti che tornano a casa con il sostegno dell’OIM. Purtroppo sono molto spesso traumatizzati e vittime di abusi, spesso sessuali. La loro voce ha un peso e un significato speciale, che nessun’altra persona può avere”.

02.04.2017 . Con l’espressione tratta di esseri umani si intende una forma di schiavitù moderna, quasi sempre invisibile agli occhi dei più, alla quale sono costretti donne, uomini e sempre più spesso bambini. Rappresenta una gravissima violazione dei diritti umani fondamentali.

Generalmente le vittime di tratta si trovano in una condizione di estrema vulnerabilità in quanto provenienti da contesti di disagio e di povertà, aggravate da una globalizzazione sempre più selvaggia, ma anche da zone di guerra o da paesi in cui vengono perseguitate da regimi autoritari. Per questo motivo decidono di spostarsi e spesso, per il trasferimento dalle “periferie del mondo” verso i luoghi in cui sperano di avere un futuro migliore, si affidano a trafficanti senza scrupoli, affiliati a organizzazioni criminali internazionali ben radicate nel territorio, che provvedono a inserire le vittime in vere e proprie reti di sfruttamento. Non è detto che il contatto con i trafficanti avvenga sin da subito; infatti è possibile che ciò si verifichi in altre fasi del viaggio migratorio.

Sui giornali, radio e TV difficilmente si parla di tratta di esseri umani, come se fosse una tematica poco appetibile per i fruitori dell’informazione. Quando, invece, l’argomento viene preso in considerazione, accade di frequente che lo si faccia definendolo in modo errato e piegandosi a facili semplificazioni.

Dietro una vittima di tratta spesso si celano un debito economico, la coercizione fisica o psicologica, una minaccia che mette a rischio la vita della vittima e dei suoi affetti, una condizione di isolamento, una situazione penosa di estrema ingiustizia.

La tratta di esseri umani spesso avviene anche a danno di minorenni che vivono in realtà dove sono forti povertà, degrado e miseria.
Il 20% sono vittime di sesso maschile, nella stragrande maggioranza dei casi minorenni che poi finiscono sulle strade per fare accattonaggio. Nei casi peggiori vengono usati per l’espianto di organi, solo in qualche caso i più piccoli finiscono nel giro illegale delle adozioni. In tutti e tre i casi si parla comunque di bambini che vanno dai 3 ai 13 anni.

L’80% sono vittime di sesso femminile, anch’esse minorenni, che finiscono nel giro della prostituzione; qui si parla di ragazzine che vanno dagli 11 ai 17 anni.

Le vittime di tratta, sia di sesso femminile che maschile, passano da una rete criminale all’altra e vengono letteralmente vendute, per poi finire quasi sempre in Occidente, dove le reti criminali realizzano i loro affari. Al loro arrivo hanno spesso subito violenze di tutti i tipi – stupri, pestaggi, sevizie, torture, minacce alla loro persona e ai loro familiari.

Nel mondo si parla di 21 milioni di vittime di tratta, per un giro di affari stimato di 117 miliardi di euro; stiamo parlando del secondo business criminale a livello mondiale, un giro di affari che viene ancora prima del mercato della droga, ossia il terzo e subito dopo il traffico di armi, che è il primo per introiti economici.

In Europa e in Italia si fa un gran parlare di diritti del minore; la triste realtà è che solo nel nostro paese attualmente ci sono 189.600 persone vittime di schiavitù e sfruttamento, tra cui un’alta percentuale di minorenni.

Come segnalato dall’Europol, l’Ufficio di Polizia europeo, nel 2015 risultano entrati in Europa oltre 10 mila minori che sono poi scomparsi, di cui 6.135 soltanto in Italia.

Nel 2016, secondo il rapporto del Ministero dell’Interno, in Italia sono entrati 25.846 minori non accompagnati. Il dato più agghiacciante lo cita il documento, “Grandi speranze alla deriva”, dove si denuncia che solo nei primi sei mesi del 2016 si sono perse le tracce di 5.222 di questi minori. I piccoli spariscono perché vogliono “continuare il loro viaggio” con l’obiettivo di raggiungere “altri paesi europei”, afferma il rapporto, ma si teme che quasi la metà di loro finisca nelle mani delle reti criminali, per essere poi sfruttati in vario modo.

