L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Theatre and cinema (174)

 

 

Riccardo Massaro
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November 05, 2025

 Torna in scena questo fantastico spettacolo che tanto mi piacque ed emozionò quando lo vidi nel lontano 2021, al Teatro Sette.

Si tratta di una bella storia di amicizia che prende vita in piena guerra, sotto l’occupazione tedesca, e in cui fa da sfondo un fatto storico poco conosciuto. Sul palco due grandi interpreti, due giganti che insieme vi coinvolgeranno divertendovi ed emozionandovi.

L’idea nasce dalla mente di Stefano Reali, che scrive una bella commedia dedicata alla Resistenza romana e in special modo a Ugo Forno, un ragazzino di dodici anni immolatosi, il 5 giugno del 1944, per salvare il Ponte Di Ferro sull’ Aniene. Ultima vittima dei partigiani romani che ha meritato una Medaglia d’oro al Valore civile. Morendo con i suoi compagni coetanei, impedì ai genieri tedeschi di distruggere il ponte ferroviario. I tedeschi però uccisero lui e gli altri con dei colpi di mortaio. Oggi quel ponte porta ancora il suo nome.

Otello e Tazio, uno “stagnaro” e un orologiaio, sono amici. Il primo più titubante, il secondo più determinato, grazie alla loro grande amicizia trovano insieme quel coraggio per riscattarsi da una vita passata senza esporsi mai troppo. Due cuori grandi, due caratteri diversi che però si compensano e unendosi trovano la forza di compiere qualcosa che cambierà le loro vite.

Decidono di tagliare i fili delle mine tedesche posizionate per far saltare questo ponte, che attraversa l’ Aniene e che, se abbattuto, rallenterebbe l’avanzata degli Alleati.

I due stupendi personaggi a cui danno vita Massimo Wertmuller e Rodolfo Laganà riportano inequivocabilmente alla mente i grandi Alberto Sordi e Vittorio Gassman ne “La Grande Guerra”. Forse, chissà, Reali ha voluto fare un tributo a questi interpreti con altri due mostri sacri dello spettacolo, ma con una storia completamente diversa.

La sceneggiatura inserisce i due anonimi personaggi nella storia di Ugo Forno dando voce a tutti quegli eroi rimasti sconosciuti alla storia e che si sono immolati per la libertà e per la patria. Chissà quante storie come queste sono accadute e di cui non sappiamo né sapremo mai nulla...

La coppia Wertmuller - Laganà è fantastica, più che credibile nel ruolo, vincente ed avvincente, ci dimostra che in ognuno di noi può nascondersi un eroe che inaspettatamente si può ridestare davanti ad un sopruso o ad una violenza. In un’ora abbondante i due artisti ci riportano indietro nel tempo, a quell’infausto '44 in piena guerra civile, con gli Alleati ormai alle porte di Roma. Abiti, dialetto, atteggiamenti sono proprio quelli dei romani di quei giorni. Chi mi segue, sa che adoro il timbro di voce di Massimo e Rodolfo, inconfondibili e molto personali, ma che evocano, con la loro romanità, i grandi attori della vecchia generazione come il nostro Albertone. Anche se gli anni passano, i nostri sono inossidabili; una recitazione, la loro, che entra nel cuore, lo tocca, lo solletica, lo emoziona. Battute semplici, veraci, naturali e sempre efficaci in cui ogni romano si riconosce. I loro atteggiamenti, le espressioni e le movenze sono il trampolino di lancio verso una risata liberatoria che smorza i toni del dramma che stanno vivendo. Perché in fondo di questo si parla, del dramma dei tanti civili morti a Roma dopo l’8 settembre del 1943.

Grazie alla vecchia scuola del cinema e del teatro romano, che attinge alla romanità più pura e profonda, tutto si muove in un’atmosfera realistica pregna dell’ umorismo che caratterizza il romano. Si ride, ma non mancano i momenti drammatici, che ben si incastrano con quelli più leggeri e danno sapore alla storia. I nostri litigano, discutono, si aiutano, si sfottono, ma di fondo si vogliono bene e questo risulta sempre ben chiaro. È una storia di amicizia con alti e bassi che ci viene presentata con ironia, simpatia e drammaticità. Uno spaccato di vita di un momento tragico della nostra storia, sempre affrontata con tatto e delicatezza. Loro sono semplicemente eccezionali, non vorresti che smettessero mai di recitare, che quella atmosfera surreale ma così concretamente reale  non si interrompesse mai.

Bella, realistica ed accurata la scenografia che ricostruisce la parte inferiore del ponte, animato da suggestivi giochi di luce; piacevole e realistico anche il rumore dell’acqua del fiume che si sente scorrere in sottofondo per tutto lo spettacolo, i latrati dei cani lontani, i passi improvvisi, le voci dei tedeschi che si avvicinano, gli spari, il rumore dei cingoli dei carri armati… Tutto viene sottolineato da efficaci inserzioni musicali nei passaggi drammatici più intensi. Uno spettacolo ben scritto, con una bella regia e due icone del cinema e del teatro italiano a rappresentarlo Due grandi personaggi da vedere, gustare, assaporare e rivedere ancora.

 

Teatro Sette Off
“Amici per la pelle”
con Massimo Wertmuller e Rodolfo Laganà,
scritto e diretto da Stefano Reali

 

November 05, 2025

“Il futuro non è sempre avanti, a volte bisogna fermarsi e tornare indietro per raggiungerlo”.

Dopo aver assistito ad un'anteprima di Circo Paradiso nell'arena estiva del Teatro Tor Bella Monaca di Roma, lo spettacolo debutta ufficialmente (prima nazionale) al Teatro Metastasio di Prato dal 4 al 9 novembre, per poi approdare a Roma da al 13 al 30 novembre al Teatro Manzoni.

Cesare e Attilina sono due  trapezisti in pensione. In passato,  oltre che compagni di lavoro erano anche legati affettivamente.

Dopo tanti spettacoli ed una florida carriera, finalmente giunge per loro un riconoscimento: vengono chiamati ad esibirsi nuovamente in una serata in loro onore, dove  riceveranno il meritato premio a cui anelano tutti i circensi: il “Trapezio d’oro”.

I due non si vedono ormai da oltre trent’anni, le loro strade si sono divise ma il destino ha deciso di ricongiungerli per questa serata. Le “lucciole del circo”, come venivano chiamati quando erano famosi, sono pronti a tornare insieme in scena.

Il racconto si fonde tra passato e presente attraverso emozionanti flashback. Le coppie rappresentate sono due, quella dei protagonisti piuttosto anziani, affaticati e provati, e l’altra dei due giovani e pieni di vita. La prima coppia anziana è  dolcissima ed estremamente romantica nonostante il tempo, si lascia andare a piccoli e buffi diverbi, teneri battibecchi in cui conservano la loro fanciullezza, la spontaneità e la complicità che li accompagnerà per tutta la storia. È evidente che si amano ancora.

