L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Human Rights (208)

Roberto Fantini
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Afghanistan: ospedale di Medici Senza Frontiere* distrutto da bombe americane

di Roberto Fantini

Ogni tanto, ma sempre più di rado, ci ritroviamo a parlare di Afghanistan…

Ma come, i feroci talebani, colpevoli di tutti i mali del mondo, non erano stati sbaragliati e dispersi, già qualche mese dopo la tragedia delle Torri gemelle? Non ci avevano forse raccontato le galvanizzate frotte di pennivendoli nazionali che i liberatori avevano stravinto, portando trionfalmente la “civiltà” in quelle terre selvagge, fra un taglio di barba e un festante falò di burqa colorati?!

Ma chi sa qualcosa della storia di questo malandato nostro mondo sa benissimo che la prima vittima di tutte le 66uguerre è sempre lei: la verità. E, molto spesso, la verità viene uccisa e fatta a pezzi con grande sistematicità già molto prima che le guerre siano, al fine di crearne gli indispensabili prodromi.

Quello che un po’ tutti ci siamo dimenticati è che, da quasi 15 anni, nel paese più povero e sfortunato del globo, si prosegue una guerra concepita e partorita dalle menzogne e portata avanti nelle menzogne. E, a volte, capita che lo spesso velo mediaticomilitare dell’inganno si squarci e lasci apparire l’”orrido vero”. E’ il caso, in queste ultime ore, dell’ignobile bombardamento americano dell’ospedale di Medici Senza Frontiere a Kunduz, con l’inevitabile, incalcolabile bilancio di vite distrutte, di devastazione e di sofferenza.

La cosa più insopportabile e repellente, poi, in casi come questi, è sentir parlare di “incidente” o di “tragico errore”. Proprio come ha subito provveduto a fare l’efficientissimo colonnelloBrian Tribus, portavoce delle forze Usa in Afghanistan, con la seguente vergognosa dichiarazione:

"Le forze americane hanno condotto un attacco aereo nella città di Kunduz alle 2.15 (ora locale) contro individui che minacciano le forze. L'attacco potrebbe avere provocato danni collaterali a una struttura medica vicina".

In un comunicato di qualche giorno prima (29 settembre), Medici Senza Frontiere rivelava che l’ospedale di Kunduz, in seguito ai pesanti combattimenti tra forze governative e dell’opposizione, era stracolmo di feriti (tra cui molti bambini) e che la struttura (capace di effettuare nell’intera giornata di lunedì della passata settimana ben 43 interventi chirurgici) era al limite e in grandi difficoltà nel gestire il continuo crescente afflusso di feriti.

Il comunicato si concludeva assai opportunamente sottolineando:

-       Che, essendo in questo momento l’ospedale provinciale del governo non in funzione, l’ospedale di MSF costituiva l’unica struttura a Kunduz in grado di fornire cure traumatologiche urgenti.

-       Che i medici di MSF, come sempre, nel prendersi cura delle persone bisognose, non fanno alcuna distinzione in base a etnia, credo religioso o affiliazione politica.

-    jj   Che l’organizzazione si trovava “in contatto con tutte le parti del conflitto” le quali si erano impegnate a garantire l’incolumità di personale medico, pazienti, ospedali e ambulanze.

Nel comunicato del 3 ottobre, MSF ribadisce poi, con la necessaria fermezza,

che tutte le parti in conflitto, comprese Kabul e Washington, erano perfettamente informate della posizione esatta delle strutture MSF  - ospedale, foresteria, uffici e unità di stabilizzazione medica a Chardara (a nord-ovest di Kunduz)”, specificando chiaramente che, come in tutti i contesti bellici, era stata cura dell’organizzazione comunicare

 le coordinate GPS a tutte le parti del conflitto in diverse occasioni negli ultimi mesi, la più recente il 29 settembre”.

Inoltre, il comunicato evidenzia il fatto che

il bombardamento sia stato proseguito “per più di 30 minuti da quando gli ufficiali militari americani e afghani, a Kabul e Washington, ne sono stati informati”.

“Questo attacco è ripugnante ed è una grave violazione del Diritto Internazionale Umanitario” ha dichiarato Meinie Nicolai, presidente di MSF, attualmente in Italia.

“Chiediamo alle forze della Coalizione completa trasparenza. Non possiamo accettare che questa terribile perdita di vite umane venga liquidata semplicemente come un ‘effetto collaterale’.” 

Aggiungendo poi che, oltre ad aver provocato la morte di personale medico e di pazienti,

“questo attacco ha privato la popolazione di Kunduz della possibilità di accedere alle cure nel momento in cui ne ha maggiormente bisogno”.

Al  momento dell’attacco aereo nell’ospedale, c’erano 105 pazienti insieme alle persone che li accudivano, oltre a più di 80 operatori internazionali e nazionali di MSF.

Ora, dopo una ventina di morti e decine di feriti e dispersi, MSF si trova costretta ad abbandonare Kunduz …

rtEmergency, che in Afghanistan gestisce 3 ospedali, ha accolto alcuni feriti nella sua struttura di Kabul, dichiarando di restare a disposizione di MSF e della popolazione di Kunduz per curare gli altri feriti che potranno essere evacuati dalla città.

L’associazione si è poi dichiarata molto preoccupata per il costante peggioramento delle condizioni di sicurezza, affermando che la violenza e l'instabilità in cui l'Afghanistan sta precipitando rendono sempre più difficile garantire l'attività degli operatori umanitari, aggravando ulteriormente le condizioni della popolazione.

(http://www.emergency.it/comunicati-stampa/solidarieta-a-medici-senza-frontiere-e-condanna-attacco-a-ospedale-kunduz-3-ottobre-2015.html)

Vittorio Zucconi, in un suo articolo di domenica 4 ottobre, scrive che l'attacco aereo all'ospedale di Kunduz

ha il sapore disperante, eppure prevedibile, del " deja vu", della replica di tragedie già viste” e che “la cronistoria della spedizione punitiva contro il regime che aveva accolto e protetto i comandi di Al Quaeda negli anni '90 è punteggiata di episodi come questo dell'ospedale di Kunduz, prodotti non della crudeltà, della stupidità militare, della stoltezza di bombe che non possono mai essere più " intelligenti" di chi le lancia, ma figli dell'inevitabile degenerazione di guerre che dopo l'illusione iniziale della " missione compiuta" si trasformano in interminabili e controproducenti " missioni incompiute".

(http://www.repubblica.it/esteri/2015/10/04/news/tra_le_rovine_di_quell_ospedale_l_america_scopre_l_ultimo_inganno-124269401/?ref=search)

No, caro Zucconi, questi orribili eventi non sono figli di nessuna “inevitabile degenerazione”, sono bensì il coerente e ricercato effetto di questa guerra e i responsabili hanno volti e nomi umani, quelli di coloro che questa guerra l’hanno accuratamente progettata, l’hanno prepotentemente promossa, l’hanno dichiarata (e fatta dichiarare) necessaria e giusta. Sono anche tutti coloro che, nei parlamenti come nelle redazioni dei giornali, questa guerra continuano (dal lontano settembre 2001) a sostenere e a benedire. Sono tutti coloro, cioè, che, in nome di rabberciate “vulgate”, di aprioristici feticci ideologici e di indicibili interessi, continuano a dimenticare quello che il grande Erasmo (cinque secoli fa) si sforzava di ricordarci:

           che chi vuole la guerra “non l’ha vista in faccia” e che, soprattutto, non vuole che tutti noi la vediamo per quello che effettivamente rappresenta, ovvero la più grande e criminale delle violazioni dei diritti umani

* Le attività di Medici Senza Frontiere nel Paese:

MSF ha iniziato a lavorare in Afghanistan nel 1980. A Kunduz, come nel resto del paese, operatori nazionali e internazionali lavorano insieme per garantire la migliore qualità dei trattamenti. MSF supporta il Ministero della Salute nell’ospedale Ahmad Shah Baba, nella zona orientale di Kabul, la maternità Dasht-e-Barchi nell’area occidentale di Kabul e al Boost Hospital a Lashkar Gah, provincia di Helmand. A Khost, in Afghanistan orientale, MSF gestisce un ospedale specializzato in maternità. MSF lavora in Afghanistan esclusivamente grazie a fondi privati e non accetta finanziamenti da nessun governo.

www.medicisenzafrontiere.it

Si può cercare di rendere migliore il mondo anche regalando un sorriso ai bambini meno fortunati

 

di Roberto Fantini

 

Oramai sono in tanti a conoscerlo e ad amarlo come il ragazzo che gira il mondo per giocare con i bambini degli orfanotrofi e i ragazzi di strada.

