L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Carlotta Caldonazzo
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“L’Unione europea deve agire prima che sia troppo tardi.Gli italiani hanno già dimostrato significativamente la loro disaffezione nei confronti dell'Unione con il voto del 2018 con un balzo in avanti dei partiti euroscettici e populisti (la Lega e il movimento 5 Stelle). Ma ora questa avversione per Bruxelles mette radici più profonde e si allarga con il problema della pandemia di coronavirus. Gli italiani hanno poca considerazione per la Merkel e si diffonde sempre più sui social e sulla stampa. V’è una crescente sfiducia nei confronti della Germania, di Bruxelles e della Banca centrale europea (BCE) e ciò inizia a radicarsi anche tra i politici italiani ", ha affermato Tiberio Graziani, Presidente della Vision & Global Trends, istituto di analisi geopolitica, con sede a Roma, intervistato dalla nota rivista francese “Valeurs Actuelles”.
Per Graziani all'atmosfera generale c’è da aggiungere anche che la consegna di mascherine all'Italia per il virus è stata parzialmente ostacolata da altri paesi comunitari che le hanno trattenute a proprio vantaggio e, al posto della solidarietà comunitaria, è sopraggiunta quella russa, cubana, cinese e albanese: sono accorsi in aiuto dieci aerei russi che hanno trasportato un centinaio di medici militari e attrezzature sanitarie ... questo è il paradosso: a fronte dell'inerzia europea si sono concretamente visti aiuti internazionali giunti da Cina, Cuba, Albania e Russia, paesi con cui l'Italia mantiene da sempre relazioni eccellenti.
Inoltre, l’Italia ha dovuto rafforzare i legami con la Cina dopo che Roma si è vista costretta ad adottare soluzioni disperate per rispettare le direttive di bilancio di Bruxelles ... Inerzia? Non proprio. Mentre gli ospedali italiani stavano trasformandosi in cimiteri, alcuni zelanti giudici europei non hanno trovato di meglio che multare alcuni albergatori sardi, accusati di falsare la concorrenza e condannarli a pagare una pesante multa.
Perfino Christine Lagarde, alla testa della BCE, è scivolata sul tappeto del rigore di bilancio europeo prima di correggere il tiro. Ma troppo tardi.
Come è possibile che un paese come l'Italia, tra i fondatori del progetto europeo, quello di Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, ideatori dell'idea federale, possa essere abbandonata dai suoi partner? Come il risentimento verso Bruxelles non potrebbe ora minacciare una Unione europea che potrebbe passare da 27 a 26 membri?
I miliardi sbloccati dalla BCE e dall’'Unione europea a sostegno dell'occupazione arrivano troppo tardi, come le ritrattazioni espresse da Christine Lagarde e persino da Ursula Vonder Leyen, presidente della Commissione Europea che forse, sentendosi colpevole, ha finito per presentare le sue scuse agli italiani ... Sì, l'economia è un elemento importante della politica, ma non è politica. Continua Graziani.
In realtà, l'episodio di Covid-19 è solo un'altra disputa tra l’Europa tedesca (con i suoi attuali alleati, Paesi Bassi, Austria e Finlandia) e quella del sud.
L'euro sarebbe dovuto essere una ottima chance per l'Italia, ma la crisi economica dal 2008 al 2013 ha finito di dimostrare che questa valuta, un deutschemark sotto mentite spoglie, non ha fatto altro che distruggere la capacità di esportazione dell’Italia, sovrastata da una valuta troppo forte che ha reso la sua economia meno competitiva sui mercati esteri. Del resto già nel 2010 Angela Merkel aveva mostrato nei confronti degli Italiani e dei greci quella fermezza che non ha mai avuto per Erdogan.
La disoccupazione e la povertà hanno fatto il loro ritorno nella penisola. Già cinque milioni di italiani erano considerati poveri prima della comparsa del Covid-19, che ha colpito le zone più produttive del paese e privato di braccia il Sud agricolo, di conseguenza è prevista una contrazione del PIL di almeno il 6%. L'Italia è stata inserita nel campo dei PIGS (Portogallo, Italia,Grecia, Spagna), acronimo affascinante ("Maiali" in inglese), dagli esperti di Bruxelles e loro pari. Il famoso spread tra i tassi di interesse dei Titoli di stato tedeschi e quelli italiani continua a pesare, ha condizionato e condiziona la composizione degli ultimi governi italiani.
L'attuale presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, non sarebbe stato accettato completamente previo un accordo con Berlino. Circola a Roma la battuta che l'impero romano era già stato distrutto dai barbari tedeschi e che ci stanno provando di nuovo, travestiti da europei ....
Ma l'economia non è l'unico punto di contesa. La crisi dei migranti innescata nel 2013 ha anche dato dimostrazione, a grandezza macroscopica, che quando la storia si è ripetuta l'Unione Europeo ha sempre brillato in assenza.
Non è in grado di proteggere i cittadini, rendendo allo stesso tempo, con le sue leggi, anche più complessa la gestione sovranazionale dell’ immigrazione. C’è voluta la determinazione politica del ministro degli interni Matteo Salvini per ripristinare i confini italiani e ridurre significativamente gli sbarchi degli immigrati clandestini sulla costa della penisola.
Emmanuel Macron, per la medesima causa dell’immigrazione, ha colto la palla al balzo per un maggior approccio con l’Italia. Forse è tempo che venga dimenticato il dossier libico e il numero incalcolabile di incomprensioni nelle relazioni tra Parigi e Roma.
Nel 2019, sullo sfondo delle elezioni Europee, si era giunti ad un incredibile scambio di accuse e al richiamo dei rispettivi ambasciatori in seguito a scambi di accuse tra Macron e Salvini ... Secondo fonti al Quai d'Orsay “ Macron vorrebbe salvare Giuseppe Conte, soprattutto per motivi economici ", Ma sembra che si sia ancora lontani dall’ipotesi della costruzione di un'alleanza latina nel cuore dell’ Europa comprendente la Francia, la Spagna, l'Italia e il Portogallo, la quale potrebbe essere una soluzione più che plausibile, e forse la migliore. Questa è l’ipotesi che avanza, ma rimane lontana per la mancanza di un reale coordinamento ", le considerazioni di Tiberio Graziani.
Helen Buyniski, giornalista e commentatrice politica americana presso la RT in un suo articolo riferisce che Henry Kissinger, eminente custode della politica estera imperiale degli Stati Uniti, ha ammonito in un editoriale che nessun governo - nemmeno il suo amato egemone - può sconfiggere Covid-19 da solo, sottintendendo che deve seguire il Nuovo Ordine Mondiale che ha sempre predicato. Se gli Stati Uniti non uniscono i loro sforzi per ricostruire la propria economia con i primi passi verso la creazione di un governo globale, l'umanità è condannata, ha scritto Kissinger in un recente articolo sul Wall Street Journal. "Nessun paese, nemmeno gli Stati Uniti, può superare il virus in uno sforzo puramente nazionale", ha avvertito Kissinger. "Affrontare le necessità del momento alla fine deve essere associato a una visione e un programma collaborativi globali". Se non si possono fare entrambi insieme, avremo il peggio di ciascuno. Kissinger lamenta che la pandemia ha portato al ritorno di un modello di governo nazionalista "città murata", suggerendo che la sola "esplorazione alle frontiere della scienza" può salvare l'umanità dalla malattia nella sua visione di un'utopia globalista. Ma lo sviluppo di cure richiede tempo e l'idea che i paesi debbano essere scoraggiati dal proteggersi nel frattempo è un suicidio. Semmai, uno dei motivi per cui Italia, Spagna e Francia sono stati colpiti così duramente dal coronavirus è stata l'insistenza disfunzionale dell'UE sui confini aperti in mezzo alla pandemia. "Il commercio globale e il movimento delle persone" vanno bene e ciò è bene, ma la pandemia ha messo in luce le debolezze del sistema globalista come mai prima d'ora. Ci vorranno anni per ricostruire le nazioni, e ripetere i loro errori non è qualcosa che possono permettersi di fare.
Mentre prestava servizio come Segretario di Stato e Consigliere per la sicurezza nazionale sotto i presidenti Nixon e Ford, Kissinger ha svolto un ruolo da protagonista nelle campagne di bombardamento contro il Vietnam, la Cambogia e il Laos e ha supervisionato le operazioni di cambio di regime che hanno messo al potere dittatori brutali anche in Argentina e Cile. Ha fatto da supporto alla repressione sanzionata dallo stato in Indonesia. Un noto rapporto da lui redatto per l'amministrazione Ford ha richiesto riduzioni drammatiche della crescita della popolazione nei paesi in via di sviluppo.
Kissinger avverte che "l'incapacità [di salvaguardare i principi dell'ordine mondiale liberale] potrebbe incendiare il mondo". Se, come egli stesso scrive, "lo scopo dello stato legittimo è quello di provvedere ai bisogni fondamentali delle persone: sicurezza, ordine, benessere economico e giustizia", quei principi sono crollati molto tempo fa.
Per la redattrice dell’articolo il primo passo degli Stati Uniti, post-pandemia, dovrebbe essere quello di spegnere i fuochi di Kissinger e di quelli come lui che cercano di mascherare l'impero nella retorica della democrazia liberale. Si potrebbe pensare, dato il suo record di trascorsi, che sarebbe dalla parte del virus..
Bruxelles - Oggi non tutti i politici dell'Unione europea hanno capito che le precedenti sfide e rischi dottrinali prioritari dell'UE si sono già sciolti come miraggi.
Oggi tutti i Paesi si trovano in uguali cattive condizioni, in una catastrofe sociale ed economica in cui il nostro mondo è precipitato a causa della pandemia di COVID-19. I regimi di emergenza, l'introduzione di severe misure di quarantena e persino il coprifuoco, come in guerra, sono ora solo mezze misure, sfortunatamente caotiche e troppo spesso assunte in ritardo.