Nell’altra versione Agnese e Tiziano, da claudicanti ed affaticati anziani si trasformano in pochi istanti in due giovani aitanti, pieni di fiducia e speranza nel futuro da costruire. Voci squillanti e appassionate sostituiscono quelle borbottanti e dolcemente pungenti; impettiti e pulsanti perdono all’improvviso la postura affaticata e le movenze lente e incerte. Sembra di avere sul palco quattro attori, anziché due!

Attraverso i passaggi da un’età all’altra ci accompagnano nel  loro percorso di vita, toccando con noi i momenti più significativi e belli.

Ancora bambini, lui figlio di un falegname sardo e ammaliato dal circo, lei di circensi con l’aspirazione di diventare trapezista, si incontrano, poi si perdono e di nuovo si rivedono dopo anni, cosicché quell’interesse speciale e palpabile che li aveva colpiti reciprocamente e che avevano lasciato in sospeso sfocia in un amore adolescenziale fino a maturare. Diventeranno due bravi trapezisti, anche se  proprio al culmine della loro attività artistica ci sarà una dolorosa separazione…

All’interno della storia orbiteranno anche altri personaggi, interpretati anch’essi dai due artisti: il russo lanciatore di coltelli Dimitri e la veggente spagnola Fortuna; Mariuccio, padre di Tilina, e la madre di Cesare. Questi istrionici e camaleontici artisti si trasformano mutando pelle e passando da un personaggio all’altro. Il modo in cui riescono a dare a ciascuno una connotazione peculiare lascia a bocca aperta.

Agnese e Tiziano arrivano, con “Circo Paradiso”, al loro quarto stupendo spettacolo insieme. Propongono un prodotto confezionato con i soliti prelibati ingredienti con cui già ci hanno deliziato in passato. Il risultato è una commedia dolce, appassionante, romantica e nostalgica a cui si aggiunge una vena magica ed onirica. Non mancano gli spunti comici che fanno divertire con tenerezza.

Una commedia che ha lo stile del musical e il sapore dei dolcissimi cartoni di Walt Disney, con qualche spruzzata di quei vecchi bei film romantici in bianco e nero. Il tutto è sorretto da cura, sensibilità  ed originalità eccezionali.

Vedere uno spettacolo di questi due talentuosi artisti è come vivere un sogno ad occhi aperti. Si resta incantati, estasiati, con il fiato sospeso. Si ride, ci si emoziona, ci si commuove immersi nelle loro coinvolgenti storie.

Diretti superbamente dalla  regia del duo Evangelisti-Latagliata, si muovono elegantemente in una piacevole e curata scenografia di Andrea Coppi, che modificano di volta in volta  per evocare stati d’animo e situazioni mutevoli. Le luci impeccabili sottolineano efficacemente i momenti più salienti, aggiungendo un forte pathos alle scene grazie all’attenta direzione di Valerio Di Tella. I costumi di Nicoletta Ceccolini sono semplicemente stupendi, ispirati a quelli del circo degli anni Venti; le musiche si evolvono nello stile per sottolineare i tempi che passano. Tutte le basi musicali sono state composte da Tiziano, che ne ha eseguito la maggior parte al pianoforte o alla chitarra mentre sul palco, insieme ad Agnese, cantano dal vivo divinamente. Sono musiche trascinanti, con le due voci melodiche che si alternano, si rincorrono, a volte procedono insieme su note diverse arricchendo di significati le scene che accompagnano. Con le musiche, i dialoghi e i movimenti sulla scena è come se i due aprissero un baule magico pieno di meraviglie, che a fine spettacolo ripongono delicatamente lasciando nel cuore dello spettatore l’essenza dell’umanità.

Anche lo stratagemma più paradossale si tramuta in qualcosa di reale, tangibile. È il sogno che si fa realtà. Un bellissimo sogno.

Un altro capolavoro che si aggiunge ai tre già proposti e che a distanza di anni continuano ad emozionare: “Letizia va alla guerra”, “Fino alle stelle”, “I Mezzalira, panni sporchi fritti in casa”. E ora “Circo Paradiso”.

Prima da vedere, poi li amerete!

 

Teatro Manzoni

"Circo Paradiso” con  Agnese Fallongo e Tiziano Caputo
Regia Adriano Evangelisti e Raffaele Latagliata
Scritto da  Agnese Fallongo
Musiche e liriche Tiziano Caputo
Scene Andrea Coppi
Costumi Nicoletta CeccoliniMovimenti  coreografici  Elisa Caramaschi
Direzione tecnica Valerio  Di Tella
Editing musicale Fabio Breccia
Trucco Chiara Capocetti
Una Produzione Teatro De Gli Incamminati / Teatro  Metastasio di  Prato
Foto di scena Tommaso Le Pera

 

 

 

 

October 27, 2025

Viviamo in un tempo di passaggio. Le certezze dell’Occidente — progresso, stabilità, sicurezza — sembrano essersi incrinate, mentre l’Oriente, vasto e giovane, torna a rivendicare un ruolo centrale nella storia del mondo. È questo il cuore del “Ritorno d’Oriente”, una riflessione geopolitica che interpreta il XXI secolo come l’epoca del grande riequilibrio tra Europa e Asia.

Le cinque ferite del nuovo millennio

Il secolo si è aperto con cinque shock simbolici che hanno scosso l’ordine globale:

l’attacco alle Torri Gemelle del 2001, la crisi finanziaria del 2008, la pandemia del 2019, la guerra in Ucraina del 2022 e il conflitto in Medio Oriente del 2023.

Cinque eventi che hanno incrinato il mito della globalizzazione e mostrato la fragilità del sistema occidentale. L’illusione di un mondo unito dal commercio e dalla tecnologia ha lasciato spazio a un’epoca di incertezze e di ritorno alla storia.

Europa e Asia: due visioni del mondo

L’Europa è il continente della memoria: culla della filosofia, del diritto e della politica moderna, ma oggi segnata da un senso di stanchezza.

È anziana non solo per età demografica, ma per spirito. Amministra il presente più che costruire il futuro.

L’Asia, al contrario, è giovane, demograficamente viva e animata da un desiderio di affermazione.

Mentre l’Europa difende ciò che ha, l’Asia insegue ciò che vuole — e la storia, da sempre, appartiene a chi desidera di più.

Potere, istituzioni e nuove alleanze.

L’Europa ha scelto la stabilità, l’Asia il movimento.

Il Vecchio Continente si affida a un sistema di istituzioni rigide — Unione Europea, NATO, OSCE — che garantiscono pace ma non visione.

