L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Quando pensiamo ad una iniziazione ci viene in mente il passaggio dall'adolescenza all'età adulta o l'ingresso in una setta o in un culto misterico. Il percorso iniziatico nel nostro immaginario è connesso all'ingresso di un io (individuo) all'interno di in un noi (collettività).
I confini del mondo sfata questi presupposti parlando di un modo strettamente personale di superare se stessi e di diventare nuovi.
L'iniziazione passa attraverso differenti fasi: allontanamento dal consueto, impreparazione, paura, mascheramento, potenziamento dell'attenzione, morte rituale, rinascita.
Il merito di Sibaldi, come esegeta, è quello di invitare a ri-scoprire l'insegnamento di alcune parti della bibbia e dei vangeli attraverso l'etimologia ebraica, capace di dischiudere riflessioni fuori dal comune e profondamente attuali.
Un libro sull'iniziazione non poteva, quindi, non partire dalla Genesi, da Adamo, o meglio dall'adam, termine ebraico che indica l'umanità, ma anche, sciogliendo i significati delle singole lettere ebraiche: la potenzialità, le braccia del delta di un fiume e lo spazio circoscritto. Adam è la circolazione psichica delimitata, un limite che la psiche stessa non può vedere perché se ne potrà accorgere solo quando il confine sarà superato. L'iniziazione prevede che l'involucro venga infranto, che l'adam incontri l'adamah, l'invisibile.
Dio differenzia due facoltà dell'adam: ys cioè l'apparato razionale e l'isah, la donna, la moglie, che nelle lettere ebraiche assume il significato di capacità di conoscere l'invisibile. È l'isah a guidare l'ys fino all'albero della conoscenza.
In realtà e' all'adam che YHWH vieta la conoscenza non all'ys. Dio rimprovera l'adam, per la disobbedienza, e non l'ys.
Il messaggio iniziatico si ritrova anche nelle fiabe classiche.
L'autore ci accompagna nella ri-scoperta di Aladino, dove l'isah è rappresentata dal Genio, e l'allontanamento dal consueto passa attraverso l'atto dell'accorgersi. È l'accorgersi che interrompe il dialogo interiore e tutta la realtà che esso permetteva di vedere, e che diventa poca.
Cappuccetto rosso indossa l'adam in testa, nel cappuccio, e lo abbandona lasciando la casa della madre, ma anche passando attraverso la maschera della nonna-lupo e la morte rituale all'interno del felino.
L'iniziato saprà allora che la nonna non è e non è mai stata soltanto la nonna, bensì una sacerdotessa che ha voluto presentarsi come nonna prima e come Lupo poi; e scoprirà ben presto che il Cacciatore è quel che lui stesso ha imparato a diventare, nel buio del ventre del Lupo.
L'iniziazione di Cenerentola presuppone l'abbandono del focolare e del grembiule.
Cenerentola, cenere, il rischio del rogo. È una che conosce i segreti: è una strega.
La nostra capacità di conoscere le cose invisibili poggia un piede nel mondo noto, l'altro piede è scalzo, perché cammina in un'altra dimensione.
La bara di Biancaneve è anche la bolla/specchio dalla quale aveva guardato il mondo finora; la sua iniziazione è favorita dai sacerdoti-nani.
Pinocchio è una favola cabalistica iniziatica piena di simboli e “botole” semantiche da aprire, a partire dal suo principio ”C'era una volta un pezzo di legno” (tz ebraico è il legno ma anche l'albero-crescita).
Amleto, il Conte di Montecristo, Jekyll e Hyde sono le altre storie che l'autore indaga e svela da un punto di vista iniziatico, tornando poi indietro nel tempo al mito egizio di Thot-Hermes.
Un libro che si pone come coraggioso esempio di revisione e riscoperta di nuovi inaspettati significati all'interno del conosciuto, per aprire la strada all'altro, all'oltre, all'inaspettato.
IGOR SIBALDI
I CONFINI DEL MONDO:STORIE E DINAMICHE DELL'INIZIAZIONE PERSONALE
ARTE DI ESSERE 2015
La nostra biografia, cioè le esperienze che plasmano la vita, diventa la nostra biologia.
Le relazioni, gli eventi traumatici, gli atteggiamenti, le fedi e le superstizioni vengono codificate e immagazzinate dal sistema cellulare. I pensieri entrano nel corpo sotto forma di energia. C'è equivalenza tra energia e potere: il potere fa da mediatore tra il nostro mondo interiore e quello esteriore, comunicando attraverso il linguaggio del mito e dei simboli.
Denaro, sicurezza, bellezza, autorità, lavoro: ognuno si costruisce simboli di potere, ai quali è associata una controparte biologica; è necessario identificare quali sono i nostri simboli di potere e il linguaggio metaforico che utilizziamo per descrivere il loro effetto su di noi. L'ascolto del corpo e dei suoi messaggi è già una strumento per comprendere a fondo le questioni mentali ed emotive sulle quali dobbiamo lavorare.
La cura è passiva, mentre la guarigione è un processo attivo. La guarigione non può prescindere dal recupero del potere personale e da un re-indirizzamento di tale potere. Questo potere è dato dalla nostra capacità di scegliere in ogni momento quali sono le direzioni da prendere.
Ogni essere vivente vibra di energia carica di informazioni; queste informazioni possono essere percepite dall'intuizione ed espresse in modo simbolico.
Dalla tradizione orientale proviene il sistema dei 7 chakra o centri energetici: a questi l'autrice collega i 7 sacramenti cristiani visti nel loro ambito simbolico: battesimo, comunione, cresima, matrimonio, confessione, ordine ed estrema unzione. Caroline Myss dipana questi 7 centri di potere all'interno delle 10 sephirot dell'albero cabalistico. Le dieci sephirot sono le qualità del divino che costituiscono anche l'archetipo dell'essere umano. Chakra, sacramenti, cabala: 3 sistemi di pensieri si incontrano per fornirci strumenti di guarigione spirituale
Fondere le tradizioni induista, buddhista, cristiana ed ebraica in un complesso ordinato e dotato di verità sacre comuni significa creare un potente sistema di orientamento capace di elevare la nostra mente e il nostro corpo, e di mostrarci come gestire lo spirito del mondo.
Il primo livello riflette il nostro attaccamento alla tribù, intesa come famiglia o gruppo originario, il secondo livello amplia la sfera energetica alle relazioni personali e alla comunità, il terzo livello ci indica il livello di autostima e di rispetto di sé, il quarto livello esce dalla sfera concreta per iniziare un percorso nel divino.
Ricerca dell'approvazione, rabbia, incapacità di perdonare, persone che sentono il bisogno di controllare, sentirsi legato a qualcuno o qualcosa ci rendono acquisitori di potere dall'esterno togliendo energia dal campo magnetico corporeo per indirizzarla all'esterno.
Il libro offre domande per comprendere gli schemi di pensiero associati ai 7 livelli e delle meditazioni quotidiane per auto-valutare la propria condizione energetica.
La cosa importante non è tanto il tipo di cambiamento quanto la decisione di modificare quegli aspetti della nostra vita che ci impediscono di guarire.