Sempre in Italia i dati indicano 112.000 ragazze avviate alla prostituzione, di cui oltre 37.000 risultano minorenni; numeri possibili perché in Italia c’è tanta richiesta, ovvero tanti italiani adulti che pagano per andare con minorenni poco più che bambine. Tutto questo avviene quotidianamente sotto i nostri occhi, eppure di ciò poco o nulla si parla.

Dietro ad ognuna di queste ragazzine avviate alla prostituzione si celano storie raccapriccianti; basta andare in strada come volontari, nelle periferie dimenticate di tante città italiane per leggerle sui loro volti, nei loro sguardi, nei loro prolungati silenzi.

In Italia purtroppo manca ancora una legge seria che possa quanto meno gettare le basi e fornire gli strumenti di modo per prevenire e liberare migliaia di donne, uomini e bambini vittime di una vera e propria schiavitù, di violenze, di degrado e di miseria umana. Una legge sul modello dei paesi scandinavi, che di recente sulla stessa base è stata approvata anche in Francia, una legge che vuole, sull’esperienza di altre legislazioni europee, punire il cliente come complice dello sfruttamento sessuale, per togliere così alle organizzazioni criminali la fonte di guadagno e per combattere lo sfruttamento di persone vulnerabili, colpire la domanda per contrastare le conseguenze devastanti che la prostituzione crea. Le ragazze che oggi arrivano sulle nostre strade tramite le reti criminali hanno 15 o 16 anni, in qualche caso 13 o 14… Come si fa a parlare di ‘libera scelta?

Le donne che si prostituiscono arrivano da ambienti familiari e sociali degradati, hanno alle spalle storie di povertà, violenza e abusi. Non può esistere nessuna libertà in un comportamento che nasce da una catena di sopraffazioni e miseria.

E’ con questa finalità che è in atto la campagna nazionale “Questo è il mio corpo” , con l’obbiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica, informare sulle reali condizioni di violenza e di non scelta che subiscono il 90% delle donne entrate nel giro della prostituzione, insegnare e testimoniare nelle scuole e nelle nuove generazioni la tristissima realtà di migliaia di giovanissime persone vittime di tratta, riportandone le esperienze tramite la storia di ex vittime uscite dalla schiavitù.

Alcune ex vittime di tratta come ad esempio Isoke nella sua testimonianza sostengono che una legge seria possa servire tantissimo, ma che non sia sufficiente. “Bisogna unire a questa legislazione un sostegno serio per le ragazze, che permetta loro di ricostruire da zero la loro vita, una rete di relazioni sociali, che le rimetta in piedi per davvero senza lasciarle in strada con un semplice foglio di carta, ma disoccupate e senza protezioni.”  Per questo Isoke vede nei clienti stessi delle potenziali risorse. “Non voglio certo difendere i clienti o simpatizzare con loro. Mi limito a dire che prima di pensare di multare i clienti, credo sia importante cercare di rieducarli e sfruttarli come risorse per sostenere le ragazze nel loro percorso di liberazione”.

Si tratta di un tema molto complesso ed è certo che per affrontarlo bisognerebbe riuscire a creare in tutto il paese un forte movimento trasversale, sociale, culturale e politico, che riesca a informare, sensibilizzare e al tempo stesso fare pressione per l’approvazione d’una legge nazionale che realmente tuteli donne, uomini e bambini, aiutandoli a liberarsi in generale dallo sfruttamento e in particolare dalla schiavitù della tratta. Una specie di rivoluzione culturale che serva a cambiare la testa delle persone su quello che in molti ancora definiscono sbagliando “il mestiere più antico del mondo” ma che trattasi di fatto di schiavitù. Per questo motivo l’Associazione Vittime di tratta scrive una lettera appello proprio alle donne italiane, da donna a donna per dimezzare il numero delle vittime di tratta.  Un fenomeno che è in crescita esponenziale, di cui non si parla e per cui si fa troppo poco.