In Oriente, invece, il potere è fluido e pragmatico: nascono e si intrecciano nuove alleanze come i BRICS, l’ASEAN e la Comunità di Shanghai.

Nessuno è alleato per sempre, nessuno nemico per sempre: l’era delle “transazioni mobili” ha sostituito quella dei blocchi ideologici.

Religione e identità

Se l’Europa si è secolarizzata fino a perdere il linguaggio del sacro, l’Asia vive ancora di spiritualità.

In Russia, l’ortodossia è tornata a fondamento dello Stato; in Iran, l’Islam sciita guida la vita politica; in India, l’induismo si è trasformato in ideologia nazionale; in Turchia, l’Islam politico è tornato al centro con Erdoğan.

La Cina riscopre il confucianesimo sotto la superficie del comunismo, mentre il Giappone continua a fondere shintoismo e modernità.

L’Europa crede nei diritti, l’Asia nei doveri. È il contrasto tra l’individuo e la comunità, tra la libertà e il destino.

Economia e tecnologia: il nuovo potere

Il mondo non si divide più solo per confini o eserciti, ma per infrastrutture e dati.

Oggi chi controlla i flussi — di energia, informazioni, rotte marittime e connessioni digitali — controlla il futuro.

La Cina costruisce la Nuova Via della Seta, collegando Asia, Africa ed Europa; l’India diventa il laboratorio digitale più grande del pianeta; la Turchia si afferma come ponte energetico tra continenti; l’Iran domina lo stretto di Hormuz, da cui passa un terzo del petrolio mondiale.

In confronto, l’Europa appare fragile, priva di energia autonoma e di visione tecnologica comune.

Il nuovo equilibrio del mondo

Dalle steppe russe al Mar Cinese Meridionale, il pianeta è attraversato da linee di frizione.

Il futuro potrebbe decidersi a Taiwan, nel Caucaso o nel Medio Oriente.

Ma al di là delle tensioni, emerge una costante: la storia si sposta verso Est.

Non si tratta di un conflitto tra civiltà, ma di una transizione di civiltà, in cui il baricentro economico e culturale del mondo cambia posizione, come accadde già nei grandi cicli della storia.

Europa e Asia: memoria e futuro

L’Europa custodisce la memoria, l’Asia rappresenta il futuro.

L’una ricorda, l’altra sogna.

Il ritorno d’Oriente non è una minaccia, ma una possibilità: quella di un nuovo dialogo tra civiltà, di un mondo più multipolare e meno dipendente da un solo centro di potere.

Come ricorda una citazione che chiude il testo:

“Il mondo non torna indietro. Sta solo tornando verso Est.”

E forse, questo ritorno non è un tramonto dell’Occidente, ma l’alba di una nuova epoca della storia umana.

 

 

 

October 13, 2025

“Un uomo ammattisce se non ha qualcuno. Non importa chi è con lui, purché ci sia. Vi so dire che si sta così soli che ci si ammala." (J. Steinbeck)


Il fine ultimo del teatro è la messa in scena di un testo, sia esso un classico, un’opera di attualità o di pura invenzione. La vera sfida, tuttavia, consiste nell'entrare in risonanza con il pubblico attraverso l’interpretazione, e nel riuscire a infondere sentimenti, emozioni e riflessioni.
Gli attori sono coloro che fungono da tramite emotivo (transfert); per loro non è sufficiente imparare la parte a memoria, ma devono far proprio il testo e riuscire a immergersi completamente (nella storia da condividere. È innegabile, d’altronde, che non tutti gli interpreti abbiano la capacità di conferire la massima autenticità alla rappresentazione vuoi per inesperienza, per inattitudine per insufficienza preparatoria.

L’Associazione “Giardini dell’arte” ha realizzato una trasposizione eccellente di “Uomini e topi” (Of Mice and Men, 1937), il celebre romanzo breve di John Steinbeck. Ogni interprete è riuscito in maniera mirabile a raggiungere la piena padronanza del proprio ruolo. L'allestimento ha catalizzato l’attenzione di un pubblico visibilmente coinvolto, che ha trattenuto il respiro per non perdere i dialoghi e l’interpretazione magistrale. Si è trattato di un dramma emozionante non solo per l'intensità della storia, ma soprattutto per la modalità interpretativa, che ha conferito al pubblico la rarissima sensazione di assistere a una realtà viva e non artefatta.Lo spettacolo, attraverso le gestualità, le voci, i respiri e il vibrante trasporto degli interpreti, ha conquistato pienamente il pubblico. Gli spettatori in sala hanno applaudito per lunghissimi minuti, soddisfatti di aver assistito a un’intensa trasposizione di una storia già di per sé fortemente impattante.Nei ricordi, rimarranno certamente impresse le figure di George e Lennie, interpretate con umanità e intensità uniche da Lorenzo Lombardi e Aldo Innocenti, una coppia di attori che ha dato nuova vita ai personaggi. Lo stesso Steinbeck avrebbe probabilmente gradito: fu lui, del resto, a portare in teatro la sua opera. Uomini e topi (una pièce in tre atti) debuttò a Broadway il 23 novembre 1937, lo stesso anno della pubblicazione del romanzo, a riprova della sua intrinseca vocazione scenica.Il plauso e il ringraziamento vanno dunque a coloro che, animati da una vera vocazione, sanno strappare le storie dalle pagine di un libro per dar loro corpo e respiro, restituendole vive alla comunità.

 

Uomini e topi -Teatro di Cestello
a cura di: Associazione Giardini dell’arte- regia di Marco Lombardi- versione italiana di Luigi Squarzina,
Lorenzo Lombardi, Aldo Innocenti, Marcello Sbigoli, Raffaele Totaro, Anna Serena, Lorenzo Bittini, Massimo Blaco, Gianfranco Onatziro’ Obinu.

Assistente alla regia Sandra Bonciani, musiche originali di Marco Simoni, costumi di Fiamma Mariscotti, disegno luci di Silvia Avigo, scenografia di Lorenzo Scelsi.

 

October 04, 2025

 

Marina Pizzi mi ha completamente spiazzato con questa sua nuova pièce. Forse perché ero rimasto fortemente colpito dalle sue ultime proposte drammaturgiche. Si rivela scrittrice poliedrica in grado di stimolare tutti i sensi dello spettatore commuovendolo, facendolo riflettere ed ora anche divertendolo.

Questa proposta strizza l’occhio alla commedia italiana con una storia leggera e molto piacevole adatta a tutti. A portarla in scena un cast assolutamente scoppiettante.

Alla regia c’è il tocco personale e brillante di Toni Fornari.

La vicenda si svolge in un soggiorno ben ricostruito che si affaccia su un incantevole panorama cittadino che muta durante le scene per sottolineare il passare delle ore, alternando tramonti mozzafiato, incantevoli scorci notturni e assolati momenti della giornata.