Caroline Myss
Anatomia dello spirito: I sette livelli del potere personale
Anima edizioni 2011
Asclepio è il dio, o meglio il semidio della medicina. Secondo Pindaro è figlio di Apollo e Coronide e fu istruito all'arte della cura dal centauro Chirone, a sua volta figlio di Zeus e della ninfa Filira, poi tramutata in tiglio. La medicina nasce incorporata alla sfera religiosa per distaccarsene con Ippocrate. Nel nome Ascelpio è contenuta la parola epios che significa “dolcemente”, poiché dolce era la sua cura.
Salute e malattia erano emanazione diretta delle divinità, che, inviandole, premiavano o sanzionavano i comportamenti degli uomini.
La medicina antica integrava in sé l'aspetto rituale, caratterizzato da gesti, preghiere, incantesimi. Una medicina legata ad Apollo ma anche ad Atena e alla gorgone Medusa. Fu la dea a trasferire in Asclepio le vene di Medusa, quella adibita a guarire e quella adibita alla morte; la superbia del dio fu quella di utilizzare la vena che guarisce anche per resuscitare i morti, riuscendo a superare persino il padre Apollo.
In suo onore furono costruiti templi, detti Asklepieia, nei quali i sacerdoti apportavano la guarigione praticando la chirurgia e la fitoterapia; nella parte del tempio detta abaton i visitatori dormivano a terra nella speranza che il dio stesso comparisse loro, in sogno, a consigliare il rimedio. Nel tempio circolavano liberamente cani, serpenti e oche, animali a lui cari.
Chi beneficiava della cura lasciava scritto nel tempio quali rimedi erano stati seguiti e quale parte del corpo era stata coinvolta.
Sia Plino il Vecchio che Strabone riportano la notizia secondo la quale Ippocrate avrebbe ricopiato i documenti che i visitatori lasciavano negli Asklepieia, documenti che riportavano il rimedio suggerito loro dal dio, per poi dar fuoco al tempio, in modo da istituire una forma di medicina detta clinica.
Secondo Celso fu Ippocrate a staccare la filosofia dalla medicina che venne divisa, così, in differenti branche: diaiteike (cura attarveros il cibo), pharmaka (cura attraverso le erbe) e chirurgia.
Il saggio di Squillace passa in rassegna anche i botanici antichi e i medici di corte, per poi approfondire i medicamenti.
Olio, vino, aceto e miele erano utilizzati sia per le estrazioni dei principi attivi delle piante, sia come rimedi di per sé. La farmacopea era composta da vari tipi di rimedi,: frizioni, colliri, decotti, cataplasmi, fomenti, malagmi, impiastri, unguenti, pessari...
La parte finale del libro indaga le piante utilizzate, e un capitolo a parte riguarda la cosmetica, dal verbo kosmeo che indica il “mettere in ordine”, portare il cosmo nell'aspetto esteriore.
Le numerose immagini tratte dell'arte antica, fanno de I balsami di Afrodite un'opera preziosa.
Giuseppe Squillace
I balsami di Afrodite: Medici malattie e farmaci nel mondo antico
Aboca 2015
Per (ri)leggere un pensatore che ha immaginato, diffuso e messo in pratica un nuovo modo di intendere l'individuo e la società
Sintetico ed efficace, il nuovo libro di Roberto Fantini invita a scoprire o a riscoprire (per i pochi che lo conoscono già) il filosofo italiano Aldo Capitini (1899-1968), che alla brutalità irrazionale del fascismo oppose la ragionevolezza della nonviolenza. Il rifiuto della retorica e dell'etica fasciste, infatti, era per lui parte integrante del distacco sempre più profondo “da una civiltà che valuta positivamente soltanto chi fa, chi rende, chi è forte, chi è attivo”. Un discorso che, a settant'anni dalla “liberazione”, calza a pennello anche alle nostre cosiddette democrazie, il cui unico imperativo indiscutibile (malgrado i princìpi sanciti dalle varie costituzioni, in primo luogo da quella italiana) è tenere in piedi il sistema economico capitalista, nonostante le sue crisi cicliche si siano finora sempre concluse con guerre e campagne di conquista tra il tragico e il grottesco. Per questo, fondando il Movimento liberalsocialista, Capitini intendeva “portare l'anima alla libertà e alla socialità della civiltà futura”, una civiltà senza sopraffazione e, più in generale, senza divisioni di partito, religione, etnia e persino senza distinzioni tra regni della natura. Una civiltà che, secondo lui, avrebbe dovuto progressivamente allargare i propri orizzonti, fino a comprendere il mondo animale (e – perché no? - vegetale) nella sfera di applicazione dell'imperativo categorico kantiano, che esorta a considerare l'umanità sempre come fine e mai semplicemente come mezzo. Tuttavia, la sua scelta di non aderire al Partito d'azione (nel quale era confluito il Movimento liberalsocialista) né ad alcuna formazione politica lo ha condannato a un progressivo isolamento, che ha impedito alla sua coerente e radicale opposizione al fascismo di avere la giusta risonanza.
Capitini scelse infatti di rifuggire dalle forme armate dell'antifascismo (nonostante il suo profondo rispetto della resistenza partigiana), identificando invece quest'ultimo con la spinta all'elaborazione non solo di una nuova società, ma soprattutto di un nuovo modello educativo, che tenesse conto del “lume acceso” di ogni individuo, delle sue peculiarità e del suo inalienabile diritto all'esistenza libera. Poiché dunque non esiste libertà senza responsabilità e partecipazione, nel 1944 Capitini iniziò a fondare i Centri di Orientamento Sociale (COS), “assemblee disseminate dappertutto... a equilibrare il fatto del potere dell'iniziativa autoritaria”. Queste strutture, erano concepite come strumento di denuncia delle diverse forme di ingiustizia e conformismo, ma anche come spazi di profonda “tramutazione” dell'individuo e, di conseguenza, della società. Come Rousseau, Capitini auspicava dunque la fondazione di una comunità aperta e in grado di formare i cittadini al confronto e alle responsabilità democratiche.
Ispirato al pensiero indiano, in particolare a Gandhi, il suo progetto di ri-fondazione pedagogica e sociale includeva la scelta della dieta vegetariana come radicale rifiuto della violenza e dell'ingiustizia tra simili. Occorre osservare che alla base della nonviolenza radicale di Capitini non c'è un semplice rispetto per forme di vita diverse dall'uomo, ma un profondo senso di unità di tutto l'essere, che lo condusse ad ampliare progressivamente il concetto di “prossimo” estendendolo al mondo animale e, successivamente, a tutti i viventi: “una compresenza di esseri aperti l'uno all'altro, tutti amati e liberi”. Quindi, il rifiuto di cibarsi di animali morti è parte integrante dello stesso progetto pedagogico che induce ad opporsi a ogni forma di violenza (fascismi e dogmatismi compresi), poiché da un lato esso spinge a “sottrarsi al gioco dell'abitudine, del tradizionalismo inerte, del conformismo”, dall'altro “uccidendo meno animali, diminuendo la faciloneria a riguardo di essi, si sarebbe acquistata una convinzione più profonda dell'importanza dell'esistenza degli esseri umani”. Una posizione analoga (ma portata alle sue estreme conseguenze) a quella espressa da Plutarco nel dialogo Sull'intelligenza degli animali, in cui la caccia e la macellazione vengono considerati fonte di crudeltà, che rendono l'uomo più feroce degli altri carnivori, per i quali (a differenza di quanto avviene per gli uomini) le prede sono un cibo necessario.