Ha venticinque anni, studi di cooperazione internazionale alle spalle e già migliaia e migliaia di chilometri nelle gambe, percorsi in decine e decine di paesi, per portare un sorriso ai bambini che ne hanno un abissale bisogno.

Durante i pochi giorni di una breve pausa estiva nella sua Sicilia, siamo riusciti a strappargli l’intervista che segue. Ora è già lontanissimo, ytua Soddo, a duemila metri di altitudine, ad 8 ore dalla capitale etiopica, con l’intento di girare per tutta l’Africa.

Poi, quando questa nuova esperienza sarà stata portata a termine, ha già in mente la splendida idea di fare un nuovo giro del mondo in carrozzina, per richiamare l’attenzione sul problema delle difficili ed ingiuste condizioni di vita dei disabili.

-          Andrea, il tuo pellegrinaggio planetario, alla ricerca dell’infanzia  colpita da sofferenze di ogni tipo, è certamente qualcosa di molto bello. Quando e come è nato in te questo desiderio? E quali sono gli obiettivi che ti prefiggi?

-          Non smetterò mai di ringraziare l'esperienza, la mia esperienza. Già da ragazzo avevo fatto dei progetti solidali in Europa e, a soli 19 anni, mi sono ritrovato a fare attività in un orfanotrofio in Sudafrica. Ho scoperto la semplicità della gioia. Ho vari obiettivi, ma il principale è dimostrare come le culture sono diverse ma i bambini sono uguali in tutto il mondo e, per ringraziarli, vorrei fare costruire una piccola scuola o un ospedale primario in Africa.

-          Che accoglienza hai trovato da parte delle istituzioni che gestiscono gli orfanotrofi? Gelosia, diffidenza, collaborazione, disponibilità?

-          Le accoglienze che ho trovato sono state delle accoglienze che rispecchiavano i misteri delle istituzioni stesse. Dove le istituzioni avevano segreti da nascondere, si vedeva la diffidenza che si trasformava in paura. Dove le istituzioni erano più o meno oneste, di vedeva una diffidenza che si trasformava in collaborazione quando capivano i miei buoni e reali interessi.

-          E dalle autorità governative dei vari paesi in cui ti sei mosso?

     - Le accoglienze sono quasi sempre state di indifferente formalità nel mondo, l'unica nazione dov'è stato sempre difficilissimo entrare negli orfanotrofi è stata l’ India. Il governo è molto rigido, ho dovuto dichiarare al mio ingresso nel paese che ero lì per turismo e non per volontariato. 

-          Quali sono stati i momenti più difficili durante i tuoi viaggi?

-          Il momento più difficile è stato, anzi è, trovare una risposta a questa domanda. Vivo di serenità e voglia di vivere. Forse i “no” di alcuni orfanotrofi, dopo chilometri di cammino, mi avevano un po' reso le giornate difficili, ma il riuscire ad entrare e giocare con nuovi amici ha avuto sapori molto più forti!

-          Sei mai stato catturato dallo sconforto, arrivando a pensare di ritornartene a casa?

-          La mia casa è il mondo, quindi ovunque sono stato mi sono trovato a mio agio. Sono arrivato a pensare, tutte le volte che sono stato male di salute, di passare da luoghi scomodi ad abitazioni di lusso, solo per vivere i malanni fra i lettoni e le infermiere! Ma, alla fine, la forza di alzarmi dai luoghi, scomodi accompagnato dai cori dei bambini fuori dalle mie porte, ha avuto sempre la meglio!

-          E hai mai pensato, invece, che tutte le tue fatiche ben poco potranno cambiare la drammatica situazione di questo nostro povero mondo ammalato di odio? Che il destino dei bimbi con cui entri in contatto continuerà immutato  il suo corso, presieduto da forze contingenti su cui non hai alcun potere?

-          Ho la certezza che io non potrò cambiare l'odio sparso nel mondo, ma di sicuro ho due grandi e forti certezze. La prima è che le migliaia di bambini con i quali ho giocato scavalcano le mie fatiche e mi ricompensano ampiamente per essermi impegnato per 5y64una giusta causa. La seconda certezza è che almeno un paio dei bambini, fra i tanti con cui ho giocato e fatto attività, andrà avanti, perché avrà come punto di riferimento  un ragazzo bianco che ha saputo credere nel suo sogno di girare il mondo per provare a cambiare il futuro di tutti i bambini da lui incontrati.

-          Quali sono i tuoi progetti per il medio e per il lungo periodo?

-          Finire di scrivere il mio libro, una miscela fra il diario di viaggio e le storie dei bambini, in cui, fra le tante cose, mi interrogo sulle cause che hanno prodotto e continuano a produrre tanti orfani. E, poi, mi piacerebbe presentare un format televisivo per diventare un presentatore di qualche programma educativo per i bambini … il presentatore allegro dall'accento siciliano! Mi piace!

Per contattare Andrea Caschetto:

www.facebook.com/andrea.caschetto.31

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di Roberto Fantini

 

               Papa Francesco, nella sua Enciclica Laudato sì, giustamente definita “unica” e “stupenda” da Leonardo Boff (Avvenire, 19 giugno), appellandosi all’autorevolezza dell’amatissima figura di Francesco d’Assisi, mette in luce in modo insistito come sia impossibile pretendere di costruire un futuro migliore “senza pensare alla crisi ambientale e alle sofferenze degli esclusi”. 1) E a tal fine rivolge a tutti noi, credenti e non, “un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta” 2), sottolineando la necessità di un confronto capace di coinvolgerci ed unirci in vista di una “nuova solidarietà universale”, superando tutti quegli “atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione”, ovvero: negazione del problema; indifferenza; comoda rassegnazione; fiducia cieca nelle soluzioni che potranno essere proposte dalla tecnologia. 3) In tutta l’opera, il papa si sofferma soprattutto su due temi: necessità di un impegno corale profondamente affratellante; necessità di un cambiamento radicale e sostanziale di “stili di vita, di produzione e di consumo” da parte dell’intera umanità. 4) Interessantissimo è il suo evidenziare con grande tenacia ( ben combinando insieme istanze umanistiche e illuministiche, per tanto tempo duramente combattute dalla Chiesa) l’inscindibile connessione sussistente fra micro e macro-cosmo, cogliendo un rapporto di indissolubile corrispondenza tra la felicità dell’essere umano e la salute dell’ambiente in cui esso si trova a vivere, sostenendo inoltre, come ineluttabile conseguenza, l’intima connessione fra “il degrado ambientale e il degrado umano ed etico” 5).

wwUn vero “approccio ecologico”, secondo il pontefice cattolico, è chiamato a farsi anche “approccio sociale”, integrando “la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri”, 6) di quegli esclusi, cioè, che costituiscono la maggioranza della popolazione mondiale. Di quegli esclusi che sono vittime di quei poteri economici, finanziari e politici che continuano follemente “a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente.” 7)

Di eccezionale bellezza e importanza concettuale è quanto il papa asserisce nel primo paragrafo del secondo capitolo, intitolato La luce che la fede offre 8). Qui, dalla constatazione “della complessità della crisi ecologica e dalle sue molteplici cause” si ricava la convinzione che le possibili soluzioni non potranno provenire “da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà” 9) e che, di conseguenza, sarà necessario fare riferimento “alle diverse ricchezze culturali dei popoli, all’arte e alla poesia, alla vita interiore e alla spiritualità” 10), non trascurando “nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza”, ivi inclusa quella religiosa 11).

