L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Cultural Anthropology (22)

D.IENNA

Domenico Ienna
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Preambolo sull’alimentazione in generale

La storia dell’alimentazione ha sempre vissuto - a seconda dei casi per individui, popolazioni e istituzioni nel mondo - un suo Inferno e un suo Purgatorio caratterizzati da sofferenze e crimini più o meno gravi (drammi di fame e sete per guerre e carestie;interessi fuori controllo e sofisticazioni da parte di alcune multinazionali e agromafie, con povertà e patologie ad essi collegate; sprechi e disordini alimentari soprattutto nei Paesi più sviluppati; “diete” e modelli fisici che snaturano senso e valori della nutrizione; contributi sui media oscillanti tra idolatria e “pornografia alimentare”, con spettacolarizzazione del cibo da parte di “chefs” promossi “maîtres à penser”...), ma comunque anche un suo Paradiso - certo di difficile raggiungimento - che riassume in pratica tutto ciò che è sotteso all’accezione più completa di “dieta” (buone pratiche su qualità e quantità della nutrizione; recupero e rispetto del gusto; opportuni rapporti dell’alimentazione con altri ambiti della vita; possibilità di scelta da parte dei consumatori con filiere tracciabili dei prodotti e potenziamento dell'economia locale.

Sulla Pastasciutta al Pomodoro

Ho avuto già occasione di trattare la storia della Pastasciutta in modo esteso, mediante lo svolgimento propedeutico di tre vie di ricerca: influenza cromatica su funzione e gradimento degli alimenti, storia della Pasta e affermazione nella nostra cultura del Pomodoro; temi che convergono nell’analisi del prodotto di cultura materiale e simbolica detta appunto “Pastasciutta al Pomodoro”, cioè Pasta condita con salsa di Pomodoro, semplice oppure integrata con carne.

La Pasta

Ѐ alla Sicilia influenzata dalla cultura araba del sec. XII che risalgono le prime testimonianze europee di produzione di pasta fresca oppure secca, mentre la successiva fase relativa in ambito italiano si apre coll’importazione di tale prodotto dall’isola a Napoli verso la fine del ‘400. Se è comunque due secoli dopo che la Pasta comincia ad assumere un ruolo importante nella città partenopea - a causa d’emergenti problemi demografici, politici, economici alleggeriti però da soluzioni “tecniche” di produzione la sua affermazione perfino al Sud non risulta ovunque rapida, e neppure uniforme.

Il Pomodoro

Al Meridione d’Italia – certo storicamente abile ad assorbire e (ri)creare popoli, culture, politiche e governi - va riconosciuto pure un efficace sincretismo alimentare realizzato tra prodotti agricoli e d’allevamento, tra colture autoctone e di provenienza americana.

Tra fine ‘600 e ‘700 compaiono le prime citazioni e conferme del Pomodoro come ingrediente gastronomico riconosciuto, in ricette che non prevedono però il suo utilizzo insieme alla Pasta.

Nell’ambito specifico invece delle salse - fino al periodo rinascimentale consumate brunite, e imbiancate poi nel secolo XVII – risulta evidente la rivoluzione che coinvolge le stesse con l’impiego progressivo d’un frutto, cromaticamente “deciso”, come il Pomodoro.

Riguardo all’odierna filiera di tale ex “Eroe dei Due Mondi” in quanto ormai globalizzato (grandi produttori/esportatori Cina e Stati Uniti; in Italia coltivato nel nocerino-sarnese sin dall’Unità, e poi in Puglia dagli anni ‘50/’60 del secolo scorso; con Napoli e Salerno attualmente terminali dei maggiori quantitativi di prodotto proveniente dall’estero), non posso esimermi dal fare triste menzione di tragici incidenti legati alla coltivazione intensiva dello stesso: morte di lavoratori per sinistri certo di strada, ascrivibili purtroppo però anche alla complessa e critica organizzazione produttiva del frutto, da tempo suscettibile di narrazioni di tipo non solo romantico…

La Pastasciutta al Pomodoro

La storia dei protagonisti del piatto qui analizzato vede la Pasta e il Pomodoro dapprima intenti a vivere le loro esistenze senza alcun interesse reciproco, legati ad altri “partners” più o meno costanti di frequentazione; poi finalmente uniti in Pastasciutta - nella terza vicenda di Pasta del nostro Paese – con passione espressa ancora però in modo discreto. Un’attrazione comunque in seguito sempre più difficile da contenere - che d’un piatto appetibile fa soluzione geniale di dieta, e pure icona simbolo di nostri luoghi e genti, natura e cultura.

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“Focus” specifico questa sera sul tema, una breve riflessione sul contesto storico in cui ha visto la luce la prima documentazione editoriale dell’“invenzione”-Pastasciutta, concepita negli anni ’30 dell’800 ma formalizzata a Napoli solo verso la fine di tale decennio.