Il senso del progetto di riforma dell'uomo e della società elaborato da Capitini, inteso come un cammino di autocoscienza che si configura al contempo come coscienza dell'altro, quindi compresenza, non poteva non includere un'aspra polemica nei confronti del dogmatismo della Chiesa cattolica, colpevole, inoltre, di aver collaborato con la dittatura fascista. Di qui l'elaborazione di una religione “aperta”, che prevede la salvezza di tutti e nessuna dannazione: “non possiamo vivere con il privilegio che ci salveremo noi se crederemo ai dogmi e se seguiremo i sacramenti, mentre gli altri andranno all'inferno”. Pertanto, secondo Capitini, religione è, ad esempio, “assistere un moribondo, e sentire che quella persona non va nel nulla, ma, lasciato il suo corpo, si unisce all'intima presenza con tutti”. Ai sacramenti (ritualità formale), opponeva in tal modo una religiosità fatta di gesti e scelte quotidiane in direzione dell'apertura nei confronti dell'altro e dell'amore e dell'affratellamento universali. Una religiosità libera e liberante, che reca in sé concetti desunti dalla filosofia antica e moderna, dal pensiero cristiano e dalle tradizioni culturali orientali. La dottrina cattolica, invece, ha sempre adottato la categoria della “divisione” per mantenere il proprio potere assoluto, come fosse un impero. Tale conservatorismo sociale, peraltro, si fonda da sempre su affermazioni e princìpi inaccettabili sia a livello storico che a livello razionale: la nascita miracolosa di Gesù, il peccato originale, la differenza tra battezzati e non battezzati. La religione aperta proposta da Capitini prevede invece azioni concrete per la liberazione e la salvezza di tutti, tanto nel mondo terreno quanto dopo la morte, poiché, secondo lui, “ogni lotta per la libertà è lotta religiosa”. In tale immaginario, Dio non è considerato come creatore, ma come “totalità delle persone, dei soggetti, dei “tu”, dunque Dio amore”. Solo attraverso l'amore infatti tutti possono partecipare alla continua creazione collettiva dei valori, un'opera destinata a non finire mai. Ecco il senso della religione per Capitini, un'opera di perenne edificazione collettiva delle coscienze. Un pensiero che trova la sua massima espressione nel concetto di compresenza: “la compresenza unisce i vivi e i morti; la compresenza è di tutti, in essa ognuno ha la sua parte... è lo sviluppo del meglio... è eterna perché crescente... la felicità è dell'individuo, la beatitudine della compresenza”. Qui è la convergenza tra educazione religiosa ed educazione democratica, entrambe proiettate verso il loro fine ultimo, ovvero l'omnicrazia: “espressione di un'elevazione della coscienza collettiva”, per la quale ciascun individuo ha il suo spazio nella costruzione continua della società.
Aldo Capitini. La bellezza della luce, si configura dunque, al contempo, come spunto di riflessione teoretica ed etica, in virtù del legame indissolubile tra conoscenza e pratica, su cui mai è stato urgente riflettere come in questo periodo di conflitti e assurdi arroccamenti ideologici. Il libro, che si apre con una biografia sintetica di Capitini (necessaria per la comprensione del suo pensiero, essendo quest'ultimo un pensiero vissuto), affronta i tre nuclei fondamentali della sua filosofia, che sono al contempo i tre cardini inscindibilmente connessi della sua proposta di “società liberata”. Il primo è rappresentato da una scelta antifascista rigorosa e radicale in quanto si identifica con il rifiuto della violenza tout court, senza ammettere eccezioni. Il secondo è costituito invece dalla sua “eresia”, ovvero dalle proposte attualissime avanzate in merito alla religione. Per Capitini, infatti, la religione non è nei dogmi e negli articoli di fede, ma in un'azione che allarghi progressivamente l'orizzonte di fratellanza, culminando nella compresenza. Il terzo nucleo, infine, riguarda la scelta vegetariana, come espressione necessaria del senso di unità ed empatia con tutto l'universo vivente, inclusi, dunque, gli animali. Un cammino progressivo di riduzione del molteplice all'uno, prevedendo la possibilità che l'ottica di inclusione arrivi a comprendere anche il mondo vegetale.
Dal momento che tutte le divisioni che hanno lacerato l'umanità nella sua storia sembrano condurla sull'orlo dell'abisso della guerra permanente, il pensiero capitiniano potrebbe rappresentare una preziosa opportunità per ripensare con maggiore consapevolezza critica le relazioni dell'individuo con gli altri e con l'ambiente in cui vive.
Aldo Capitini. La bellezza della luce. Invito a (ri)scoprire il pensiero di un profeta della nonviolenza, antifascista, eretico, vegetariano
Libreria Efesto, Roma 2015
http://www.libreriaefesto.com/
Dicembre ( e giugno) sono mesi solstiziali.
I solstizi sono le due porte dell'anno: “la porta degli Dei” è il solstizio d'inverno, la “porta degli uomini” è quello estivo. Il dio delle porte nella religione romana era Giano, da Iunua (porta) sembra derivare non solo Giano, ma anche Giovanni: due sono infatti i “Giovanni” celebrati nella tradizione cristiana: Giovanni Battista (Il 24 Giugno) e Giovanni Evangelista (IL 27 Dicembre).
A dicembre si festeggia la nascita della luce, secondo tradizioni che spaziano nel tempo, ma anche nello spazio.
Il libro di Nino Modugno ci accompagna nella scoperta dei riti collettivi che ancora oggi sono celebrati in Italia e nel mondo.
Ecco qualche accenno ai riti praticati nei primi giorni del mese:
Il 5 dicembre si festeggia San Nicola, celebre sia per aver salvato dalla prostituzione tre ragazze senza dote, ma anche per aver salvato tre ragazzi da un oste che voleva cucinarli: così a San Nicola sono associati sia riti collegati al matrimonio, come quelli che accadono a Fermo, o a Bari, sia riti legati all'infanzia:in Croazia i bambini appendono alla finestra calze che il giorno dopo San Nicola riempirà di dolci, mentre i bambini di Sutrio o di Lublino (Polonia) lasciano le scarpe fuori dalla porta con la stessa intenzione.
Spostandoci verso Nord, Nicolaus diventa Claus (Babbo Natale) e l'asinello diventa renna. Ma in alcuni paesi in provincia di Belluno, Treviso, Gorizia si porgono ancora attenzioni all'asinello che trasportava San Nicola e all'animale si lasciano pane, o farina, o fieno, sale o carota. Per il santo, invece si lascia un bicchiere di vino o grappa, un panino, una frittella, o una fetta di formaggio.