 

Per gentile concessione dell'agenzia stampa Pressenza

Il 23 marzo, presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi “Roma Tre” si è svolto l’incontro “Diritti Umani in Argentina”, una riflessione sui passi avanti realizzati nell’ultimo decennio in materia di diritti umani e sulle forti preoccupazioni emerse ultimamente circa i rischi di un’involuzione in questo settore.
La transizione dal kirchnerismo al “macrismo”, inaugurato dalla vittoria di Mauricio Macri alle presidenziali argentine nel 2015,è avvenuta in modo rapido e tutt’altro che indolore. Cristina Kirchner ha concluso il suo mandato tra accuse di corruzione e scelte che hanno spinto parte del suo elettorato a non rinnovare la fiducia alla sua coalizione, il Frente para la Victoria. Innegabili, comunque, i miglioramenti in materia di tutela dei diritti civili e politici registratisi negli ultimi anni. Si deve infatti a Nestor Kirchner, predecessore di Cristina, l’abolizione delle leggi che avevano garantito fino a quel momento l’impunità ai responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani compiute durante l’ultima dittatura militare, una tra le più spietate del Novecento. Negli ultimi anni sono state emesse centinaia di sentenze di condanna, nell’ambito di altrettanti processi, portati avanti spesso con difficoltà e timore da parte dei testimoni. Si è trattato di un passo avanti importante nella direzione del raggiungimento di quella giustizia che da decenni settori della società argentina chiedono venga assicurata. Giustizia che costituisce premessa necessaria per una ricomposizione delle fratture che da molto tempo dividono la popolazione.


A suon di decreti legge, Macri ha impresso una drastica svolta alla politica economica, tra le critiche di chi individua nelle politiche neoliberiste la causa principale dell’aggravamento delle forti diseguaglianze sociali. Di fronte ad alcune prese di posizioni e decisioni del governo in materia di diritti umani, associazioni e organizzazioni non governative hanno intensificato il monitoraggio, le segnalazioni e le denunce di azioni arbitrarie compiute dalle autorità. Il caso più discusso è stato quello dell’arresto, nel gennaio del 2016, di Milagro Sala, deputata del Parlamento del Mercosur, nonché dirigente e fondatrice dell’Organización Barrial Túpac Amaru,attiva nella gestione di servizi sociali e nel settore dell’edilizia popolare. All’arresto per aver guidato una protesta di fronte alla sede del governo di Jujuy è seguita la detenzione preventiva dell’attivista, di cui organizzazioni nazionali e internazionali hanno denunciato l’arbitrarietà. Le prime condanne inflitte all’attivista hanno poi contribuito ad appesantire le polemiche, facendo crescere l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sul caso.


All’incontro a Roma Tre hanno partecipato il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury, il Professor Claudio Tognonato, coordinatore dell’evento, il giornalista e videomaker Dario Lo Scalzo in rappresentanza del Comitato per la Libertà di Milagro Sala e i documentaristi Magalí Buj e Federico Palumbo, autori del documentario “Tupac Amaru, algoestá cambiando”. Era presente anche il diplomatico italiano ed ex console in Argentina Enrico Calamai, l’“eroe scomodo”che tra il ’76 e il ’77 con l’aiuto del sindacalista Filippo di Benedetto aiutò centinaia di persone a scappare dall’Argentina. Calamai ha partecipato all’incontro in rappresentanza del Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos, nato qualche anno fa per chiedere giustizia per le migliaia di migranti che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa. Il Comitato si è fatto promotore di un appello attraverso cui è stata chiesta la costituzione di un tribunale di opinione “che offra alle famiglie dei migranti scomparsi un’opportunità di testimonianza e rappresentanza; contribuisca ad accertare le responsabilità e le omissioni di individui, governi e organismi internazionali; e fornisca uno strumento per l’avvio delle azioni avanti agli organi giurisdizionali nazionali, comunitari, europei e internazionali”. Ci si auspica, al fine di garantire verità e giustizia alle vittime, la collaborazione concreta e convinta dell’Unione Europea e degli Stati membri, cui si chiedono, tra le altre cose, una politica comune di asilo e accoglienza, l’apertura di canali umanitari e l’istituzione di commissioni d’inchiesta sulle persone scomparse.
Il cammino verso l’accertamento dei fatti, ammesso che questo si verifichi, sarà comunque lungo e difficile, come del resto lo è stato quello che ha portato, con decenni di ritardo, alle condanne di alcuni dei responsabili dei crimini commessi in America Latina negli anni ‘70/’80. Risale ad appena due mesi fa la condanna all’ergastolo, da parte della Terza Corte di Assise di Roma, di 8 degli oltre trenta imputati processati per il sequestro e l'omicidio di 43 prigionieri argentini, cileni e uruguayani, di cui 23 di origine italiana. Crimini, questi,realizzati nell’ambito del Plan Condor, l’operazione congiunta di intelligence avviata nel 1975 dai governi di Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia e Brasile e finalizzata alla persecuzione degli oppositori politici attraverso le frontiere.