Nella seconda edizione della sua “Cucina teorico pratica” (Napoli, Tipografia G. Palma, 1839) infatti, il cuoco letterato Ippolito Cavalcanti (duca di Buonvicino 1787-1859) inserisce nell’appendice “Cusina casarinola co la lengua napoletana” - tra molte ricette tratte da subculture diverse - per la prima volta proprio una Pastasciutta di vermicelli, conditi con salsa di Pomodoro appositamente preparata alla bisogna.

Perlomeno due riflessioni sul momento “storico” di tale ufficializzazione. Se la Pastasciutta al Pomodoro nel nostro immaginario appare forte simbolo d’italianità “da tempo” in campo, risulta essa in realtà molto più recente o coeva rispetto a caratterizzazioni altre d’ambito stesso: compare ad esempio molto dopo la creazione del Corpo dei Carabinieri Reali (1814), poco dopo quella dei Bersaglieri (1836) e in contemporanea – su territorio nazionale - alla prima ferrovia Napoli–Portici e all’ottimizzazione tecnica delle riprese fotografiche (1839). Non solo cibo forse allora, ma reazione simbolica al grave momento politico e ambientale che stava vivendo tutto il Paese, funestato da repressioni di moti mazziniani, gravi epidemie di colera e forti inondazioni (1833-1839)?

Da diversa prospettiva storica, l’incontro gastronomico Pasta-Pomodoro avvenne però ben due decenni prima dell’intesa - questa volta politica – del cosiddetto incontro di Teano tra Vittorio Emanuele II di Savoia e Giuseppe Garibaldi (1860): tanto che la famosa battuta attribuita a Massimo d’Azeglio (in realtà del politico Ferdinando Martini) dopo l’Unità d’Italia “Fatta l’Italia, occorre fare gli Italiani”, avrebbe potuto essere - opportunamente anticipata al 1839 – così formulata: “Fatta la Pastasciutta al Pomodoro, occorre fare l’Italia, e poi gli Italiani”.

 

Domenico Ienna

Da Sofija dei Bulgari a Palma de Mallorca - fino a Piazza dei Ravennati d’Ostia Lido - va l’iter migratorio di Georgi imbianchino, valente musico però d’orecchio e scuola, e pure di cuore. Dopo anni di Baleari, da cinque pizzica infatti corde di chitarra fronte Tirreno, sopra il Pontile mitico della spiaggia romana.

Di chioma candida - e brunito viso proprio di chi mira sempre Sud e onde lontane – si presta a chiacchiere solo dopo l’occaso in mare verso Fiumicino: con l’ombra allora da Torvajanica che sale, e sfuma graffiti e gente sorpresi sul “white carpet” di pietra, e corre giù giù fino alla Rotonda confusa d’orizzonte.

Caro Georgi - tra balaustre gonfie di vento e di salsedine - quanti ragazzi hai fatto innamorare, quanti maturi ri-sognare, quanti solitari ri-sperare, e quanti bambini danzare lieti ai tuoi tanti “revivals” di Mondo e d’Italia? A note sempre solo sussurrate, col garbo di chi libera tra cielo e mare finalmente i suoi aquiloni…  

Regalaci però presto anche il tuo folk ricco di Balcani: per fare di Mar Nero e Tirreno acque unite – al profumo di rose bulgare – per poesie d’Europa…

 Domenico Ienna

“Che cos’è il Natale?". Come colpiti da improvvisa amnesia, ce lo chiediamo ancora più di duemila anni dopo l’evento tradizionale della Natività, ricordato come ricorrenza più importante nei calendari liturgico e civile. Ma non sembri per nulla ozioso, oggi, tornare sui nessi simbolici non solo cristiani, le sovrapposizioni calendariali e gli aspetti folklorici che hanno definito la festività così come viene tuttora vissuta, visto che questi appaiono ormai quasi perduti tra i riti alienanti di un'altra divinità, meno etica certo e purtroppo mai sazia, quella attualissima ed onnipresente del Consumo.

Nel calendario la festa viene a trovarsi in un periodo piuttosto omogeneo per le credenze e le tradizioni che lo contraddistinguono (rinascita della luce, auguri e regali, confusione ed euforia rituali, giochi tra amici e familiari, particolare considerazione goduta dai bambini, maggiore disponibilità verso mantiche e pronostici), della durata di ben trentadue giorni, dalla festa di S.Nicola di Bari (6 di Dicembre) all’Epifania (6 di Gennaio). Al centro di questo mese rituale è il Natale, intimamente legato all'importante evento astronomico del Solstizio d’Inverno che cade quest’anno il 21 di Dicembre. Tanti, in proposito, i “gadgets” festivi dai beneauguranti cromatismi vitali del rosso e dell'oro, chiaramente ispirati al simbolismo solare.