Il 7 dicembre nelle Canarie e in America Latina, il diavolo è libero di circolare in modo che possa essere calpestato dalla Madonna il giorno successivo. Il giorno di Maria, nell'Italia centrale, ci si veste con un abito nuovo “ chi si cambia di Maria scampa la malattia”.
il 13 dicembre (Santa Lucia) a Sorrento si bacia il suolo, a Palombara Sabina ci si lava gli occhi con acqua benedetta. I riti proseguono scandendo il ritmo del mese di passaggio.
Ritmo è armonia, rito è religione nel senso di re- ligio, ri-legarsi al vivente.
Nino Modugno: Il mondo magico di Dicembre
Fefè editore 2009
Marco Mamone Capria* è autore-editore di un pregevole libro, Scienziati e laici. Per un controllo democratico della scienza, a cui non possiamo che augurare una sorte felice. Si tratta di un libro nato sulla scia delle varie esperienze condotte sia in ambiti accademici, sia in ambiti legati al mondo dell’associazionismo, e nato, soprattutto, dalla voglia di invitare i lettori a riflettere su numerose questioni raramente affrontate a livello mediatico, in modo da favorire lo sviluppo di “anticorpi permanenti contro gli usurati stereotipi” di quello che viene definito “scientismo reazionario” (qualcosa di assai diverso dalla onesta e preziosa “razionalità scientifica”).
Scienziati e laici, composto da tre capitoli che possono essere letti autonomamente uno dall’altro (in pratica, tre veri e propri libri in uno!), sostiene, in maniera puntigliosa, agguerrita e rigorosamente documentata, la necessità irrinunciabile di operare, nei confronti della scienza, da parte dei non-scienziati (i “laici”), un inesausto e caparbio esame critico relativamente ai suoi indirizzi (“su che cosa si debba finanziare la ricerca scientifica”), ai suoi metodi (“particolarmente che tipo di esperimenti la società è disposta a concedere di effettuare agli scienziati”) e ai suoi “prodotti finiti” (ovvero quanto viene presentato/esibito agli occhi del comune cittadino, come risultati conseguiti).
Il primo capitolo affronta la problematica in una prospettiva storico-epistemologica, trattando varie questioni relative al “come rendere gli scienziati più responsabili del loro operato nei riguardi delle società che li ospitano e finanziano.”
Il secondo capitolo è strutturato in forma dialogata e si cimenta su temi di straordinario interesse, sempre con un punto di vista originale, acuto e fuori da schemi prefissati e imposti (omeopatia, vaccinazioni, eugenismo, trapianti di organi, vivisezione, scienza e guerra, ecc.).
Il terzo capitolo, infine, “tratta del ruolo degli scienziati in uno degli episodi più drammatici e simbolici del secolo scorso: la decisione da parte del governo degli Stati Uniti di gettare le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki”, abnorme crimine contro l’umanità, troppo a lungo vergognosamente giustificato da ignobili architetture di menzogne.
Tutto il lavoro di Mamone Capria è attraversato da una vivida volontà di squarciare i veli dell’ipocrisia e dell’ignoranza, delle falsità stereotipate e delle “vulgate” abilmente progettate e diffuse (potremmo dire inoculate), riuscendo, anche grazie ad una scrittura appassionatamente pungente, a innescare, nonostante la complessità delle tematiche trattate, un indiscutibile coinvolgimento intellettuale e anche emozionale.
Bellissime ed eloquenti, in particolare, le considerazioni che incontriamo a conclusione dell’opera:
La conclusione da trarre è che senza una vigilanza costante da parte dei laici è irragionevole far affidamento sulla speranza che una data comunità scientifica riesca a sviluppare al proprio interno antidoti efficaci contro le peggiori derive antiumanitarie, qualora queste ne favoriscano, come è accaduto e accade in particolari congiunture storiche, una nuova apertura di credito da parte di governi e finanziatori privati.
Alle vittime della follia (ma con metodo) delle classi dirigenti, coscienziosamente assistite da decine di migliaia di scienziati disposti a lavorare allo sviluppo di armi di distruzione di massa, e vincolati da patti di segretezza su tutta una gamma di questioni connesse direttamente o indirettamente a questo tipo di ricerca, dobbiamo soprattutto un tipo di “memoria”: quella che, mettendo in guardia i popoli contro la soggezione alle élite politiche e scientifiche, serva a costruire un futuro in cui non sia più possibile il sacrificio di cittadini alle patologiche ambizioni di pochissimi e alla cecità indotta o volontaria della maggioranza.
*Marco Mamone Capria, ricercatore all’Università di Perugia, è dal 2001 coordinatore del progetto “Scienza e Democrazia/Science and Democracy” e dal 2007 presidente della Fondazione Hans Ruesch per una Medicina Senza Vivisezione. Tra i libri usciti a sua cura: La costruzione dell’immagine scientifica del mondo (1999), Scienza e democrazia (2003), Physics before and after Einstein (2005), Scienze , poteri e democrazia (2006), Science and the Citizen (2013).
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MARCO MAMONE CAPRIA
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si può ricorrere a Lulu.com:
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L'elenco non è esaustivo: per esempio da qui
il libro può essere inviato, spese postali incluse, per 17,96 euro.
Roberto Fantini
«Non posso guardare dall’altra parte, e fingere di non vedere quel che succede in Palestina»
Ernesto Marzano
Per più di mezzo secolo, dall’esodo palestinese del 1948, si sono versati i proverbiali fiumi d’inchiostro sulla questione tra Israele e Palestina. Tra sociologi, studiosi, giornalisti, politici, ministri, registi, documentaristi, quasi non esiste intellettuale che non abbia detto la sua, talvolta a sproposito, sulla Striscia di Gaza, su Israele, su Gerusalemme, sui palestinesi, su Abu Mazen o Reuven Rivlin. Molte le voci di comodo, quelle di parte, troppe quelle poco documentate e molte di meno invece le voci di intellettuali ben preparati, documentati e coraggiosi, e tra queste ultime c’è quella di Ernesto Marzano.
Marzano non è un uomo che cavalca l’onda del momento, quando trascinati dall’emotività e della moda molti si sentono ormai esperti di analisi mediorientali, ma è uno che si occupa della questione ormai da anni, parla con cognizione di causa, avendo già al suo attivo un curriculum che la metà basterebbe a qualsiasi scrittore. Già avvocato ed economista, forte di molte esperienze dirette sul campo, Marzano ha al suo attivo vari libri, tra i quali «Adolfo e Osama, figli di Abramo» il cui titolo provocatorio nasconde un’accurata analisi delle origini del conflitto tra palestinesi e israeliani. Discorso che Marzano riprende ora nel suo ultimo libro, dal titolo altrettanto provocatorio di «Israele, il killer che piange».
Un libro dalla nascita difficile, preso, abbandonato e ripreso più volte dall’autore, che nel realizzare quest’opera venne anche sconsigliato da colleghi e amici, vista la delicatezza dell’argomento trattato. Ostacoli che non hanno certo fermato l’onestà intellettuale di Marzano, che con uno stile ironico e provocatorio, e forte della sua conoscenza sull’argomento, ci guida in un interessante viaggio storico, sociologico e anche umano tra le varie sfumature del conflitto ideologico, religioso e militare tra Israele e Palestina.