Le scene sono ben distinte, sottolineate da un buon effetto luci e accompagnate da una piacevole colonna sonora con brani ritmati e noti. Arriviamo ora alla storia.

Sasà (Enzo Casertano), all’anagrafe Salvatore Gargiulo, è una persona tranquilla ed accomodante che appare da subito inequivocabilmente succube sia delle asperità della vita che delle donne di casa.

Queste figure che orbitano intorno a lui rischiano di destabilizzare il suo equilibrio mentale ed emotivo. Si tratta della moglie Nora (Beatrice Fazi), donna volitiva e dal carattere forte e deciso, e la suocera (Mara Liuzzi), personaggio onnipresente, invadente, indiscreto e sarcastico. Infine, la giovane figlia Paola (Alessandra Merico), studentessa di medicina poco incline all’impegno. A parte Paola, l'unica che si esprime attraverso un chiaro accento romano, tutti i suoi familiari hanno un marcato accento partenopeo.

Se vivere contornato da ingombranti figure femminili può essere complicato e stressante, immaginiamo quanto possa essere destabilizzante trascorrere gli arresti domiciliari in un caustico ambiente in cui regna una dittatoriale supremazia femminile.

Sasà è, infatti, agli arresti domiciliari perché invischiato in una situazione di cui si dice assolutamente innocente. Essendo un geometra del Comune, una sua firma lo inchioda come responsabile di un abuso edilizio. Nonostante le prove schiaccianti, afferma che la firma apposta sugli atti sia stata falsificata. In realtà, basta guardarlo per credere alla sua innocenza. È un bonaccione in balia di una famiglia che lo preferirebbe colpevole piuttosto che accettarne il suo temperamento mite e accondiscendente.

Lo spettatore diviene parte della scena e si trasforma in ospite di questa singolare famiglia, entrando nel vivo delle bizzarre dinamiche della convivenza forzata, forse per l’uomo peggiore del carcere.

La pièce dà ampio spazio ai caratteri dei personaggi che, nonostante i fastidiosi approcci e soprusi sul pover uomo, risultano paradossalmente simpatici.

Nora è una vegana crudista che prepara per il povero detenuto cibi per niente graditi che spingono Sasà a procurarsi di nascosto succulenti salsicce tramite la sua amante.

Quanto al rapporto con la moglie, i bisticci sono all'ordine del giorno e lasciano intuire una relazione ormai stagnante e pregna di insoddisfazione che sfocia in una sopportazione reciproca.

Paola, che si sta preparando per sostenere un esame di anatomia per il quale chiede un aiuto al padre, si dimostra negata per lo studio. Più che ad impegnarsi, sembra molto interessata a perdere tempo con i selfie da pubblicare sui social.

L’anziana madre è una vivacissima vedova sempre alle prese con creme ringiovanenti e ritocchini estetici che danno vita a gag esilaranti. La donna non disdegna di entrare costantemente in polemica con il genero, punzecchiandolo per farlo sentire costantemente un incapace.

Sulla scena c’è spesso Antonio (Andrea Mautone), agente di Polizia alquanto strambo, incaricato di controllare costantemente il recluso. Finirà, suo malgrado, per rimanere coinvolto nella vicenda perché infatuato della giovane Paola, con cui condivide una certa ingenuità e testa tra le nuvole.

Vicende e dialoghi sono ricchi di situazioni comiche. Battute incalzanti si rincorrono e intrecciano coinvolgendo tutti i personaggi in un cocktail dal sapore estremamente comico che accompagna piacevolmente per tutta la storia. Non manca il momento toccante, ben inserito, che efficacemente porta all’epilogo inaspettato.

Il ruolo centrale è retto indiscutibilmente da un grande Enzo Casertano, che sotto il mantello dell’uomo mediocre e remissivo nasconde una carica comica esplosiva dal forte gusto partenopeo.

Beatrice Fazi, pur apparendo arcigna e pungente, sfodera provocatorie battute divertentissime che si abbattono sul povero marito. La ricchezza di sfumature del suo personaggio ci conferma, se ce ne fosse bisogno, il talento di questa artista.

Nel suo continuo infierire sul marito viene spalleggiata da un’esuberante Mara Liuzzi, anche lei artista carica di comicità che entra sempre al momento giusto con le sue toccatine, alimentando il divertimento.

Alessandra si cala egregiamente nei panni della ragazza superficiale e frivola, a cui aggiunge una sua carica dirompente.

A completare l’opera Andrea Mautone, un improbabile tutore dell’ordine impacciato e assai poco marziale dal forte accento romagnolo. Dolcissimo, dall’aspetto spaesato e a volte inopportuno. In questa vicenda i maschi non la fanno certo da padrone!

Insieme alla triade Casertano – Merico – Fazi, treno inarrestabile collaudato e rodato, si aggiungono Mautone e  Liuzzi a dare pepe alla storia e allo spettacolo, a beneficio del pubblico che ride divertito.

 

“Arresti molto… molto domiciliari”
Teatro Golden
Enzo Casertano, Beatrice Fazi, Alessandra Merico, Mara Liuzzi, Andrea Mautone
di Marina Pizzi
Regia Toni Fornari
una produzione Goldenstar AM srl 

 

August 31, 2025


Francesco Branchetti è un regista e attore fiorentino con una lunga e intensa carriera nel teatro, nel cinema e nella televisione. Dal 2000 ha instaurato una solida collaborazione con i più importanti drammaturghi contemporanei, portando in scena numerosi testi. La sua attività professionale si estende anche alla direzione di opere e concerti e alla partecipazione a programmi radiofonici. La sua attività di regista è particolarmente prolifica, e i suoi numerosi spettacoli hanno riscosso un grande successo di critica e pubblico, portandolo in tournée in tutta Italia con un elevato numero di repliche. I numerosi e importanti premi e riconoscimenti lo premiano per la sua professionalità, dedizione e produttività come attore e come regista. Ma chiediamo direttamente a lui dei suoi nuovi impegni.
Francesco, presto riprenderanno i vari spettacoli teatrali che la vedono protagonista e regista. Ha da anni collaborato con nomi importanti in campo teatrale e non solo.

D: Vuoi dirci quando inizieranno e soprattutto chi saranno i suoi compagni di viaggio?