Non per nulla, già nella Roma imperiale, protagonista pre-cristiano d’una cruciale ricorrenza dicembrina era infatti proprio l’astro del giorno, in risalita sulla volta celeste dopo la stasi solstiziale (“Sol Invictus”); questo fu identificato poi successivamente - tramite opportuni collegamenti simbolici, con il Salvatore di Bethlemme - venuto a proporsi agli uomini di buona volontà come stella di Luce ma pure d’Amore.

Sorprende poi il confronto tra Cristianesimo e Mithraismo (culto di provenienza indo-iranica, diffusosi in Occidente dal I secolo a.C.), viste le notevoli affinità simboliche esistenti tra i rispettivi apparati mitici: Mithra infatti - divinità solare - era nato da una roccia presso un albero sacro, alla presenza di alcuni pastori che gli avevano reso omaggio con rustici doni.

Come simboli collegati al Cristo e alla sua nascita, furono visti l'Anno in procinto di rinnovarsi - tra speranze ed euforia - verso un nuovo ciclo non solo cosmico, stagionale e biologico, ma anche spirituale, con il Divino atemporale incarnato come Evento nella Storia; il Ceppo di Natale posto nel camino per durare fino all'Epifania; e il suggestivo Albero della Vita, maestoso sempreverde ornato di frutti e di luci sostegno omeopatico al Sole che rinasce, e di strenne per auguri scambievoli tra gli uomini.

Vennero a rappresentare ancora il Salvatore - che del resto aveva parlato di sé come “'Pane della Vita” - anche le grandi focacce speciali della tradizione festiva italiana ("Pan d'oro") ed europea (“Pain de Calandre", "Christmas-Bathc"), arricchite d’uva passa (''Pan di Tono"=Panettone) o pure di spezie nel XIV secolo (“Pan forte" o "Pan speziale", "Pan Pepato”), in accordo con la concezione folklorica del Natale come “giorno del Pane”.

Così il Natale viene a fornire ogni anno - pur nella concezione temporale rettilinea della vicenda cristiana - speranza, esigenza e opportunità cicliche di rinnovamento, anche al di là della specifica matrice confessionale a cui la festa appartiene.

Nel folklore regionale italiano, la notte del 24 è considerata poi particolarmente magica, in quanto l’evento grandioso che vi si svolge libera energie e magnetismi incanalati - di volta in volta - da esigenze diverse. In questo momento speciale dell’anno, infatti, si crede che alcuni filtri trovino la loro efficacia; che sia favorita (durante la Messa di Mezzanotte) la trasmissione - tra operatori e apprendisti - della virtù di guarire alcune patologie; poi anche, però, che i nati nel periodo (se vi cade il plenilunio) siano esposti in futuro - se maschi - a licantropia, se femmine a stregoneria e sonnambulismo.

Come già detto, tutto il mese che va dalla ricorrenza di S. Nicola (“Sanctus Nicolaus” benefattore di giovani e fanciulli, divenuto “Santa Klaus” negli Stati Uniti dopo peregrinazioni e aggiustamenti narrativi) all'Epifania, oggi è periodo soprattutto di giochi e regali. Speriamo allora di poter esclamare - nell’intrattenimento più comune del momento - "Tombola!", per scacciare con soddisfatta meraviglia ansie e noie dell’anno trascorso.

Una risposta ai dubbi d’amore negli insediamenti alpini può darla il lancio di una cidulina ardente, un rituale la cui origine si vuole fare risalire al culto per il dio Beleno, una divinità celtica assimilabile ad Apollo. Secondo quanto risulta dalle fonti letterarie ed epigrafiche, Beleno era venerato in Carnia e in Venezia Giulia nel III secolo dopo Cristo.
Nelle località nelle quali il rituale è in uso le ciduline assumono denominazioni diverse: pirulas in Val d’Incarojo, cidules nel resto della Carnia, fideles nel Cadore, scheiben-schagen nel Tirolo.
Le ciduline sono sezioni di ramo (o di tronco non sviluppato) di circa 10 cm, con un buco praticato al centro. Lo spessore della cidula è di circa 1 cm al centro e di 5 mm ai lati. Il legno usato è prevalentemente il faggio, perché è leggero, di facile intaglio e una volta acceso mantiene a lungo la brace. A officiare il rito in passato era prerogativa dei coscritti. Al momento, come conseguenza dello spopolamento degli insediamenti alpini, al lancio provvedono le persone di buona volontà, sempre, comunque, di sesso maschile.
In date stabilite le ciduline vengono gettate un po’ alla volta su un fuoco di sterpaglie appositamente acceso. Il luogo scelto per questo falò è solitamente uno spiazzo ubicato su una altura che sovrasta l’abitato, in maniera che lo spettacolo sia ben visibile.