Ci troviamo di fronte ad un atteggiamento di apertura davvero entusiasmante. Il papa, infatti, non si limita a mettere in discussione posizioni di stampo positivistico (cosa questa senz’altro prevedibile), ma arriva anche a conferire grande dignità (potremmo quasi dire “pari dignità”) alle varie esperienza culturali e alle varie forme di saggezza filosofiche e religiose che si sono potute esprimere all’interno dei vari cammini storici dei tanti popoli del mondo, rinunciando così a presentare il Credo cattolico come unica fonte di verità e come unica soluzione a tutti i problemi dell’esistenza umana.

E, dopo aver ribadita la piena disponibilità della Chiesa cattolica (attuale) al dialogo con il pensiero filosofico, sottolinea la doverosità di “un dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione”.

In parole come queste si riflette quanto di meglio hanno saputo esprimere la migliore cultura laica e la migliore cultura religiosa d’Occidente come d’Oriente. Si riflette il pensiero dei grandi maestri che hanno insegnato e praticato la tolleranza, il superamento delle chiusure e degli arroccamenti egocentrici e di ogni settarismo (palese e celato), da Socrate a Plotino, da Meister Eckhart a Erasmo da Rotterdam, da Spinoza a Voltaire, da Helena Petrovna Blavatsky a Krishnamurti, da Gandhi ad Aldo Capitini. Quelle due parole usate da papa Francesco, infatti, “cercare insieme” (aprendosi al dialogo), sembrano voler rinnegare i quasi 1.700 anni di Chiesa costantiniana, teodosiana e tridentina, caratterizzati da arrogante presunzione di superiorità assoluta (anzi di assoluta unicità), da superba pretesa all’infallibilità, al monopolio di verità rivelate, considerate come l’unica via meritevole di essere percorsa, in quanto indicata dalla stessa Sapienza divina ( come tale indiscutibile e irrinunciabile).

Parole rese ancora più forti ed eloquenti dalle successive altre due: “cammini di liberazione”. Qui sembrerebbe davvero chiara la volontà di questo papa “venuto da lontano” di far scendere il cattolicesimo in mezzo ai “tutti”, ponendosi al fianco dei “tutti”, a servizio dei “tutti”, senza più porsi come centro unico e assoluto della storia umana, chiamato a giudicare, anatemizzare, scomunicare, assolvere, condannare, convertire i “tutti” …

Trovo meraviglioso, in particolare, l’uso fatto del plurale: “cammini” e non “cammino”. Un plurale che si colloca lontano anni luce dalla rigida e autoritaria Chiesa di Pio XII, come da quella trionfalistica (e non certo meno autoritaria) di Giovanni Paolo II. Un plurale che sembrerebbe poter essere inteso come piena accettazione di valori tanto caparbiamente negati e disprezzati dalla Chiesa di ieri, valori come libertà di pensiero, libertà di coscienza, libertà di credo filosofico e religioso, ecc …

Cammini da ricercare, sperimentare, esaminare, discutere, integrare, correggere, confrontare, migliorare, sviluppare attraverso lo scambio, facendo tesoro degli sforzi altrui e della ricchezza morale e culturale di tutti. Aspirando ad una “liberazione” che è traguardo di tutti, di nessuno escluso, che riguarda gli esseri umani in quanto tali, al di là delle bandiere amate, degli altari venerati, dei dogmi abbracciati, dei rituali praticati.

E ancora più bello è forse quanto poi il papa aggiunge, dicendo che, benché l’Enciclica sia aperta al “dialogo con tutti per cercare insieme cammini di liberazione”, suo obiettivo sia mostrare come “le convinzioni di fede offrano ai cristiani, e in parte anche ad altri credenti, motivazioni alte per prendersi cura della natura e dei fratelli e sorelle più fragili.”

qIn pratica, si vuole far capire ai cristiani (ma anche ai non cristiani) che dalla giusta comprensione (che fino ad ora è evidentemente mancata!) e dalla coerente attuazione della dottrina cristiana non potrà che derivare “un bene per l’umanità e per il mondo” intero. 12)  E non si può certo sottovalutare che si parli di “motivazioni alte”, non delle uniche possibili e legittime, o, comunque, delle più alte. Simili, quindi, a quelle che potrebbero essere ravvisate e attinte altrove, in altre fedi e in altre religioni (in altri “cammini”).

Importanti perché tali da spronare a farsi carico responsabilmente dei problemi dell’intera realtà vivente, occupandosi e preoccupandosi, in particolar modo, “dei fratelli e sorelle più fragili”.

Difficile davvero, a questo punto, pensare che il mondo animale, vessato e torturato in mille modi dalla umana avidità e stoltezza, possa non meritare di essere anch’esso accolto nell’ambito di questa grande famiglia.

Come poter non includere, infatti, all’interno delle esistenze “più fragili” da difendere e tutelare anche le creature a cui il santo di Assisi amava predicare?

Ma come potranno, mi chiedo, i milioni di fedeli di Santa Madre Chiesa rispettare il fermo e inequivocabile invito della propria guida apostolica a prendersi cura della natura e delle sue creature, continuando a praticare spensieratamente la mattanza planetaria di masse sterminate di esseri (terribilmente fragili) destinati a finire sulle loro tavole?

Sapranno i cattolici accogliere questa esortazione? Sapranno rinnegare il carnivorismo come sono riusciti (seppur molto faticosamente e parzialmente) a rinnegare tanti altri crimini e misfatti del proprio passato?

 

NOTE

Papa Francesco, Laudato sì. Sulla cura della casa comune, San Paolo Edizioni, 2015, P.37

Ibidem

Ib

P.45

P.68

P.62

P.68

P.73

Ibidem

Ib

P. 73-4

P.74

 

 

 

,Con questa sua ultima fatica Roberto Fantini lancia un grido di allarme verso la mistificazione che i media svolgono sul fenomeno sempre più rilevante dei trapianti di organi, complice il silenzio-assenso della Chiesa Cattolica ed il pilatesco comportamento dello Stato, asservito agli interessi delle lobby. Accurata e ben documentata la ricerca del nostro che intervista gli addetti ai lavori.

 

Fino agli anni 70’ la tradizione giuridica e medica occidentale riteneva che l’accertamento della morte dovesse avvenire mediante il riscontro della definitiva cessazione delle funzioni vitali: la circolazione del sangue, la respirazione, l’attività del sistema nervoso. Al medico spettava “accertare” la morte avvenuta, non definirne l’esatto momento. Nell’agosto del 1968 un comitato ad hoc, istituito dalla Harvard Medical School, propose un nuovo criterio di accertamento della morte fondato su di un riscontro strettamente neurologico: la definitiva cessazione delle funzioni del cervello, definita “coma irreversibile”. In sintesi, i criteri di ridefinizione della morte del Comitato di Harvard rispondeva ad esigenze prettamente “utilitaristiche”. Nel suo rapporto finale il Comitato non partiva dal dato scientifico della morte dei malati, ma riteneva che essi, per un verso possano essere un “peso” per se stessi e per la società in quanto irreversibilmente lesi, e che, per altro verso, possano essere “utili” alla società in quanto potenziali donatori di organi per i trapianti.

Lo Stato italiano con la legge n.578 del 29 dicembre 1993 recepiva la risoluzione del Comitato di Harvard e all’art. 1 dichiarava: “ la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”.

L’assunto è completamente falso, sia rispetto ai principi religiosi cristiani che dal punto di vista scientifico. Non è assolutamente veritiera la morte del “donatore”. Dal punto di vista religioso lo stesso papa Giovanni Paolo II ebbe modo di sottolineare che i trapianti possono essere considerati leciti (anzi moralmente apprezzabili e auspicabili) ma solo a condizione di avere la certezza che il prelievo degli organi si verifichi “ex cadavere”, ovvero da individui indiscutibilmente morti. Il “morto cerebrale” è un soggetto “capace “ di anima e pertanto persona viva. Secondo la tradizione cattolica la morte è concepita come processo graduale,transito, cambiamento di stato, distacco, separazione dell’anima dal corpo, processo del quale non possiamo che ignorare i tempi e i modi.