Un viaggio variegato, tra accurate analisi storiche e religiose, aneddoti di viaggio, versioni romanzate di alcuni capitoli biblici e intelligenti riflessioni personali, in cui Marzano non fa sconti a nessuno, con una sincerità e una lucidità uniche. E si concede anche qualche capitolo «apocrifo» della Bibbia, nel quale espone in modo romanzato, ma accurato, alcuni episodi dei testi religiosi da un altro punto di vista. Molto coraggioso in certi passaggi, l’autore analizza poi la prepotente fame di espansione e di colonizzazione di Israele partendo dagli episodi del Pentateuco (i primi cinque libri della Bibbia) fino ad arrivare ai più recenti e drammatici avvenimenti, collegando in modo documentato e intelligente gli antichi rancori con i problemi di oggi.
Non manca una riflessione finale sui rapporti tra la questione Israele-Palestina e i media moderni. Un libro ben scritto, coraggioso, lucido, a tratti causticamente ironico, ben documentato al punto da non deludere uno specialista della materia, ma anche scorrevole, piacevole e originale nel voler proporre un insieme di elementi diversi, tra episodi biblici, aneddoti, analisi sociali e storiche, piccoli racconti e acute riflessioni dell’autore.
Emiliano Federico Caruso
Il primo approccio che si ha con Persefone non le rende giustizia: la si immagina fanciulla ingenua rapita e sofferente, nell'attesa del rincontro con la madre in primavera, quando per la gioia di tale unione la terra ricomincia a pulsare di vita. La si immagina violata e passiva, quasi suddita del dio degli inferi: questo testo di Elda Fossi è necessario per capire il messaggio di trasformazione profonda che Persefone sa trasmetterci.
Ho capito, crescendo, e vivendo spesso in contato con il dolore o il disagio psichico, quanto importante fosse Persefone sotto il profilo psicologico. Sarà poi lo studio e la comprensione dei misteri orfici a collocare Persefone centrale anche nel percorso spirituale.
Persefone è la parte di noi che porta alla crescita attraverso il contatto con le oscure regioni dell'inconscio.
Un percorso iniziatico che segna il passaggio da Kore, che significa semplicemente “fanciulla” a Persefone, Regina della luce, un percorso che trascende l'identità di genere.
Un libro che è oime e oimos, racconto e viaggio.
Ade con il suo rapimento ha salvato Persefone, facendola diventare quella che è.
La dimora di Ade è abitata dalle ombre che ci stanno addosso, ci chiedono di rinascere alla luce, ma che noi respingiamo, perché è troppo doloroso o troppo vergognoso, o troppo rischioso per farle vivere con noi nel mondo dei vivi. Ogni volta che cadono speranze e progetti, che viviamo tristezza o depressione, Ade viene a trovarci per chiederci di integrare questi momenti, per chiederci una nuova e più matura identità.
Il passaggio da Kore a Persefone avviene come atto traumatico che necessita di elaborazione sia nella madre che nella figlia, per tornare ad essere individui e non dividui, completi, e non mancanti. Una connessione che avviene attraverso Hermes, la comunicazione, la terapia verbale, il sintomo psicosomatico che scioglie il simbolo.
Accetto il nome che fa di me una donna, non più fanciulla senza nome.
Il suo compito nell'Ade è il più importante: dirigere le anime sulla via destra, verso la fonte di Mnemosine, come spose d'amore verso lo sposo promesso, per la comunione col divino o verso la via sinistra, quella del pioppo bianco, dove le anime torneranno a incarnarsi, dentro la ruota delle Moire.
È attraverso la Charis, la grazia, la cui luce illumina la legge della Retribuzione, che Persefone fa la sua scelta.
Ora che Persefone ha accettato il suo ruolo di regina, può fare la sua scelta personale: mangiare i chicchi di melograno che Ade le offre sul palmo della mano, per restare con lui per una parte dell'anno.
E Demetra? Con la maternità è divenuta doppia, Demetra e Kore, riversando nell'oblio la sua precedente sacralità. Demetra è la madre che non accetta che la figlia diventi altro da sé, che compia il suo cammino, è una madre che sa essere divorante e distruttiva.
Le madri sono porte per la venuta dei figli, non possono essere le loro case.
Quando si rincontrano per la prima volta la figlia non è più Kore, ma Persefone. E davanti alla domanda se Ade l'ha forzata a mangiare, Persefone risponde col silenzio, cosciente che i passi della separazione non possono che essere graduali.
Stava ripercorrendo, con il respiro, il ricordo di chi era stata, e i grandi poteri per cui era onorata. Poteri più grandi di quelli di Zeus, suo fratello, più antichi di quelli degli dei creati da Chronos, nel suo mondo ordinato, ma privo della Madre.
Una grande e profonda attualità è questo saggio di Elda Fossi, attraverso la vena poetica e narrativa arriva ad offrirci uno strumento di comprensione personale delle ombre che ci vivono e ci rendono vivi.
Elda Fossi
Persefone
La luce del buio
Moretti e Vitali 2010
Continua il viaggio attraverso i secoli dello scrittore spezzino –
Pronti per un altro straordinario viaggio attraverso secoli lontani e avvenimenti –ahinoi! – contemporanei ? Allora via, sulle ali della storico/fantasia butticchiana pronti a vivere emozioni che coinvolgeranno cuore e mente.
Ormai sembra quasi naturale, alle migliaia di appassionati lettori di Marco Buticchi, saltare come stambecchi dai nebulosi avvenimenti di un secolo lontano alle ipotesi inquietanti di un presente/futuro da incubo incombente. Pavidi e speranzosi, ficcando la testa sotto il cuscino, capita di sperare siano previsioni nate soprattutto dalla (un po’ sadica?) fantasia dello scrittore spezzino. Ma purtroppo non è così. Troppi accadimenti spaventosi e sinistri segnali ci avvisano che i giorni e gli anni a venire non saranno né facili né felici. Ma ci regge la speranza che - oggi come domani – ci sia e ci sarà sempre un Oswald Breil, potente e infallibile agente del Mossad coadiuvato dalla moglie la bella ricercatrice Sara Terracini– a combattere vittoriosamente battaglie, al limite dell’impossibile, per il trionfo del bene.
Si è ripetuto il solito cortocircuito tra l’ouverture e il finale di questo libro che, seguendo “Il segno dell’aquila”, ci ha fatto percorrere a perdifiato le quattrocentotrentadue pagine dell’ultimo lavoro di Buticchi. Documentato al massimo sui trascorsi di secoli lontani e su avvenimenti attuali che esamina e anatomizza con la puntigliosità di uno studioso e la determinata attenzione di un “microchirurgo” della scrittura, Buticchi, - più affascinante di Wilburg Smith, non solo nell’aspetto ma soprattutto nel costrutto letterario - ancora una volta è riuscito a fagocitarci nel gorgo delle sue fantasie storico/letterarie, dimostrando che non è necessario essere nato Oltremanica o Oltreoceano per raggiungere il traguardo, in crescendo, del milione di copie vendute.