Le fiamme non consumano i dischi di legno ma li trasformano in palle di fuoco. A questo punto le ciduline vengono prese con un’asta flessibile, di solito un bastone di nocciolo, che in Val d’Incarojo è denominato sdombli, e, dopo essere roteate con moto vorticoso, vengono lanciate giù per il pendio. Questo avviene perché l’operatore sbatte l’asta su una tavola inclinata in modo tale che la palla di fuoco si stacca dal bastone ed inizia la sua traiettoria. L’operazione si svolge dopo il tramonto, quando le ciduline incandescenti nell’oscurità risultano ben visibili.
Quando il dischetto infuocato inizia il suo volo il lanciatore grida la dedica, che può riguardare, al primo lancio, il santo patrono (“par un pin e par un pan, angna kest an è la vea di San Giuan", par un pin e par un pan, anche quest’anno è la veglia di San Giovanni) e nei successivi qualche volta (ma sempre più raramente) le autorità del posto e cioè il sindaco e il parroco. Quando, come nei casi che ci interessano, la motivazione del lancio è di natura sentimentale, l’operatore grida il nome della donna amata o della coppia per la quale si fa l’accertamento. Con le ciduline l’accertamento sentimentale si può infatti condurre in conto proprio o in conto terzi.

Naturalmente possono variare, secondo disponibilità, da località a località, il tipo di legno, la forma, la tecnica usata per il lancio: a Cercivento la cidula viene lanciata con una mazza, come fosse una palla di golf. Quando l’operazione non è promossa a fini turistici, identica è invece la funzione rituale svolta, l’accertamento cioè di un amore.
Il lancio delle ciduline ha un suo calendario, e la motivazione del rito, pur avendo una costante, l’amore, presenta, una serie di varianti. A Cleulis il lancio intende prevalentemente accertare se l’unione del lanciatore con la donna amata sarà duratura, a Canali, Salârs e Zovello se l’amore è ricambiato.
A Paularo il lancio di una cidulina avviene, a discrezione dell’operatore, con varie finalità: con il lancio il giovane mira ad accertare:
- se quello dichiarato dalla propria fidanzata è un amore sincero;
- la consistenza dell’amore di una coppia amica;
- le prospettive dell’amore della coppia amica.
La risposta al quesito formulato la fornisce, dopo il lancio, il punto di arrivo della cidulina. Il lanciatore ad esempio può stabilire che la palla di fuoco arrivi a un determinato posto. Se la cidulina arriva lì, la risposta al quesito è positiva. Se la palla di fuoco non arriva lì, la risposta è negativa. Ma non è il caso di drammatizzare: la sentenza non è senza appello, il quesito si può ripresentare l’anno successivo.
Per una cognizione dei luoghi, ove non citati, cui vanno riferiti i comportamenti esposti vedasi pag 52 e segg. di “Il mondo magico dell’amore”, di Nino Modugno, La Mandragora, Imola.

 

Nino Modugno

Non è in una chiesa ma in una capanna che, prevalentemente, a Palawan si celebra il matrimonio fra due componenti del gruppo etnico Tagbanua: lo sposalizio è uno stato di passaggio accompagnato in tutte le culture da particolari rituali.
Palawan è una delle 7107 isole che compongono la repubblica delle Filippine, la quinta in ordine di grandezza. E’ un’isola relativamente sottopopolata, la sua densità, è meno di 30 persone per Kmq (il censimento di popolazioni nomadi fornisce dati approssimativi), ma il tasso di incremento annuo dell’isola (4,3 per mille), nettamente superiore a quello nazionale (2,6 per mille), dovrebbe a lungo termine modificare la situazione. I Tagbanuà, una delle etnie più antiche della Filippine, sono prevalentemente sedentari e cristianizzati a differenza di altri gruppi etnici dell’isola, come i Batak. Convertiti da lungimiranti missionari hispano-filippini, i Tagbanua hanno conservato le antiche tradizioni, mescolando senza problemi la teologia locale con quella cristiana, così come hanno fatto a suo tempo le popolazioni del golfo di Guinea trapiantate nei Caraibi al rretempo della tratta degli schiavi. Rimarchevole che, al momento della penetrazione spagnola (XVI secolo), i Tagbanua presentavano una organizzazione sociale evoluta, disponevano di un alfabeto di 16 caratteri e di una propria scrittura, orientata dal basso verso l’alto e da destra verso sinistra.

Le nozze di due giovani Tagbanua si celebrano in una capanna, che può essere quella di uno dei due fidanzati o quella del divata, il sacerdote-sciamano officiante, cui spetta, per consuetudine, la cattura della prima uscita di pesca o il primo nato dell’allevamento animale. I due fidanzati siedono al centro della capanna. Il divata, borbottando parole incomprensibili per i presenti, si avvicina ad essi con un recipiente pieno di olio di cocco (qualche volta il recipiente è costituito da una mezza noce di cocco o è sostituito dal palmo della mano), intinge un dito nell'olio, traccia una linea sul braccio dello sposo, dall'estremità dell'indice fino alla spalla. Alla sposa traccia una linea analoga, prolungandola fino al seno. Al termine dell’unzione i due fidanzati sono marito e moglie.

