
L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Nel linguaggio dei conflitti armati, soprattutto quando si parla di guerre ad alta intensità come quella tra Israele e Hamas, le parole diventano strumenti fondamentali per comprendere e giudicare ciò che accade. Due termini ricorrenti in questo contesto sono genocidio e carneficina. Entrambi descrivono forme estreme di violenza collettiva, ma le loro implicazioni, soprattutto dal punto di vista giuridico e politico, sono profondamente diverse, anche se descrivono eventi di gravissima entità. Il genocidio è uno dei crimini più gravi riconosciuti dal diritto internazionale. È definito dalla Convenzione ONU del 1948 come un atto commesso con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Non si tratta solo di massacri: anche la deportazione forzata di bambini, l’impedimento alla nascita di nuove generazioni, o il danneggiamento sistematico delle condizioni di vita di un gruppo possono costituire atti genocidari, se motivati da un intento distruttivo. Ogni azione, dall’uccisione diretta fino alla sterilizzazione forzata, passando per la deportazione dei bambini, può rientrare nella definizione di genocidio se inserita in questa strategia d’annientamento. L’elemento chiave, quindi, non è solo il numero delle vittime, ma l’intenzione deliberata e pianificata di annientare un’intera Comunità.
La carneficina, invece, è un termine più generico, privo di una definizione giuridica precisa. Indica una strage, una uccisione di massa, spesso caotica e brutale, che può avvenire per molte ragioni: vendetta, negligenza, strategia militare, o totale indifferenza per la vita dei civili. Una carneficina può essere il risultato di bombardamenti indiscriminati, di combattimenti urbani senza regole, o di operazioni militari che non distinguono tra obiettivi legittimi e popolazione innocente. Anche se non sempre motivata da un intento genocidario, una carneficina resta una tragedia di proporzioni enormi. È comunque una tragedia umanitaria, ma senza l’elemento chiave del genocidio che implica la volontà deliberata di annientare un gruppo specifico. Nel conflitto tra Israele e Hamas, questa distinzione non è solo semantica. Le accuse che emergono da varie parti, comprese organizzazioni umanitarie, giuristi internazionali e istituzioni politiche, oscillano tra la denuncia di una carneficina e la più grave accusa di genocidio. I bombardamenti su Gaza, le migliaia di vittime civili, la distruzione di infrastrutture essenziali e l’assedio prolungato hanno spinto alcuni osservatori a parlare di crimine contro l’umanità o addirittura di genocidio. Altri, invece, sottolineano che, in assenza di prove chiare di un’intenzione sistematica di distruggere il popolo Palestinese, si tratta piuttosto di una carneficina causata da strategie militari estreme e sproporzionate. In entrambi i casi, la sofferenza della popolazione civile è enorme. Ma chiamare un evento genocidio implica accuse gravissime che comportano responsabilità politiche e giuridiche a livello internazionale. Serve quindi cautela, rigore e chiarezza. Confondere i termini, o usarli in modo emotivo, rischia di compromettere non solo la comprensione dei fatti, ma anche la possibilità di giustizia e responsabilità. Peraltro, comprendere la differenza non significa minimizzare l’orrore, ma occorre mantenere la chiarezza concettuale e quella giuridica, e soprattutto quando le parole influenzano la percezione pubblica e le risposte delle Istituzioni globali. In guerra, la verità è spesso la prima vittima e il linguaggio ne è la prima arma.