La trama trascina il lettore in una corsa sincopata sulle montagne russe che accavallano tempo e spazio. Sotto l’ala maestosa di un’aquila reale, fedele amica di Vel – giovane nobile che vive a Tarquinia ai tempi del Superbo e che ha quale mortale nemico il figlio del Re, Sesto Tarquinio - si intrecciano amore fraterno e odio mortale. L’aquila neonata, salvata da morte sicura di Vel, una volta adulta saprà rendere il servizio al suo grande amico salvandogli a sua volta la vita. Ai tempi nostri, l’assassinio di una ricercatrice italiana a Rio de Janeiro, le fosche trame di un Monsignore corrotto, gli inconfessabili ma reali legami con il crudele esercito dell’Isis e la spasmodica ricerca di un antico sepolcro che contiene un cocchio, una chioccia e cinquemila pulcini d’oro massiccio, oggetto di brame ferocemente incontrollabili, formano la travolgente trama di un libro il cui grado di emozione raggiunge lo zenith.
(Marco Buticchi – “Il segno dell’Aquila” Edizioni Longanesi -Euro 18.60- collana “I maestri dell’avventura”).
Elisa Starace Pietroni
Si è conclusa sabato 12 settembre 2015 presso La Dolce Vita, all’interno del Country Club Tecariba a Latina, la prima edizione del premio internazionale di poesia “Città di Latina” organizzato dal Gruppo Editoriale EDU con il patrocinio del Comune e della provincia di Latina. Il premio prevedeva due sezioni, una per poesie inedite in lingua italiana e una sezione in vernacolo o in lingua estera. La giuria, presieduta da Michela Zanarella e composta da Biagio Proietti (sceneggiatore, regista e scrittore), Daniela Cattani Rusich (poetessa, scrittrice, editor), Alessandro Vizzino (scrittore, poeta, editor e direttore del gruppo editoriale EDU), Rossana Pessione (giornalista, scrittrice), Paolo Sarandrea (giornalista, direttore de Il Corriere di Latina), Ciro Pinto (scrittore e poeta), Gian Luca Campagna (giornalista, scrittore), Luisa Perlo (insegnante di letteratura, critica e docente di cinematografia), Nunzio Granato (pluripremiato poeta pontino), Rossella Gallucci (poetessa e scrittrice), ha letto e valutato ben centodiciannove opere di poeti provenienti da ogni regione d’Italia, che hanno partecipato al concorso mettendo alla prova le loro abilità scrittorie. Per la sezione in lingua italiana, dove l’affluenza è stata maggiore, sono state 45 le opere premiate e inserite in antologia, ben 10 premi speciali assegnati dalla giuria e sul podio tre autori che hanno convinto tutti. Primo classificato con la poesia “Ancora più forte” l’autore friulano Fabio Muccin, che non potendo essere presente alla cerimonia, si è collegato in video via Skipe e ha vissuto in diretta l’emozione della vittoria assoluta, seconda classificata con la poesia “Santi e peccatori” Valentina Colagrossi e terza classificata Alessandra Prospero con la poesia “Blue”. Fabio Muccin di Casarza, oltre alla targa e al diploma, ha vinto un contratto editoriale con Edizioni DrawUp. Nella sezione in vernacolo ha trionfato l’autore calabrese Bruno Salvatore Lucisano con la poesia “Mari”, che si è aggiudicato il contratto editoriale con DrawUp, ma anche l’applauso di tutti i presenti per la sua grande simpatia. Secondo classificato l’autore Angelo Ricotta con “Yo era”, che ha ottenuto anche il premio speciale del Presidente di Giuria, assegnato da Michela Zanarella. Al terzo posto della categoria in vernacolo Gaudenzio Vannozzi con la poesia “Er tempo”. Non sono mancati momenti di musica con l’animazione di Simone Atzeni e Monica Spinello, che si sono alternati cantando brani della buona musica italiana.
Sono intervenuti Gianluca Di Cocco, in qualità di già assessore al turismo del Comune di Latina, Angelo Orlando Tripodi, assessore alle politiche sociali, il Presidente della Free Lance International Press Virgilio Violo, la giornalista Irina Raskina, l’attore Giuseppe Lorin che ha letto le poesie dei vincitori. La cerimonia di premiazione è stata condotta magistralmente da Alessandro Vizzino coadiuvato da Adriana Giulia Vertucci, che hanno coordinato tutta la realizzazione del premio. Alla cerimonia hanno preso parte autori di ogni parte d’Italia, dal Veneto alla Sicilia e questo ha dato enorme valore al concorso e al successo della serata, dove la vera vincitrice è stata la poesia, che è riuscita a riunire voci diverse di grande talento.
Gli organizzatori già sono pronti per l’edizione 2016 del premio!
“Gabriele d’Annunzio e la figlia Renata. Carteggio inedito (1897-1937)”. Grande esperto di Gabriele d’Annunzio, Franco Di Tizio, teatino, medico umanista, studioso del Cenacolo michettiano e principalmente dannunzista, mercoledì 9 settembre u.s., presso il Museo Casa natale Gabriele d’Annunzio, a Pescara, ha presentato l’ultima sua fatica.
Quest’ultimo lavoro rappresenta la ricerca che da anni Di Tizio svolge sui rapporti che il Vate intrattenne con la propria prole. Nel carteggio inedito (1897-1937), l’autore riferisce di alcuni aspetti sconosciuti della personalità di d’Annunzio ed in particolare riporta l’affettuoso rapporto con la figlia Renata, sua prediletta, nota con il vezzeggiativo di “Cicciuzza”, nata dalla relazione con Maria Gravina Cruyllas, sposata, che abbandonò il marito per andare a vivere con il poeta. Con la Gravina e la figlioletta, il poeta fu ospitato in Abruzzo dall’amico Michetti. Ma nel 1898 il legame amoroso finì, nonostante la nascita di un altro figlio con la Gravina.
L’interessante e prezioso volume contiene anche 122 foto d’archivio inedite e l’albero genealogico dei genitori:Silvio Montanarella e Renata Anguissola, delineato con l’aiuto della nipote di d’Annunzio, Maria Teresa Montanarella.
Nell’introduzione del libro di Franco Di Tizio si legge: “ (…) Quando Renata nacque, i genitori la registrarono al Comune con i nomi di Eva Adriana Renata; la madre, però, preferì chiamarla familiarmente Cicciuzza, mentre nel 1909 il padre le coniò il nomignolo di Sirenetta, personaggio della sua “Gioconda”.
Alla presentazione del libro è intervenuto oltre l’autore, Lucia Arbace, direttore del Polo Museale dell’Abruzzo, Franca Minnucci, attrice e scrittrice, Filippo Sallusto, dannunzista e la figlia di Renata e nipote di Gabriele d’Annunzio, Maria Teresa Montanarella. Molto interessanti gli aspetti descritti da questa ultima, di 88 anni (tre sono i nipoti viventi) che ironicamente ha riferito di avere in comune con suo nonno “la memoria”.
Ha descritto il senso della famiglia del nonno, molto attento ai figli con i quali ha avuto un rapporto continuativo e serio, nonostante i suoi grandi amori ed i momenti difficili della sua esistenza “inimitabile”, del rapporto
Franco di Tizio e la nipote di D'Annunio, Franca Montanarella - foto Michele Raho |
affettuoso con Renata, che è stata la figlia della passione.