 

Nino Modugno

Gli Ona, presenti in tutta l'Isola Grande della Terra del Fuoco, sono rimasti a lungo confusi con le altre popolazioni fueghine.
Il ritardo nella individuazione di quello che costituiva il gruppo etnico più numeroso della Terra del Fuoco sembra doversi attribuire alla morfologia dell'Isola Grande: le coste orientali, dove gli Ona si affacciavano al mare, sono prive di porti e sono seminate di bassi fondali, il che teneva lontane le navi.

Solo nella seconda metà del XX secolo gli Ona sono stati individuati. Ne hanno riconosciuta l'esistenza i missionari anglicani di Ushuaia, i primi anche a classificare la popolazione fueghina in Alacaluf, Yaman e Ona (gli Haush erano già' scomparsi); per conoscerne i costumi si è dovuto attendere il 1879 quando, Ramón Serrano Montaner (a quel tempo capitano di marina, poi, dal 1900 al 1903, deputato al parlamento cileno) ebbe il coraggio di addentrarsi all'interno dell'Isola Grande guidando una spedizione nella zona pianeggiante.

Nella circostanza si evidenziò come grande fosse l'errore di avere accomunato i gruppi etnici. Gli Ona differivano non solo per il linguaggio ma anche, vistosamente, per l'aspetto fisico. Gli Alacaluf e gli Yamanes erano piccoli di statura e sformati agli arti inferiori. Gli Ona erano longilinei e con un fisico ben proporzionato. Il padre De Agostini, un missionario salesiano che ha soggiornato più di trenta anni in Terra del Fuoco riassumendo nella sua persona, in misura eccelsa, cultura geografica, alpinismo e carità cristiana, in uno dei suoi volumi ("I miei viaggi alla Terra del Fuoco", Paravia, Torino, 1934), ha così presentato la razza ona: "La statura ha proporzioni da gigante arrivando fino a 1,90, con una media nell'uomo, di m 1,75 e nella donna di m 1,70. Il colore della pelle è alquanto abbronzato e vi aggiunge molta vivezza il rosso delle guance che si osserva in molti di essi e che nelle giovani forma la principale attrazione. Hanno la testa grande, la faccia schiacciata , i capelli nero, fitti, setolosi, occhi un po' obliqui, neri, vivi, somiglianti nella forma alla razza mongolica, ...la bocca larga con labbra aperte ordinariamente al sorriso. I denti sono sani e di sorprendente bianchezza. Ad accezione dei capelli, gli Ona non lasciavano crescere sul loro corpo lanuggini di sorta ed il desiderio di sembrare belli li obbligava a strapparsi i peli della barba e delle ciglia. Il volto quindi presenta sempre uno strano aspetto giovanile, motivo per cui è assai difficile giudicare la loro età”
Ogni giorno gli Ona dedicavano un po' del loro tempo alla cura della persona. Le donne portavano una frangetta sulla fronte, gli uomini esteriorizzavano eventi o stati d'animo colorando l'epidermide. La colorazione era evidente: pur vivendo in un ambiente rude e freddo: gli Ona, al pari degli altri gruppi etnici, mancavano di qualsiasi tipo di vestiario chiuso o aderente, si coprivano con un pezzo rettangolare di pelliccia di guanaco che lasciava scoperte le braccia e le gambe. Ai piedi gli Ona portavano calzari di pelle dello stesso animale. "In ambo i sessi si trovano individui che per la grazia del volto, per la correttezza e la proporzione delle membra, si possono considerare come veri modelli di forme e di eleganza" (De Agostini, op.cit.).

A sviluppare e a mantenere il loro aspetto contribuiva l'abbondanza di cibo, il continuo e regolare esercizio fisico dovuto alle esigenze di caccia, il clima molto più secco e salubre di quello del versante orientale , dove vivevano gli Acaluf e gli Yamanes.

La necessità di cambiare continuamente posto alla ricerca di cibo imponeva l'adozione di una abitazione semplice, quella che, una volta smontata, la donna, che nella circostanza, si trasformava in una bestia da soma, poteva portare, unitamente ai pochissimi utensili, sulle spalle. L'abitazione era una capanna di pelli di guanaco montate su assi di legno. Durante i trasferimenti l'uomo portava solo archi e frecce per essere sempre pronto a colpire la selvaggina. che costituiva l’alimentazione di base della comunità

 

Nino Modugno

Sostanze e comportamenti in grado, secondo le tradizioni popolari, di migliorare le prestazioni sessuali.