L’incontro a Roma Tre, patrocinato dal Gruppo di argentini in Italia per la Memoria, Verità e Giustizia,è stato organizzato in concomitanza con il quarantunesimo anniversario del golpe militare che, nel 1976, diede inizio alla dittatura. Durante la manifestazione per il Día de la Memoria por la Verdad y la Justicia, svoltasi a Buenos Aires il 24 marzo, la presidente delle Abuelas de Plaza de Mayo Estela Carlotto ha letto un documento di denuncia del governo Macri per la “miseria pianificata”, le misure repressive e la “perdita della sovranità politica ed economica”. In polemica con la presidente delle Madres de Plaza de MayoHebe de Bonafini, convinta kirchnerista, la Carlotto ha ribadito con forza l’apoliticità dell’organizzazione da lei presieduta, che dal 1978 ad oggi è riuscita, attraverso una lotta senza sosta, a rintracciare 121 giovani sottratti ai genitori durante la dittatura. La coraggiosa battaglia delle Abuelas per il diritto all’identità ha raggiunto anche l’Italia, dove nel 2009 è nata la Rete per il diritto all’Identità – Italia, un “nodo italiano” della “Red por elderecho a la Identidad” con l’obiettivo di collaborare nella ricerca dei giovani desaparecidos che vivono oggi, forse anche in Italia, senza conoscere le proprie origini. Una rete a cui chiunque abbia dei dubbi sulla propria identità può rivolgersi, per ottenere il supporto necessario e sottoporsi al test del DNA presso i consolati di Roma e Milano.

Il 24 marzo è stata anche la giornata mondiale per il diritto alla verità su gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime, istituita nel 2010 dalle Nazioni Unite per onorare la memoria delle vittime di crimini perpetrati in tutto il mondo e dare impulso alla realizzazione del diritto alla verità e alla giustizia. Ricorrenza annuale, quest’ultima, attraverso la quale si rende anche omaggio alla memoria di monsignor Óscar Arnulfo Romero, impegnato attivamente nella denuncia delle violenze compiute contro i settori più vulnerabili della popolazione di El Salvador, assassinato nel 1980 nella cappella di un ospedale cattolico di San Salvador. La morte di Romero diede il via ad una guerra civile durata 12 anni, facendo della piccola repubblica centroamericana una delle ultime “guerre calde” legate alla guerra fredda.
A distanza di ventotto anni dal crollo del muro di Berlino, in un contesto molto diverso, barriere fortificate continuano ad essere minacciate, consolidate o edificate. Nell’ambito di governi autoritari,ma troppo spesso anche in democrazia, la ricerca di verità e giustizia è ripetutamente ostacolata, quando non impedita. Oggi come ieri responsabilità dirette o indirette di violazioni dei diritti umani faticano ad essere investigate e sanzionate. Parlarne non è sufficiente a modificare questo stato di cose, ma, soprattutto di questi tempi, è un primo passo.



“Siamo testimoni di un’autentica guerra dei potenti contro i deboli, una guerra che mira all’eliminazione degli handicappati, di coloro che danno fastidio e perfino semplicemente di coloro che sono poveri e ‘inutili’, in tutti i momenti della loro esistenza. Con la complicità degli Stati, mezzi colossali sono impiegati contro le persone, all’alba della loro vita, oppure quando la loro vita è resa vulnerabile da una malattia e quando essa è prossima a spegnersi.
Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma ‘irreversibile’, saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d’organo o serviranno, anch’essi, alla sperimentazione medica (‘cadaveri caldi’)”.
                                                                                                   J. RATZINGER

 

Ogni qualvolta si viene a riaccendere il dibattito sulle questioni relative al “fine vita”, puntualmente troviamo la Chiesa cattolica in primissima linea ad affermare e a ribadire il principio della sacralità della vita “dalla nascita alla morte”, anzi, dal primissimo all’ultimissimo istante.