In più circostanze, a partire dal concilio di Vienna (1311-12) la Chiesa cattolica romana ha sostenuto che l’unità di anima e corpo è così profonda che si deve considerare l’anima come forma del corpo e ha ribadito , a più riprese , che l’eliminazione dell’embrione umano, in ogni fase del suo sviluppo, è da ritenersi delitto d’aborto, come più volte si è ribadito che nessun dato sperimentale può essere di per sé sufficiente a far riconoscere un’anima spirituale. Nel caso degli espianti di organi invece si è deciso di ignorare il fatto che la cessazione della funzione cerebrale può essere (man non è necessariamente) uno stadio del processo del morire e che la linea che separa la vita e la morte è complessa e indefinita.

Sotto il punto di vista scientifico Mercedes Arzù Wilson, presidentessa della Fondazione per la famiglia delle Americhe e dell’Organizzazione mondiale della famiglia, ma anche membro della Pontificia accademia per la Vita, pone queste domande: 1)Se il il donatore è “cerebralmente morto” perché continuano ad alimentarlo con le flebo?

2) perché alle volte gli si fanno delle trasfusioni?

3) Perché si somministrano ormoni surrenali e tiroidei?

4) Perché c’è bisogno dell’anestesia per espiantare gli organi?

6) perché gli somministrano una sostanza paralizzante? Curioso notare che se anche il donatore è paralizzato , il battito del cuore e la pressione del sangue aumentano non appena il cuore inizia ad essere estratto.

7) Come può una donna incinta, cosi detta “cerebralmente morta”, continuare per mesi a mantenere in vita nel suo grembo un bambino ed essere definita cadavere?

8) come mai questi cosi detti cadaveri non si decompongono per giorni , alle volte per mesi?

9) come può una mamma cosi detta “cerebralmente morta” dopo aver dato alla luce un bambino vivo, produrre latte materno quando invece il chirurgo ha assicurato la sua famiglia che il suo cervello è morto? La società dei trapianti ignora forse che il latte materno è il risultato dell’attività della ghiandola pituitaria nel cervello che invia i segnali per la produzione della prolattina, i cui livelli aumentano in vista della produzione di latte per il bambino?

La fragilità di un essere umano , come è quello in cui è impegnato in una lotta estrema per la sopravvivenza, è del tutto trascurata. Costui subisce e percepisce l’abbandono, nel più atroce di modi, proprio da chi è preposto a prendersi cura di lui.

Ne consegue che lo Stato, e quindi i servizi sanitari nazionali, non possono avere la pretesa di influenzare le opinioni dei cittadini o imporre visioni etiche su temi molto delicati come quello della morte. Di conseguenza le leggi devono solo avere una funzione di garanzia di ordine esterno e di servizio della collettività. In una comunità democratica questo non può sostituirsi all’etica o alla morale.

Nel febbraio 2005 molti autorevoli filosofi e teologi, ma anche giuristi e scienziati, accolsero con grande entusiasmo l’invito del Pontefice, prendendo parte ad un convegno organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, nella stessa città del Vaticano. Tutti si trovarono sostanzialmente d’accordo nel ritenere che la sola morte cerebrale non andrebbe considerata come morte reale dell’essere umano e che il criterio della morte cerebrale, risultando privo di effettiva attendibilità scientifica, andrebbe pertanto abbandonato. I risultati emersi, invece che essere accolti non hanno goduto di un’adeguata attenzione. Prova ne è che dalle autorità vaticane non venne autorizzata neppure la pubblicazione degli atti e che una parte delle relazioni poté venire alla luce solo grazie all’intervento di Roberto De Mattei, all’epoca vicedirettore del Consiglio nazionale delle Ricerche, rivoltosi ad un editore esterno. Né è stato possibile riscontrare maggiore e migliore accoglienza per quanto concerne il celebre articolo di Lucetta Scaraffia, apparso sull’”Osservatore Romano” il 3 settembre 2008. Infatti, dopo la messa in discussione della studiosa delle certezze sulla morte cerebrale fondate sul rapporto di Harvard del 1968, si sono succeduti vari interventi di alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche che fecero in modo di sopire ogni volontà di ridiscutere la questione in maniera critica.

Di dubbi, di obiezioni, di perplessità, etc. non se ne è più parlato e, a prevalere in maniera schiacciante, è sempre più e senza alcun dubbio (sia dentro che fuori il mondo cattolico) una entusiastica ed emozionantissima esaltazione della così detta “cultura della donazione”, complici i media asserviti alle lobby. Molti ospedali dove si eseguono trapianti sono cattolici.

È nella natura della propaganda evitare di dare spazio a notizie “scomode”, come quelle sugli abusi commessi, con la complicità , o il silenzio-assenzo, anche di prestigiosi chirurghi, per procurare gli organi dei poveri ai ricchi malati. In questo modo l’integrità della persona, come propugnato dalla religione cattolica, viene ad incrinarsi.

Il traffico illegale di reni è stimato nell’ordine dei 15.000 casi ogni anno e si è venuto recentemente a sapere che una delle maniere in cui i migranti nel canale di Sicilia “pagano” il prezzo del tragitto alla mafia degli scafisti è con l’espianto dei propri organi.

In Italia il Comitato nazionale di bioetica nel 2010, sia pure non senza opposizione interna, ha espresso parere favorevole qualificando come “eticamente apprezzabile” la donazione da vivo di un rene a un perfetto sconosciuto destinato a rimanere tale.

La cosi detta “donazione” è in realtà un espianto da corpi ancora vivi. Prelevare organi da un cadavere sarebbe infatti del tutto inutile. Si tratta di una vera e propria macellazione, che induce medici compiacenti o ignoranti ad affrettare diagnosi e a mancate cure.

La morte cerebrale viene dichiarata sempre (rare sono le eccezioni) nelle prime 24/48 ore dal ricovero di un paziente comatoso, in genere traumatizzato cranico, in un reparto di rianimazione, durante le quali non si attua alcun tentativo serio ed efficace di terapia finalistica (cioè per salvarlo).

La terapia è finalistica solo quando si oppone tempestivamente al processo patologico in atto. Un’aspirazione di pochi cc. di liquido emorragico e del liquor ventricolare può essere sufficiente a decomprimere il cervello e così fare ricomparire la coscienza e permettere al paziente di uscire dal coma. Così, senza una terapia mirata, si instaura un progressivo deterioramento della corteccia cerebrale, rendendo difficile il recupero del paziente. Più il tempo passa più la sostanza grigia cerebrale, avida di ossigeno, perde la sua vitalità.

L’Intervento chirurgico elettivo andrebbe sempre e comunque eseguito d’urgenza allo scopo di decomprimere il cervello. Il tempo in questo caso è prezioso e quindi andrebbe ripristinato l’intervento decompressivo presso gli ospedali di prima accoglienza. In passato, il chirurgo degli ospedali minori aveva la preparazione per eseguire tali interventi decompressivi ed era tenuto ad effettuarli. Oggi, allo scopo di incrementare i trapianti, tali pazienti vengono avviati agli ospedali maggiori, più lontani, per cui sovente si superano i tempi ideali per il loro recupero. In questo modo però si salvano gli organi ad ogni costo. Negli ospedali maggiori deputati al trapianto, La terapia finalistica non viene quasi mai attuata poiché i neochirurghi, pressati dalla richiesta di organi, sono consapevoli che salvare il paziente ad ogni costo può significare anche perderlo con l’atto chirurgico o durante il decorso post-operatorio, perdendo così i suoi organi.

Si scrive espianti “da cadavere”, benché i medici siano i primi a sapere che dove c’è un cadavere non c’è più, per definizione, la possibilità di prelevare organi trapiantabili. Le manipolazioni di Big Pharma mietono milioni di vittime nel mondo. Da quando ci si è resi conto che la definizione di morte cerebrale non rappresentava un confine netto, bensì un rilievo scientifico del tutto opinabile, la macchina dei reparti, dei primariati, delle corsie e soprattutto quella dei farmaci antirigetto, era già partita e non si è più fermata. La ciclosporina, unico farmaco antirigetto, è un brevetto esclusivo della Novartis, un gigante dell’economia mondiale. Sarebbe bene che i potenziali donatori , o chi per loro, venissero meglio informati , meno fuorviati e maggiormente tutelati.