 

Una volta che si è fidanzato o sposato l’uomo deve essere all’altezza della situazione. Ma non sempre è così. O magari, nella circostanza, l’uomo vuole strafare. Nella prima o nella seconda ipotesi l’uomo per dilatare le sue capacità amatorie ricorre a vari elementi della natura, cui ai nostri giorni le credenze popolari attribuiscono il potere di aumentare il desiderio sessuale:

—   polvere di cantaride. La cantaride, come è noto, è un coleottero di colore verde con riflessi dorati;

—   polvere di ossa di tigre. La polvere a Shanghai va versata in un bicchiere di vino. La polvere di corno di rinoceronte, pur seguitando a godere della sua fama secolare, in Cina è pressoché introvabile;

— acqua addolcita con miele, o cannella, o spumante dolce;

—   l’acqua di una fontanella di Licata. La fontanella si trova in via della fontanella, di fronte all’ospedale cittadino;

—   la zuppa con i vermicelli di riso;

—   un infuso di pelle essiccata di geco;

—   un infuso di “Alcanfor”, vale a dire di foglie dell’albero della canfora;

—   le Amanite Caesaree, i funghi volgarmente chiamati “Ovuli buoni” e che a Frattamaggiore, dove è stata riscontrata la credenza, chiamano con una espressione che, tradotta in italiano, suona “tuorli d’uovo”;

—   i “frutti di mare”, termine con il quale si riassumono tutti i crostacei e i molluschi commestibili che vivono in mare;

—   un riccio cotto;

—   la rucola (Eruca saliva). Perché non perdano la loro efficacia, le foglie della pianta devono essere consumate crude. A Roma la pianta è più conosciuta sotto la denominazione di “rughetta”;

        il dragoncello (Artemisia dracunculus), che a Monterigioni, è chiamato, non a caso, “erba d’amore”. A Monteriggioni con il dragoncello si condiscono gli spaghetti: se ne utilizzano le foglie e le sommità fiorite;

        l’ulivo benedetto la Domenica delle Palme passato sulla schiena mentre si dice “San Cosma e Damiano, io medico e tu sani”:

        la zuppa Sopa de machos (salame di testicoli di toro, sedano, menta e altro) in menù a Casa de Oro, ristorante di La Paz (Bolivia):

        i fichi d’India:

        la polvere di un camaleonte essiccato messa in un profumo poi applicato sul collo,

        la testa del pesce;

        il liquore ottenuto macerando per una settimana in un litro di tequila 30 grammi di Damiana (Turnera diffusa var aphhrodisiaca), piccolo arbusto delle Turneracee;

        il balut (parola che, in linguafilippina, significa "incartato"); consiste in un uovo di anatra o di gallina fecondato e bollito nel suo guscio poco prima della sua schiusa, quando l'embrione al suo interno è quasi completamente formato. In relazione ai suoi poteri afrodisiaci, a Baguio viene offerto durante la notte da venditori ambulanti;

                           i semi di cardamomo in vino caldo:

—   il rosmarino, se ingerito in piccole dosi o messo nell’acqua del bagno;

        il sedano: va consumato crudo;

                 il prezzemolo. Anche questa pianta va consumata cruda;

        foglie di una pianta rampicante detta a San Costantino Albanese "qurpero". Si mangia con gli spaghetti, con la pancetta, con la verdura cotta;

        un profumo qualsiasi nel quale siano stati immersi: valeriana, polvere di Piedra de Iman, cenere di colibrì. La piedra de Iman (magnetite, ossido di ferro Fe2O4) è la pietra su cui giacque il corpo di Cristo dopo la discesa dalla croce. Le sue proprietà miracolose sarebbero state scoperte da Goffredo di Buglione nel corso di una sanguinosa battaglia contro gli infedeli sotto le mura di Gerusalemme. I colibrì sono presenti solo nel continente americano: questo comportamento risulta infatti praticato a Cuba:

—   sangue di toro o di vitello raccolto e bevuto al momento del macello.

      Anche in altre parti della terra si attribuisce al sangue un potere afrodisiaco. L’animale in questione è il serpente. In Vietnam il sangue di questo rettile diventa afrodisiaco l’ultimo giorno del mese lunare. In Cina al sangue di serpente si aggiunge un liquore, a Taiwan il vino. A Taipei questo intruglio viene posto all’asta al termine di un combattimento tra un cobra e una mangusta (vince sempre la mangusta). L’asta non va mai deserta e raggiunge cifre interessanti. Osservando lo spettacolo viene da pensare che l’efficacia di questo afrodisiaco sia temporanea: i vincitori dell’asta, bevuto l’intruglio (il bicchiere che lo contiene va restituito agli organizzatori del match cobra-mangusta), si allontanano velocemente per andare a raggiungere la loro donna.

      Alcuni alimenti acquistano proprietà afrodisiache solo in determinati periodi dell’anno. Così ad Amaseno diventa afrodisiaco un formaggio detto “marzolino”, confezionato, come dice il suo nome, nel mese di marzo, e a Marana (L’Aquila) lo diventano i funghi raccolti dopo la mezzanotte del 23 giugno e prima dell’alba del 24. Colti prima di essere raggiunti da un raggio di sole e quindi bagnati di rugiada, nella breve “notte delle streghe” acquistano particolari proprietà molti vegetali, fra i quali appunto i funghi.

         Per una cognizione dei luoghi, ove non citati, cui vanno riferiti i comportamenti esposti, come pure per la collocazione geografica (provincia per l’Italia, stato per l’estero) degli insediamenti menzionati vedasi pag 12I e segg. di “Il mondo magico dell’amore”, di Nino Modugno, La Mandragora, Imola.

Nino Modugno

 

Ritenute responsabili di eventi gravi quali la morte di un giovane, una malattia improvvisa, un’epidemia, un raccolto mal riuscito, una siccità prolungata, centinaia, forse migliaia, di persone innocenti, accusate di stregoneria, finiscono i loro giorni, ghettizzate, in appositi campi di detenzione ove le recinzioni, come vedremo, non sono necessarie. Questi insediamenti sono conosciuti come ‘witch camps’ ed hanno la finalità di neutralizzare la presunta negatività delle persone ospitate. Nella scarsa dottrina che li ha presi in considerazione i campi sono identificati con il nome della entità amministrativa (Gambaga, Gnani, Gushiegu, Kpatinga, Kukuo) cui appartengono.
Salvo quello di Gnani, i campi ospitano solo donne che, eufemisticamente, sono chiamate vecchie signore. Come le loro controparti femminili, gli uomini presenti sono stati accusati di aver provocato morte o malattie attraverso la magia nera. Anche negli altri campi arrivano maschietti ma, una volta emendati, vengono rispediti al mittente in quanto nell’Africa Occidentale si ritiene che gli uomini usino l’arte magica per costruire, le donne per distruggere.
Le abitazioni dei witch camps non dispongono di energia elettrica e servizi igienici: sono capanne in “banco”, circolari per le donne, quadrate o rettangolari per gli uomini. Con il termine banco nell’Africa Occidentale si sintetizza la materia prima utilizzata per l’innalzamento della capanna. Il banco è costituito da un insieme di argilla, fango e paglia amalgamati nell’acqua dove ha bollito il frutto del neré (Parkia biglobosa), un albero spontaneo che mai in Ghana viene abbattuto in relazione alla sua utilità. E’ il caso di fare presente che, nelle regioni settentrionali del Ghana, nessuna capanna dei villaggi dispone di servizi igienici, pochissime sono collegate alla rete elettrica, quando – ed è molto raro – la rete elettrica c’è.
I tetti delle capanne sono di paglia. Quando l’harmattan, il vento secco e polveroso che soffia tra novembre e marzo dal Sahara al Golfo di Guinea, compromette, restringendoli, i vegetali della copertura, il tetto non protegge più l’abitazione dall’acqua piovana e va rifatto. Solo a Kpatinga, grazie all’associazione umanitaria Word Mission International, i tetti sono in lamiera. Durante la stagione secca a Gambaga, Gushiegu, Kukuo il pozzo centrale del villaggio si estingue e l’acqua va attinta al corso d’acqua più vicino che per Kukuo è il Volta Bianco, a 4,5 chilometri dal villaggio.

I campi hanno un gerente chiamato tindana (se donna magazia). Questi riceve ed ammette nel campo le persone accusate di stregonerie ed accerta la fondatezza dell’accusa. L’accertamento dello status di strega è in pratica un’ordalia, il Giudizio di Dio in uso nell’Europa medioevale. Il tindana (o magazia) taglia la gola ad un pollo e al termine dell’agonia lo lancia in aria: se l’uccello cade sulla schiena il soggetto è innocente, in caso contrario è strega. Se l’animale è caduto frontalmente la persona sotto esame deve essere esorcizzata con un rituale praticabile solo in questi campi specializzati. Al tal fine il tindana prepara un intruglio (fango, sangue di pollo, ossa triturate di testa di scimmia) che la persona deve ingurgitare. Poi per sette giorni si tiene la persona sotto controllo. Se al termine dei sette giorni la persona sta bene, la pozione è stata efficace, se ha accusato qualche disturbo l’operazione deve essere ripetuta.
L’accusa alle streghe più ripetuta è quella di essere responsabili di malattie gravi e di decessi senza spiegazione. L’accusa nasce dal convincimento, diffuso non solo nel Ghana ma anche in altre entità statali dell’Africa subsahariana, che vuole che le malattie derivino non da fattori biologici ma da fattori magici e che non tutte le morti siano naturali: quella di una persona anziana viene accettata senza sospetti, il decesso di una persona giovane viene invece attribuita a cause esterne alla persona per cui vanno cercate le responsabilità dell’agente che le ha provocate.
Anche i sogni alimentano l’accusa di stregoneria: la persona vista in sogno è spesso considerata una strega o un mago. Yagu Dinambo si trova a Ktapinga perché un cugino, nel 2007, quando era già vedova, l’ha accusata di tentato omicidio: il cugino, figlio di suo fratello, aveva sognato che Yagu suonava un particolare tamburo che nella tradizione del posto si usa per i funerali; al momento dell’intervista, cioè 6 anni dopo quel sogno, il cugino risultava vivo e vegeto. Altri casi: la signora Awabu potrebbe passare tutti i suoi giorni a Gambaga per un sogno della nuora (si è vista minacciata dalla suocera con un coltello); a Gnani il signor Kareem Mahama paga con l’esilio il sogno di un ragazzo del suo villaggio (aveva sognato che gli saltava addosso). Nel nord del Ghana sogni come questi sono interpretati come magia nera.

C’è poi un altro fattore alla base dell’accusa di stregoneria, l’interesse economico. Più del 70 per cento delle streghe dei witch camps sono vedove i cui beni sono ambiti dalla famiglia del defunto: il pretesto della stregoneria è vantaggioso perché consente di liberarsi di una pretendente all’eredità.
Una volta accusato di stregoneria, il soggetto è ostracizzato dalla sua comunità: l’accusa di stregoneria sradica le persone dalle loro case e le condanna a una vita di esilio. Sano Kojo, accusata di avere tolto il respiro ad un cugino gravandogli (invisibilmente) sul petto, è al campo di Kukuo dal 1981 e sembra che alcune donne abbiano vissuto nei campi, per più di 40 anni, cioè fino alla morte.

Impensabile per un soggetto accusato di stregoneria di potersi reinserire nella primitiva propria comunità. Aveva pensato in positivo Ayishetu Bujri espulsa dal suo villaggio sotto l’accusa di aver fatto ammalare la figlia di un vicino. Dopo aver trovato per un po’ di tempo ospitalità al campo di Gambaga, Ayishetu Bujri ha provato a fare ritorno al suo villaggio. E’ tornata a Gambaga con un orecchio mozzato. “Questo è solo un avvertimento”, le hanno detto al suo villaggio. “Se torni ti mozziamo anche l’altro”. Quindi anche l’opera di redenzione eseguita dal tindana non vale per la reimmissione della donna nel villaggio di provenienza.
Nonostante le apparenze, i campi costituiscono un’opera meritoria: salvano dal linciaggio le persone accusate di stregoneria. Il Ghana divide con altri paesi africani la credenza che le epidemie, alcuni decessi e le calamità naturali siano da attribuire alla magia nera, ma non elimina le persone incolpate, come avviene in altre entità statali dell’Africa Nera. Quanti, accusati di stregoneria, non sono riusciti ad arrivare ad una campo streghe sono state assassinati. La credenza sulle streghe è cosi fondata e diffusa che, non solo nella savana del Ghana ma anche nelle regioni più a sud, i superstiti coprono con il cemento le salme inumate per evitare che una strega rubi un arto del defunto da utilizzare per i rituali di magia nera.
I campi si trovano nella regione settentrionale del Ghana, dove i livelli di povertà sono più alti rispetto ad altre aree del paese e dove tre quarti degli adulti, secondo le Nazioni Unite, sono analfabeti rispetto al 43% a livello nazionale. Da questa zona del Ghana (dove non c’è nessuna guerra) non è mai partito nessun “migrante”, per l’Europa: i cosiddetti migranti arrivati nel nostro continente vengono dalle regioni del paese dove le case dispongono di luce elettrica, acqua potabile e, molto spesso, di internet e telefonia satellitare. Le grandi città del sud del Ghana, evolvendosi rapidamente, rafforzano la concezione dello stato di diritto. Le zone rurali mantengono le antiche tradizioni. Anche se la Costituzione del paese garantisce sulla carta l’uguaglianza ed i diritti civili.

 

* L’Universo, la rivista dell’Istituto Geografico Militare, nel numero 3 del 2015 ha pubblicato un lungo articolo (Nino Modugno, Ghana da scoprire: visita ai villaggi delle streghe, foto di Romano Gugliotta), sulla situazione nel Ghana delle cosiddette streghe. Unitamente ad una foto inedita di un’ospite di uno dei ‘witch camps’, sopra una sintesi del contenuto dell’articolo al quale si rinvia per un approfondimento sul tema e per la cognizione della documentazione raccolta.

 

Nino Modugno

 

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