R: Quest'anno proseguirà la tournée di Malena e il tango con Maria Grazia Cucinotta, proseguirà Racconti di cinema e debutterà El fùtbol con Ettore Bassi. Un altro debutto sarà quello de I duellanti con Lorenzo Flaherty e il sottoscritto, poi proseguiranno le tournée di Una come me con Matilde Brandi. Tornerà in scena anche L'onorevole, il poeta e la signora con me, Lorenzo Flaherty e Isabella Giannone. Nella seconda parte della stagione debutteranno Hollywood con Clayton Norcross, un progetto a cui tengo molto, e altri progetti molto interessanti, uno con Stefania Rocca e uno con Enrico Lo Verso. Sarà quindi una stagione in cui contemporaneamente saranno in tournée molti miei spettacoli, alcuni dei quali mi vedono in veste di regista, altri anche di interprete. È una grande soddisfazione, ma anche una grande responsabilità.
Gli spettatori dei tuoi spettacoli sono immersi in un ventaglio di emozioni e generi, dalla commedia più comica e ironica a quella più drammatica e nostalgica. Le sue scelte sono sempre varie e vincenti.

D: Può dirci, in sintesi, quali sono le novità in arrivo e quali le difficoltà che gli addetti ai lavori si trovano spesso ad affrontare?

R: Le novità in arrivo saranno sicuramente i nuovi testi che porterò in scena. Come sempre nascono da lunghe riflessioni alla ricerca di qualcosa di
nuovo che riesca a coinvolgere il pubblico di oggi, pur rimanendo fedele al mio percorso. Per quanto riguarda le difficoltà, credo che essenzialmente quella che incontra chi fa teatro oggi sia relativa alla grandissima difficoltà di fare squadra e di fare rete. Ci troviamo spesso molto isolati nei nostri percorsi, e questo non rende le cose facili in un lavoro già di per sé difficile come quello del teatro.

D: Lei è uno stacanovista. Crede che la sua dedizione al lavoro, che la impegna quasi totalmente a livello fisico e mentale, ripaghi i sacrifici che fa per la sua professione?

R: Sì, credo che i miei sacrifici siano ripagati, almeno abbastanza. Soprattutto dalle soddisfazioni che mi dà il pubblico, ma anche dai viaggi profondi che mi permette di fare ogni allestimento e, di conseguenza, ogni gruppo di lavoro, ogni nuovo testo... si tratta sempre di nuove avventure e questo mi ripaga profondamente.


In arrivo un nuovo tabellone degli spettacoli, con rappresentazioni di spessore come:
    • “El Fùtbol” con Ettore Bassi
    • “Racconti di cinema” con Ornella Muti, Espedito De Marino, Marta De Marino e Silvia Bianculli
    • “Una come me” di Mauro Graiani con Matilde Brandi e Salvatore Buccafusca
    • “Hollywood” di David Norisco con Clayton Norcross
Sarà poi protagonista e regista nella pièce tratta da Joseph Conrad, “I duellanti”, con Lorenzo Flaherty. Riproporrà inoltre il successo de “L'Onorevole, il Poeta e la Signora”, un'esilarante commedia di Aldo De Benedetti che la vede protagonista e regista insieme a Isabella Giannone e Lorenzo Flaherty. Diversi titoli nuovi e altri già di successo.

D: In quali teatri e di quali città verranno rappresentati gli spettacoli?

R: Saranno tutti spettacoli in tournée nei maggiori teatri italiani, sia nelle grandi città che in provincia. Sono molto soddisfatto, e la mole di lavoro non mi spaventa, anzi mi entusiasma.

D: Francesco, sappiamo che si occupa di produzione, distribuzione e organizzazione di spettacoli oltre che di spettacoli di prosa, concerti e balletti. Vuoi spiegarci meglio il tutto?

R: La mia attività come operatore culturale e distributore procede parallelamente alla mia attività di regista e attore un po' da sempre, per cui le varie attività che svolgo non entrano mai in conflitto l'una con l'altra. Anzi, ogni attività mi aiuta a capire meglio l'altra e viceversa. Ho sempre vissuto il teatro a tutto tondo sin da ragazzo e credo sia la maniera più giusta di affrontare questa professione.
Negli ultimi anni, il teatro, e non solo, stanno subendo una trasformazione. L'ascesa dei media digitali e l'ampia disponibilità di contenuti su piattaforme di streaming e social media rendono le grandi arti, come gli spettacoli dal vivo, degne (purtroppo) di un'attenzione minore, soprattutto nelle nuove generazioni. Per alcuni il teatro è visto come una forma d'arte d'élite. Tuttavia, e per fortuna, il teatro continua a sopravvivere per la sua unicità di esperienza irripetibile e per la connessione emotiva tra attori e pubblico. Per rinascere si cerca di portare avanti il tutto con linguaggi più diretti e inclusivi e rappresentazioni più vicine ai tempi nostri.

D: Cosa ne pensa?

R: Non credo molto nell'ossessiva e continua ricerca di essere, come si può dire, attuali. Io credo che un artista, soprattutto oggi, debba portare in scena ciò che sente per lui importante e urgente da condividere con il pubblico. Deve parlare di testi, di argomenti importanti, ma soprattutto sentiti profondamente. Credo che dobbiamo sì, in parte, pensare al pubblico di oggi, ma non farci condizionare troppo dalle mode e dobbiamo sempre rimanere fedeli al nostro percorso artistico, lavorando su ciò che sentiamo di portare in scena... fedeli alla nostra poetica, insomma. Si dà qualcosa al pubblico solo se si è veramente sinceri davanti a lui, solo se si è se stessi e totalmente veri nel donarsi attraverso un personaggio a chi guarda. E allora sì, forse chi guarda riceve qualcosa di profondo dal tuo lavoro.

D: Ho lasciato un piccolo spazio alla fine per permetterle di condividere con i lettori ciò che le sta più a cuore. Qual è il messaggio più importante che vorrebbe lasciare al suo pubblico?

R: Ritorno un po' a quello che dicevo prima, in questo momento il teatro, e soprattutto in questi ultimi anni, è spesso un viaggio, ahimè, solitario. È molto difficile trovare sul proprio percorso dei compagni di viaggio che poi rimangano con costanza nel tempo. È difficile fare squadra, è difficile fare gruppo, e questo forse dipende molto dall'insicurezza profonda che è dilagata dopo il Covid. Credo che bisogna abituarsi a un percorso quasi sempre solitario e poi, qualche volta, quasi per magia, in questo viaggio ci sono degli incontri, magari brevi, ma non per questo meno importanti o meno intensi. Bisogna gioire per questo, oltre che gioire per avere la possibilità di fare il lavoro più bello del mondo, che per me è e rimarrà sempre il teatro.

 

July 22, 2025

 

Se l’illuminazione è uno stato che è raggiunto da pochi studiosi e ricercatori dello spirito, considerati privilegiati nella loro elevazione, la possibilità di entrare in contatto con un’atmosfera che predisponga al raggiungimento di stati evoluti della propria coscienza, ognuno con il proprio punto di partenza e la propria gradualità di percorso, può essere offerta a tutti.