La vita vale ben poco rispetto agli interessi delle élites finanziarie internazionali, le stesse che decidono il destino dei nostri governi.

 

Roberto Fantini
“Vivi o morti? Morte cerebrale e trapianto di organi: certezze vere e false, dubbi e interrogativi”
Ed. Efesto

Quando la vita è solo un’opinione

 

Secondo la Commissione dell’Università di Harvard del 1968, un individuo èmorto quando il suo cervello smette di manifestare attività registrabili, anche se continua ad avere il cuore battente, polmoni respiranti, reni drenanti. Questa nuova definizione di morte, che da quel momento ha reso possibile il trapianto di organi, favorisce il commercio di organi che spesso vengono prelevati da persone disperate, povere, e soprattutto favorisce, in certi paesi, il rapimento di persone, specialmente bambini, spesso per curare le malattie dei ricchi. In sostanza i soggetti in morte cerebrale serviranno a rispondere alle domande dei trapianti d’organo, (che ormai è un vero business) o saranno utilizzati dalla sperimentazione medica.

E’ ormai ben documentata la vendita di reni in numerosi paesi d’Europa in un commercio che serve a procurare organi dai poveri per i ricchi malati.

Alcuni organi vengono venduti a somme considerevoli, un affare da milioni di dollari. Il traffico illegale di soli reni è stimato in 15.000 l’anno. Ci sono villaggi in Pakistan in cui a quasi tutti gli abitanti manca un rene.

Pare che l’espianto dei propri organi sia uno dei modi imposto dalla mafia ai migranti per pagarsi il tragitto nel canale di Sicilia.

Nessuno, compresi i trapiantisti avrebbe il coraggio di mettere in una bara una figlia che respiri, sia pure in modo assistito, che abbia il cuore ed il polso che battono, che abbia la cute rosea e calda e che magari possa condurre a termine una gravidanza, come si è verificato più volte.

Il genitore lascerebbe prolungare l’agonia del figlio per il vantaggio altrui? E’ consapevole che con la sua firma sta autorizzando ad asportare il cuore, il fegato, i reni di suo figlio morente con bisturi e sega elettrica, dissanguamento totale, evisceramento e sbudellamento? Che sarà somministrato un farmaco paralizzante per impedire le reazioni del corpo, movimenti degli arti e del tronco, mentre aumenta la frequenza del polso e della pressione arteriosa? I genitori che per spirito di altruismo e compassione verso il beneficiario decidono di donare gli organi dei propri figli sanno cosa sia l’espianto? Possono decidere per i propri figli senza poterli interpellare?

Anche nella consolazione che una parte del figlio vivrà in un altro , sono consapevoli, che stanno decidendo di donare ciò che non è di loro proprietà?

Centinaia di migliaia di persone in questi ultimi decenni sono state uccise con squartamento, e senza anestesia sulla base di un dogma che è risultato falso. Senza considerare se il paziente sarebbe stato o no consenziente.

Secondo le procedure in atto, un soggetto potrebbe essere dichiarato morto in alcuni paesi e in altri no. La stessa definizione di morte cerebrale può essere diversa da un paese ad un altro. Se una persona è ufficialmente morta i suoi organi non sono utilizzabili ai fini del trapianto; se invece sono

utilizzabili vuol dire che sono stati espiantati da una persona ancora in vita. Prelevare organi da un cadavere sarebbe del tutto inutile.

Anche quando viene dichiarata la cessazione irreversibile di ogni attività encefalica (cervello, cervelletto e tronco encefalico), la morte cerebrale non costituisce la morte dell’intero individuo: se una gamba va in cancrena non si decreta la morte dell’individuo, anche se il paragone ha le sue distanze. Non solo filosofi e teologi ma nemmeno la comunità scientifica internazionale è concorde nel definire il concetto di morte cerebrale.

Quindi nel dubbio è molto meglio trattare da vivo un morto che un morto da vivo.In sostanza, la morte cerebrale non è sempre verificabile, mentre la morte cardiaca può essere reversibile in quanto sono stati trapiantati con successo cuori prelevati da pazienti in morte cardiaca. Molti sono gli episodi riportati dalla cronaca in cui persone in arresto cardiaco per parecchi minuti, come il noto giocatore inglese Fabrice Muamba che nel 2012 a 24 anni è rimasto in arresto cardiaco per 78 minuti, è poi tornato a vivere.

Con l’espianto degli organi non solo i congiunti non possono avere la consolante possibilità di stare vicino alla persona amata negli ultimi istanti della sua esistenza, ma quale conforto possono avere nel recarsi sul luogo dove sono sepolti solo i resti di una persona espiantata?

Inoltre. In quale momento avviene il congiungimento o il distacco dell’anima dal corpo? E’ possibile definire il confine esatto tra la vita e la morte? In quale momento ognuno di noi inizia ad esistere, nel momento del concepimento? Lo spermatozoo con l’ovocita non sono forse potenzialmente portatori di vita? E l’individuo non inizia forse a morire dal momento stesso in cui nasce? L’anima pervade ogni parte del corpo; nella dimensione trascendente, quale sarà il destino di una persona alla quale sono stati estratti gli organi interni? Ogni individuo è unico nel suo genere, come unici sono i suoi organi, che in nessun caso sono spiritualmente compatibili con un altro individuo.

Non è nella nostra visione delle cose condividere l’espianto di organi, dal momento che tale pratica favorisce la cultura sintomatologica trascurando le cause che determinano le malattie che nella maggior parte dei casi sarebbero evitabili con un corretto stile di vita. Nei casi in cui invece è un incidente a causare il coma irreversibile, oppure una malattia genetica, allora è necessario che una persona stabilisca nel pieno delle sue facoltà mentali se consentire o no l’espianto dei suoi organi e solo dopo essere stato informato della pratica attuazione dell’espianto. In questi casi la domanda dovrebbe essere: sei disponibile a donare i tuoi organi se ti trovassi in coma irreversibile ma con circolazione in atto, respirazione e cuore battente?

(Spunti tratti dal libro di Roberto Fantini “Vivi o morti? Morte cerebrale e trapianto di organi: certezze vere e false, dubbi e interrogativi. Edizioni Efesto)

Conversazione con Patrizio Gonnella, presidente di Antigone

 

E’ mia convinzione che, all’interno di una comunità civile moralmente evoluta, l’evento tragico di un suicidio dovrebbe essere avvertito come una ferita profonda, come una mutilazione, come un collettivo fallimento etico e politico. Quando un membro della grande famiglia umana, cioè, sceglie di rifiutare la vita, dovremmo sempre sentirci tutti colpiti e tutti chiamati ad interrogarci sulla sofferenza, sulla solitudine, sulla disperazione che non abbiamo saputo o voluto scorgere e alleviare. Sofferenza, solitudine e disperazione che, probabilmente, per disattenzione, per pigrizia, per chiusura mentale, non abbiamo saputo percepire o, addirittura, direttamente o indirettamente, abbiamo contribuito a creare.

E questo sentimento di responsabilità dovrebbe essere avvertito ancora più spiccatamente quando, a strapparsi la vita di dosso, sono persone affidate alle istituzioni, persone sotto il pieno controllo dello Stato.