Appassionata la lettura dell’attrice Franca Minnucci di alcune epistole del Vate con la figlia Renata che lo venerava e lo considerava un mito, numeroso, attento e interessato il pubblico. E’ emerso un d’Annunzio sconosciuto, attento alla vita dei figli, un “padre qualunque” che, come tutti i papà, si preoccupava del fidanzamento della figlia Renata e dei suoi studi: queste le vere vicende ed accadimenti di cronaca familiare raccontate dall’autore nel suo testo.
L’evento è stato accompagnato da intermezzi musicali e canori della pianista Orietta Cipriani e del soprano Letizia Triozzi. Il sindaco Marco Alessandrini è intervenuto per un saluto alla nipote del poeta che ha saputo dare grande lustro alla città di Pescara.
Franco di Tizio
“Gabriele d’Annunzio e la figlia Renata. Carteggio inedito (1897-1937)”
Ianieri Edizioni 2015.
di Silvia Pietrovanni
Il pensiero simbolico, afferma Eliade, precede il ragionamento discorsivo. I simboli collegano, e nel farlo, possono aprire feritoie/ferite, che necessitano di essere integrate.
Il rito del serpente a Cocullo si colloca in questa cura simbolica; esso affonda le radici nell'inconscio collettivo, e drammatizza archetipi quali l'Ombra, l'Eroe e la Grande Madre.
Con l'addomesticamento del serpente si attua un processo terapeutico che innalza l'uomo al di sopra della sua condizione elementare.
Il serpente, in quanto simbolo archetipico, conquista lo spettatore, poiché il rito esprime processi paralleli nel suo inconscio che possono così essere reintegrati nella coscienza.
La festa sembra risalire al XVII secolo, ed è un tentativo di cristianizzazione del culto della Grande Madre Angizia, la dea dei serpenti, i cui caratteri sono stati assunti da San Domenico che visse tra il X e l'XI sec, incarnando a pieno l'idea di semplicitas benedettina. Sono suoi attributi la cura dei morsi di serpenti, dei lupi, dei cani idrofobi, del mal di denti.
Angizia sembra derivare dall'indoeuropeo Ang, col significato di “soffocamento”, e da anguis, “serpente”. In terra greca all'interno del culto di Esculapio, che nell'iconografia è accompagnato da un serpente attorcigliato al bastone, i serpenti circolavano all'interno dell'Asklepeion, e venivano in contatto con gli ammalati durante il sonno risanatore.
I Marsi erano chirurghi, farmacisti, maghi, medici, taumaturghi e incantatori di serpenti, (anche detti ciaralli); discendono, secondo la leggenda, da Marso, figlio di Circe e si stanziarono attorno all'ex lago Fucino. Erano devoti della dea Angizia, negli stessi luoghi era presente anche il culto di Ercole.
Le dee antiche erano spesso accompagnate da animali selvaggi, sottolineando in questo modo la natura istintuale e selvaggia della psiche che la Dea sa comprendere.
Il nome “ciarallo” deriva dal corno con il quale i Marsi addomesticavano gli ofidi, secondo una leggenda che molto si avvicina alla favola del pifferaio magico. I ciaralli dediti al culto di San Domenico erano in rivalità con i Sanpaolari, anche loro immuni al morso delle serpi. Dal “male”, dal veleno, si estraeva la cura- antidoto.
La festa si svolge il primo giovedì di maggio, nelle settimane precedenti i “serpari” raccolgono i serpenti che vengono riversati nella statua del santo il giorno della processione. La statua è seguita da due ragazze che portano sulle testa ceste con cinque ciambelle e pani rituali.
All'interno della chiesa la gente raccoglie la terra della cappella del santo e tira una catenella collegata ad una campana con i denti.
Il serpente urobotico si ricollega alla Grande Madre nei suoi due aspetti: dispensatrice di vita e dispensatrice di morte, Mater Terribilis che soffoca il figlio prigioniero. Stessa ambivalenza si riscontra nel serpente: come animale ctonio si lega agli abissi, a loro volta portatori di saggezza o di follia.
Il percorso dell'Eroe ci ricorda l'importanza di avere il coraggio di affrontare la paura di vivere un'esistenza autentica, un percorso individuale, senza temere la morte del nostro uomo sociale, o la solitudine che spesso deriva da scelte indipendenti.
Barbara Collevecchio
Il male che cura
Persiani, 2011
In viaggio con Tito Barbini, nei mari e nella terra ai confini del mondo
di Roberto Fantini
Tito Barbini si presenta al lettore come uno che, dopo aver provato (invano) a cambiare il mondo, insieme ad altri milioni di persone, tutte accomunate dalla passione e dalla speranza della politica, continua a girarlo senza mai essere sazio di farlo.
Si tratta, perciò, di un viaggiatore avido di emozioni, ma anche di conoscenze (spesso remote, spesso sommerse da rimozioni collettive e da censure mirate), di un viaggiatore magneticamente attratto dai paesaggi inediti, dagli orizzonti sconfinati e dalle pagine più inesplorate del gran libro della natura, ma sempre attentissimo al fatto umano, sempre pronto a sbirciare fra le righe delle "storie ufficiali", alla scoperta delle imprese più ignobili del potere politico e dell'aggressiva avidità dell'economia capitalistica, e sempre pronto ad aprire il cuore al grido di dolore degli oppressi di ieri e di oggi, sia che si tratti di migranti, di lavoratori sfruttati, di anarchici idealisti fatti a pezzi dalla "giustizia", di prostitute e di donne violate.
Con una sensibilità particolare nei confronti delle popolazioni native, macellate spietatamente dalla sconfinata brama di possesso e dalla incommensurabile arroganza dell'uomo bianco, invasore e conquistatore.
E il suo ultimo libro (L'ultimo pirata della Patagonia.Viaggi veri e immaginari nei mari e nella terra ai confini del mondo), come i non pochi già pubblicati, intreccia con inesauribile abilità storie lontane di personaggi fascinosi o ripugnanti, storie di genti diverse, storie di viaggi, di avventure, di esplorazioni, storie che si rincorrono da un continente all'altro, valicando oceani, per infrangersi, spesso, su scogliere di dolore e di miseria, ma anche di superba nobiltà d'animo, di esuberante generosità, e di delicatissima poesia. Il tutto ruotante, come una strana giostra che non smette mai di girare, intorno a quel grande, sterminato palcoscenico naturale, abissalmente amato dall'autore che è la Patagonia,"luogo del silenzio, luogo di solitudini estatiche e di libertà." (p.20)
La prosa di Barbini è frizzante e incisiva. I suoi racconti sempre avvolgenti, ricchi di informazioni, fonte di scoperte, vivissimi serbatoi di riflessioni sull'uomo e sul suo cammino travagliato e misterioso in questo mondo (misterioso e travagliato) che troppo spesso non sappiamo osservare, rispettare e amare ...
TITO BARBINI
L'ULTIMO PIRATA DELLA PATAGONIA.
MAURO PAGLIAI EDITORE
FIRENZE 2015
di Giuseppe Lorin
Con la silloge “L’Amore, invece” abbiamo il riscontro del vissuto emotivo di Donato Loscalzo, uomo dai sentimenti profondi ed impegnato su vari fronti dell’arte della conoscenza della letteratura greca antica e moderna.