E il film IL MONACO CHE VINSE L’APOCALISSE, che affronta coraggiosamente l’interpretazione della visione profetica di Gioacchino da Fiore, abate e teologo, filosofo, pensatore rivoluzionario e visionario tra le menti più influenti del Medioevo, fa proprio questo. Con la sapiente regia di Jordan River, da sempre affezionato testimone di introspezione animica, la pellicola accompagna lo spettatore in un viaggio storico e spirituale che accarezza i presupposti per cambiamenti epocali, auspicabili anche per i nostri tempi.

Muovendosi tra i sovrani Riccardo I° d’Inghilterra (Nikolay Moss) e Costanza d’Altavilla (Elisabetta Pellini), l’abate florense (Francesco Turbanti), mantiene un’autorità che i poteri temporali non possono scalfire, e che diventa una pratica da mantenere per affrontare anche i mostruosi controllori dell’aldilà, una volta superato il guardiano della soglia (Yoon C. Joyce).

Lontano dal voler essere una pellicola di stampo religioso, tutti gli aspetti che concorrono alla realizzazione dell’opera, dall’uso delle sfumature della cromoterapia nelle immagini, all’altissima definizione a 12k, e l’uso di onde Theta gestite da Bruno Gioffrè nella colonna sonora di Michele Josia, che stimolano le frequenze creative e intuitive del cervello, trasportano la sala in una dimensione che invita a un approfondimento spirituale per qualsiasi provenienza. Al di là di barriere ideologiche, si è portati a una riflessione interiore attraverso il percorso di esplorazione della teoria gioachimita della Trinità: “Ognuno dei tre cerchi attraversa gli altri due; come la Trinità”, che sembra ti dica che la risposta va cercata nell’annullamento della dualità, verso una terza via che è quella che lui definisce dello Spirito Santo.

 “Si dice che i film debbano lasciare delle domande”, afferma il regista Jordan River, “ma io ho cercato anche di dare delle risposte. L’illusione e il male si annidano dentro di noi e impediscono l’evoluzione umana. Non è la persona che bisogna colpire ma il male che c’è nelle persone. Tutto nasce da un’idea che si muove; e se si riesce a superare quell’idea, si arriva al divino”. Come ci insegna Gioacchino quando tratta il tema del Terzo Tempo della Storia della Salvezza: “La prima fu l’età della paura; La seconda è stata l’età della fede; La terza, dovrà essere l’età dell’Amore”.

Staccatosi dalle linee tradizionali della Chiesa e degli ordini monastici del suo tempo, fonda con pochi suoi compagni l’ordine florense in un eremo concepito come il “fiore”; non come traguardo ultimo, ma come presupposto di speranza della ricerca da cui dovrà nascere il frutto. La sua missione è di identificare i nemici degli imminenti tempi apocalittici finali descritti nella Bibbia, e risvegliare il popolo cristiano addormentato verso la salvezza.

Sembra di ascoltare una cronaca odierna che denuncia l’inerzia passiva degli animi dei cittadini, ma sopraggiunto dal XII° secolo, Gioacchino ci dice che i passi della Bibbia devono essere compresi e interpretati:

“Il libro dell’apocalisse di Giovanni è stato fatto come una ruota interna che si protende fino alla fine dei tempi, e che attraversando la fine rivela la profondità dei misteri”, così detta a un suo discepolo nel film. E se il destino degli uomini, risiede tra due mondi paralleli, quello umano e quello trascendentale, comunque ci svela che tale destino può essere cambiato.

Oltre ad essere definito da Dante “il gran calavrese abate Gioacchino di spirito profetico dotato”, e collocato dal padre dei poeti nel quarto cielo del Paradiso, riservato alle anime sapienti, il suo pensiero ha ispirato artisti e filosofi come Montaigne, Hegel, Joyce e Michelangelo nel dipingere il Giudizio Universale e la Cappella Sistina.

Certamente non conosciuto come meriterebbe, la pellicola fa giustizia al fondatore dell’Ordine florense inducendo a una riflessione sulla vita oltre la vita, e la possibilità di creare una realtà di luce e pace interiore anche in questa dimensione umana. “Ognuno di noi ha tante vite”, spiega River. “Ho voluto raccontare una grande storia che mancava, e questa è la storia della nostra salvezza, non della sua”.

Ognuno è accolto dal film in una frequenza fatta di luce, suoni e spunti di riflessione che predispone all’ampliamento della coscienza. Ma al di là dell’aspetto trascendente, anche la dimensione umana apprezzerà l’atmosfera ammaliante delle riprese, la bellezza inevitabilmente contagiosa delle scene, della musica e dello stato d’essere che crea e dalla quale non si può uscire senza esserne contaminati.

Jordan River lo esprime così: “Ho pensato di fare qualcosa di positivo e lasciarlo ai quattro venti. Se lo spettatore è distratto potrebbe perdersi il senso; ma se è attento coglie il messaggio ed esce dalla sala che ha una forza, perché il monaco vince l’Apocalisse!”.

 

 

May 26, 2025

 

Al Teatro Argentina di Roma – dal 7 al 25 maggio - Massimo Popolizio (in veste di attore e regista) porta in scena la sua versione della celebre commedia di Harold Pinter, Ritorno a casa (Homecoming) portato alla luce nel 1964. In questa nuova rappresentazione, Popolizio mette in risalto l’aspetto più conturbante dell’opera del famoso drammaturgo inglese, dipingendo uno scenario sordido e composito, sospeso tra drammaticità e ironia.

Fin dal suo inizio, la storia trasporta il pubblico in un contesto domestico completamente abbandonato a sé stesso, teso e visibilmente decadente. In quell’abitazione proletaria situata nella periferia londinese domina una routine familiare fiacca e stantia, incarnata dal ruolo che ogni singolo membro conduce nella sua gretta quanto pittoresca spontaneità. Max (interpretato da Popolizio) è un ex macellaio ed è l’unico che, dopo la morte di sua moglie Jessie, muove le redini della casa, nella quale vi abitano i suoi figli Lenny (Christian la Rosa) e Joey (Alberto Onofrietti), insieme a Sam (Paolo Musio), fratello di Max e da quest’ultimo continuamente vessato. Il contesto casalingo è una gabbia animalesca in cui prevale la forza logorante dell’abitudine, della totale assenza di dignità morale e della grossolana ostentazione di virilità maschile. Tutto si muove come se nell’ambiente non vi fosse traccia di coscienza: i membri della famiglia sprecano il tempo in futilità, sopraffatti dalla leadership di un capofamiglia astioso che “troneggia” grottescamente nel proprio orgoglio rivangando occasionalmente presunte glorie passate del mestiere di macellaio, tramandato a lui da suo padre. Il disordine della casa stessa sembra riflettere quella trascuratezza nei rapporti reciproci; eccetto la testa di bovino appesa alla parete (per l’appunto), unico vanto che funge da “trofeo in vetrina” capace – a detta di Max – di procurare un briciolo di credibilità all’onore della famiglia.