Ma le morti in carcere fanno, in genere, scarso clamore. Finiscono spesso per essere guardate con indifferenza, se non addirittura con un compiaciuto pizzico di sollievo e soddisfazione. Assai raramente, ci si sofferma a riflettere sull’entità e sulle responsabilità del fenomeno, nonché a riflettere sui numeri oltremodo inquietanti che ci provengono da dietro le sbarre: 44 suicidi nel 2014 e 22 fino al 20 luglio 2015; 6.919 detenuti coinvolti in atti di autolesionismo nello scorso anno e ben 933 che hanno tentato il suicidio e sono stati salvati dai poliziotti penitenziari. A Regina Coeli, carcere storico della capitale, in particolare, la situazione appare estremamente allarmante: si lamentano 250 agenti in meno rispetto all’organico previsto e 200 unità distaccate presso il Tribunale, la Corte di Cassazione, ecc … (fonte: Sappe). Al fine di tentare di delineare un corretto quadro della situazione abbiamo interpellato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

 

Nelle nostre  carceri, si continua a morire. Ancora suicidi, ancora troppi suicidi. Eventi inevitabili, potremmo dire “fisiologici” del sistema carcerario in quanto tale o qualcosa da mettere in relazione alle ben precise condizioni del nostro attuale sistema carcerario?

- Il numero dei suicidi e delle morte naturali è in linea con il dato europeo. Non è questa una specificità italiana. Negli ultimi anni il dato è sempre stato costante e proporzionato al numero dei detenuti presenti. Tutto questo non ci impedisce di affermare che ogni suicidio, pur quello legato a scelte di disperazione personale, è anche una sconfitta per il sistema dell'accoglienza in carcere, incapace di far cambiare un'intenzione così tragica.

-          L’Unione  delle Camere Penali italiane (http://www.camerepenali.it/news/6318/IN-POCHE-ORE-DUE-SUICIDI-A-REGINA-COELI.html), a proposito degli ultimi casi, ha parlato di “morti annunciate”, mentre Santi Consolo, capo del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), preferisce parlare di “triste coincidenza”. (Il Messaggero, 22 luglio 2015, p.13, intervista di Silvia Barocci)

 

Tu che ne pensi?

- Regina Coeli, carcere romano dove ci sono stati due suicidi in due giorni, è un istituto ben gestito dove la direzione sta sperimentando un'ipotesi di gestione più aperta in modo da assicurare maggiore socialità durante le giornate di detenzione. Purtroppo, questo modello avanzato non era applicato nel reparto dove erano ristretti i due detenuti suicidi. Quello è un “reparto nuovi giunti” dove i detenuti sono tendenzialmente chiusi tutto il giorno in cella. Speriamo che ora cambino le regole, rendendole più flessibili. Il detenuto deve essere sostenuto nelle prime giornate di carcerazione. Quelli sono i momenti più difficili, pieni di rimorso e vuoti di speranza.

 

-         L’ex garante per i detenuti Angiolo Marroni sostiene che la struttura del carcere di Regina Coeli sarebbe in sé e per sé inadeguata e che meriterebbe, pertanto, di essere chiusa. Giudizio realistico o esageratamente severo?

- Non sono d'accordo. Regina Coeli, pur essendo un carcere antico con tanti problemi logistici, è in pieno centro. La sua ubicazione consente maggiori contatti con difensori, parenti, amici. Un carcere periferico è spesso un carcere destinato all'isolamento sociale.

 

-         Una cosa che, molto spesso, non viene sufficientemente sottolineata è che, accanto ai suicidi attuati, ce ne sono moltissimi altri scongiurati grazie all’intervento del personale penitenziario. Non credi che questi servitori dello Stato meriterebbero una maggiore considerazione e che il loro impegno meriterebbe di essere meglio conosciuto ed apprezzato?

- Sono totalmente d'accordo. Lo staff penitenziario svolge un lavoro straordinario. Dalla loro gratificazione sociale ed economica dipende la qualità della vita in un carcere. Vanno prese misure in questa direzione. In particolare, i media devono assumersi questa responsabilità. Detto questo, i sindacati autonomi di polizia penitenziaria non devono costituire una resistenza a ipotesi di ammodernamento della vita in carcere e non devono difendere in modo corporativo chi fuoriesce dal solco della legge.

 

-         A che punto sono i progetti di miglioramento delle condizioni delle nostre carceri? Stiamo finalmente cercando di rispettare gli impegni e i richiami internazionali? E cosa rimane, soprattutto, da fare?

- Prima della condanna europea del gennaio 2013 i detenuti erano 68 mila. Oggi sono 53 mila. Di conseguenza, le condizioni di vita sono migliorate indubbiamente. Sono stati assunti provvedimenti tesi a ridurre l'impatto della custodia cautelare, a rilanciare le misure alternative alla detenzione. Non devono essere fatti passi indietro altrimenti è facile tornare nella melma e nell'ammasso di corpi.


Conversazione con Viviana Isernia, per provare a non perdere la ragione e il senso della realtà

 

Nel nostro Paese, in questi ultime settimane, a proposito della questione-immigrazione, si sono verificati episodi assai inquietanti.
In più circostanze, gruppi di cittadini, più o meno infiltrati e/o capeggiati da organizzazioni di estrema destra, hanno manifestato, con grande risonanza mediatica, la loro opposizione all'insediamento di migranti sul proprio territorio, previsto da direttive governative.
Cosa dobbiamo pensare a proposito di tali episodi?
Spontanea esplosione di rabbia popolare in zone in cui già le condizioni di vita quotidiane risultano particolarmente difficili?
Fenomeni di isteria collettiva prodotti da un allarmismo politico-mediatico che ingigantisce e deforma la realtà, in maniera inesorabilmente ansiogena?
Squallide manovre politiche per generare ulteriore esasperazione popolare e gettare fango sulle forze governative e sulle stesse istituzioni democratiche?

Abbiamo sottoposto questi nostri interrogativi a Viviana Isernia, cultrice di studi arabo-islamici e responsabile della circoscrizione Lazio di Amnesty International.

-          Viviana che tipo di lettura proponi in merito agli episodi di “rivolta popolare” di fronte ai nuovi arrivi di immigrati nel nostro territorio?

Sicuramente esiste poca informazione sui dati reali dell'immigrazione in Italia (e nel mondo) e la non conoscenza è un ottimo focolaio per organizzazioni/associazioni che influenzano i singoli cittadini ad avere paura della presenza degli immigrati, senza pensare che questi ultimi sono degli esseri umani come tutti noi e che, per tale semplicissimo motivo, debbono veder garantiti i loro diritti.

Gli episodi di incitamento all'odio di queste ultime settimane sono relativamente pochi rispetto agli episodi di accoglienza e solidarietà. Purtroppo i primi risultano più popolari. Bisognerebbe iniziare in primis a "educare" i giornalisti stessi contro stereotipi e pregiudizi.

 

-          In che senso parli di mancanza di adeguata conoscenza del fenomeno?

 

Innanzitutto è necessario "combattere" gli stereotipi e pregiudizi nei confronti dei migranti che arrivano nel nostro Paese. Le comunicazioni date dagli organi di informazione danno una sproporzionata attenzione agli arrivi in mare, associandoli alla criminalizzazione dei migranti, suggerendo un nesso logico tra l'ingresso irregolare, il soggiorno irregolare e la criminalità.

In uno degli episodi di intolleranza scatenatosi in un quartiere a nord di Roma, alcune persone hanno dichiarato: "Devo difendere i miei figli affinché non vengano stuprati". Queste frasi, se fomentate dagli stessi organi di informazione, possono causare solo altro odio. La paura della criminalità crea un senso di insicurezza e diffidenza nei confronti dell'Altro.

Tra i "luoghi comuni" più comuni (scusa il gioco di parole) nei loro confronti, è che siano tutti irregolari, che costituiscano un costo eccessivo per lo Stato, che rubino il lavoro ai nostri figli e che siano tutti di religione musulmana.

In realtà, la maggior parte di loro è di religione cristiana o ortodossa, i contributi e le tasse che pagano fanno guadagnare allo Stato miliardi di euro, molti svolgono lavori che oramai un italiano mette all'ultimo posto come risorsa (es. nelle campagne dove vengono sfruttati e sottopagati).

Infine, va tenuto presente che la maggior parte degli stranieri è entrata in Italia con regolare documentazione, scivolando poi, per diversi motivi, nella condizione di “irregolarità”.

 

-          E in che senso occorrerebbe “educare” il mondo dell’informazione? E chi dovrebbe/potrebbe farlo?