È il titolo che racchiude il sentore di un condizionale misterico dove la domanda pudica lascia intendere: e se l’amore, invece fosse… lo sguardo dell’anima?
“oltre lo sguardo
nessuno di noi sa se ancora splende
tra i nostri malcelati svelamenti
il desiderio che migra …
… questo indifeso intento di scoprirti ”
Si avverte in questo passaggio così come in altri, la distanza generazionale e nel contempo il timore del tempo “…che scolora, che incide, che sgretola…” che sfugge inesorabile e lascia inesaudito l’intento di trasfondere il proprio vissuto, la propria voglia di donare amore, una trasmigrazione di anima verso l’oggetto d’amore, sempre che il poeta Donato Loscalzo mi accordi il termine filosofico e l’accostamento di questo alla sua poetica.
“… basterà guardarsi riconoscersi riviversi
e questi ciottolitraslucidi e vissuti
riparleranno di nuove architetture
di quel codice segreto che io e te,
per lungo tempo, abbiamo custodito”
Queste pennellate di versi sono presagi di una umanità distorta dalla furia incondizionata dell’incontro virtuale che avviene principalmente nelle tarde ore notturne o addirittura all’alba di un nuovo giorno, racchiudono le sofferenze di un’appartenenza di pensiero, di attese, di età non accettate, di fisicità respinte, di negazioni non attese, di nickname astrusi, di personalità inventate:
“in chat
da dove digiti?
è la domanda concisa,
dall’altro capo della linea:
non so immaginarti, ma m’ingegno
per ciò che devo dirti
non sai chi sono…”
E ancora la presa di coscienza del proprio vissuto che è da ritenersi summa dell’intera umanità passata, presente e futura poiché afferma: “mi ha salvato l’attesa dell’amore
il seminato, i suoi germogli di speranza
ponti e strade a lungo attraversate
o paludi di memoria, dentro il sole…”
Così come risalta il distacco totale da una materialità incombente che va oltre il qui ed ora, oltre il tempo della poesia: “…non saranno più mie queste tracce
dovrò cancellare anche le facce,
quando verranno ad imbiancare
i segni dell’intonaco scrostato,
ha impresso il fumo strie verticali”
Donato Loscalzoscrive da sempre e con ogni mezzo sia attraverso l’insegnamento, i suoi saggi, sia con la poesia,le sue sillogi e da sempre è da considerarsi un poeta, sognando di viaggiare nel tempo e nello spazio, attraverso i sentimenti e le parole e senza consiglio alcuno, dato il libero arbitrio!
“in viaggio
dove andrò non sappiamo
la strada tracciata per il turista
è come tante, scommessa di scoperte
sceglierò quelle segnate di giallo…
…. eviterò le solite tue voci
che vogliono tracciare il mio camino”
In “L’Amore, invece” abbiamo un esempio della sua straordinaria sensibilità letteraria poiché deroga a vocaboli eccelsi all’Accademia della Crusca come abbrivio, inizio silloge e come congedo,a conclusione delle liriche; incipit ed explicit sono, infatti, vocaboli inadeguati per una silloge.
Le orme del desiderio che tracciano i passi dell’esistenza, dell’esperienza, di Donato Loscalzo conducono in un mondo privato dove le problematiche della vita si esplicano con sussulti dell’anima vissuti dal poeta: “… attenderò la notte dove solo il gallo
echeggia nella valle, dove al gelo
tace l’usignolo ignaro dei segreti della notte
dormirò ancora oltre le luci dell’alba
assopito nel vuoto che ha lasciato il desiderio
insicuro nel suo cercare il nuovo”, ed ancora: “… m’incanta ogni tuo indugio, inciampo
di paure o riverbero di istinti mai sopiti… ”
Le parole, intense, immediate, lentamente catturano il buon lettore e lo portano altrove: a ciò che hai perso o a quello che non hai mai vissuto ma che vorresti essere. Non a caso Donato Loscalzo è ammaliato da un incontro ora solo ricordato: “… ma ora qui, dalle pareti consunte
dai letti a fiori e fori di trapunte,
cose che passano in camere d’albergo
mi dicono di te, che non ti perdo”
Nella poesia “strada del mare” si ha la sensazione della ricerca di un amplesso quasi rubato mentre: “… amai lo schiaro prodigio di un’ombra
che rovinò dai deserti del cielo
ma non fu, non è dolce gioco,
e ti inseguii per i tuoi nuovi sentieri
mentre la luna impaziente
uscì dal cavo del mare”.
L’opalescente astro, muto testimone,è il simbolo della speranza e del desiderio.
Poi, dopo l’amore, si può tornare in balia di venti, correnti, burrasche e maree. Ricorda in verità lo spirito degli scrittori del nord Europa che hanno in Henrik Ibsen il loro vessillo.L’opera teatrale “La donna del mare” di Ibsen ricorda di pari passo l’evoluzione emotiva del poeta verso l’attesa e giustifica la scelta dell’elemento acqueo che porta, trasporta, purifica, battezza,accennato in alcuni suoi afflati: “…e il mare ancora mi attrasse
bagnandomi i piedi,…”
Il poeta comunque strizza l’occhio alla notte, all’incontro atteso e cercato di corpi senza anima, all’incontro improvviso, inaspettato, alla sorpresa dell’evento: “… avrei coperto d’alloro il sottobosco,
sipario mai tentato di parole
di quel presunto amore ad ogni costo
tra le frasche si eclissava la vergogna
un sogno deciso si perdeva tra le spine…e libero sorvolo le tempeste” perché è diverso, è di notte!La tensione poetica trascinante, almeno sul piano della struttura compositiva delle poesie di Donato Loscalzo è opera del suo lirismo crudo, affidato all’autocritica dove a volte, risulta delicato, delegato alle minime circostanze d’un rapporto anche casuale, che nel suo svolgersi si nega e si confessa, si dichiara e si contraddice, si abbandona e si esalta, perfino si offre in una interezza meravigliosa che solo chi ha sofferto sa tradurre in compiuta espressività.Sono versi scanditi quasi da un ritmo ancestrale: solo a tratti l'attitudine astratta, che sta alla base della sua personalità, della sua cultura ampia e multiforme, affiora, raffrenando l'impeto di certi moti dell’anima in schemi logici precostituiti. Con tutto ciò la silloge “L’Amore, invece” di Donato Loscalzoracchiude versi tra i più significativi della sua mietitura poetica con riflessioni o flash sui problemi di relazione, per lui vitali, della vita amorosa, della presa di coscienza della personalità umana, dei rapporti sociali: problemi che soprattutto per quanto concerne l'universo maschile assumono un accento alto di singolare affettuosità comprensiva.
Così come nella lirica “il nuovo anno” che fa eco a poeti di nobil lignaggio e in altre sparse, dove il giovin di Recanati ci sovviene.Il poeta traccia strade sconosciute a pochi ma non ai sentimenti, investe l’essere nella totalità che lo tormenta. È in questa silloge che abbiamo la risposta ai significanti poetici esistenziali di Donato Loscalzo.