La normalità viene spezzata dall’arrivo inaspettato di un altro figlio di Max, ovvero Teddy (Eros Pascale), professore di filosofia di ritorno dall’America. Teddy - all’insaputa di suo padre – è sposato con Ruth, giovane e avvenente ragazza, con la quale ha avuto tre figli. Il suo ritorno nella casa di famiglia decostruisce l’ordine di ruoli consolidati, familiari e sociali, all’interno del quale la sola voce in capitolo, atta a comandare e a stabilire regole, era quella impositiva di Max. Ruth si dimostrerà più astuta di quanto gli altri membri della famiglia possano aspettarsi, considerandola semplicemente mero “oggetto di piacere” funzionale alla gratificazione del maschio. Nel caso di Ruth sarà proprio la smania di piacere e godimento a portata di mano di Max, Lenny e Joey a trasformarla in una manipolatrice femme fatale con desiderio di potere; la forza misogina di Max e della sua famiglia, con l’esclusione di Teddy – vera vittima della situazione –, si rivelerà essere in realtà la grande debolezza di cui Ruth si farà gioco. Alla fine, contro la volontà di suo marito Teddy, che tornerà negli States da solo dai loro tre figli, Ruth deciderà di rimanere con Max e il resto della famiglia in Inghilterra per darsi alla prostituzione, mestiere che grazie alle sue doti femminili potrebbe rivelarsi redditizio per tutti. Tuttavia, sarà lei a stabilire le condizioni sugli alloggi e le relative comodità, fino ad avere l’ultima parola su ogni aspetto. Contrariamente agli imperativi incalzanti di Max, in Ruth c’è l’abile affermazione di una volontà che non si impone con la voce, bensì con un simbolismo corporeo che sfoggia tutta la sua sensualità.

Tutto si chiude con una considerazione finale. Il ritorno nella casa natia da parte di Teddy dopo anni dimostra l’inconsistenza di un concetto di “casa” che sfugge al suo significato più autentico. Non può esistere casa senza famiglia, né famiglia senza appartenenza. Teddy spera ingenuamente in un legame primigenio che, malgrado le evidenti differenze rispetto al padre e ai fratelli, avvicina e riduce le distanze; ma soprattutto, scardina l’idea di famiglia radicata sulla mera condivisione di spazi. Il distacco affettivo tra familiari rende ognuno dei protagonisti nient’altro che una presenza ingombrante e autoreferenziale. La “casa” di cui parlava Pinter, non accoglie, non lenisce i dolori di una persona amata ne ristora dagli affanni della quotidianità. La casa diventa uno scenario tragico e ambiguo allo stesso tempo, totalmente deprivato della sua più genuina umanità.

Il vuoto affettivo che l’intimità familiare dovrebbe colmare lascia il posto alla dialettica tra desiderio e vulnerabilità. Ruth svolge il suo lavoro sessuale per riconquistare la sua “autorevolezza” femminile, sentirsi sicura e a proprio agio con la sua vera natura anche in luoghi a lei sconosciuti, verso i quali non condivide familiarità alcuna. La famiglia di Teddy, nel suo torpore domestico, vede nella new entry l’occasione propizia per scuotere la polvere di quella dinamica routinaria, colorita e indolente. Max e suo figlio Lenny pensano alla ragazza come a un soggetto inerme, da soggiogare e imprimervi la loro autorità come garanzia per un sicuro ritorno nel circuito degli affari di famiglia. In realtà, l’intento di Ruth svela con indubbia chiarezza proprio quel male dal quale verrà tutto quanto a dipanarsi: la casa non è più un rifugio, nemmeno per coloro che la abitano da tempo, ma una trappola che invece di arginare accresce l’abbrutimento e alimenta frustrazioni e sentimenti repressi.

La storia si sviluppa come coabitazione forzata, intervallata, grazie all’effervescenza registica ed attoriale di Popolizio, da situazioni brillanti e tragicomiche, che smorzano l’aspetto più turpe e crudo della realtà raccontata. Non mancano, tuttavia, quei silenzi prolungati che sostituiscono la verbosità dei personaggi per spostare l’attenzione su quel nulla che penetra nell’animo come nei meandri della casa. Popolizio ripropone con un’incisività autoriale l’immagine di un microcosmo sociale che Pinter aveva portato per la prima volta in scena negli anni ’60: la famiglia è lo specchio fedele dei grandi cambiamenti della società, di quel caos latente che diviene escalation, genera attriti con l’ambiente circostante, trasforma chi ci è più vicino in un estraneo. E proprio nella rivendicazione narrata da Popolizio, si nasconde, tra i nostri desideri insoddisfatti, il germe della disgregazione.

May 18, 2025

Sì, esistono anche le orchestre un po’ stonate. Con gente abituata al piccone e al martello, che si ritrova tra le mani una tromba o un clarinetto. Con compagni che vanno su sentieri più o meno interrotti, lungo argini di canali poco illuminati, alla ricerca di attimi di oblìo, lontani dal timore di un ultimo naufragio.

Orchestre stonate, dove si coltivano sogni sfilacciati e, semplicemente, ci si conforta dello starsi vicini, del condividere qualcosa che ti allarghi il respiro, qualcosa che riesca a coltivarti dentro il desiderio di un domani.

Poi, all’improvviso, ci si ritrova a percorrere lo stesso campo arato, a navigare sulle stesse acque che vanno, tumultuose o placide, verso il centro del cuore.

E, allora, ti ritrovi lì, sulla poltrona, col Bolero di Ravel che ti rimbalza dentro l’anima, con gli occhi umidi e le luci che malignamente si accendono.

E capisci, allora, che ti è stato fatto un dono immenso e imprevisto:

impregnato di lacrime e consolato da un sorriso …

 

 

L’ORCHESTRA STONATA ( EN FANFARE)

Lingua originale: francese

Paese di produzione: Francia

Anno: 2024

Regia: Emmanuel Courcol

May 12, 2025

Roma, sabato 10 maggio 2025. Un racconto intriso di passione, tensione e bellezza sospesa nel tempo. Adelchi, nella visione di Vincenzo Zingaro, unisce la potenza della parola alla forza della musica, trasformando la scena in un luogo in cui la storia si fa emozione.

 

Alcuni spettacoli scorrono davanti agli occhi e svaniscono, altre esperienze invece restano dentro, lasciando una traccia che il tempo non cancella. Non è soltanto una memoria ma una voce che continua a risuonare, anche quando il palco è ormai in silenzio. Adelchi, al Teatro Arcobaleno, è stato questo: un varco nel tempo, un soffio nell’anima, una risonanza che attraversa il silenzio.  

Ero seduta in terza fila, quasi immersa nella musica dell’orchestra che si preparava sotto i miei occhi. I musicisti erano così vicini che ogni gesto sembrava parte della scena prima ancora che questa iniziasse. E, infatti, non c’è stato un momento preciso in cui tutto ha avuto inizio, perché la musica è arrivata prima delle parole, diffondendosi nello spazio in un lento fluire, tra le sedie e nei fiati sospesi. 

Quando il sipario si è sollevato, sembrava che la storia fosse già iniziata molto prima di quel gesto. Le prime vibrazioni delle percussioni, disposte direttamente sul palco, sono giunte come un battito proveniente da qualcosa di antico e profondo. Un velo di fumo ha cominciato a scivolare sulla scena con la grazia di un sogno, mentre la luce blu, tenue e vibrante accarezzava ogni superficie, emanando nell’aria una tensione quasi sacra. 

Nel cuore di quello spazio rarefatto è apparso Adelchi, immobile e vestito di nero, figura sospesa tra realtà e visione, carica del destino che stava per compiersi.

Vincenzo Zingaro, regista e interprete, restituisce un Adelchi trattenuto, assorto, attraversato da un’inquietudine profonda. La sua voce, priva di artificio, giunge limpida e consapevole, sussurra verità con la delicatezza di chi interroga il silenzio. Ogni parola incide, ogni pausa rivela, scavando nel cuore di chi ascolta, là dove anche l’obbedienza più rigida lascia spazio al dubbio. 

Gli attori appaiono gradualmente, come presenze che emergono dal tempo stesso del racconto. Non formano un coro statico, bensì un susseguirsi di voci e volti che danno corpo, uno dopo l’altro, a una partitura teatrale in cui ogni ingresso ha il peso di una rivelazione. La scena vibra e si sviluppa, costruendo una densità narrativa che cresce, si stratifica, si moltiplica.

Il tempo drammatico si svolge nell’Italia dell’VIII secolo, quando l’equilibrio tra potere temporale e spirituale si frantuma sotto il peso dei regni in guerra. La corte di Desiderio vacilla, Carlo Magno avanza, e Adelchi, personaggio creato da Manzoni per esprimere l’inquietudine morale, si trova sospeso tra l’obbligo della dinastia e il rifiuto della violenza. Non rappresenta l’eroismo della conquista, ma quello della rinuncia: la sua battaglia interiore vale più delle guerre che si combattono intorno a lui.

Il dolore di Re Desiderio non è solo un peso interiore ma una lente attraverso cui osserviamo l’intera corte, dilaniata dalla disperazione e dall’impotenza. In questo contesto, il ruolo di Ermengarda non si limita a quello di una vittima del potere, poiché diventa simbolo di un amore tradito, di una forza che sopravvive nel silenzio della sofferenza. Annalena Lombardi riesce a donare a questa figura una voce che non è solo lamento, bensì preghiera e canto, un filo luminoso in un quadro altrimenti oscuro. La sua presenza è intensa e radiante, tutt’altro che marginale, capace di catalizzare l’attenzione e trattenere l’emozione del pubblico.

Il suo delirio nel convento è un momento fuori dal tempo, un istante sospeso che immobilizza l’intero teatro. 

E poi accade. Albino, messaggero dei Franchi, pronuncia la frase che spezza l’equilibrio:
«E tal risposta è guerra.». Il teatro trattiene il fiato. I Longobardi rispondono in un’unica voce:
«Guerra!». Le percussioni esplodono dal palco come una scarica, un battito primordiale che vibra sotto la pelle. Il suono non accompagna la parola: la completa, la rilancia, la scolpisce nell’aria. È un attimo che frantuma il tempo. Il pubblico non assiste più: viene travolto.

Mentre Desiderio tenta disperatamente di resistere e i suoi alleati progettano il tradimento, Ermengarda muore lontano, consumata da un amore che la politica ha cancellato ma i Franchi sfondano le Chiuse grazie a un sentiero segreto. Il popolo, che sogna la libertà, resta in realtà privo di voce, come quel “volgo disperso che nome non ha”, che risuona oggi più che mai attuale. 

Nel cuore della battaglia, il contrasto tra i Longobardi e i Franchi si materializza non solo nelle parole e nelle azioni, ma anche nei colori che li avvolgono. Il nero dei Longobardi racconta l’ombra della sconfitta che incombe, un’eredità di orgoglio e resistenza che non cede, ma si consuma. Di fronte a loro, i Franchi, vestiti di bianco, sono la luce gelida e determinata che avanza, come una forza venuta da lontano, portatrice di un destino inevitabile. 

E quando, finalmente, Adelchi rinuncia alla gloria, scegliendo la quiete dell’anima, un silenzio profondo e risonante cala sulla scena. Non è un vuoto, ma una sospensione che resta, come una carezza che si allontana. Il pubblico, avvolto in questo silenzio, percepisce il peso di una scelta che trascende il dramma e penetra nelle sue viscere. 

Il buio che segue non è silenzio: è sospensione. L’applauso, che lentamente prende forma, non è un atto dovuto, piuttosto un ringraziamento profondo, uno scambio intimo tra chi ha donato e chi ha ricevuto.

Questa profondità emerge non solo nella regia, ma anche nella fusione della parola e della musica, che Zingaro utilizza come veicolo per esprimere l'intensità del testo. Adelchi non è solo un racconto drammatico, è una conversazione profonda, in cui la musica di Zappalorto, delicata e penetrante, diventa un'eco delle emozioni. Le percussioni di Maurizio Trippitelli, collocate sulla scena, vibrano come risonanza profonda, mentre il resto dell’ensemble, archi, fiati e tastiere, suona da sotto il palco, evocando presenze invisibili. La scelta della lettura-concerto, che richiama il melologo, è intrisa di un’attualità che non conosce nostalgia ma rivela una potenza espressiva unica, capace di immergere lo spettatore nell’intimità del racconto.

Dei 2.100 versi composti da Manzoni, ne restano circa mille, selezionati con cura per preservare la forza lirica dell’opera anche nella sua essenzialità.

Zingaro, con una direzione misurata e sensibile, permette al testo di respirare e di trovare il suo spazio, senza essere soffocato dalla fretta. Il suo approccio evita qualsiasi eccesso, puntando a un'esperienza che invita lo spettatore a una riflessione profonda, immerso nella bellezza e nella verità del classico, rinnovato e vivo.

All’esterno del teatro, le luci della città appaiono più sfocate, quasi lontane, come se l’esperienza vissuta continuasse a vibrare nell’aria. Quello che è accaduto non si dissolve, ma si trasforma in qualcosa di più duraturo: una memoria viva, un'eco che ci accompagna. Un respiro che non finisce mai, proprio come solo il grande teatro sa fare.

 

 

 

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