In atto, le vite di migliaia o milioni di persone nel mondo, valgono più del sistema artificiale di competizione globale e delle direttive dei vecchi politici, che, come si è scoperto, possono cadere a pezzi come un castello di carte a causa di un virus mortale. Nelle condizioni di caos generale e di rischi crescenti di una catastrofe sociale e umanitaria, l'Unione Europea non è rimasta sola, come hanno dimostrato le azioni di Russia, Cina e Cuba. La vita è al di sopra della politica e, nella nuova realtà odierna, purtroppo, l'Unione europea non ha potuto dimostrare la propria unità.
La realtà in cui il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato la priorità delle tecnologie verdi e l'aumento della mobilità degli europei per il prossimo periodo a lungo termine della pianificazione fiscale dell'UE, è cambiata in appena un mese, come i piani che tutti abbiamo realizzato per l'estate o per l'anno a venire. Sulla tabella di marcia di un'Europa unita, un focolaio di malattia in Italia con migliaia di morti, si è rivelato come un inaspettato caso di forza maggiore che i politici di Bruxelles non sono riusciti a gestire. La leadership e la popolazione italiana apprezzano molto l'assistenza della Russia, osservando che i russi sono stati i primi a precipitarsi nel focolaio della pandemia e stanno cercando la soluzione al problema globale sorto.
Sfortunatamente, la situazione appare esattamente in questi termini: i medici russi sono venuti in aiuto della popolazione del paese dell'UE, mentre i partner dell'Europa occidentale e della NATO, sono fermi in pausa di esitazione e non hanno alcuna fretta di aiutare il paese più colpito dalla malattia. Che cosa è successo all'unità di tutti gli stati d'Europa dai tempi del grande umanista Robert Schumann? Perché ora ciascuno agisce per conto proprio e per sé stesso? La Repubblica Ceca ha tentato di appropriarsi di mascherine e medicinali inviati in Italia dalla Cina. La Polonia non ha concesso il proprio spazio aereo ai mezzi inviati dalla Russia, con forniture umanitarie così necessarie per gli italiani, e c'è stato forse un politico a Varsavia, che abbia proposto di inviare mascherine e test rapidi a Milano o Roma, per il coronavirus prodotti in Polonia?
Purtroppo, l'assistenza gratuita offerta agli italiani da Russia, Cina e Cuba, ha assunto nello spazio informativo occidentale forme mostruose. L’agenzia di stampa Bloomberg (USA) ha affermato che l'aiuto della Russia è stato presumibilmente fornito in cambio del voto dell'Italia, per revocare le sanzioni economiche anti-russe. Questa è una totale assurdità, il governo ed il popolo italiano hanno il diritto di decidere da soli. La verità è che Washington si è lavata le mani e la Russia sta aiutando gli italiani con azioni efficaci in tempo reale.
Naturalmente, la propaganda è in grado di svalutare e gettare fango su qualsiasi atto umano, ma in una pandemia, quando si contano migliaia di morti, questo appare semplicemente disgustoso. Per rendere chiara la disposizione dell'animo dei russi, si può citare un detto russo: "l'amico si riconosce nel momento del bisogno".
L'Italia sostiene il corso paneuropeo delle sanzioni anti-russe e proprio la Russia è venuta in suo aiuto nel momento critico, offrendo tutta la sua solidarietà, non mancando di onorare nobilmente l’aiuto richiesto e sostenendo l’amico in difficoltà!
La situazione attuale italiana ha dimostrato che tutti i meccanismi globali esistenti della politica comune nel campo della sicurezza, non sono in grado di affrontare nuove minacce e rischi. Purtroppo, questi rischi, nell'UE e nella NATO, sono stati sottovalutati o ignorati, proprio durante il periodo in cui si è costantemente sostenuta una folle politica anti-russa e persino russofoba. Alla prova dei fatti, durante questi giorni di prova, tutto ciò si è rivelato come una Fata Morgana, per tutti gli stati e tutti i popoli del mondo globalizzato.
Tiberio Graziani |
La pandemia causata dal COVID-19 sta cambiando il panorama politico oltre che frantumando le economie a livello mondiale: la politica globale e le relazioni internazionali così come le abbiamo conosciute cesseranno di esistere. Così dicono gli analisti.
Ad oggi, il virus mortale, rilevato per la prima volta nella Cina di Wuhan alla fine di dicembre, ha praticamente infettato oltre 458.000 persone in quasi ogni paese del mondo, uccidendo quasi 20.000 persone ( le statistiche sono della Johns Hopkins University). L'11 marzo l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha classificato l'epidemia come una pandemia. "Le relazioni internazionali dopo Covid-19 probabilmente non saranno più le stesse. Gli stessi principi che hanno governato le relazioni internazionali finora sembrano diventare obsoleti giorno dopo giorno.
L'equilibrio di potere sta cambiando", così dichiara Tiberio Graziani, presidente di Vision & Global Trends, International Institute for Global Analyzes. Secondo Graziani il cambiamento potrebbe diventare irreversibile a meno che organizzazioni come le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale e l'OMS, nonché la NATO adottino "strategie adeguate". Nuove relazioni internazionali e nuove classi dirigenti potrebbero nascere come conseguenza della pandemia, ha detto Graziani. "Da questo punto di vista, le nazioni meglio apprezzate saranno, probabilmente, quelle che affermeranno i valori della solidarietà e della comunità come fondamento della sovranità politica", per Graziani.
La globalizzazione dell'economia è stata messa in discussione, anche per Wyn Grant, professore di politica internazionale alla Warwick University. "Chiaramente la pandemia attira l'attenzione sui rischi che sorgono dalle catene di approvvigionamento associate alla globalizzazione. Ciò può portare a politiche economiche più centrate a livello nazionale. A parte la risposta delle banche centrali, la solidarietà internazionale e il coordinamento sono stati relativamente limitati". Afferma inoltre Alan Cafruny, professore di affari internazionali all'Hamilton College : "La crisi ha notevolmente migliorato la posizione della Cina nei confronti della leadership globale. Nonostante la sua iniziale e lenta risposta all'insorgere del Covid-19, il suo rapido contenimento contrasta con l'incompetenza, la confusione e l'incapacità dell'amministrazione Trump di fornire alla popolazione americana cure mediche di base, articoli come mascherine chirurgiche, respiratori e kit di test, o con lo sviluppo di un piano coordinato per il contenimento “.
Secondo l'esperto, c’è una marcata differenza negli approcci di Pechino e Washington per quanto riguarda l'epidemia, anche a livello internazionale. Il governo cinese ha fornito assistenza e forniture mediche alle nazioni colpite, tra cui l'Italia e l'Iran. Il co-fondatore di Alibaba Jack Ma ha inviato maschere chirurgiche, kit di test e attrezzature mediche in ogni regione del mondo a causa della carenza globale. Gli Stati Uniti, dal loro canto, hanno dimezzato il loro contributo all'OMS e sospeso i voli dall'Europa senza consultarsi prima con i leaders europei. E questa crisi, secondo Cafruny, ha approfondito la spaccatura tra Washington e Pechino. I due paesi hanno cooperato ampiamente di fronte ad altre importanti sfide del 21 ° secolo come l'epidemia di SARS del 2003, la crisi finanziaria globale del 2008 e l'epidemia di H1N1 nel 2009, ma questa volta non è stato così. "La pandemia di Covid-19 ha approfondito la rivalità geopolitica e ha evidenziato la mancanza di leadership degli Stati Uniti. Assistiamo ad una vera e propria guerra di accuse. Funzionari del governo e politici di spicco delle due parti parlano di guerra biologica e qualche giornalista è anche stato espulso. Praticamente, manca la cooperazione e c’è assenza di comunicazione comune ".
Dello stesso parere anche il professor Grant, dell'Università di Warwick: "La risposta dell'amministrazione americana nel dare la colpa alla Cina per lo scoppio dell'epidemia ha ulteriormente peggiorato le relazioni", ha affermato. Ma, per lo studioso la crisi per il COVID-19 ha sollevato ombre anche sulle istituzioni europee vecchie di decenni come l'Unione Europea: gli stati membri hanno esitato a fornire il necessario supporto all'Italia gravemente colpita, che finora ha registrato un totale di 74.386 casi, tra cui oltre 7000 decessi: "sorgono ulteriori domande sull'efficacia dell'UE in una crisi. l'Italia ritiene che le sia stato dato un sostegno insufficiente. Ciò ha evidenziato la fragilità della solidarietà all'interno della stessa UE". I punti di vista del professore sono stati ripresi da Graziani, il quale ha osservato che Cina, Russia e Cuba erano le uniche nazioni che hanno preso provvedimenti concreti per aiutare l'Italia nella crisi, a parte una piccola ong americana.
"Al momento, gli europei sembrano regredire nell'egoismo nazionale e persino regionale ... La pandemia ha dimostrato l'inadeguatezza delle strutture sovranazionali basate sul modello democratico liberale e sui cosiddetti valori occidentali. Dovranno essere costruite nuove istituzioni, basate su relazioni di solidarietà ", ha detto il Presidente di Vision & Global Trends, International Institute for Global Analyzes e il professor Cafruny, continuando nell’analisi, ha sottolineato come l'incapacità dei sistemi sanitari degli Stati membri dell'UE a rispondere adeguatamente all'emergenza, è derivata da "anni di tagli drastici causati dall'imposizione dell'austerità guidata dalla Germania" – che ha imposto il blocco del debito dell'Eurozona come risposta alla crisi economica del 2009.
