L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (373)

    Carlotta Caldonazzo

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December 26, 2018

Tra Medio Oriente e Asia centrale: i piani di Washington, l'intraprendenza pragmatica di Ankara, la diplomazia di Mosca e l'attendismo di Pechino; Trump vuole balcanizzare l'Iran?

 

 

Annunciando il ritiro delle truppe dalla Siria, deciso dopo un colloquio telefonico con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, e il dimezzamento del contingente in Afghanistan, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha suscitato preoccupazione e disappunto anche tra i suoi alleati, interni e internazionali. Molti gli interrogativi sulle ripercussioni di queste decisioni, in particolare dopo l'uscita degli USA da due trattati storici: a maggio dall'accordo sul programma nucleare iraniano (JCPOA) siglato nel luglio 2015; a settembre dal trattato sulle armi nucleari (INF) concluso con la Russia nel 1987. Perplessità che si aggiungono a quelle sollevate dall'atteggiamento di Trump nei confronti dell'Arabia Saudita a seguito dell'uccisione del giornalista Jamal Khashoggi (cittadino saudita residente negli Stati Uniti dal 2017 ed editorialista del Washington Post). Dopo l'iniziale linea dura, il presidente aveva infatti invertito la rotta, spostando l'attenzione sull'importanza strategica delle relazioni con Riyadh e con il principe ereditario Mohamed bin Salman (MBS) in funzione anti-iraniana. Una posizione, quella di Trump, non sempre condivisa da altri apparati dell'amministrazione statunitense, come dimostrano le prese di posizione del Senato sull'affaire Khashoggi, basate peraltro sui rapporti dell'intelligence, o, da ultimo, le dimissioni del segretario alla Difesa James Mattis, poco dopo l'annuncio del ritiro di truppe dalla Siria. Un colpo al cerchio saudita e uno alla botte turca.

A livello internazionale, la prima reazione a quest'ultima discussa decisione è stata la percezione delle milizie curde integrate nelle Forze democratiche siriane (SDF) di essere state abbandonate, da un alleato sul quale contavano, alla mercé della Turchia e del suo progetto egemonico di stampo neo-ottomano sul Medio Oriente. Un copione che si è ripetuto più volte tra i curdi e le potenze occidentali, a cominciare dall'accordo Sykes-Picot del 1916. Del resto, uno degli ultimi motivi di attrito tra Stati Uniti e Turchia è stato proprio il sostegno di Washington alle Unità di protezione popolare curde (YPG), ala armata del partito dell'Unione democratica (PYD), che Ankara ritiene la branca siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), quindi una “formazione terrorista” (tale è la definizione del PKK anche a Washington). Poco dopo il ritiro USA, la Turchia ha quindi concentrato le sue truppe al confine con la Siria, coerentemente con le parole di Erdoğan che il 12 dicembre ha annunciato una campagna militare contro le SDF a Est dell'Eufrate. Alle operazioni parteciperanno anche fazioni sunnite affiliate all'Esercito siriano libero (FSA), in particolare l'Esercito nazionale, che stanno già inviando un contingente di circa 4.000 combattenti al confine turco-siriano. Non è quindi da escludersi che l'obiettivo degli USA sia ricorrere alla Turchia come “gendarme” atlantico in Medio Oriente, come fecero negli anni '90 nei Balcani e nel Caucaso, regioni tanto cruciali quanto conflittuali, storicamente terreno di contesa tra Impero Ottomano, Persia, Russia e, a latere, potenze europee. A sostenere tale ipotesi potrebbero essere le dichiarazioni dello stesso Trump, che il 23 dicembre ha spiegato di aver coordinato il ritiro delle truppe USA dalla Siria con Erdoğan, al quale passerebbe il testimone della guerra contro i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (IS). Malgrado le perplessità degli alleati europei, in particolare del presidente francese Emmanuel Macron.