 

L'"educazione" del mondo dell'informazione dovrebbe essere svolta in primis dalle Istituzioni con l'aiuto di organizzazioni e associazioni che ogni giorno svolgono indagini, ricerche e sono al fianco dei migranti quando sbarcano sulle nostre coste.

In che modo? Partendo dal basso. Partendo dall'uso della giusta terminologia (esiste, ad esempio, un glossario-vademecum delle parole messe al bando, adottato dall'Ordine dei Giornalisti dell'Emilia Romagna, in cui viene spiegato perché quel dato termine non deve essere usato in quanto discriminante e, successivamente, viene fornita l'alternativa).

Poi, basta solo documentarsi un po' di più. E non solo da parte degli organi di informazione, ma anche da parte della cosiddetta gente comune.

-          In un suo recente rapporto, Amnesty International afferma che: "Ciò che continua a spingere rifugiati e migranti a intraprendere la rischiosa traversata del mare è dunque una combinazione di più fattori: l’insicurezza, che costringe le persone a lasciare il proprio paese d’origine o i vicini paesi ospitanti, la chiusura delle frontiere terrestri da parte dei governi europei e la mancanza di volontà di offrire sufficienti percorsi legali e sicuri. I governi europei, le cui politiche hanno progressivamente contribuito a generare questo genere di flussi, non possono sottrarsi al loro dovere di salvare le vite di coloro che, spinti dalla disperazione, decidono di tentare comunque la traversata."

(http://www.amnesty.it/flex/FixedPages/pdf/rapporto-europa-affonda-vergogna.pdf)

 

- In che senso le politiche europee avrebbero contribuito nella generazione dei flussi migratori? E cosa concretamente dovrebbero fare i governi europei per salvare le vite in pericolo dei migranti?

 

Consiglio di leggere tutto il rapporto di Amnesty sopra citato e utilizzarlo come strumento di "educazione/informazione", ripensando alla domanda precedente.

 Le alternative che i governi europei offrono per i migranti sono molto limitate. Vi mostro alcuni esempi: sono scarsamente previste azioni di reinsediamento tanto quanto sono limitati gli ingressi per motivi umanitari. In molti Paesi sono chiuse le vie di accesso via terra, aumentando quindi il flusso migratorio ( e le morti) via mare. Sono abituali i respingimenti in Macedonia, Grecia, Bulgaria contro persone che necessitano di protezione internazionale. L'ingresso in Spagna sul territorio marocchino è sbarrato da un muro alto metri e metri con filo spinato e recinzione elettrica.

I governi europei, per salvare le vite dei migranti, dovrebbero lanciare con urgenza una operazione umanitaria multinazionale con l'unico DSCN0977obiettivo di salvare le vite nel Mare Mediterraneo; la Commissione Europea dovrebbe garantire a Italia e Malta, ovvero i Paesi con più alta percentuale di sbarchi, un sostegno finanziario e logistico; infine, bisognerebbe aumentare i progetti di reinsediamento.

Ma il problema, a mio avviso, non è solo causato dalle politiche europee, bensì dalle politiche di ogni Stato del Medio Oriente e Nord Africa da cui donne, uomini e bambini, scappano ogni giorno.

Ci chiediamo mai seriamente perché queste persone rischiano la vita di loro stessi e dei propri cari, sborsando ingenti quantità di denaro per un viaggio illegale?

 

 

Viviana Isernia

 




 

                              

Un villaggio, bambini che giocano nei pressi di un fiume.

Dove siamo? Iraq, Afghanistan, Siria … oppure?

Un attimo e tutto cambia. Le prime esplosioni, le urla, la fuga.

Il bimbo Akim vede cancellata per sempre l’epoca felice dei giochi, delle amicizie, della serenità familiare.

Fugge, come tutti. Fugge lontano, oltre la frontiera, nella terra di altri, dove vivono altre persone … sperando nel loro aiuto …

Akim corre è un libro attraversato da un lirismo sottile che si nutre di poche parole e di molti efficacissimi disegni. Un libro che può aiutare a non dimenticare che la guerra è sempre (e oggi più che mai) contro i bambini e i loro giochi, contro le loro case, contro le loro famiglie. E’ contro i corpi fragili dei bimbi, ovunque nati e da chiunque nati, è contro i loro sogni, le loro aurorali fantasie, contro la loro anima che ha appena iniziato a viaggiare in questo mondo impazzito e feroce …

Un libro che può esserci di aiuto per ricordare che gli ordigni bellici, i loro produttori, i loro mercanti, i loro utilizzatori fanno parte di un’unica colossale macchina dispensatrice di morte che ha e avrà come bersaglio bambini nati per amare, case nate per proteggere, famiglie nate per donare il sorriso.

Akim corre è patrocinato dalla sezione italiana di Amnesty International, associazione da sempre schierata dalla parte dei diritti umani e oggi in prima linea per difendere il diritto d’asilo e di accoglienza in ogni luogo del mondo.

 

Claude K.Dubois
AKIM CORRE
Babalibri, Milano 2014

 

 

Conversazione con Silvia Cutrera*, su disabilità e diritti negati

 

   Sono senza dubbio innumerevoli gli aspetti della realtà di cui continuiamo a sapere sempre molto poco. E ciò riguarda soprattutto quegli aspetti in cui vive maggiormente il dolore, in cui più facilmente possiamo incontrare immagini non gradite, problemi troppo impegnativi e, pertanto, irritantemente scomodi.

Va a finire, così, che troppo spesso ci rifugiamo in rappresentazioni del mondo in cui ben poco spazio rimane per le questioni aperte, spinose e imbarazzanti … E che, di conseguenza, si preferisca adottare la strategia del non sapere, del non vedere, sfociante in quella del non pensare.

Ben vengano, quindi, tutte le opportunità in grado di aiutarci a non restare barricati nel nostro piccolo mondo, capaci di metterci in contatto con i vari volti dell’esistenza, senza censure ed edulcorazioni.

La mia storia ti appartiene, volume curato da Silvia Cutrera e Vittorio Pavoncello, è, proprio in tale prospettiva, uno strumento prezioso. Ci costringe, infatti, a ricordarci quanto il problema della disabilità non soltanto sia lontano dall’essere risolto, ma anche lontanissimo dall’essere onestamente affrontato.

Nonostante la Dichiarazione dell’ONU sui diritti dei portatori di handicap risalga oramai al 1975 (9 dicembre), ancora (a voler fare solo qualche esempio doloroso) il 50 % delle nostre scuole non è stato liberato dalle barriere architettoniche e ancora il tasso di disoccupazione delle persone con disabilità risulta 4 volte superiore a quello dei cosiddetti normodotati.

Eppure, gli enunciati del testo ONU del ’75 (indubbiamente uno dei documenti internazionali meno noti e meno rispettati) risultano di perentoria ineludibilità:

           Il portatore di handicap - si legge all’articolo 3 - ha un diritto connaturato al rispetto della sua dignità umana. Il portatore di handicap, quali che siano l’origine, la natura e la gravità delle sue difficoltà e deficienze, ha gli stessi diritti fondamentali dei suoi concittadini di pari età, il che comporta come primo e principale diritto quello di fruire , nella maggiore misura possibile, di un’esistenza dignitosa altrettanto ricca e normale.

E, in maniera più circostanziata, all’articolo 5 leggiamo che

            Il portatore di handicap ha diritto alle misure destinate a consentirgli la più ampia autonomia possibile.

Le espressioni   stessi diritti fondamentali e   esistenza dignitosa altrettanto ricca e normale, forniscono, infatti, direttive chiarissime e categoriche che ogni Stato desideroso di essere ritenuto veramente civile dovrebbe rispettare e prodigarsi a tradurre in realtà di fatto.

E ancora più esplicita e dettagliata risulta la Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità del 2006, soprattutto quando, all’articolo 3, afferma che il rispetto dovuto all’intrinseca dignità, all’autonomia individuale e all’indipendenza delle persone dovrebbe concretamente esprimersi nella non discriminazione; nella piena ed effettiva partecipazione ed inclusione nella società; nel rispetto per la differenza e nell’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa; nelle concrete pari opportunità e nella completa accessibilità.