Ne approfittiamo del momento di forzato riposo per meditare all’ombra di un virus che ci assale, ci tormenta e che fa vedere nemici da tutte le parti. Come diceva l’allora divo Giulio, ..”pensare male è peccato, ma spesso ci si azzecca!” e allora facciamo una breve carrellata dei trascorsi dell’Uomo. Finita l’era del “io do una clavata a te, tu ne dai un’altra a me”, per far valere le proprie ragioni si iniziò a duellare con pugnali, sciabole, frecce e giavellotti. Ma le istanze non erano solo dei singoli bensì anche di intere comunità, popoli, nazioni. Nacque così la finanza, meccanismo economico di semplice applicazione che avrebbe svolto la funzione di assecondare gli interessi dei postulanti per campagne militari, e non solo. Ma, man mano, e con il tempo, si sono invertiti i ruoli: la speculazione ha preso il sopravvento e l’uomo ha perso la sua centralità, la sua dignità, i suoi diritti, ciò che di bello e meraviglioso Dio o la Natura che dir si voglia gli aveva regalato. Guerre, carestie, deportazioni, tutto è dipeso e dipende tutt’ora dagli umori di questo “mostro” che tiene sotto schiaffo il genere umano. Nelle guerre combattute con i carri armati o con i virus, non osiamo pensare con le atomiche, non ci sono né vincitori né vinti, ma ci perde l’intera Umanità.
I burattinai e i burattini sono sempre gli stessi, che si vinca o si perda, il movente è sempre il medesimo: il profitto. Finché si accorderà valore a questo il Mondo non conoscerà pace, l’Inferno sarà su questa terra e invocheremo forse la morte per avere la pace.
Per quanto riguarda il nostro Paese, e tornando ai pensieri del “Divo Giulio”, c’è da dire che in una guerra voluta anche da noi, ne siamo usciti con le ossa rotte e abbiamo perso la sovranità. Con il piano Marshall le potenze vincitrici pensarono bene di aiutare la pace in Europa tra vinti e vincitori creando, a piccoli passi, quella che è l’attuale Comunità economica europea, e ciò anche per evitare una fuga in massa in America degli europei dai loro paesi ridotti in macerie. Ovviamente tutto orchestrato e con l’attenta regia dei loro servizi di sicurezza che pensarono bene di incanalarci verso il Patto Atlantico, la Nato, a stretta dipendenza militare ed economica. Così ci è stato precluso avere una nostra politica, commerciare con chi vogliamo, rivolgerci a chi sia inviso ai vincitori. Siamo a libertà vigilata, in parole povere ci è precluso trovare gli spazi per la nostra stessa sopravvivenza che, per vocazione naturale, potrebbe essere anche l’Eurasia e non l’altra sponda dell’Atlantico. Ci fanno vivere in una cultura che non ci appartiene, ci impongono le loro informazioni, ci fanno vedere i loro film, una finanza che non è la nostra, ci dicono quello che possiamo fare e quello che non dobbiamo fare, in sostanza la nostra identità sta scomparendo. Dalla fine della guerra ad oggi abbiamo avuto in media un governo l’anno e questo tipo di instabilità non solo da noi, ma in tutto il mondo, è miele per le orecchie di chi vuole speculare in borsa; possiamo prendercela con questo o quell’altro dei politici, ma il vero nemico e unico vincitore non si appalesa mai, è dietro le quinte che si stropiccia le mani. Per la nostra posizione geografica siamo una vera e propria portaerei naturale sul Mediterraneo, punto strategico per una politica che forse non ci appartiene ma di cui ne subiamo le conseguenze. Da noi partono gli aerei che vanno a bombardare popolazioni inermi che abitano in Medio Oriente, sul nostro territorio ci sono testate nucleari, a Sigonella abbiamo missili puntati contro le truppe cammellate dei beduini, siamo un enorme magazzino di armi per conto terzi destinate a seminare morte e distruzione, nessuno ne parla, eppure la nostra Costituzione ripudia la guerra. Bisogna prendere coscienza che hanno più bisogno gli altri del nostro territorio che noi di loro, e forse è proprio questa la causa per cui in tutti questi anni ci sono state nascoste tante verità, ciò che la nostra informazione a libertà vigilata non ci ha potuto dire.
Una via d’uscita potrebbe essere l’Europa. Sarebbe l’ideale: l’unione fa la forza e il mondo oramai viaggia a zone di macroeconomia, quindi anche l’Europa unita potrebbe avere la sua voce. Ma così purtroppo non è stato fin'ora. Fin dall’origine è stata pensata come una scatola vuota, come un’istituzione acefala, a uso e consumo dei vincitori, che in nome della democrazia hanno ottenuto uno sbocco commerciale sui territori conquistati di ben 500 milioni di persone in nome di un nemico che non esiste, prova ne è che gli ultimi arrivati nell’Unione, subito imbrigliati nella Nato, sembrano più sensibili alle direttive d’oltre oceano che a quelle europee. Comunque sia, vale tentare questa via per essere sicuri di non sbagliarci.
Sembrerebbe non ci siano molte vie di uscita e che oramai siamo destinati a soccombere ma, in realtà, a pensarci bene, qualcosa possiamo farla. La tecnologia ci sta portando sempre più ad un pensiero globale, siamo quasi tutti collegati ad internet e grazie alla rete siamo cittadini del mondo, al di la dei confini convenzionali, e stiamo pervenendo anche ad un vivere più locale, nel senso che grazie a questa possiamo permetterci di vivere anche in campagna e continuare a lavorare in rete sotto di un albero fuori della città, magari troppo caotica o inquinata. Vivendo questa nuova realtà che è sempre stata ma che non è stata considerata nel suo giusto valore, percepiamo che la razza umana è una, che i nostri bisogni in qualsiasi parte del mondo si trovino i nostri simili, sono gli stessi, i virus come quello che ci obbliga in casa ora, non hanno confini e che la tecnologia è disposta ad aiutarci e soprattutto, eliminando le distanze, ci fa prendere coscienza di avere una casa in comune, la Terra, che va rispettata e pulita, anche dei nostri pensieri negativi, che tanto danno provocano. E allora forse i tempi sono maturi perché l’uomo faccia un salto di qualità, prenda coscienza che il male porta al male e il bene al bene. Siamo tutti una famiglia, tutti aspiriamo al bene, e questo è possibile ottenerlo grazie a una maggior presa di coscienza da parte di tutti noi, basta osservare le regole che Madre natura ci ha dato: Giustizia, Condivisione, Amore. Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki hanno mostrato all’intera umanità che si è oramai giunti al punto del non ritorno. Il nostro Paese è sempre stato additato quale Paese di arte, di cultura, di civiltà, di bellezza: rompiamo le catene con la nostra creatività, con il nostro sapere, la nostra intelligenza, la nostra saggezza e allora non seguiremo più imprigionati il mondo ma il mondo sarà imprigionato dalla nostra Luce.
“Il Presidente della Regione Veneto Luca Zaia ha affermato ieri in tv .. “li abbiamo visti tutti i cinesi mangiare i topi vivi o altre robe del genere ...”.
Ma cosa succede alla nostra classe politica? Come può un esponente di primo piano - di un partito politico che è stato al governo dell’Italia e che aspira a tornarci - ricorrere a espressioni di tal genere? La Cina è un paese-continente e insieme un paese-civiltà: 1,4 miliardi di individui eredi di un percorso millenario di civilizzazione, la cui profondità è di tutta evidenza ignorata da chi si serve di un vocabolario così brutale e mistificatorio nell’affrontare temi complessi. La Cina è certamente una nazione ancora in via di sviluppo sotto certi aspetti, e piena di contraddizioni di natura politico-istituzionali, sociali ed economiche, una nazione tuttavia che merita un lessico attento e rispettoso, specie quando a ricorrervi è un rappresentante politico incaricato di difendere gli interessi del nostro Paese, in un momento per di più di estrema difficoltà per tutti. Il vocabolario offensivo di Zaia (chissà?) è forse il sintomo - certo, non il primo - di un declino culturale della nostra nazione, emblema di una classe politica approssimata, mediatizzata e in possesso di scarsa cultura pubblica. Talvolta per farsi ascoltare occorrerebbe tacere.”.
Alberto Bradanini, presidente del Centro Studi sulla Cina contemporanea ed ex-Ambasciatore d’Italia a Pechino (2013-2015).
Riceviamo dalla Palestina questa ennesima orribile notizia da Gaza. "Oggi due giovani palestinesi sono stati colpiti sul lato della recinzione e uccisi. Un terzo è stato ferito. Se uno è stato ucciso, l'altro non ha potuto essere salvato, probabilmente è stato ucciso sul posto. Gli altri intorno hanno dovuto rinunciare al tentativo di salvarlo quando un buldozer è sopraggiunto e ha raccolto il corpo con la pala e lo ha portato via. Ci scusiamo per la "pesantezza" della notizia e la mancanza di rispetto umano. Le morti quotidiane dei palestinesi, di solito taciute, rimangono nascoste, a menoché non siano VIDEO-registrate e particolarmente raccapriccianti."
Teresa Bellanova |
18 febbraio 2020 - Grande affluenza di pubblico ieri a Palermo presso l’hotel Addaura di Mondello in occasione della visita del Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali Teresa Bellanova.
Più di due ore di ritardo rispetto all’ora prevista ma, comprensibile, siamo al sud!
Alle 20:00 circa il ministro entra in sala con il suo stuolo di cavalier serventi di chiaro stampo renziano e il sipario si apre su quell’ambiguo teatrino della politica sempre nuovo e sempre uguale a se stesso.
Dopo i primi, diretti attacchi al Movimento 5 stelle, al PD, il neo-costituito partito Italia Viva ha rivolto l’invettiva verso il presidente della Regione Sicilia, Nello Musumeci, tacciato di incompetenza.
Una situazione preoccupante, a sentir loro, quella nazionale che sembrerebbe aver registrato una regressione pari al -4%, per quanto concerne la produzione industriale, e un -12% per il settore auto.
Un “sistema Paese” che non esiste e che scoraggia i potenziali investitori esteri che non trovano condizioni di garanzia sufficienti nella nostra nazione per i loro scopi imprenditoriali.
Si è, inoltre, stimato un aumento del precariato e del part-time volontario per via delle difficoltà, soprattutto della donna, a conciliare lavoro e famiglia.
Ma se le condizioni generali della nazione sono preoccupanti, principalmente per via del fisco che non ha prodotto i risultati promessi dal vecchio e decaduto Governo, quelle siciliane sembrano essere davvero disastrose!
La stessa ministra avrebbe visitato aziende agricole e un istituto agrario e riferisce che le prime segnalano crolli della produzione per via degli enormi disagi legati alla logistica.
La viabilità in Sicilia costituisce un’enorme ferita, una cicatrice mal cucita che attraversa un enorme territorio.
Dappertutto è un dissesto.
E lungo quelle ferite, ogni deviazione del percorso è una questione irrisolta, amara testimonianza dell’incompiuto siciliano.
Così gli autotrasportatori si rifiutano di consegnare il prodotto perché i costi lievitano spropositatamente a causa dei lunghi tempi necessari al trasporto.
Infrastrutture carenti, quindi, e opere pubbliche bloccate.
Pare, infatti, che siano 120 i miliardi di euro di opere pubbliche bloccate.
E la Sicilia, sempre più, si stacca dai tavoli nazionali e il “fattore tempo” che non si riesce a rispettare, sta escludendo la regione dai ricchi mercati dell’Unione Europea.
“Nihil novum sub sole” verrebbe da dire! Dove anche il sole sta prendendo parte a quella non meno spietata guerra che è quella climatica.
E Così i giovani, di cui tanto si parla e che non si fanno parlare, abbandonano la propria terra e le proprie terre che non sono più la primaria fonte di sostentamento dell’economia del Mezzogiorno.
Mentre nelle nuove arene dello scenario politico mondiale, dove il popolo è la nuova bestia da sfamare, il “circenses” è presto garantito dagli usurpatori di turno che si contendono la scena e che, grazie alla loro capacità di mistificazione, riescono a strappare ovazioni e consensi a quei cittadini “cornuti e contenti”che assistono allo spettacolo e che ben si accontentano della miseria ricevuta.
Ma il “panem”… quello NO!
Un accusativo che necessariamente sottende un verbo di elargizione.
Ma il soggetto che elargisce non è certo la classe politica dirigente.
Oggi sono i genitori e i nonni che provvedono ad aiutare questa nuova generazione con serie difficoltà economiche.
E’, ancora una volta, la famiglia, fin dove e, fin quando può, a sopperire ad un sistema carente che fa acqua da tutte le parti.
Ma sarà, forse, l’ultima generazione che potrà permettersi questo lusso!
Ancora una volta, “mutatis mutandis”, la miglior forma di demagogia è addestrare.
Di vero ci è rimasta solo l’ignoranza e la volontà di professarla.
Perché gli argomenti scottanti vengono evitati, seppelliti sotto le macerie.
Neanche lontanamente sfiorato l’argomento “grano”, oggetto di una spietata speculazione al ribasso. 18 centesimi non sono sufficienti neanche a coprire le spese per chi, come si dice da queste parti, “sta sempre con gli occhi al Cielo”.
Per fortuna, però, continuano ad arrivare navi cariche di grano contaminato nel silenzio più assoluto e la Sicilia rimane, sempre e comunque, una terra vessata, popolo di conquista, bacino di voti, ieri come oggi.
Del riformismo tanto auspicato e osannato ancora NESSUNA TRACCIA.
18 FEB 2020 — Il «Budget per il futuro dell’America», presentato dal Governo Usa, mostra quali sono le priorità dell’Amministrazione Trump nel bilancio federale per l’anno fiscale 2021 (che inizia il 1° ottobre di quest’anno).
Anzitutto ridurre le spese sociali: ad esempio, essa taglia del 10% lo stanziamento richiesto per il Dipartimento della Sanità e dei Servizi Umanitari.
Mentre le stesse autorità sanitarie comunicano che la sola influenza ha provocato negli Usa, da ottobre a febbraio, circa 10.000 morti accertati su una popolazione di 330 milioni.
Notizia taciuta dai grandi media, i quali lanciano invece l’allarme globale per i 1.770 morti a causa del coronavirus in Cina, paese con 1,4 miliardi di abitanti che è stato capace di misure eccezionali per limitare i danni dell’epidemia.
Non può non venire il sospetto sulle reali finalità della martellante campagna mediatica, la quale semina terrore su tutto ciò che è cinese, quando, nella motivazione del Budget Usa, si legge che «l’America ha di fronte la sfida proveniente da risorgenti Stati nazionali rivali, in particolare Cina e Russia».
La Cina viene accusata di «condurre una guerra economica con cyber armi contro gli Stati uniti e i loro alleati» e di «voler plasmare a propria somiglianza la regione Indo-Pacifica, critica per la sicurezza e gli interessi economici Usa».
Perché «la regione sia libera dalla malefica influenza cinese», il Governo Usa finanzia con 30 milioni di dollari il «Centro di impegno globale per contrastare la propaganda e disinformazione della Cina».
Nel quadro di «una crescente competizione strategica», il Governo Usa dichiara che «il Budget dà la priorità al finanziamento di programmi che accrescano il nostro vantaggio bellico contro la Cina, la Russia e tutti gli altri avversari».
A tal fine il presidente Trump annuncia che, «per garantire la sicurezza interna e promuovere gli interessi Usa all’estero, il mio Budget richiede 740,5 miliardi di dollari per la Difesa nazionale» (mentre ne richiede 94,5 per il Dipartimento della Sanità e dei Servizi Umanitari).
Lo stanziamento militare comprende 69 miliardi di dollari per le operazioni belliche oltremare, oltre 19 miliardi per 10 navi da guerra e 15 miliardi per 115 caccia F-35 e altri aerei, 11 miliardi per potenziare gli armamenti terrestri.
Per i programmi scientifici e tecnologici del Pentagono vengono richiesti 14 miliardi di dollari, destinati allo sviluppo di armi ipersoniche e a energia diretta, di sistemi spaziali e di reti 5G.
Queste sono solo alcune voci di una lunga lista della spesa (con denaro pubblico), che comprende tutti i più avanzati sistemi d’arma, con colossali profitti per la Lockheed Martin e le altre industrie belliche.
Al budget del Pentagono si aggiungono diverse spese di carattere militare iscritte nei bilanci di altri dipartimenti. Nell’anno fiscale 2021, il Dipartimento dell’Energia riceverà 27 miliardi di dollari per mantenere e ammodernare l’arsenale nucleare. Il Dipartimento per la sicurezza della patria ne avrà 52 anche per il proprio servizio segreto. Il Dipartimento per gli affari dei veterani riceverà 243 miliardi (il 10% in più rispetto al 2020) per i militari a riposo.
Tenendo conto di queste e altre voci, la spesa militare degli Stati uniti supererà , nell’anno fiscale 2021, 1.000 miliardi di dollari.
La spesa militare degli Stati uniti esercita un effetto trainante su quelle degli altri paesi, che restano però a livelli molto più bassi. Anche tenendo conto del solo budget del Pentagono, la spesa militare degli Stati uniti è 3/4 volte superiore a quella della Cina e oltre 10 volte superiore a quella della Russia.
In tal modo «il Budget assicura il dominio militare Usa in tutti i settori bellici: aereo, terrestre, marittimo, spaziale e cyber-spaziale», dichiara la Casa Bianca, annunciando che gli Stati uniti saranno tra non molto in grado di produrre in due impianti 80 nuove testate nucleari all’anno.
«Il futuro dell’America» può significare la fine del mondo.
(il manifesto, 18 febbraio 2020)
In riferimento al termine antropocene, con cui si indica l'epoca iniziata con la Seconda rivoluzione industriale e tutt'ora in corso, ci si potrebbe domandare se non sia opportuno, piuttosto, parlare di pantopoliocene, ossia di un'era in cui tutto è reificato e mercificato, in vendita: fenomeni naturali, dinamiche sociali e relazioni internazionali.
A causa della licenza [la democrazia] contiene tutti i generi di costituzione e probabilmente chi vuole costruire una città, come noi facevamo poc'anzi, deve recarsi in una città democratica, scegliere il tipo di Stato che più gli piace, come se fosse arrivato a una fiera delle costituzioni, e, dopo aver scelto in tal modo, fondare la città. (Platone, Repubblica, 557d). Queste parole, pronunciate dal personaggio di Socrate nella Repubblica di Platone in riferimento all'ordinamento democratico, sembrerebbero, oggi, particolarmente adatte a comprendere il principio fondante delle democrazie neo-liberali, nelle quali, tanto in politica interna quanto in politica estera, il piano finanziario si è imposto come fattore dominante nelle scelte compiute dalle classi dirigenti in domini tradizionalmente qualificati come di pubblico interesse, poiché legati ai diritti fondamentali della persona: il lavoro, le politiche abitative, l'istruzione e la cultura, la sanità, il diritto alla pensione. Si tratta di un aspetto che sembra distinguere queste forme di democrazia da quelle del secolo scorso, nelle quali la classe lavoratrice, in quanto anello fondamentale del sistema produttivo, conservava un certo potere di contrattazione. Infatti, se le prime due rivoluzioni industriali, in particolare la seconda, avevano conferito un peso politico notevole ai partiti e alle forze politiche e sindacali che rappresentavano i lavoratori, le maggiori conquiste in termini di diritti sono avvenute dopo il secondo conflitto mondiale, quando il confronto con l'Unione sovietica spingeva a venire incontro alle esigenze di quelle classi che avrebbero potuto rappresentare una solida base di consenso per i partiti e i movimenti di sinistra. In realtà, è piuttosto l'adozione di un certo tipo di sistema economico-produttivo a influenzare (quando non a determinare) le linee politico-culturali della classe dirigente. Valeva tanto nell'Atene del V secolo a.C., in cui l'aristocrazia era la classe dominante nel quadro di un'economia basata sulla schiavitù, quanto nelle società interessate dalla seconda rivoluzione industriale, caratterizzate da un'economia di tipo capitalistico. Contesti, questi ultimi, le cui dinamiche trovano una notevole sintesi nell'arte, nella letteratura e nel cinema a partire dalla seconda metà del XIX secolo.
Pur richiamandosi nella teoria all'imprenditorialità, alla libera iniziativa, all'individualismo e alla competizione per il successo personale, nella pratica, il capitalismo subordina qualsiasi istanza a quella della produttività e della concorrenza nella produzione e nel commercio di beni e servizi. In una parola, al mercato. In tale prospettiva, la libera iniziativa per avere successo deve iscriversi nei meccanismi del mercato, che oggi è un mercato globale. In caso contrario, causa all'individuo che la esercita esclusione ed emarginazione sociali, potenti deterrenti in grado di indurre le masse (nella concorrenza l'ordine quantitativo prevale quasi sempre su quello qualitativo) a prendere liberamente iniziativa solo nella direzione più funzionale al mercato, non considerandone il carattere disfunzionale rispetto allo sviluppo dell'individuo e della sua personalità. Le stesse nozioni di progresso e sviluppo sono elaborate e definite in relazione al successo economico e materiale, senza alcun riguardo, se non qualche cenno di compassione formale, per ciò che favorisce la crescita e il rafforzamento dell'individuo nella sua autentica dimensione esistenziale. Inoltre, per far fronte agli effetti disastrosi delle dinamiche innescate da un simile approccio, non si fa che mettere in piedi palliativi inefficaci a lungo termine (nella migliore delle ipotesi), fino ad arrivare a strategie repressive più o meno sofisticate e più o meno in linea con le leggi positive e morali. Infatti, per ridurre al minimo il disagio psichico individuale di massa, l'unica soluzione sarebbe andare alla radice, ossia all'ossessione della competitività, che induce la percezione dell'altro come nemico/rivale, dissestando il tessuto sociale. Al contrario, nelle società attuali si tende a identificare capri espiatori che non sono necessariamente incarnati in un tipo o categoria sociale: i migranti, i devianti, generiche allusioni a squilibri psichici o al disagio sociale, una scuola non abbastanza inclusiva (anche se le società neo-liberali attuali sono profondamente esclusive) o la mancanza di sovranità nazionale. Persino la lotta alla corruzione finisce sempre per rientrare in questo quadro.
Lo stesso discorso vale per la sensibilità ecologica o per le innovazioni nel campo delle nuove tecnologie, come l'intelligenza artificiale. Potenzialmente, si tratta di istanze positive per un autentico sviluppo sociale, ma che finiscono per essere inquadrate nei circuiti dell'economia di mercato. Così, per combattere il riscaldamento climatico e i disastri ambientali, si aumenta progressivamente il carico di responsabilità che gravano sugli individui, evitando di chiamare in causa l'inquinamento prodotto dalle grandi multinazionali e da altri organismi potenti e competitivi sul mercato, ivi inclusi i produttori di armi. In altri termini, invece di impegnare le grandi industrie a non produrre rifiuti e agenti inquinanti, finora si è rivelato più semplice appellarsi alla sensibilità dei singoli. Nondimeno, un sistema economico che trae la sua linfa vitale dalla crescita e dall'espansione continue e in(de)finite, su un pianeta con spazi e risorse limitati, ostacola la soluzione dei problemi ambientali molto più di piccoli gesti quotidiani, che pur avendo una loro importanza non sono determinanti. Nel caso delle nuove tecnologie e dell'intelligenza artificiale, un settore dominato dagli interessi privati delle grandi multinazionali di Internet, il rischio è che il potenziamento e l'oltrepassamento dell'umano teorizzato dai transumanisti si riduca in realtà a un ulteriore spostamento delle diseguaglianze sociali sul piano delle capacità individuali. Dunque, come è avvenuto nel caso del culto dell'uomo borghese vincente e di successo del secolo scorso, chi potrà sborsare ingenti somme di denaro per migliorare le proprie facoltà lo farà in uno spirito di competizione e concorrenza funzionale agli ingranaggi del mercato. Quindi otterrà maggiori opportunità di successo, a scapito delle classi sociali già svantaggiate dai meccanismi dell'accumulo di capitale. Anche in rapporto all'intelligenza naturale dell'uomo, il concetto di quoziente intellettivo già nel secolo scorso aveva ridotto l'intelligenza a fattori misurabili e quantificabili, difficilmente adatti a un'entità così complessa e indeterminata. In un certo senso, l'intelligenza dell'individuo nato e cresciuto in una società caratterizzata dall'economia di mercato è già tendenzialmente artificiale, in quanto è progressivamente irregimentata nei meccanismi del mercato.
Per riprendere Platone, le innovazioni tecnologiche permetteranno verosimilmente a ciascuno di acquistare capacità il cui significato, rispetto alla personalità, non appare sempre evidente.
Nei giorni scorsi, il Pentagono ha espresso preoccupazioni riguardo la posizione assunta dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan nel conflitto libico: rischio di un aumento della tensione, possibilità per la Russia di espandere la sua area di influenza; l'espansione della NATO nei Balcani potrebbe non essere sufficiente a preservare il ruolo di superpotenza di Washington.
Nei giorni scorsi, il generale Stephen Townsend, comandante dell'AFRICOM, il comando delle truppe statunitensi in Africa, ha espresso preoccupazioni sul conflitto in corso in Libia, che ha paralizzato la comunità internazionale, impedendo qualsiasi progresso verso una soluzione politica. Una situazione aggravata dall'intervento della Turchia, il cui parlamento, lo scorso 2 gennaio, ha autorizzato l'invio di soldati a sostegno di Fayez al-Sarraj, presidente del Governo di accordo nazionale (GNA), che nel novembre 2019 aveva firmato con Ankara due accordi di cooperazione militare e uno sui confini marittimi nel Mediterraneo orientale: chiari indizi della politica espansionistica turca, che desta preoccupazione in diversi Stati della regione, come Grecia, Cipro, Egitto e Israele. Alla Turchia, quindi, al-Sarraj, ha chiesto aiuto contro l'offensiva del generale libico Khalifa Haftar, a sua volta sostenuto da Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti (EAU). Ancora una volta, quindi, Ankara e Mosca si trovano a convergere sulla volontà di limitare la sfera di influenza degli Stati Uniti (USA) e dell'Alleanza atlantica (NATO), ma a divergere in quanto si contendono il predominio nelle stesse regioni: Caucaso, Asia Centrale (dove i turkmeni producono terreno fertile per la longa manus turca), Balcani, Mediterraneo orientale (in particolare in Siria) e Maghreb. La Russia, che sostiene Haftar attraverso compagnie militari private (PMC) come il gruppo Wagner, utilizza lo stesso stratagemma in Africa centrale e subsahariana, dove diversi paesi ospitano questi soldati professionisti (Repubblica Centroafricana, Madagascar, Sudan, Zimbabwe, Mozambico e Sudafrica). Inoltre, secondo Townsend, Mosca ha firmato accordi sulla vendita di tecnologia militare con 36 paesi africani. L'obiettivo principale è l'accesso alle risorse, energetiche e più in generale del sottosuolo, soprattutto nichel, cobalto, uranio, oro e diamanti.
Il continente africano, dunque, come durante l'epoca degli imperialismi di fine XIX secolo, è terreno dello scontro fra le tre maggiori potenze mondiali, Stati Uniti, Russia e Cina, che rivaleggiano apertamente sul piano economico, ma compiono, intanto, mosse dai risvolti geopolitici significativi. La Cina, dal canto suo, non ha una presenza militare in Africa, a parte la base in Gibuti, ma estende il suo campo d'azione a colpi di investimenti e partenariati economici bilaterali, che includono la costruzione di infrastrutture e metropoli industriali. In tal modo, Pechino ha progressivamente esteso la sua rete, fondamentale per la realizzazione delle nuove vie della seta (BRI), progetto di controllo delle rotte del commercio e, di conseguenza, sui punti strategici dei diversi scacchieri regionali. Gli USA, al contrario, contano su una significativa presenza militare non solo nel continente africano, ma anche nel resto del mondo, portando avanti, come la Russia, la strategia del secolo scorso, elaborata dopo il secondo conflitto mondiale. A differenza di Mosca, tuttavia, Washington, parallelamente, investe risorse e impegno significativi nella corsa alla conquista del cyberspazio, un dominio nel quale rivaleggia con Pechino. Infatti la cosiddetta guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, altro non è che il risvolto economico della corsa al controllo della rete Internet globale, il cui primato è ancora in mani statunitensi. Nondimeno, Townsend ha lamentato una riduzione da parte del Pentagono delle risorse e delle truppe da destinare alla AFRICOM, una scelta che spiana la via a uno scenario simile a quello delineatosi in Siria: Russia e Turchia si spartiscono le aree di competenza in un apparente clima di dialogo e di accordo, ma perseguono ciascuna i propri obiettivi strategici. Come in Siria, anche in Libia sta emergendo una rivalità russo-turca, che rivela le mire espansionistiche della Turchia di Erdoğan.
Il presidente turco, attraverso una diplomazia efficace e multidimensionale, ha reso la Turchia uno degli attori protagonisti in Libia, secondo le parole del suo stesso portavoce e consigliere alla politica internazionale, Ibrahim Kalın. A differenza dei governi europei, ma anche di Russia e Stati Uniti, Ankara ha, infatti, abbandonato la neutralità in Libia, scendendo apertamente in campo per una delle parti in causa. Una scelta difficile da sostenere per le democrazie neoliberali, poiché implica una presa di posizione contraria alla comunità internazionale, dato il riconoscimento del GNA (Il governo di accordo nazionale per la Libia), da parte dell'Organizzazione delle Nazioni unite (ONU). Né il timido tentativo dell'Europa alla conferenza di Berlino, sembra poter arrestare il conflitto armato, non solo perché non comporta l'impegno nel disarmo delle milizie, ma anche, e soprattutto, perché ha lasciato emergere le divisioni e le rivalità internazionali di cui la guerra libica è conseguenza e manifestazione. Contestualmente, la Turchia dagli anni '90 riprende ostentatamente il tradizionale principio della religione come instrumentum regni, che l'Impero ottomano ereditò dai Bizantini, i quali, a loro volta, lo avevano ripreso dai Romani, secondo quanto lo storico greco Polibio scriveva in Storie, VI, 56. La scorsa settimana, Erdoğan aveva definito assolutamente inaccettabile il piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump, in quanto ignora i diritti dei palestinesi e legittima l'occupazione di Israele. Il presidente turco aveva sottolineato, in particolare, che Gerusalemme è sacra per i musulmani, una frase più volte ripetuta da quando, dopo il fallito colpo di stato del luglio 2016, aveva guidato il suo paese verso il presidenzialismo. Il vessillo della causa palestinese, unito a quello del carattere sacro di Gerusalemme, è stato sbandierato a più riprese nei suoi discorsi. Come, del resto, il vessillo della condanna degli Stati arabi, Arabia Saudita in primis, per la loro mancata presa di posizione in favore dei fratelli palestinesi.
Nello stesso tempo, nel quadro del conflitto siriano, dopo il successo delle trattative diplomatiche con Russia e Iran (il cosiddetto processo di Astana), nei giorni scorsi Erdoğan ha accusato Mosca di non rispettare gli accordi per fermare gli scontri a Idlib, minacciando un intervento militare contro le truppe di Damasco. Dichiarazioni che hanno contribuito ad aumentare le tensioni tra Turchia e Russia, già salite a seguito dell'ultima operazione militare turca in Siria. Peraltro, Ankara ha dimostrato di sapere e volere fare sul serio nella notte tra il 2 e il 3 febbraio, con la risposta al fuoco dell'artiglieria siriana che aveva colpito una colonna di soldati turchi nella provincia di Idlib. Agli scontri, in cui sono morti almeno 4 soldati turchi e ne sono stati feriti altri 9, sono seguite le dichiarazioni infuocate di Erdoğan, che manifestando la sua intenzione di schierarsi al fianco dei fratelli siriani (in altri termini, i ribelli sunniti), ha intimato alla Russia di non mettersi in mezzo. Siria e Libia, d'altronde, oltre ad essere due regioni un tempo appartenute all'Impero ottomano (la prima dal XVI secolo, la seconda dal XVIII), sono due punti strategici nel Mediterraneo orientale e centrale. La stessa importanza rivestita in area eurasiatica dai Balcani e dal Caucaso, dove la Turchia ha imposto il suo soft power dagli anni '90, con il beneplacito (quando non il sostegno) della NATO e degli USA. Così, oggi, si muove sul filo dello scontro diplomatico con Washington, senza tuttavia cercare altri protettori, ma trovando nella sua posizione strategica il suo massimo punto di forza. Al tempo dei conflitti nella ex-Jugoslavia, l'Europa, o meglio le potenze europee persero l'occasione di dimostrarsi in grado di elaborare e di proporre un assetto geopolitico alternativo a quello della supremazia mondiale statunitense. Da allora, nessun (nuovo) segnale.
Tra le eredità più attuali della fase degli imperialismi di fine XIX secolo e dell'inutile strage del primo conflitto mondiale, c'è la riflessione sui rischi che la diplomazia segreta comporta a lungo termine per la stabilità e per la pace; ora che la supremazia mondiale statunitense non è più così incrollabile come poteva sembrare alla fine della guerra fredda, emergono opposte reti di organizzazioni che si servono di slogan ideologici per imporre la propria visione dell'assetto geopolitico mondiale
Il primo dei quattordici punti del discorso pronunciato, nel gennaio 1918, dall'allora presidente statunitense Woodrow Wilson era l'abbandono della diplomazia segreta, in particolare le clausole occulte dei trattati e gli accordi stretti all'insaputa degli alleati con Stati considerati “nemici”. Un principio considerato allora inderogabile per preservare la pace, ma la guerra fredda ha preparato il terreno a dinamiche ben più intricate, dove i patti tra Stati profondi spesso andavano al di là delle amicizie sbandierate dagli Stati ufficiali. Diversi apparati di uno stesso Stato potevano quindi tessere diverse trame di alleanze e promesse più o meno mantenute di sostegno, di natura tattica o strategica. Per il primo caso, basti citare il supporto statunitense ai mojahedin contro l'Unione sovietica (URSS), mentre tra le alleanze strategiche si possono citare l'Organizzazione del trattato dell'Alleanza atlantica (NATO) e il Patto di Varsavia. L'intrecciarsi di questi due piani ha dato luogo a scandali, seguiti da crisi politiche, come nel caso dell'Affare Iran-Contra, o Irangate. Contestualmente, l'URSS ha sostenuto e protetto movimenti anticoloniali, partiti e organizzazioni comuniste e capi politici di importanza tattica come il generale iracheno Kassem. In tale contesto, l'Organizzazione delle Nazioni unite (ONU), figlia di quella Società delle nazioni voluta, ma non ratificata, da Wilson, non ha mai esercitato un ruolo autentico di arbitro internazionale e sovranazionale, che pure era stato alla base della sua creazione, dopo la Seconda guerra mondiale.
Dopo l'implosione del sistema sovietico, in un apparente brusco cambiamento di strategia, gli Stati Uniti, rimasti unica superpotenza mondiale, lanciarono una serie di campagne militari aperte ed esplicite, non sempre sotto l'egida della NATO e variamente denominate, tra ironia semantica e pragmatismo geopolitico, interventi umanitari o guerre preventive: dalla guerra del Golfo del 1991, ai conflitti balcanici, fino alle operazioni in Afghanistan e in Iraq e all'intervento militare in Libia nel 2011. Gli ultimi tre casi, peraltro, in un quadro mondiale scosso, nel 2001, dagli attentati al World Trade Center di New York e al Pentagono. Un mutamento strategico apparente, poiché quei conflitti si svolsero parallelamente al sostegno di paesi ai quali fu affidato il ruolo di gendarmi regionali, ad esempio la Turchia nei Balcani e nel Caucaso (e come guida culturale), l'Arabia Saudita nel Golfo ( come guida culturale dell'islam arabo sunnita, benché non ne rappresenti che le frange più radicali, wahhabismo e salafismo) e Israele nel Medio Oriente (come avamposto militare). Inoltre, il sostegno finanziario e talvolta dichiaratamente politico a gruppi, movimenti e organizzazioni che avrebbero dovuto diffondere il modello di democrazia neoliberale, andò avanti e si fece più capillare, soprattutto nel primo decennio degli anni 2000, spesso sotto le vesti del cosiddetto soft power. Basti considerare la storia del movimento serbo Otpor! (https://www.monde-diplomatique.fr/2019/12/OTASEVIC/61096) o dei Mojahedin del popolo iraniani.
Nell'ultimo decennio, tuttavia, altre potenze rivali hanno iniziato a insidiare la supremazia statunitense: Cina e Russia a livello mondiale, Turchia a livello regionale-confessionale-tradizionale. Se per la Russia si tratta di un ritorno in scena, sia pure sotto diverso nome, e soprattutto con una diversa visione politica e sociale, per la Cina la conquista dello status di seconda potenza mondiale nel 2010 e il conseguente aumento esponenziale di peso geopolitico sono stati il risultato di una lenta e accurata elaborazione del proprio ruolo sullo scacchiere mondiale, iniziata già durante la guerra fredda, quando Pechino affermò la propria autonomia di fronte all'URSS (un processo culminato con la crisi sino-sovietica). In altri termini, il piano geoeconomico del presidente Xi Jinping, reso noto nel 2013 come la nuova via della seta (BRI, dall'acronimo inglese Belt and Road Initiative), in continuità dinamica con la strategia della collana di perle, rappresenta oggi un'alternativa rispetto ai più “tradizionali” sistemi di alleanze di Stati Uniti e Russia, senza tuttavia superarne la struttura a livelli paralleli, espliciti e segreti. Infatti, il progetto, integrato dal piano Made in China 2025 del 2015, prevede ufficialmente accordi di partenariato e cooperazione commerciali, ma anche, e soprattutto, un controllo delle rotte marittime degno delle talassocrazie storiche.
Le altre due potenze rivali, intanto, sostengono gruppi, movimenti e forze politiche funzionali ai rispettivi piani geoeconomici e geopolitici, in uno scontro basato per ora quasi esclusivamente sul soft power, ma che, a differenza del piano di Pechino, si propone di promuovere cambiamenti politici negli stati satelliti. Per Washington si tratta di trasformazioni volte ad avviare e a potenziare l'integrazione di questi ultimi nell'impero neo-liberale. Per Mosca, invece, si tratta di affermare un nuovo ordine globale dai contorni di una santa alleanza, ispirato all'imperialismo zarista, al conservatorismo morale e alla forte compenetrazione tra religione e politica. Una rete rilevata lo scorso ottobre dalla trasmissione Rai Report, che lega partiti e movimenti della destra nazionalista (i cosiddetti sovranisti) russa, europea e statunitense. Legami che dimostrano che anche negli Stati Uniti, nel cuore della superpotenza che si pone come unico modello del cosmopolitismo e del caos-politismo neoliberali, esistono fondazioni e movimenti politici e sociali che mirano piuttosto all'instaurazione di Stati nazione dall'identità religiosa fortemente pervasiva della dimensione politica, uniti dal comune obiettivo di combattere il disordine morale (sic!), la dissoluzione della famiglia e una presunta minaccia islamica. Tra i nomi citati da Report, ci sono quelli del filantropo (oligarca) Konstantin Malofeev e del filosofo ultra-nazionalista Alexandar Dughin, soprannominato il Rasputin di Putin, malgrado il grottesco bisticcio linguistico. Il nome di Dughin figura tra gli ideatori dell'alleanza tattica tra la Russia di Vladimir Putin e la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, che si è tradotta nell'accordo per l'acquisto, da parte di quest'ultima, del sistema di difesa russo S-400 (giugno 2018) e nella cooperazione tra i due paesi nei conflitti siriano e libico. Inoltre, secondo Doğu Perinçek, capo del Partito della patria, Dughin avrebbe avvertito consiglieri in stretto contatto con Erdoğan di un'attività insolita dell'esercito turco, il 14 luglio 2016, un giorno prima del “fallito” colpo di Stato.
Dal canto suo, il sultano di Ankara considera questa concordia russo-turca come una tappa transitoria verso l'affermazione del proprio progetto geopolitico, che ha come punto di partenza il saggio Profondità strategica di Ahmet Davutoğlu del 2001, e parzialmente rivisto da Erdoğan dopo che questi si era dimesso dalle cariche di premier turco e di capo del partito Giustizia e sviluppo (AKP), al governo. Tra le regioni in cui le rivalità geopolitiche sono maggiormente evidenti in questo momento, ci sono sicuramente i Balcani, in particolare l'Albania, recentemente coinvolta in un aspro scambio di accuse con la Guida suprema della rivoluzione iraniana, l'ayatollah Ali Khamenei. La presa di posizione del Premier Edi Rama e del presidente della Repubblica Ilir Meta mostrano infatti come l'attuale governo, per sottrarsi ai tentativi di Russia e Turchia di infiltrarsi sulla scena politica (e religiosa, con rischiose conseguenze), abbia scelto di allinearsi alla NATO e a quello che il presidente statunitense Donald Trump ha definito lo Stato profondo del suo paese, ossia quegli apparati che proteggono le istituzioni USA da eventuali velleità popolari “controproducenti”, come appunto quelle promosse dalle fondazioni e dai movimenti che fanno parte della galassia degli ultra-nazionalisti e ultra-conservatori russi guidati da Dughin. La posizione di Tirana, oggi, è più delicata che mai, dopo l'esclusione dal processo di integrazione europea, ma soprattutto dopo l'avvio della costruzione della prima base NATO nei Balcani occidentali, nella cittadina di Kuçovë.
Nel quadro delle tensioni tra Iran e Stati Uniti, e dei dissidi interni alla Republica islamica, l'Albania espelle due diplomatici iraniani; una decisione che non manca di precedenti, per un paese che, per volontà di Washington, ospita da sei anni una cittadella di militanti islamico-marxisti, oppositori del regime di Tehran in passato inclusi nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Dopo oltre un anno dall'espulsione dell'ambasciatore iraniano a Tirana e di un altro funzionario di Tehran, lo scorso 15 gennaio il governo albanese ha chiesto ad altri due diplomatici di Tehran di abbandonare il suo territorio, per attività incompatibili con il loro status. Un'espressione spesso usata nelle accuse di spionaggio. Una settimana prima, in un'intervista di poco successiva all'attacco iraniano contro due basi statunitensi in Iraq, la guida suprema della Rivoluzione, l'ayatollah Ali Khamenei, commentando le manifestazioni in corso in diverse città iraniane, aveva indirettamente definito l'Albania nemico dell'Iran: esiste un piccolo paese in Europa, ma molto malvagio. Lì gli elementi criminali collaborano con gli americani e i traditori dell'Iran e pianificano attacchi contro il nostro paese. Qualche ora dopo, il presidente della Repubblica albanese Ilir Meta aveva risposto che l'Albania è un paese democratico, che ha sofferto a causa di una terribile dittatura, e per questo ama i diritti umani come un valore sacro. I missili lanciati dal regime iraniano contro due basi statunitensi, aveva aggiunto, sono un atto provocatorio con pericolose conseguenze per la regione e per la sua stabilità. Meta aveva inoltre precisato che il suo paese continua a schierarsi fermamente, con il suo impegno, al fianco degli Stati Uniti e della Nato nella lotta contro il terrorismo internazionale e contro qualsiasi azione in grado di compromettere la stabilità e la pace globali. Quanto all'attacco iraniano contro due basi statunitensi in Iraq, secondo Meta si era trattato di un'azione provocatoria, con pericolose conseguenze per la regione e per la sua stabilità. Dal canto suo, il Primo ministro albanese Edi Rama, aveva difeso la posizione del suo governo sul dossier iraniano: abbiamo compiuto un'azione degna di onore, coerente con la tradizione albanese e basata su un preciso accordo con gli Stati uniti, accogliendo un gruppo di persone in pericolo di vita. Abbiamo vissuto sotto una dittatura, ha continuato, e sappiano molto bene come si comporti un regime e come possa controllare ogni cosa per liquidare qualsiasi oppositore nel mondo.
Il gruppo di persone in questione, oggetto del contendere tra Tirana e Tehran, è l'Organizzazione dei Mojahedin del popolo (MEK), che nel 2013 l'amministrazione USA del presidente Barack Obama fece trasferire da Camp Liberty (dove erano stati ospitati dopo quasi tre decenni passati a Camp Ashraf) in Iraq all'Albania, a seguito di un accordo con quest'ultima. Inizialmente, il MEK aveva rifiutato l'offerta di asilo albanese, salvo accettare tre anni dopo, sotto le pressioni di Washington giustificate da ragioni di sicurezza. Motivo del trasferimento era stata la volontà dell'allora primo ministro iracheno Nouri al-Maliki di espellere, possibilmente di concerto con l'Organizzazione delle nazioni unite (ONU), i membri del gruppo. Da allora, circa tremila persone si sono stabilite prima in una località nei pressi della capitale albanese Tirana, poi vicino Durazzo, altra importante città e polo portuale del paese, costituendo una sorta di cittadella, denominata Ashraf 3, in quanto terzo luogo di “esilio”. Una vicenda intricata, tanto quanto è controversa la storia di questo gruppo, maggioritario nel Consiglio nazionale della resistenza iraniana (CNRI) e per questo spesso identificato con quest'ultimo. Il CNRI, organizzazione politica iraniana con sede a Parigi, è guidato da Massoud e Maryam Rajavi (entrambi leader anche del MEK): il primo, dopo anni di militanza politica contro il regime dello shah Reza Pahlavi, dal quale fu arrestato e condannato a morte, pena successivamente commutata in prigione a vita. Liberato dopo la rivoluzione iraniana del 1979, Massoud Rajavi prese immediatamente posizione contro il nuovo regime, assumendo la guida del MEK. Nel 1981, quindi, fondò il CNRI assieme all'ex presidente iraniano (costretto alle dimissioni dall'yatollah Ruhollah Khomeini) Bani Sadr, con il quale si era appena rifugiato a Parigi. L'obiettivo primario era rovesciare la Repubblica islamica, per fondare uno Stato democratico. Nondimeno, cinque anni dopo, nel quadro di un accordo tra Francia e Iran, l'allora primo ministro francese Jacques Chirac espulse dall'Esagono il CNRI, che fu allora accolto dall'Iraq di Saddam Hussein, stabilendo una base vicino al confine con l'Iran.
Sin dal 1983, infatti, a tre anni dall'inizio del sanguinoso conflitto tra Iran e Iraq (1980-88) il MEK aveva iniziato a cooperare con il presidente iracheno, per iniziativa dello stesso Rajavi, che siglò con l'allora vice-primo ministro iracheno Tariq Aziz un piano di pace, fondato su un accordo di reciproco riconoscimento dei confini stabiliti nell'accordo di Algeri, nel 1975. Una mossa che provocò una frattura irrimediabile all'interno del CNRI, fino alla fuoriuscita di un cospicuo gruppo di moderati, tra i quali Bani Sadr. Pur proclamandosi fiero avversario di Khomeini in nome della democrazia e della libertà di espressione, Rajavi (e il CNRI, che ha finito per coincidere sempre più con il MEK) non esitò infatti ad allearsi con Saddam Hussein, all'epoca generoso finanziatore del MEK assieme all'Arabia Saudita. L'Iran di Khomeini tentò con due operazioni militari di costringere il CNRI/MEK a lasciare le sue postazioni vicine al confine, ma con l'operazione Quaranta stelle lanciata da Saddam Hussein uccisero la quasi totalità di una divisione della Guardia rivoluzionaria iraniana. Sull'onda della cooperazione con il rais iracheno, circa 7.000 elementi del MEK, armati da Baghdad, fondarono l'Esercito di liberazione nazionale dell'Iran (NLA), disarmato solo dopo l'invasione statunitense in Iraq. La copertura aerea dell'aviazione militare irachena permise al NLA di compiere incursioni in territorio iraniano, fino alla distruzione della città di Islamabad-e Gharb, nonostante fossero trascorsi sei giorni da quando Khomeini aveva accettato il cessate il fuoco dell'ONU. La campagna, denominata Operazione Mersad, fu seguita da un'ondata di condanne a morte di membri del MEK in Iran, che coinvolse anche diversi militanti di partiti e organizzazioni della sinistra. Concluso il conflitto tra Iran e Iraq, il MEK portò avanti la sua strategia di lotta armata contro il regime iraniano, uccidendo figure di rilievo delle sfere politica e militare. Nel 1992, inoltre, lanciò un attacco coordinato contro dieci ambasciate iraniane, ivi inclusa la Missione iraniana alle Nazioni unite a New York, catturando e ferendo numerosi funzionari.
Anti-capitalista, anti-imperialista e anti-americano, il MEK collaborò inoltre alle operazioni militari lanciate dalla Guardia repubblicana irachena per reprimere le contestazioni sciite, curde e turkmene contro il regime baathista di Saddam Hussein. È questa la ragione principale per cui tra il 1997 e il 2005 Stati Uniti, Regno Unito, Unione Europea e Canada inclusero il MEK nella lista delle organizzazioni terroristiche, mentre nel 2008 la Commissione ONU contro la tortura dichiarò che il gruppo era coinvolto in attività terroristiche. La posizione di Washington, tuttavia, cambiò radicalmente dal 2003, ossia da quando l'amministrazione del presidente George W. Bush lanciò il bombardamento e l'invasione dell'Iraq con lo scopo di rovesciare il regime di Saddam Hussein. Inizialmente bersaglio dei bombardamenti USA, il MEK decise infatti di stringere una nuova alleanza e da allora Massoud Rajavi risulta scomparso. Il primo paese a espungere questa formazione dalla lista delle organizzazioni terroristiche è stato il Regno Unito, nel 2008, seguito da Unione Europea, Stati Uniti e Canada. In territorio statunitense, infatti, il MEK disponeva di una forte base, costituita soprattutto da elementi della diaspora iraniana, che negli anni ha contribuito a legittimare la linea e le azioni del movimento, dichiarato sotto protezione dall'allora segretario di Stato alla Difesa Donald Rumsfeld. Ciononostante, il drastico aumento di peso politico dei partiti e delle organizzazioni sciite in Iraq, uno degli esiti dell'invasione statunitense dell'Iraq, ha reso l
a posizione del MEK sempre più fragile. Intanto, assieme al CNRI, quest'ultimo decise di mutare definitivamente la sua strategia dalla lotta armata all'opposizione mediatica. È ben nota la conferenza stampa a Washington del 14 agosto 2002, quando il rappresentante del MEK Alireza Jafarzadeh affermò l'esistenza di impianti nucleari in Iran, a Natanz e ad Arak, elementi successivamente ripresi dall'Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA).
Beneficiando di un sostegno sempre maggiore da parte di Stati Uniti ed europa, il MEK si è progressivamente trasformato da una sorta di setta armata a un movimento, almeno sulla carta, interessato all'affermazione della democrazia, dei diritti umani, della parità di genere e della laicità. Ogni anno, il CNRI/MEK organizza a Parigi la conferenza Iran libero, alla quale partecipano numerosi rappresentati politici statunitensi ed europei, attivi e in pensione. Nel 2018, il Consigliere alla Sicurezza nazionale americana John Bolton ha persino auspicato di vedere il MEK al potere in Iran entro il 2019, mentre l'ex sindaco di New York Rudy Juliani ha suggerito che dietro le proteste allora (come ora) in corso in Iran c'era l'azione di coordinazione portata avanti da molte delle nostre persone (con riferimento ai membri del MEK) in Albania. Il coinvolgime
nto di Tirana nel conflitto tra Iran e Stati Uniti, rischia tuttavia di complicare una situazione politica già di per sé delicata. Alle tensioni tra l'attuale governo a guida socialista e il Partito democratico all'opposizione, si aggiungono i tentativi di ingerenza da parte di due superpotenze mondiali, come la Russia e gli Stati Uniti, e della Turchia, potenza regionale particolarmente aggressiva e sempre meno disposta a servire da fedele gendarme dell'Organizzazione del trattato dell'Atlantico del Nord (NATO). Nondimeno, la strategia di potenza degli Stati Uniti appare stabilmente basata, dalla fine della guerra fredda, sul soft power e sull'esportazione del modello democratico neoliberale attraverso fondazioni come quella di Rumsfeld in Asia centrale, oppure mediante il sostegno finanziario e politico a movimenti come il serbo Otpor! (Resistenza!), i cui leader sono anche guide e fondatori del Centro per le azioni e le strategie non-violente applicate (CANVAS). Nato nel 2004, quest'ultimo organizza in vari paesi, tra cui Georgia, Bielorussia, Ucraina, Iran, Venezuela ed Egitto, corsi di formazione per elaborare e mette
re in atto il rovesciamento dei regimi in carica. Tra i suoi principali finanziatori (tutti privati) si trova la Open Society Foundation, creata nel 1979 da George Soros. A parte le considerazioni sulla legittimità di sostenere (il che spesso significa indurre) dall'esterno cambiamenti politici interni a uno Stato sovrano, tale approccio si è rivelato più volte fallimentare, come nel caso dei martoriati Balcani. Stabilire proprio lì un'organizzazione come il MEK appare dunque l'ennesimo azzardo escogitato per difendere la supremazia statunitense, sempre più insidiata da altri attori. A parte la Cina, Russia e Turchia si sono recentemente mostrate disposte a un'alleanza tattica, pur di estendere e rafforzare zone di influenza significative sul piano geopolitico, come la Siria e la Libia. Sarà dunque il duo Mosca-Ankara a imporre la propria profondità strategica anche sul dossier iraniano? D'altra parte, Russia e Turchia sono parte integrante della storia politica persiana.
NATOME: così il presidente Trump, che si vanta del proprio talento nel creare acronimi, ha già battezzato lo spiegamento della Nato in Medio Oriente, da lui richiesto per telefono al segretario generale dell’Alleanza Stoltenberg.
Questi ha immediatamente acconsentito che la Nato debba avere «un accresciuto ruolo in Medio Oriente, in particolare nelle missioni di addestramento». Ha quindi partecipato alla riunione dei ministri degli esteri della Ue, sottolineando che l’Unione europea deve restare a fianco degli Stati uniti e della Nato poiché, «anche se abbiamo fatto enormi progressi, Daesh può ritornare».
Gli Stati uniti cercano in tal modo di coinvolgere gli alleati europei nella caotica situazione provocata dall’assassinio, autorizzato dallo stesso Trump, del generale iraniano Soleimani appena sbarcato all’aeroporto di Baghdad.
Dopo che il parlamento iracheno ha deliberato l’espulsione degli oltre 5.000 soldati Usa, presenti nel paese insieme a migliaia di contractor del Pentagono, il primo ministro Abdul-Mahdi ha chiesto al Dipartimento di Stato di inviare una delegazione per stabilire la procedura del ritiro. Gli Usa – ha risposto il Dipartimento – invieranno una delegazione «non per discutere il ritiro di truppe, ma l’adeguato dispositivo di forze in Medio Oriente», aggiungendo che a Washington si sta concordando «il rafforzamento del ruolo della Nato in Iraq in linea con il desiderio del Presidente che gli Alleati condividano l’onere in tutti gli sforzi per la nostra difesa collettiva».
Il piano è chiaro: sostituire, totalmente o in parte, le truppe Usa in Iraq con quelle degli alleati europei, che verrebbero a trovarsi nelle situazioni più rischiose, come dimostra il fatto che la stessa Nato, dopo l’assassinio di Soleimani, ha sospeso le missioni di addestramento in Iraq.
Oltre che sul fronte meridionale, la Nato viene mobilitata su quello orientale. Per «difendere l’Europa dalla minaccia russa», si sta preparando l’esercitazione Defender Europe 20, che vedrà in aprile e maggio il più grande spiegamento di forze Usa in Europa degli ultimi 25 anni.
Arriveranno dagli Stati uniti 20.000 soldati, tra cui alcune migliaia della Guardia Nazionale provenienti da 12 Stati Usa, che si uniranno a 9.000 già presenti in Europa portando il totale a circa 30.000. Essi saranno affiancati da 7.000 soldati di 13 paesi europei della Nato, tra cui l’Italia, e 2 partner, Georgia e Finlandia.
Oltre agli armamenti che arriveranno da oltreatlantico, le truppe Usa impiegheranno 13.000 carri armati, cannoni semoventi, blindati e altri mezzi militari provenienti da «depositi preposizionati» Usa in Europa. Convogli militari con mezzi corazzati percorreranno 4.000 km attraverso 12 arterie, operando insieme ad aerei, elicotteri, droni e unità navali.
Paracadutisti Usa della 173a Brigata e italiani delle Brigata Folgore si lanceranno insieme in Lettonia.
L’esercitazione Defender Europe 20 assume ulteriore rilievo, nella strategia Usa/Nato, in seguito all’acuirsi della crisi mediorientale. Il Pentagono, che l’anno scorso ha inviato altri 14.000 soldati in Medio Oriente, sta dirottando nella stessa regione alcune forze che si stavano preparando all’esercitazione di guerra in Europa: 4.000 paracadutisti della 82a Divisione aviotrasportata (comprese alcune centinaia da Vicenza) e 4.500 marinai e marines della nave da assalto anfibio USS Bataan. Altre forze, prima o dopo l’esercitazione in Europa, potrebbero essere inviate in Medio Oriente.
La pianificazione della Defender Europe 20, precisa il Pentagono, resta però immutata. In altre parole, 30.000 soldati Usa si eserciteranno a difendere l’Europa da una aggressione russa, scenario che mai potrebbe verificarsi anche perché nello scontro si userebbero non carri armati ma missili nucleari.
Scenario comunque utile per seminare tensione e alimentare l’idea del nemico.
(il manifesto, 14 gennaio 2020)