Secondo diversi analisti internazionali, a beneficiare del ritiro USA dalla Siria sarebbe anche la Russia, da sempre critica nei confronti degli interventi militari di Washington, e protagonista, assieme a Turchia e Iran, dei negoziati di pace di Astana. Nell'incontro di luglio a Helsinki tra Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin, oltre alle relazioni economiche e alla questione della Crimea, è stato trattato il tema del conflitto siriano, nel quale la Russia è impegnata attivamente, dal 2015, al fianco del governo di Damasco. A tal proposito, senza entrare nel merito della legittimità delle azioni del presidente siriano Bashar al-Asad, Trump ha detto espressamente che “gli Stati Uniti non permetteranno all'Iran di beneficiare dei successi della campagna contro l'IS”. Con Mosca, peraltro, anche Tel Aviv ha discusso più volte nell'ultimo anno della posizione dell'Iran in Siria, auspicandone l'estromissione persino dal processo di pace. Malgrado le reciproche rassicurazioni, neppure la proposta del ministro degli esteri russo Sergej Lavrov (una zona cuscinetto a protezione del confine tra Siria e Israele) è stata giudicata sufficiente da Israele, ma resta assai improbabile che la Russia volti le spalle all'Iran, con il quale ha in atto importanti progetti bilaterali e multilaterali, dal settore energetico alla geopolitica: per citare qualche esempio, il programma oil-for-goods, la questione dello statuto legale del Mar Caspio e la lotta al narcotraffico e al terrorismo in Afghanistan. Ciononostante, pur essendo lontana l'era dell'accordo segreto tra Gore e Černomyrdin per l'interruzione della fornitura di armi all'Iran, Putin continua a mantenere il suo atteggiamento ambiguo nei confronti di Tehran, utile nel contenimento dell'espansionismo turco e contro la diffusione dell'islam sunnita radicale, ma potenzialmente rivale. Ad esempio, in Siria, nonostante l'alleanza tattica, Mosca mira ad arginare l'influenza iraniana, sia con la diplomazia, sia attraverso l'invio di squadre speciali formate da combattenti caucasici. Si comprende dunque la generale diffidenza di Tehran, manifestata già nel 2016 a proposito della mancata concessione ai russi della base aerea di Hamadan. Lo scopo di Putin è infatti guadagnare peso geopolitico assumendo un ruolo di mediazione, quindi bilanciando le forze in campo ed evitando che una di esse emerga, in primis Iran e Turchia.

Ciò vale non solo per la Siria, dove Mosca ha due basi militari sulle coste del Mediterraneo, ma anche per il Medio Oriente in generale, a partire dalla spinosa questione israelo-palestinese. Ultimamente, infatti, Putin ha manifestato l'intenzione di ospitare colloqui di riconciliazione tra le fazioni palestinesi e negoziati di pace tra rappresentanti palestinesi e autorità israeliane, in vista di una soluzione politica dei conflitti in atto. Una mossa che rischia tuttavia di irritare la Turchia, che tenta di proporsi come punto di riferimento per la Palestina. Dal 2010, le relazioni tra Tel Aviv e Ankara sono alquanto tese e negli ultimi mesi sembrano persino peggiorate: si veda il discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite di Erdoğan, a sostegno della causa palestinese, e, nei giorni scorsi, lo scambio di battute al vetriolo tra il presidente turco e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Tra le ultime occasioni di attrito, spicca inoltre l'affaire Khashoggi, per il quale Ankara preme per una condanna internazionale di Mohamed bin Salman e dei vertici della monarchia saudita, mentre Tel Aviv (sulla stessa linea dell'Egitto) mette in rilievo l'importanza di Riyadh in funzione anti-iraniana e di contrasto alla galassia dei Fratelli musulmani, incluso Hamas. Se infatti dal punto di vista del piano strategico di Erdoğan l'eccessiva intraprendenza di MBS rappresenta una minaccia, per Israele il principe ereditario è, per lo stesso motivo, l'interlocutore saudita ideale. