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Theatre and cinema (169)

 

 

Riccardo Massaro
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August 31, 2025


Francesco Branchetti è un regista e attore fiorentino con una lunga e intensa carriera nel teatro, nel cinema e nella televisione. Dal 2000 ha instaurato una solida collaborazione con i più importanti drammaturghi contemporanei, portando in scena numerosi testi. La sua attività professionale si estende anche alla direzione di opere e concerti e alla partecipazione a programmi radiofonici. La sua attività di regista è particolarmente prolifica, e i suoi numerosi spettacoli hanno riscosso un grande successo di critica e pubblico, portandolo in tournée in tutta Italia con un elevato numero di repliche. I numerosi e importanti premi e riconoscimenti lo premiano per la sua professionalità, dedizione e produttività come attore e come regista. Ma chiediamo direttamente a lui dei suoi nuovi impegni.
Francesco, presto riprenderanno i vari spettacoli teatrali che la vedono protagonista e regista. Ha da anni collaborato con nomi importanti in campo teatrale e non solo.

D: Vuoi dirci quando inizieranno e soprattutto chi saranno i suoi compagni di viaggio?

R: Quest'anno proseguirà la tournée di Malena e il tango con Maria Grazia Cucinotta, proseguirà Racconti di cinema e debutterà El fùtbol con Ettore Bassi. Un altro debutto sarà quello de I duellanti con Lorenzo Flaherty e il sottoscritto, poi proseguiranno le tournée di Una come me con Matilde Brandi. Tornerà in scena anche L'onorevole, il poeta e la signora con me, Lorenzo Flaherty e Isabella Giannone. Nella seconda parte della stagione debutteranno Hollywood con Clayton Norcross, un progetto a cui tengo molto, e altri progetti molto interessanti, uno con Stefania Rocca e uno con Enrico Lo Verso. Sarà quindi una stagione in cui contemporaneamente saranno in tournée molti miei spettacoli, alcuni dei quali mi vedono in veste di regista, altri anche di interprete. È una grande soddisfazione, ma anche una grande responsabilità.
Gli spettatori dei tuoi spettacoli sono immersi in un ventaglio di emozioni e generi, dalla commedia più comica e ironica a quella più drammatica e nostalgica. Le sue scelte sono sempre varie e vincenti.

D: Può dirci, in sintesi, quali sono le novità in arrivo e quali le difficoltà che gli addetti ai lavori si trovano spesso ad affrontare?

R: Le novità in arrivo saranno sicuramente i nuovi testi che porterò in scena. Come sempre nascono da lunghe riflessioni alla ricerca di qualcosa di
nuovo che riesca a coinvolgere il pubblico di oggi, pur rimanendo fedele al mio percorso. Per quanto riguarda le difficoltà, credo che essenzialmente quella che incontra chi fa teatro oggi sia relativa alla grandissima difficoltà di fare squadra e di fare rete. Ci troviamo spesso molto isolati nei nostri percorsi, e questo non rende le cose facili in un lavoro già di per sé difficile come quello del teatro.

D: Lei è uno stacanovista. Crede che la sua dedizione al lavoro, che la impegna quasi totalmente a livello fisico e mentale, ripaghi i sacrifici che fa per la sua professione?

R: Sì, credo che i miei sacrifici siano ripagati, almeno abbastanza. Soprattutto dalle soddisfazioni che mi dà il pubblico, ma anche dai viaggi profondi che mi permette di fare ogni allestimento e, di conseguenza, ogni gruppo di lavoro, ogni nuovo testo... si tratta sempre di nuove avventure e questo mi ripaga profondamente.


In arrivo un nuovo tabellone degli spettacoli, con rappresentazioni di spessore come:
    • “El Fùtbol” con Ettore Bassi
    • “Racconti di cinema” con Ornella Muti, Espedito De Marino, Marta De Marino e Silvia Bianculli
    • “Una come me” di Mauro Graiani con Matilde Brandi e Salvatore Buccafusca
    • “Hollywood” di David Norisco con Clayton Norcross
Sarà poi protagonista e regista nella pièce tratta da Joseph Conrad, “I duellanti”, con Lorenzo Flaherty. Riproporrà inoltre il successo de “L'Onorevole, il Poeta e la Signora”, un'esilarante commedia di Aldo De Benedetti che la vede protagonista e regista insieme a Isabella Giannone e Lorenzo Flaherty. Diversi titoli nuovi e altri già di successo.

D: In quali teatri e di quali città verranno rappresentati gli spettacoli?

R: Saranno tutti spettacoli in tournée nei maggiori teatri italiani, sia nelle grandi città che in provincia. Sono molto soddisfatto, e la mole di lavoro non mi spaventa, anzi mi entusiasma.

D: Francesco, sappiamo che si occupa di produzione, distribuzione e organizzazione di spettacoli oltre che di spettacoli di prosa, concerti e balletti. Vuoi spiegarci meglio il tutto?

R: La mia attività come operatore culturale e distributore procede parallelamente alla mia attività di regista e attore un po' da sempre, per cui le varie attività che svolgo non entrano mai in conflitto l'una con l'altra. Anzi, ogni attività mi aiuta a capire meglio l'altra e viceversa. Ho sempre vissuto il teatro a tutto tondo sin da ragazzo e credo sia la maniera più giusta di affrontare questa professione.
Negli ultimi anni, il teatro, e non solo, stanno subendo una trasformazione. L'ascesa dei media digitali e l'ampia disponibilità di contenuti su piattaforme di streaming e social media rendono le grandi arti, come gli spettacoli dal vivo, degne (purtroppo) di un'attenzione minore, soprattutto nelle nuove generazioni. Per alcuni il teatro è visto come una forma d'arte d'élite. Tuttavia, e per fortuna, il teatro continua a sopravvivere per la sua unicità di esperienza irripetibile e per la connessione emotiva tra attori e pubblico. Per rinascere si cerca di portare avanti il tutto con linguaggi più diretti e inclusivi e rappresentazioni più vicine ai tempi nostri.

D: Cosa ne pensa?

R: Non credo molto nell'ossessiva e continua ricerca di essere, come si può dire, attuali. Io credo che un artista, soprattutto oggi, debba portare in scena ciò che sente per lui importante e urgente da condividere con il pubblico. Deve parlare di testi, di argomenti importanti, ma soprattutto sentiti profondamente. Credo che dobbiamo sì, in parte, pensare al pubblico di oggi, ma non farci condizionare troppo dalle mode e dobbiamo sempre rimanere fedeli al nostro percorso artistico, lavorando su ciò che sentiamo di portare in scena... fedeli alla nostra poetica, insomma. Si dà qualcosa al pubblico solo se si è veramente sinceri davanti a lui, solo se si è se stessi e totalmente veri nel donarsi attraverso un personaggio a chi guarda. E allora sì, forse chi guarda riceve qualcosa di profondo dal tuo lavoro.

D: Ho lasciato un piccolo spazio alla fine per permetterle di condividere con i lettori ciò che le sta più a cuore. Qual è il messaggio più importante che vorrebbe lasciare al suo pubblico?

R: Ritorno un po' a quello che dicevo prima, in questo momento il teatro, e soprattutto in questi ultimi anni, è spesso un viaggio, ahimè, solitario. È molto difficile trovare sul proprio percorso dei compagni di viaggio che poi rimangano con costanza nel tempo. È difficile fare squadra, è difficile fare gruppo, e questo forse dipende molto dall'insicurezza profonda che è dilagata dopo il Covid. Credo che bisogna abituarsi a un percorso quasi sempre solitario e poi, qualche volta, quasi per magia, in questo viaggio ci sono degli incontri, magari brevi, ma non per questo meno importanti o meno intensi. Bisogna gioire per questo, oltre che gioire per avere la possibilità di fare il lavoro più bello del mondo, che per me è e rimarrà sempre il teatro.

 

July 22, 2025

 

Se l’illuminazione è uno stato che è raggiunto da pochi studiosi e ricercatori dello spirito, considerati privilegiati nella loro elevazione, la possibilità di entrare in contatto con un’atmosfera che predisponga al raggiungimento di stati evoluti della propria coscienza, ognuno con il proprio punto di partenza e la propria gradualità di percorso, può essere offerta a tutti.

E il film IL MONACO CHE VINSE L’APOCALISSE, che affronta coraggiosamente l’interpretazione della visione profetica di Gioacchino da Fiore, abate e teologo, filosofo, pensatore rivoluzionario e visionario tra le menti più influenti del Medioevo, fa proprio questo. Con la sapiente regia di Jordan River, da sempre affezionato testimone di introspezione animica, la pellicola accompagna lo spettatore in un viaggio storico e spirituale che accarezza i presupposti per cambiamenti epocali, auspicabili anche per i nostri tempi.

Muovendosi tra i sovrani Riccardo I° d’Inghilterra (Nikolay Moss) e Costanza d’Altavilla (Elisabetta Pellini), l’abate florense (Francesco Turbanti), mantiene un’autorità che i poteri temporali non possono scalfire, e che diventa una pratica da mantenere per affrontare anche i mostruosi controllori dell’aldilà, una volta superato il guardiano della soglia (Yoon C. Joyce).

Lontano dal voler essere una pellicola di stampo religioso, tutti gli aspetti che concorrono alla realizzazione dell’opera, dall’uso delle sfumature della cromoterapia nelle immagini, all’altissima definizione a 12k, e l’uso di onde Theta gestite da Bruno Gioffrè nella colonna sonora di Michele Josia, che stimolano le frequenze creative e intuitive del cervello, trasportano la sala in una dimensione che invita a un approfondimento spirituale per qualsiasi provenienza. Al di là di barriere ideologiche, si è portati a una riflessione interiore attraverso il percorso di esplorazione della teoria gioachimita della Trinità: “Ognuno dei tre cerchi attraversa gli altri due; come la Trinità”, che sembra ti dica che la risposta va cercata nell’annullamento della dualità, verso una terza via che è quella che lui definisce dello Spirito Santo.

 “Si dice che i film debbano lasciare delle domande”, afferma il regista Jordan River, “ma io ho cercato anche di dare delle risposte. L’illusione e il male si annidano dentro di noi e impediscono l’evoluzione umana. Non è la persona che bisogna colpire ma il male che c’è nelle persone. Tutto nasce da un’idea che si muove; e se si riesce a superare quell’idea, si arriva al divino”. Come ci insegna Gioacchino quando tratta il tema del Terzo Tempo della Storia della Salvezza: “La prima fu l’età della paura; La seconda è stata l’età della fede; La terza, dovrà essere l’età dell’Amore”.

Staccatosi dalle linee tradizionali della Chiesa e degli ordini monastici del suo tempo, fonda con pochi suoi compagni l’ordine florense in un eremo concepito come il “fiore”; non come traguardo ultimo, ma come presupposto di speranza della ricerca da cui dovrà nascere il frutto. La sua missione è di identificare i nemici degli imminenti tempi apocalittici finali descritti nella Bibbia, e risvegliare il popolo cristiano addormentato verso la salvezza.

Sembra di ascoltare una cronaca odierna che denuncia l’inerzia passiva degli animi dei cittadini, ma sopraggiunto dal XII° secolo, Gioacchino ci dice che i passi della Bibbia devono essere compresi e interpretati:

“Il libro dell’apocalisse di Giovanni è stato fatto come una ruota interna che si protende fino alla fine dei tempi, e che attraversando la fine rivela la profondità dei misteri”, così detta a un suo discepolo nel film. E se il destino degli uomini, risiede tra due mondi paralleli, quello umano e quello trascendentale, comunque ci svela che tale destino può essere cambiato.

Oltre ad essere definito da Dante “il gran calavrese abate Gioacchino di spirito profetico dotato”, e collocato dal padre dei poeti nel quarto cielo del Paradiso, riservato alle anime sapienti, il suo pensiero ha ispirato artisti e filosofi come Montaigne, Hegel, Joyce e Michelangelo nel dipingere il Giudizio Universale e la Cappella Sistina.

Certamente non conosciuto come meriterebbe, la pellicola fa giustizia al fondatore dell’Ordine florense inducendo a una riflessione sulla vita oltre la vita, e la possibilità di creare una realtà di luce e pace interiore anche in questa dimensione umana. “Ognuno di noi ha tante vite”, spiega River. “Ho voluto raccontare una grande storia che mancava, e questa è la storia della nostra salvezza, non della sua”.

Ognuno è accolto dal film in una frequenza fatta di luce, suoni e spunti di riflessione che predispone all’ampliamento della coscienza. Ma al di là dell’aspetto trascendente, anche la dimensione umana apprezzerà l’atmosfera ammaliante delle riprese, la bellezza inevitabilmente contagiosa delle scene, della musica e dello stato d’essere che crea e dalla quale non si può uscire senza esserne contaminati.

Jordan River lo esprime così: “Ho pensato di fare qualcosa di positivo e lasciarlo ai quattro venti. Se lo spettatore è distratto potrebbe perdersi il senso; ma se è attento coglie il messaggio ed esce dalla sala che ha una forza, perché il monaco vince l’Apocalisse!”.

 

 

May 26, 2025

 

Al Teatro Argentina di Roma – dal 7 al 25 maggio - Massimo Popolizio (in veste di attore e regista) porta in scena la sua versione della celebre commedia di Harold Pinter, Ritorno a casa (Homecoming) portato alla luce nel 1964. In questa nuova rappresentazione, Popolizio mette in risalto l’aspetto più conturbante dell’opera del famoso drammaturgo inglese, dipingendo uno scenario sordido e composito, sospeso tra drammaticità e ironia.

Fin dal suo inizio, la storia trasporta il pubblico in un contesto domestico completamente abbandonato a sé stesso, teso e visibilmente decadente. In quell’abitazione proletaria situata nella periferia londinese domina una routine familiare fiacca e stantia, incarnata dal ruolo che ogni singolo membro conduce nella sua gretta quanto pittoresca spontaneità. Max (interpretato da Popolizio) è un ex macellaio ed è l’unico che, dopo la morte di sua moglie Jessie, muove le redini della casa, nella quale vi abitano i suoi figli Lenny (Christian la Rosa) e Joey (Alberto Onofrietti), insieme a Sam (Paolo Musio), fratello di Max e da quest’ultimo continuamente vessato. Il contesto casalingo è una gabbia animalesca in cui prevale la forza logorante dell’abitudine, della totale assenza di dignità morale e della grossolana ostentazione di virilità maschile. Tutto si muove come se nell’ambiente non vi fosse traccia di coscienza: i membri della famiglia sprecano il tempo in futilità, sopraffatti dalla leadership di un capofamiglia astioso che “troneggia” grottescamente nel proprio orgoglio rivangando occasionalmente presunte glorie passate del mestiere di macellaio, tramandato a lui da suo padre. Il disordine della casa stessa sembra riflettere quella trascuratezza nei rapporti reciproci; eccetto la testa di bovino appesa alla parete (per l’appunto), unico vanto che funge da “trofeo in vetrina” capace – a detta di Max – di procurare un briciolo di credibilità all’onore della famiglia.

La normalità viene spezzata dall’arrivo inaspettato di un altro figlio di Max, ovvero Teddy (Eros Pascale), professore di filosofia di ritorno dall’America. Teddy - all’insaputa di suo padre – è sposato con Ruth, giovane e avvenente ragazza, con la quale ha avuto tre figli. Il suo ritorno nella casa di famiglia decostruisce l’ordine di ruoli consolidati, familiari e sociali, all’interno del quale la sola voce in capitolo, atta a comandare e a stabilire regole, era quella impositiva di Max. Ruth si dimostrerà più astuta di quanto gli altri membri della famiglia possano aspettarsi, considerandola semplicemente mero “oggetto di piacere” funzionale alla gratificazione del maschio. Nel caso di Ruth sarà proprio la smania di piacere e godimento a portata di mano di Max, Lenny e Joey a trasformarla in una manipolatrice femme fatale con desiderio di potere; la forza misogina di Max e della sua famiglia, con l’esclusione di Teddy – vera vittima della situazione –, si rivelerà essere in realtà la grande debolezza di cui Ruth si farà gioco. Alla fine, contro la volontà di suo marito Teddy, che tornerà negli States da solo dai loro tre figli, Ruth deciderà di rimanere con Max e il resto della famiglia in Inghilterra per darsi alla prostituzione, mestiere che grazie alle sue doti femminili potrebbe rivelarsi redditizio per tutti. Tuttavia, sarà lei a stabilire le condizioni sugli alloggi e le relative comodità, fino ad avere l’ultima parola su ogni aspetto. Contrariamente agli imperativi incalzanti di Max, in Ruth c’è l’abile affermazione di una volontà che non si impone con la voce, bensì con un simbolismo corporeo che sfoggia tutta la sua sensualità.

Tutto si chiude con una considerazione finale. Il ritorno nella casa natia da parte di Teddy dopo anni dimostra l’inconsistenza di un concetto di “casa” che sfugge al suo significato più autentico. Non può esistere casa senza famiglia, né famiglia senza appartenenza. Teddy spera ingenuamente in un legame primigenio che, malgrado le evidenti differenze rispetto al padre e ai fratelli, avvicina e riduce le distanze; ma soprattutto, scardina l’idea di famiglia radicata sulla mera condivisione di spazi. Il distacco affettivo tra familiari rende ognuno dei protagonisti nient’altro che una presenza ingombrante e autoreferenziale. La “casa” di cui parlava Pinter, non accoglie, non lenisce i dolori di una persona amata ne ristora dagli affanni della quotidianità. La casa diventa uno scenario tragico e ambiguo allo stesso tempo, totalmente deprivato della sua più genuina umanità.

Il vuoto affettivo che l’intimità familiare dovrebbe colmare lascia il posto alla dialettica tra desiderio e vulnerabilità. Ruth svolge il suo lavoro sessuale per riconquistare la sua “autorevolezza” femminile, sentirsi sicura e a proprio agio con la sua vera natura anche in luoghi a lei sconosciuti, verso i quali non condivide familiarità alcuna. La famiglia di Teddy, nel suo torpore domestico, vede nella new entry l’occasione propizia per scuotere la polvere di quella dinamica routinaria, colorita e indolente. Max e suo figlio Lenny pensano alla ragazza come a un soggetto inerme, da soggiogare e imprimervi la loro autorità come garanzia per un sicuro ritorno nel circuito degli affari di famiglia. In realtà, l’intento di Ruth svela con indubbia chiarezza proprio quel male dal quale verrà tutto quanto a dipanarsi: la casa non è più un rifugio, nemmeno per coloro che la abitano da tempo, ma una trappola che invece di arginare accresce l’abbrutimento e alimenta frustrazioni e sentimenti repressi.

La storia si sviluppa come coabitazione forzata, intervallata, grazie all’effervescenza registica ed attoriale di Popolizio, da situazioni brillanti e tragicomiche, che smorzano l’aspetto più turpe e crudo della realtà raccontata. Non mancano, tuttavia, quei silenzi prolungati che sostituiscono la verbosità dei personaggi per spostare l’attenzione su quel nulla che penetra nell’animo come nei meandri della casa. Popolizio ripropone con un’incisività autoriale l’immagine di un microcosmo sociale che Pinter aveva portato per la prima volta in scena negli anni ’60: la famiglia è lo specchio fedele dei grandi cambiamenti della società, di quel caos latente che diviene escalation, genera attriti con l’ambiente circostante, trasforma chi ci è più vicino in un estraneo. E proprio nella rivendicazione narrata da Popolizio, si nasconde, tra i nostri desideri insoddisfatti, il germe della disgregazione.

May 18, 2025

Sì, esistono anche le orchestre un po’ stonate. Con gente abituata al piccone e al martello, che si ritrova tra le mani una tromba o un clarinetto. Con compagni che vanno su sentieri più o meno interrotti, lungo argini di canali poco illuminati, alla ricerca di attimi di oblìo, lontani dal timore di un ultimo naufragio.

Orchestre stonate, dove si coltivano sogni sfilacciati e, semplicemente, ci si conforta dello starsi vicini, del condividere qualcosa che ti allarghi il respiro, qualcosa che riesca a coltivarti dentro il desiderio di un domani.

Poi, all’improvviso, ci si ritrova a percorrere lo stesso campo arato, a navigare sulle stesse acque che vanno, tumultuose o placide, verso il centro del cuore.

E, allora, ti ritrovi lì, sulla poltrona, col Bolero di Ravel che ti rimbalza dentro l’anima, con gli occhi umidi e le luci che malignamente si accendono.

E capisci, allora, che ti è stato fatto un dono immenso e imprevisto:

impregnato di lacrime e consolato da un sorriso …

 

 

L’ORCHESTRA STONATA ( EN FANFARE)

Lingua originale: francese

Paese di produzione: Francia

Anno: 2024

Regia: Emmanuel Courcol

May 12, 2025

Roma, sabato 10 maggio 2025. Un racconto intriso di passione, tensione e bellezza sospesa nel tempo. Adelchi, nella visione di Vincenzo Zingaro, unisce la potenza della parola alla forza della musica, trasformando la scena in un luogo in cui la storia si fa emozione.

 

Alcuni spettacoli scorrono davanti agli occhi e svaniscono, altre esperienze invece restano dentro, lasciando una traccia che il tempo non cancella. Non è soltanto una memoria ma una voce che continua a risuonare, anche quando il palco è ormai in silenzio. Adelchi, al Teatro Arcobaleno, è stato questo: un varco nel tempo, un soffio nell’anima, una risonanza che attraversa il silenzio.  

Ero seduta in terza fila, quasi immersa nella musica dell’orchestra che si preparava sotto i miei occhi. I musicisti erano così vicini che ogni gesto sembrava parte della scena prima ancora che questa iniziasse. E, infatti, non c’è stato un momento preciso in cui tutto ha avuto inizio, perché la musica è arrivata prima delle parole, diffondendosi nello spazio in un lento fluire, tra le sedie e nei fiati sospesi. 

Quando il sipario si è sollevato, sembrava che la storia fosse già iniziata molto prima di quel gesto. Le prime vibrazioni delle percussioni, disposte direttamente sul palco, sono giunte come un battito proveniente da qualcosa di antico e profondo. Un velo di fumo ha cominciato a scivolare sulla scena con la grazia di un sogno, mentre la luce blu, tenue e vibrante accarezzava ogni superficie, emanando nell’aria una tensione quasi sacra. 

Nel cuore di quello spazio rarefatto è apparso Adelchi, immobile e vestito di nero, figura sospesa tra realtà e visione, carica del destino che stava per compiersi.

Vincenzo Zingaro, regista e interprete, restituisce un Adelchi trattenuto, assorto, attraversato da un’inquietudine profonda. La sua voce, priva di artificio, giunge limpida e consapevole, sussurra verità con la delicatezza di chi interroga il silenzio. Ogni parola incide, ogni pausa rivela, scavando nel cuore di chi ascolta, là dove anche l’obbedienza più rigida lascia spazio al dubbio. 

Gli attori appaiono gradualmente, come presenze che emergono dal tempo stesso del racconto. Non formano un coro statico, bensì un susseguirsi di voci e volti che danno corpo, uno dopo l’altro, a una partitura teatrale in cui ogni ingresso ha il peso di una rivelazione. La scena vibra e si sviluppa, costruendo una densità narrativa che cresce, si stratifica, si moltiplica.

Il tempo drammatico si svolge nell’Italia dell’VIII secolo, quando l’equilibrio tra potere temporale e spirituale si frantuma sotto il peso dei regni in guerra. La corte di Desiderio vacilla, Carlo Magno avanza, e Adelchi, personaggio creato da Manzoni per esprimere l’inquietudine morale, si trova sospeso tra l’obbligo della dinastia e il rifiuto della violenza. Non rappresenta l’eroismo della conquista, ma quello della rinuncia: la sua battaglia interiore vale più delle guerre che si combattono intorno a lui.

Il dolore di Re Desiderio non è solo un peso interiore ma una lente attraverso cui osserviamo l’intera corte, dilaniata dalla disperazione e dall’impotenza. In questo contesto, il ruolo di Ermengarda non si limita a quello di una vittima del potere, poiché diventa simbolo di un amore tradito, di una forza che sopravvive nel silenzio della sofferenza. Annalena Lombardi riesce a donare a questa figura una voce che non è solo lamento, bensì preghiera e canto, un filo luminoso in un quadro altrimenti oscuro. La sua presenza è intensa e radiante, tutt’altro che marginale, capace di catalizzare l’attenzione e trattenere l’emozione del pubblico.

Il suo delirio nel convento è un momento fuori dal tempo, un istante sospeso che immobilizza l’intero teatro. 

E poi accade. Albino, messaggero dei Franchi, pronuncia la frase che spezza l’equilibrio:
«E tal risposta è guerra.». Il teatro trattiene il fiato. I Longobardi rispondono in un’unica voce:
«Guerra!». Le percussioni esplodono dal palco come una scarica, un battito primordiale che vibra sotto la pelle. Il suono non accompagna la parola: la completa, la rilancia, la scolpisce nell’aria. È un attimo che frantuma il tempo. Il pubblico non assiste più: viene travolto.

Mentre Desiderio tenta disperatamente di resistere e i suoi alleati progettano il tradimento, Ermengarda muore lontano, consumata da un amore che la politica ha cancellato ma i Franchi sfondano le Chiuse grazie a un sentiero segreto. Il popolo, che sogna la libertà, resta in realtà privo di voce, come quel “volgo disperso che nome non ha”, che risuona oggi più che mai attuale. 

Nel cuore della battaglia, il contrasto tra i Longobardi e i Franchi si materializza non solo nelle parole e nelle azioni, ma anche nei colori che li avvolgono. Il nero dei Longobardi racconta l’ombra della sconfitta che incombe, un’eredità di orgoglio e resistenza che non cede, ma si consuma. Di fronte a loro, i Franchi, vestiti di bianco, sono la luce gelida e determinata che avanza, come una forza venuta da lontano, portatrice di un destino inevitabile. 

E quando, finalmente, Adelchi rinuncia alla gloria, scegliendo la quiete dell’anima, un silenzio profondo e risonante cala sulla scena. Non è un vuoto, ma una sospensione che resta, come una carezza che si allontana. Il pubblico, avvolto in questo silenzio, percepisce il peso di una scelta che trascende il dramma e penetra nelle sue viscere. 

Il buio che segue non è silenzio: è sospensione. L’applauso, che lentamente prende forma, non è un atto dovuto, piuttosto un ringraziamento profondo, uno scambio intimo tra chi ha donato e chi ha ricevuto.

Questa profondità emerge non solo nella regia, ma anche nella fusione della parola e della musica, che Zingaro utilizza come veicolo per esprimere l'intensità del testo. Adelchi non è solo un racconto drammatico, è una conversazione profonda, in cui la musica di Zappalorto, delicata e penetrante, diventa un'eco delle emozioni. Le percussioni di Maurizio Trippitelli, collocate sulla scena, vibrano come risonanza profonda, mentre il resto dell’ensemble, archi, fiati e tastiere, suona da sotto il palco, evocando presenze invisibili. La scelta della lettura-concerto, che richiama il melologo, è intrisa di un’attualità che non conosce nostalgia ma rivela una potenza espressiva unica, capace di immergere lo spettatore nell’intimità del racconto.

Dei 2.100 versi composti da Manzoni, ne restano circa mille, selezionati con cura per preservare la forza lirica dell’opera anche nella sua essenzialità.

Zingaro, con una direzione misurata e sensibile, permette al testo di respirare e di trovare il suo spazio, senza essere soffocato dalla fretta. Il suo approccio evita qualsiasi eccesso, puntando a un'esperienza che invita lo spettatore a una riflessione profonda, immerso nella bellezza e nella verità del classico, rinnovato e vivo.

All’esterno del teatro, le luci della città appaiono più sfocate, quasi lontane, come se l’esperienza vissuta continuasse a vibrare nell’aria. Quello che è accaduto non si dissolve, ma si trasforma in qualcosa di più duraturo: una memoria viva, un'eco che ci accompagna. Un respiro che non finisce mai, proprio come solo il grande teatro sa fare.

 

 

 

May 11, 2025

 

Massimo (Attilio Fontana) e Damiano (Emiliano Reggente) sono fratelli; il primo, quello più grande, sta per sposarsi. Tra i due si nota un leggero attrito, forse perché il minore è più esuberante, scapestrato ed infantile del maggiore, che sembra invece essere molto più posato e stabile. Tra i due intercorrono solo due anni di differenza, eppure i caratteri e l’approccio con la vita sono palesemente diversi.

La sera precedente il matrimonio Damiano organizza un addio al celibato, ma sarà sicuramente diverso da come se lo aspetta il fratello…

La storia si svolge nell’originale casa di Massimo, una sorta di monolocale arricchito con discutibili opere d’arte moderna. Qui Damiano, imbarazzato, arriva cercando di spiegare al fratello che il suo addio al celibato non sarà come lui immaginava. Effettivamente, oltre a non aver saputo organizzare la festa con gli amici più intimi dello sposo, rischia di far saltare il matrimonio per un dissidio creato con i testimoni di nozze. Ciliegina sulla torta, la sorpresa che Damiano ha preparato per Massimo sta arrivando a casa. È Tamara, una ballerina piuttosto conturbante ma anche molto delicata, sensibile ed insicura, afflitta dalla sindrome di Tourette che la convince di essere accompagnata da una bimba immaginaria di cinque anni con cui parla e discute perché troppo vivace.

L’incontro con Damiano è divertentissimo, Tamara si rivela subito la persona particolare che è. Il poverino coglie subito l’entità del guaio che gli sta cadendo addosso e asseconda le follie della donna con delle gag molto divertenti in cui interagisce con la bimba immaginaria. In questa turbolenta situazione, finalmente arriva Massimo. Anche lui capisce la situazione e comincia subito ad assecondare Tamara, che alterna momenti da vamp sensuale ad alterchi da madre infuriata con la bimba invisibile che girerebbe per la casa creando scompiglio. Si abbandona anche a sfoghi personali per la vita grama e sofferta che ha vissuto e che vive.

Unico affetto per questa sconsolata ragazza è la figura infantile che la segue, che poi sembra la proiezione della sua adolescenza perduta, a sottolineare il dramma della sua solitudine. Un personaggio che diventa il punto centrale della serata, rubando dapprincipio la scena ai due uomini per poi fondersi elegantemente nella storia.

La commedia si fa sempre più toccante, la distanza tra i due fratelli viene via via colmata e sembra anche che le difficoltà di Tamara vengano limitate. Tra i tre si forma un bel legame affettivo che emoziona lo spettatore quando accade un incidente domestico che provoca uno stato di regressione in Massimo riportandolo allo stato giovanile. La perdita di memoria potrebbe compromettere il matrimonio e finisce per aprire una porta ai ricordi che lo legano a Tamara conosciuta evidentemente nella sua infanzia.

Lo sviluppo della storia si fa sempre più interessante e romantica mentre i personaggi si legano sempre più in maniera inscindibile, anche perché Massimo evidenzia la sua parte più profonda e spontanea che contrasta con quella del suo personaggio iniziale. Anche Tamara e Damiano manifestano un’evoluzione nel rapporto sia con se stessi che con gli altri e questa è una parte molto interessante della commedia. Lo sviluppo della storia non è così scontato, evolve in maniera piuttosto tenera e godibile in quello che è un velato dramma presentato con magica ironia.

I due attori maschili hanno una recitazione diversa. Emiliano si è formato sicuramente con la vecchia scuola del cinema italiano; è un esuberante showman che ruba la scena, platealmente carico e travolgente. Da lui emergono echi di attori amati come Paolo Panelli, Carlo Verdone e un mix di altri artisti che hanno fatto delle pellicole in bianco e nero dei veri e propri cult. Emiliano aggiunge a questo una grande gestualità e mimica che ricorda quella dell’ avanspettacolo.

Attilio, al contrario, sembra più influenzato da una scuola italiana più moderna, espressa da una comicità più seriosa e riflessiva in cui ho rivisto reminiscenze di Pino Quartullo, con quelle piacevoli tonalità che contengono dei leggeri picchi e i modi di esprimersi che tanto lo caratterizzano. Nella seconda parte Attilio ci sorprende dando spazio alla nuova personalità emergente che prende il sopravvento, quella di un personaggio infantile, semplice e talmente dolcissimo da commuovere.

Come sempre Claudia è esuberante, frizzante, energica e prorompente. Si presenta sensuale ed accattivante come dovrebbe essere la ballerina che interpreta, inserendo l’aspetto influenzato dalla sindrome di Tourette che però ne evidenzia anche il lato più dolce, introverso e sofferto.

Già dalla prima scena si percepisce la caratura e la preparazione artistica dei due attori. Con l’ingresso plateale di Claudia, loro perdono ogni freno andando a briglia sciolta. Da qui la commedia prende il via per poi crescere piano piano ed esplodere nella seconda parte.

La regia di Francesca Nunzi enfatizza le doti del cast senza imprigionare gli attori, dona dinamismo ai personaggi e aria alle scene. Il testo di Luca Giacomozzi presenta scambi con dialoghi efficaci e ben sviluppati che gli attori sanno interpretare e personalizzare con gusto. Gradualmente fa allontanare lo spettatore dalla prima impressione sui personaggi e lo conduce a rivedere il proprio giudizio, che dapprima era influenzato dai loro difetti e in seguito coglie invece i pregi e i lati nascosti del carattere.

Bello il mutamento del legame fraterno che si rafforza mentre i ruoli si invertono: il fratello minore abbandona la superficialità, cresce e si prende cura del maggiore, che potrà tornare libero di esprimersi, spontaneo ed espansivo nella sua nuova dimensione.

La ballerina finisce per trovare la sua giusta collocazione emotiva e sociale in comunione con i fratelli e potrà formare con loro un nucleo familiare dove sentirsi protetta e sviluppare le attitudini rimaste soffocate. Abbandona la bambina immaginaria e si libera da quel rifugio perché ha superato la paura della solitudine e del giudizio altrui. Finalmente potrà dedicarsi agli altri e a sé.

Commedia gradevole con una storia partita in sordina e gradualmente vivacizzata in un riuscito crescendo fino al bellissimo quanto inaspettato epilogo.

 

TEATROVID-19 l’energia e la forza del teatro
Teatro Roma
“Si vede che era destino”
Di Luca Giacomozzi regia Francesca Nunzi
Con Attilio Fontana, Claudia Ferri, Emiliano Reggente

 

May 10, 2025

 

Una graziosissima, curata e realistica scenografia riproduce la fiancata di uno stabile con tanto di panchina e un romantico lampione sulla via. Sul muro della palazzina, alle spalle di dove si svolgerà la storia, si vedono manifesti strappati e scritte con vernice spray. Al centro un portone con un citofono il cui uso vi farà ridere a crepapelle…

 

Torna Danilo De Santis con “Sali o scendo?”, commedia che ha già dodici anni di vita senza sentirli, anzi, la sua freschezza e attualità vi sorprenderanno. Torna sul palco per le tante richieste di un pubblico affezionato che è venuto a rivederla.

Come sempre Danilo mette in scena un testo brillante arricchito con tante emozioni, in una chiave che ci permette di ridere con ironia sulle paure e le incertezze dell’amore e sulle ossessioni e le manie di personaggi psicologicamente ed emotivamente non proprio stabili.

Al suo fianco l’immancabile Roberta Mastromichele, che più volte ha condiviso il palco con lui in altre riuscite commedie. Danilo ha sviluppato uno stile molto personale che lo vede inserire nelle sue pièce un riuscito mix di comicità e sentimento, giocando con i suoi stravaganti personaggi che hanno delle caratteristiche sempre piuttosto singolari. Ama queste sue creazioni a tal punto che nonostante diano vita a situazioni bizzarre e buffissime, traspare per loro un profondo rispetto perché ne mostra il lato più estremo senza eccedere. Lui stesso impersona questi ruoli con estrema classe dando voce a quelle parti nascoste e paradossali che tutti nascondiamo dentro di noi.

Quello presentato stasera è l'incontro di due persone alle prese con le turbolenze dell'amore. Danilo si sta recando al suo primo appuntamento con quella che ritiene sarà la donna della sua vita. I motivi che lo inducono a pensarlo sono già di per sé molto divertenti, ma li lascio scoprire a voi in teatro. Quando si avvicina al portone per citofonarle in attesa che cominci la serata galante, incontra Roberta nei panni di una ragazza disperata che è giunta poco prima di lui al citofono. Anche lei in questa vicenda risponde seguendo una serie di motivazioni alquanto divertenti che non rivelerò.

La fanciulla, piangente e con il trucco che le arriva sotto il mento, si è lasciata da poco con il suo fidanzato ed è sotto casa sua per scoprire se è da solo, avvicinarlo e parlarci sperando che sia ancora innamorato di lei.

Il tira a molla sentimentale coinvolgerà altri tre personaggi interpretati da Beatrice Fazi, Piero Scornavacchi e Chiara Canitano.

Ecco che allora che le strade e i destini dei due si incrociano e si ingarbugliamo con la vita degli altri tre.

La gag iniziale è incentrata proprio sul citofono, un personaggio virtuale che prende vita grazie alle voci di Fabrizio Passerini e della scomparsa Francesca Milani. Qualcosa di davvero travolgente. Ricorda la gag della telefonata di Carlo Verdone o quella di Gigi Proietti. Semplicemente un momento fantastico di alta comicità.

Imbarazzatissimo, Danilo cerca di citofonare alla sua corteggiata e si ritrova in un duello verbale con continui scambi di battute al citofono. La scena sembra molto naturale e mi ha ricordato gli incontri con la mia vicina sul pianerottolo, quando comincia a raccontare la storia della sua vita mentre io ho i minuti contati… un mix di tenerezza e comicità esplosiva.

La scena dura molto e continua con nuove azzeccate e frenetiche battute e si ripete ogni volta che erroneamente viene premuto un tasto sbagliato. Impossibile resistere non solo ai personaggi che si nascondono dietro a queste voci, ma anche a tutte le espressioni e ai tentativi falliti di Danilo di chiudere la conversazione.

Ma non è finita perché Roberta nella sua pena d’amore coinvolge anche Danilo facendosi aiutare a contattare il fidanzato. Anche qui parte una gag fantastica con un Danilo strepitoso che cerca di parlare con l’uomo attraverso un espediente che non vi rivelerò attraverso un soliloquio mitico. Stavolta è Roberta a dar vita ad una serie di espressioni irresistibili. Dunque, avrete capito che la maggior parte della storia è incentrata sulla coppia Danilo - Roberta, ma l’entrata di altri tre personaggi “di disturbo” aggiungerà ulteriore verve e pepe.

Uno è Piero, l’energumeno ex ragazzo con serie difficoltà di gestione della propria rabbia, che scende per prendere di petto il povero Danilo. Poi c'è Beatrice nei panni di una donna bipolare che sembra proprio avere o aver avuto una relazione con l'ex di Roberta, anche lei con accentuati problemi di gestione della rabbia. I due si sono conosciuti da un terapeuta proprio per affrontare questo problema e non vi spiegherò qual è il loro riuscito sistema per contenerla…

Finalmente arriva Chiara, la ragazza che deve uscire con Danilo e che non è proprio come l'uomo l'ha sognata, soprattutto perché ha una risata stridula e particolarmente fastidiosa che Chiara rende divertentissima ricordando quella di alcune vallette un po' sciocchine della televisione.

Sotto l'indiscussa comicità si nasconde la difficoltà nel gestire i rapporti di coppia. Emergono le insicurezze, i sensi di colpa, l’egoismo, la paura di rimanere soli, le aspettative disattese, ma anche il lato psicologico dei personaggi, alcuni con particolari fragilità come la rabbia, che generalmente è l'espressione di un dolore più profondo. Poi c’è la bipolarità, uno stratagemma messo in atto dal soggetto per spostare la difficoltà di contenimento delle proprie emozioni creando un soggetto virtuale, immaginario in cui trasferire i propri irrisolti, fobie e manie che non sa gestire e contenere.

Insomma, con un po' di attenzione troverete molto più di una semplice commedia, che tra l'altro è particolarmente divertente e che mi ha fatto ridere dall'inizio alla fine. I personaggi aggiunti sono la ciliegina sulla torta. Anche se appaiono di contorno, lasciano il loro segno indelebile arricchendo e vivacizzando la vicenda.

Dirò di più: verso l'epilogo la comicità scende per lasciare spazio all'introspezione ed esaltare la personalità dei vari ruoli. D'altronde, anche il titolo “Sali o scendo?” rende l'idea dell'indecisione, della confusione emotiva.

Danilo e Roberta sono una coppia consolidata che ormai fa scintille. Lui sembra un personaggio disegnato per Carlo Verdone, lei uno per Margherita Buy. Facendo un velato tributo a questi artisti, hanno sviluppato e caratterizzato i personaggi facendone due pezzi di un puzzle che si incastrano a meraviglia.

Piero è nella parte di un rozzo ma anche delicato ragazzo, burbero quanto basta e particolarmente marpione con un lato delicato e fragile che emerge anche se cerca di soffocarlo. Portentoso.

Beatrice, camaleontica, è divertentissima in questo ruolo dalla doppia personalità; una particolarmente aggressiva e l'altra più profonda e delicata. Sono i picchi caratteriali in entrambe le parti che divertono, colpiscono e dimostrano le sue capacità artistiche. Esplosiva.

Chiara riesce a rappresentare l’antitesi della donna desiderata, sciocchina e superficiale quanto basta, che sa rendersi adorabile e divertente nella veste comico sensuale. Fortissima.

Uno spettacolo che andrei a rivedere, anche subito!

 

 

Teatro Golden

“Sali o scendo?”

Scritto e diretto da Danilo De Santis

Con Danilo De Santis, Roberta Mastromichele, Beatrice Fazi, Piero Scornavacchi, Chiara Canitano

April 29, 2025

 

Grande successo in tutta Italia della commedia “L’onorevole, il poeta e la signora” di Aldo De Benedetti
Regia di Francesco Branchetti
con Isabella Giannone , Lorenzo Flaherty e lo stesso Francesco Branchetti

     

GLI INTERPRETI

Parliamo dell’ultimo lavoro del regista e attore Francesco Branchetti, che, insieme alla bravissima Isabella Giannone e all’indiscussa professionalità di Lorenzo Flaherty, fa rivivere nei teatri del nostro Paese la commedia di Aldo De Benedetti intitolata L’onorevole, il poeta e la signora.
La commedia è stata rappresentata in numerosi teatri di tutta Italia, a partire dai primi di febbraio. Un tour che ha attraversato il paese da nord a sud, attirando un pubblico numeroso e appassionato.
Lo spettacolo ha riscosso, e sta ancora riscuotendo, un meritato successo.
Un altro grande successo del bravissimo Francesco Branchetti, che non sbaglia mai la scelta della sua compagnia dove lui stesso interpreta ruoli molto complessi, sia dal punto di vista interpretativo che linguistico.Al suo fianco, una splendida Isabella Giannone, che conferma ancora una volta la sua grande bravura anche in altri testi e commedie.Una piacevolissima scoperta è stato Lorenzo Flaherty, già grande professionista di televisione e cinema, che ha saputo recitare in modo magistrale anche a teatro. Ha interpretato un onorevole che, con disinvoltura, si destreggia tra corteggiamenti, simpatici ricatti e il desiderio di emergere attraverso la creatività di un poeta, che si rivela essere più furbo di quanto voglia far credere.La forza di Branchetti, oltre a essere il risultato di tanta esperienza e preparazione nel campo teatrale, deriva anche dalla sua astuzia e dalla sua sagacia, che gli appartengono naturalmente, così come dalla capacità di immedesimarsi pienamente nel personaggio da interpretare.

LA COMMEDIA

      Si tratta di una commedia umoristica e grottesca, scritta dal commediografo romano Aldo De Benedetti (1892-1970). La storia ruota attorno a Leone,( Lorenzo Flaherty) un onorevole molto attratto da Paola, (Isabella Giannone) una giornalista elegante e astuta. Una sera, Leone riesce a invitarla a casa sua, ma non succede nulla di concreto: la donna lo provoca continuamente mettendolo continuamente in imbarazzo, e poi se ne va.
Dopo l’uscita di Paola, Leone scopre che in casa sua si è introdotto un uomo, Piero, (Francesco Branchetti)  un poeta squattrinato che, nascosto dietro un divano ha ascoltato le sue conversazioni. Da questo incontro casuale nasceranno una serie di eventi che cambieranno la vita di entrambi i personaggi. La commedia è un susseguirsi di equivoci, scambi di persona e situazioni esilaranti, con conseguenze imprevedibili.
      Il testo è ricco di allusioni, riferimenti, dispetti e velati ricatti, e mette in luce come l’intelligenza possa essere usata in modo divertente. La commedia, con una costruzione impeccabile, rispecchia quella teatralità tipica di De Benedetti, offrendo uno spaccato dei salotti dell’Italia di allora, che ospitavano  uomini di potere con relazioni complicate, di talenti svenduti e numerose ambizioni. È anche un’immagine di una società ancora molto attuale, fatta di giochi di identità e scambi sociali che rischiano di essere il male dei nostri giorni, in un contesto di caos sociale e politico.La regia mira a restituire la straordinaria capacità dell’autore di analizzare e raccontare la banalità, il quotidiano, l’inutilità delle convenzioni e la retorica spietata dei rapporti umani. Tutto questo si traduce in un balletto esilarante tra i personaggi, che rende questa commedia un vero e proprio spaccato di ironia e riflessione.

      RINGRAZIAMENTO

      Un plauso ovviamente va a chi con grande forza e vitalità ha reso lo spettacolo divertente, curioso, dove non manca l’ estro e la creatività degli attori che hanno reso vivo l’interesse del numeroso pubblico che entusiasta applaude.
      Il teatro è un’arte che rappresenta molto da vicino l’espressione e i riflessi dell’animo umano. L’attore, infatti, deve immedesimarsi completamente nel carattere, nelle movenze, negli spazi e nei respiri del personaggio che interpreta. Gli attori sono come dei corpi pronti ad accogliere le essenze dei personaggi che portano in scena e questa grande compagnia formata da Francesco Branchetti, Lorenzo Flaherty e Isabella Giannone ci sono riusciti in modo mirabile.

April 27, 2025

 Ho paura torero, spettacolo andato in scena al Teatro Argentina dal 3 al 17 aprile e tratto dall’opera dello scrittore cileno - nonché difensore dei diritti umani - Pedro Lemebel, trasporta il pubblico all’interno di una narrazione travolgente, in cui l’amore tormentato dei protagonisti si intreccia con le tragiche vicende di una Santiago del 1986 colpita dalla ferocia di Pinochet, succeduto al governo Allende.

Il regista Claudio Longhi dirige uno spettacolo corale, in cui le vicende dei singoli personaggi offrono alla pièce un tono critico e irriverente. Il protagonista, un transgender conosciuto come “la Fata dell’Angolo” - interpretato da Lino Guanciale - vive una relazione sentimentale con Carlos (Francesco Centorame), studente e militante delle forze ribelli guidate dal “Movimento di liberazione Rodrigo Martinez”. Guanciale offre un’interpretazione dotata di profondità, capace di esprimere un’alternanza tra ironia, delicatezza e fragilità. La sua presenza scenica non rende la Fata una caricatura ingombrante, bensì un personaggio dai toni struggenti, sospeso tra fantasia e amarezza.

L’intimità che si percepisce sin dall’inizio nell’incontro tra le loro storie evoca l’unione di due rivoluzioni che “camminano mano nella mano”. C’è chi crede che la libertà si conquisti con la resistenza indefessa o con atti di guerriglia, e chi invece soltanto attraverso la fede incrollabile in un romanticismo “proibito” che sfugge al peso delle convenzioni. La Fata dell’angolo è la “maschera” di questo secondo e silenzioso atto di ribellione. Frivola e a volte beffarda, La Fata è la personificazione di un desiderio sfuggente, fragile ma soprattutto umano. In effetti è proprio questo che fa della protagonista la voce e il volto di un’ingenuità che si annida nell’intimo di chiunque tenti di realizzarsi in un’esistenza semplice, libera da compromessi, miraggi e false promesse. Da parte della Fata non c’è né ideologia né rivendicazioni politiche, bensì la voglia di star bene, condividendo la spensieratezza e il piacere di un brindisi serale, circondati dalle luci soffuse del suo salotto, uno spazio raccolto ricco di elementi simbolici che sottolineano la calda e rassicurante atmosfera dell’appartamento in netto contrasto con le ambientazioni asettiche del mondo esterno. Oppure, godendosi la bellezza mozzafiato di uno scenario montano, durante un picnic, lontano dal caos cittadino e dall’immagine impietosa della realtà.

La fuga non è nient’altro che un modo per rimanere invisibili a un occhio vigile e ossessivo, che stigmatizza inorridito le “anomalie” dell’omosessualità definendola come un mero “amore tra froci”. Ed è qui che entra in scena un Pinochet caricaturale (Mario Pirello) invischiato in un rapporto grottesco con sua moglie, Doña Lucía (Sara Putignano); il dittatore è in un certo senso vittima della sua stessa reputazione, situazione che lo rende del tutto incapace di contegno e quasi sempre avvezzo ad un’isteria surreale, dettata, oltretutto, dalla consapevolezza di un futuro sempre più incerto per il suo regime. La parentesi di Pinochet offre al pubblico un intervallo esplosivo e parodistico, che pone in enfasi il lato quasi tragicomico della personalità del dittatore, e che il più delle volte è destinato a sfociare in un ridicolo battibecco coniugale condotto a suon di frasi sarcastiche e critiche pungenti. Anche qui, al di là delle smisurate sfumature comiche, si è costretti a celare sé stessi alla verità dei fatti con una maschera, ricorrendo disperatamente a quella soggezione senza la quale nessuna forma di potere avrebbe ragion d’essere.

Qui si misura l’incommensurabilità tra l’utopia del controllo assoluto e una società popolata da emarginati, reietti e desaparecidos coinvolti nella drammatica lotta per mettere fine alle vessazioni del regime. Un coro di coscienze diverse che si identificano in un’unica e pulsante volontà, che si leva come un lamento accompagnato da canzoni latinoamericane, languide e malinconiche, che fanno da eco alla resistenza. Musiche che accompagnano anche la Fata nella sua “danza” solitaria, che tra reminiscenze e sogni condivisi col pubblico, emerge l’insofferenza di un’attesa troppo lunga e la tenerezza di chi spera in un lieto fino. Carlos, tuttavia, non sembra ricambiare i sentimenti dell’amante. Nella sua compagnia, non vede nulla più che un rifugio occasionale per lenire le frustrazioni scaturite da un ideale offeso, e nel suo misero appartamento un possibile covo per chi come lui è costretto ad agire nell’ombra;addirittura, un luogo in cui riporre materiali misteriosi, utili nel proseguimento della lotta. Nel corso della narrazione, il disincanto della Fata dell’angolo traspare a mano a mano che le cose si complicano, specialmente dopo che Carlos, insieme ad altri compagni, è costretto ad abbandonare Santiago dopo un attentato non riuscito a Pinochet. È il punto di non ritorno: l’ignara protagonista si ritrova senza volerlo in quell’intrigo dal quale si è sempre tenuta in disparte, protetta dalla calma sacra e confortante del suo appartamento, prima che un frenetico via vai di militanti stravolgesse il suo angolo privato di vita. Così, anche lei è costretta a lasciare Santiago.

La Fata chiede di vedere Carlos un’ultima volta. L’incontro ha luogo, ma la parola d’ordine pronunciata dal giovane - “Ho paura torero!” - sigilla una separazione, un addio definitivo. Ora tutto è chiaro: la Fata dell’Angolo è dentro la realtà stessa, trascinata contro la sua volontà fuori dal suo mondo incantato, in cui qualsiasi elemento esterno – anche se mosso da ideali di giustizia – appariva profano. Ognuno riprenderà la propria personale rivoluzione. La flebile luce di quella favola immaginata sembra essersi spenta per sempre.

Con questo spettacolo, Claudio Longhi e la sua compagnia firmano un’opera che fa leva sulle nostre coscienze con grazia e una buona dose di satira, dando voce a chi la storia ha cercato di mettere a tacere. È un omaggio alla libertà fragile ma caparbia, al desiderio di essere amati e riconosciuti. Ed è anche un monito: che proprio l’amore, in tutte le sue forme, resta il più audace atto rivoluzionario possibile.

 

di Pedro Lemebel
traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi
trasposizione teatrale Alejando Tantanian
regia Claudio Longhi
dramaturg Lino Guanciale

con Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame
Michele Dell’Utri, Lino Guanciale, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero

April 13, 2025

Non credo si possa dire che il Nonostante con cui Valerio Mastrandrea esordisce in qualità di regista sia un film particolarmente riuscito: piuttosto noioso, scarsamente ironico, con momenti di indubbia debolezza …

Nello stesso tempo, però, al film vanno riconosciuti una nobile eticità di ispirazione, una  non comune originalità ed alcuni  pregi contenutistici di un certo rilievo:

  • ci presenta una realtà pluridimensionale, molto più complessa di quello che, nella prospettiva materialistica imperante, siamo portati a concepire, una realtà in cui si entra e si esce, in cui è possibile passare da un piano ontologico all’altro;
  • ci suggerisce di diffidare delle apparenze, ci induce a non credere che chi è incatenato ad un letto di ospedale, incapace di aprire gli occhi e di parlare, sia diventato una “cosa” (privo di coscienza, di pensiero, di emozioni), un “vegetale” o, peggio, un mero contenitore di organi trapiantabili;
  • ci suggerisce che la coscienza non sa dormire, ma che è sempre in viaggio in continenti inesplorati e dai labili confini;
  • ci guida a pensare che il viaggiare della coscienza sia un eterno nascere e morire, un continuo passaggio da una all’altra dimensione, un perenne aprirsi e chiudersi di porte;
  • ci guida a pensare che tutto sia immerso nel mistero e che, a salvarci dall’angoscia e dall’assenza di senso di questo nostro andare, siano sempre i sentimenti più grandi, quelli che riempiono il cuore, quelli che ci legano all’altro: Amicizia, Solidarietà, Amore;
  • ci fa comprendere che, dentro di noi, questa capacità di aprirci all’altro e di esperire l’incontro amoroso non scompare mai e che questa capacità è ciò che più riempie di significato il nostro grande viaggio, in ogni suo momento … è ciò che più potrà guidarci fra gli infiniti mondi della nascita e della morte, fra tutte le infinite nascite e le infinite morti degli infiniti mondi.

Insomma, un film che, nonostante i suoi limiti,  riesce a farsi apprezzare per l’esprit metafisico e per il delicato afflato lirico …

Sì, certo … Nonostante

 

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