Ma la vita delle persone con disabilità è ancora particolarmente affollata da ostacoli( a volte insormontabili ), da umiliazioni di ogni tipo e da sofferenze piccole e grandi. E’ ancora, cioè, una vita in cui una dignitosa autonomia personale appare essere troppo spesso una meta inarrivabile .

La mia storia ti appartiene ci ricorda tutto questo, facendo ricorso proprio alla voce diretta degli individui reali chiamati quotidianamente ad affrontare i mille problemi del vivere all’interno di una società fastidiosamente inospitale.

Si tratta, perciò, di un libro da accogliere con gratitudine, da leggere e da meditare. In esso, possiamo incontrare tante voci diverse di tante persone diverse, con problemi diversi. Voci in grado di aiutarci a rendere più flessibili, più labili le categorie spesso troppo rigide a cui facciamo ricorso per dividere e classificare gli esseri umani in gruppi e sottogruppi, in normali e non normali, ecc …

   Come ha scritto Vincenzo Falabella**

         Questo non è un semplice libro, è uno strumento per conoscere da vicino l’ampiezza della natura umana e l’imprevedibilità della vita, restituisce visibilità a esperienze sommerse o dimenticate, propone riflessioni che potranno produrre cambiamenti nel pensare e trattare la persona con disabilità. (p.14)

 

             A Silvia Cutrera, uno dei due ideatori e curatori del libro, abbiamo rivolto qualche domanda al fine di meglio comprendere il senso e le finalità dell’opera.

 

-          Il libro da te curato è una sorta di coro polifonico, un'opera che si compone dell'apporto di più individui che ci offrono le proprie meditazioni, le proprie esperienze, le proprie problematiche.
Quando è nato questo bel progetto editoriale? E cosa ti aspetti dalla sua realizzazione?

 

-          Il progetto è nato il 5 maggio 2014 in occasione della prima giornata europea per la Vita Indipendente indetta da Enil Europa (www.enil.eu) per protestare contro i tagli alla Disabilitá.
Avi e Fish Lazio con Ecad hanno organizzato un convegno presso la Sala Tirreno della Regione Lazio, durante il quale, oltre ad avere affrontato tematiche politico-sociali, si è data voce alle persone con disabilità che per l'occasione avevano accettato di scrivere e condividere aspetti della propria vita. La lettura di questi racconti è stata affidata a due attori che hanno saputo interpretare in modo drammaturgico quelle storie di vita.
Visto l'interesse suscitato, si é pensato di ampliare l'invito a scrivere, rivolgendosi a più persone con disabilità, attraverso l'annuncio sul web lanciato alla fine di giugno 2014 con scadenza al 10 settembre, con l'obiettivo di farne un libro.
I racconti descrivono le diverse disabilitá: intellettive, fisiche e sensoriali. Sono per lo più storie autobiografiche provenienti da tutta Italia jghje riguardano adulti e bambini.
Ritengo utile il libro per far conoscere l'ordinarietá di una condizione umana che, a causa dei pregiudizi sulla disabilità e delle risorse insufficienti, rende diseguali negando pari opportunità e diritti umani.

-          Nel tempo presente, per quanto concerne la "questione disabilità" è impossibile non riscontrare la distanza stellare esistente rispetto alle convinzioni culturali e ai comportamenti di qualche secolo (ma anche di qualche decennio) fa. Eppure, i problemi irrisolti sono ancora tutt'altro che pochi e tutt'altro che irrilevanti. Quali, secondo te, i più urgenti?

 

-          Problemi irrisolti e più urgenti:

Innanzitutto un cambiamento culturale nei confronti della disabilita, definita oggi dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità "un concetto in evoluzione". 

Abbiamo bisogno di uno sguardo diverso perché ogni persona con disabilità ha un proprio progetto di vita (ordinario o eccezionale, ottimo o mediocre, come tutti gli altri esseri umani) realizzabile in condizioni di pari opportunità e rispetto di diritti.

Dovrebbe essere garantita l'assistenza che rappresenta un livello essenziale delle prestazioni per ogni persona con disabilità.

Vanno poi maggiormente sviluppate politiche attive inclusive con l'obiettivo di favorire l'inclusione scolastica, l'occupazione, il poter abitare in autonomia ed esercitare il proprio diritto di cittadinanza.

Si desidera una società inclusiva, libera da barriere di ogni genere con un welfare di prossimità che contrasti forme di isolamento.

 

-          Simonetta, una delle autrici del libro, ha scritto che

             Si è disabili in rapporto a una funzione che si è in grado o non si è in grado di fare (non abilitati a, non messi in condizioni di). La disabilità è quindi relativa e può così essere intesa in un senso amplissimo. Siamo tutti in qualche maniera disabili perché nessuno sa e può fare tutto. Però tutti possiamo integrare le nostre disabilità se sommiamo le nostre abilità. (p.50)

Perché, a tuo avviso, parole di un rigore logico così lucido e, al contempo, tanto dense di saggezza, incontrano ancora tanta resistenza nell'essere accolte e condivise?

-          Chi ha una disabilitá è abituato a superare ostacoli. Quotidianamente ci si ritrova a cercare soluzioni a problemi di varia natura. Se le pcd fossero messe nella condizione di essere maggiormente ascoltate, tutti ne avrebbero beneficio. 


- Se potessi, almeno per un giorno, essere Sindaco di una città come Roma, quali urgentissimi provvedimenti prenderesti?

-          Se fossi il Sindaco di Roma? Aiuto!

Eviterei gli sprechi, toglierei sampietrini e buche, renderei più pulita e accessibile la cittá e includerei il tema disabilità in tutti gli assessorati. 

 

La mia storia ti appartiene. 50 persone con disabilità si raccontano
A cura di: Silvia Cutrera e Vittorio Pavoncello
Editore: Edizioni Progetto Cultura – dicembre 2014


*Presidente dell’Agenzia per la Vita Indipendente onlus di Roma.

**Presidente della Federazione Italiana Superamento Handicap e della Federazione delle persone con lesioni al midollo spinale.

 

 

 

 

   I VERSI DELLA POETESSA RADHIA CHEHAIBI DOPO LA STRAGE IN TUNISIA

di Viviana Isernia*

Originaria di Kairouan (Tunisia), vive nella città di Sousa. E' Membro delle Associazioni Educazione e famiglia e Madri in Tunisia. La sua poesia si volge alla ricerca di un Amore assoluto, nella esplorazione del sé e nell’analisi della condizione femminile. Parole preziose da custodire poiché sono segnali di un mondo ancora possibile.

Il suo stile è molto descrittivo, colmo di passione.  E' autrice di due raccolte, Città della Memoria e Caffè.

Nella raccolta Città della Memoria (in arabo  مُدُن  الذاكِرة  = Mùdun al-Dhakirah), il lettore può viaggiare con la fantasia, visitando città lontane o vicine e scoprire miti e leggende meravigliosi.

La raccolta dedicata al tema del caffè, invece, ripercorre la Primavera Araba scoppiata in Tunisia nel 2011.

Nel 2013 alcune sue poesie dedicate al caffè hanno vinto in Italia il primo premio dell'8° edizione del Premio Internazionale di Poesia Ali di Aliante - Edizioni Sparagna.

Scossa dall'ultimo episodio di terrorismo, ha voluto dedicare dei versi alla sua città.

                       Terrorismo

Insolitamente....

Il mattino è giunto scombussolato, senza luce

Al Diavolo non piace la luce

Approfittando delle tenebre / il mare ha sterminato

Poi, una pozza di sangue

Radhia Chehaibi.


 

* Viviana Isernia ha conseguito col massimo dei voti due lauree in Italia ( “Studi Arabo-Islamici e del Mediterraneo” e “Teoria e prassi della Traduzione Araba”) e una all'estero (“Lingua Araba Standard”).

Dal 2007 collabora come traduttrice di lingua araba presso case editrici, tribunali e agenzie di traduzione, dedicandosi anche alla divulgazione della letteratura (prosa e poesia) della Letteratura tunisina contemporanea arabofona.

 

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