Posizione questa che non può che essere condivisa da chiunque, credente o non credente, abbia a cuore il valore irrinunciabile della persona umana. I problemi sorgono, però, inevitabilmente, quando ci si trova costretti a tentare di tracciare in maniera “chiara e distinta” i confini del nascere e del morire, ovvero ad individuare quando sia possibile e corretto parlare con certezza di nascita e di morte dell’individuo, di inizio e di fine non di una qualche forma di vita, ma di una vita propriamente e indiscutibilmente “umana”. E qui si finisce, inesorabilmente, per scivolare sul campo sdrucciolevole del relativo, terreno che un po’ tutti, purtroppo, tendono a popolare con certezze presuntuosamente apodittiche. Il sapere scientifico, a cui tutti si appellano, infatti, ci fornisce senza dubbio utili e sempre crescenti informazioni, ma ogni soggetto è però chiamato a valutarle e ad interpretarle, secondo le proprie prospettive filosofiche e convinzioni ideologiche (legittime quanto opinabili). Ed ecco che, allora, si aprono fratture e si edificano muraglie dentro cui ci si arrocca con assai scarsa disponibilità al confronto e al ragionamento sobrio e antidogmatico. Mentre, invece, su questioni di questo tipo, così delicate, sfaccettate e sfuggenti, servirebbe più che mai uno sforzo comune di analisi critica liberata da tabù, da preconcetti e da scambievoli anatemi.

All’interno dell’infuocato panorama di differenti ed opposte visioni, la cosa più sconcertante è il constatare come, mentre di tutto si dibatte e si disquisisce, una questione, a proposito del “fine vita”, venga perennemente e universalmente ignorata: quella della cosiddetta “morte cerebrale”, con annessa pratica dei trapianti di organi.
Su questo particolare aspetto delle complesse problematiche della bioetica, la Chiesa cattolica, in particolare, sempre impegnata a distinguere e a difendere le proprie posizioni in nome del doveroso e coerente rispetto dei valori cristiani, dà l’impressione di essere incapace di produrre un proprio autonomo pensiero, come accecata dalla retorica della cosiddetta “cultura del dono”. In pratica, accade che ci si allinei, in maniera assolutamente acritica, sulle posizioni attualmente dominanti (anche se non universalmente condivise) in ambito scientifico, accogliendo e adottando, in modo totalmente passivo, metri di giudizio e gerarchie di valore che nulla hanno a che fare con la più elementare riflessione teologica. Mettendo da parte, cioè, ogni preoccupazione relativa al rapporto corpo-anima, alla questione della tempistica relativa al distacco dell’anima dal corpo, al dovere di non interferire arbitrariamente sulle modalità della separazione dell’anima dal suo involucro fisico, con tutte le relative implicazioni soteriologiche ed escatologiche (relative, cioè, al destino ultramondano dell’anima: salvezza o dannazione). Detto in altre parole, si ha la sensazione che, mentre la Chiesa cattolica sia sempre pronta e determinata a proteggere da qualsiasi “innaturale” accelerazione del processo della morte malati terminali, individui affetti da gravissime disabilità, persone in stato vegetativo (vedi caso Eluana), ecc. - battendosi così contro la cosiddetta “cultura dello scarto” - abbia invece incomprensibilmente scelto di abbandonare, nelle mani dei medici espiantatori, le persone dichiarate cerebralmente morte (relegate, così, al rango di preziosi serbatoi di “pezzi di ricambio”). Persone che, fino al 1968, venivano comunemente considerate pazienti in “coma depassé” (secondo la definizione del 1959, formulata da Mollaret e Goulon) e che, solo in seguito a quanto dichiarato dalla Commissione ad hoc dell’Università di Harvard, hanno potuto cominciare ad essere considerate clinicamente e legalmente defunte, pur presentando cuore battente, fegato, pancreas, ecc., funzionanti. Persone che, secondo quanto afferma W.Franklin Weaver (Università del Nebraska), potrebbero non essere altro che “sfortunati esseri viventi (...) disumanizzati attraverso vari metodi per dichiararli “morti” mentre sono ancora vivi”. (in Finis Vitae, a cura di R. De Mattei, Rubbettino, Roma 2007, p.379)
Giovanni Paolo II ai partecipanti all’incontro promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze sulla “Determinazione del momento della morte”, nell’ormai lontano dicembre 1989, ebbe modo di asserire quanto segue:

“Il problema del momento della morte ha gravi incidenze sul piano pratico, e questo aspetto presenta anche per la Chiesa un grande interesse. Sembra infatti che sorga un tragico dilemma. Da una parte, vi è urgente necessità di trovare organi sostitutivi per malati i quali, in loro mancanza, morirebbero o per lo meno non guarirebbero. In altre parole, è concepibile che per sfuggire ad una morte certa ed imminente, un malato abbia bisogno di ricevere un organo che potrebbe essergli fornito da un altro malato, forse il suo vicino in ospedale. In questa situazione appare dunque il pericolo di porre fine ad una vita umana, di rompere definitivamente l’unità psicosomatica di una persona. Più esattamente, esiste una reale probabilità che la vita della quale si rende impossibile la continuazione con il prelievo di un organo vitale sia quella di una persona viva, mentre il rispetto dovuto alla vita umana vieta assolutamente di sacrificarla, direttamente e positivamente, anche se fosse a beneficio di un altro essere umano che si ritiene motivatamente di dover privilegiare.
Non è sempre facile neanche l’applicazione dei principi più fondati, perché il contrasto fra esigenze opposte oscura la nostra visione imperfetta e di conseguenza la percezione dei valori assoluti, che non dipendono né dalla nostra visione né dalla nostra sensibilità.”* (mie le evidenziazioni)

Ora, mi chiedo, parlare di oscurata “visione imperfetta”, di “pericolo di porre fine ad una vita umana”, nonché di “una reale probabilità che la vita della quale si rende impossibile la continuazione con il prelievo di un organo vitale sia quella di una persona viva”, non dovrebbe essere ritenuto motivo più che sufficiente per applicare l’antico e saggio principio dell’ in dubio pro vita?! Ovverosia, di fronte a tale “reale probabilità” (mai del tutto escludibile!), non sarebbe più ragionevole, più giusto e più “cristiano”, preferire di rischiare di trattare come vivo un morto, piuttosto che trattare come morto (anzi, come una “cosa morta”) un vivo?!?
Scriveva Hans Jonas, uno dei massimi pensatori del XX secolo, profondamente ferito e preoccupato in seguito all’introduzione del concetto di “morte cerebrale”, che
“Proprio il dubbio - il non sapere in fondo dove sia l’esatto confine tra la vita e la morte - dovrebbe dare la precedenza alla supposizione della vita e far resistere alla tentazione della dichiarazione di morte così pragmaticamente consigliata” .


E che ci sarebbero validissimi motivi
“per dubitare che, anche in assenza di funzione cerebrale, il paziente che respira sia del tutto morto. In questa situazione d’ineliminabile ignoranza e di ragionevole dubbio l’unica massima corretta per agire consiste nel tendere dalla parte della vita presunta.”

Particolarmente difficile da comprendere, poi, è il fatto che ben pochi si soffermino attentamente a meditare sulle motivazioni esplicitamente indicate dalla stessa Commissione di Harvard a proposito dell’ “invenzione” della “morte cerebrale”:
Il nostro obiettivo principale - leggiamo nel Rapporto redatto dalla Commissione - è definire come nuovo criterio di morte il coma irreversibile. La necessità di una tale definizione è legata a due ragioni. 1) Il miglioramento delle tecniche di rianimazione e di mantenimento in vita ha condotto a sforzi crescenti per salvare malati in condizioni disperate. A volte tali sforzi non ottengono che un successo parziale, e il risultato è un individuo il cui cuore continua a battere, ma il cui cervello è irrimediabilmente leso. Il peso è grande per quei pazienti che soffrono di una perdita permanente dell’intelletto, per le loro famiglie, per gli ospedali e per quelli che avrebbero bisogno di letti ospedalieri occupati da questi pazienti in coma. 2) Criteri di morte obsoleti possono originare controversie nel reperimento di organi per i trapianti.(mie le evidenziazioni)
Ovvero: liberare preziosi posti-letto in ospedale e tutelare legalmente gli eventuali medici espiantatori (che, altrimenti, avrebbero rischiato di essere accusati di assassinio).
Come non restare inorriditi di fronte a simili dichiarazioni tanto palesemente utilitaristiche e a-scientifiche?
Insomma, quanto tempo dovremo attendere affinché le gerarchie ecclesiastiche (nonché tutto il mondo laico libertario e sensibile al campo dei diritti umani) prendano seriamente in considerazione le voci competenti ed autorevoli (quanto inascoltate) di molti dei migliori scienziati, ricercatori, teologi e pensatori del mondo cattolico, che, con grande rigore denunciano da tempo gli innumerevoli aspetti antiscientifici del concetto di “morte cerebrale” e quelli gravemente anticristiani immanenti alla pratica trapiantistica?!

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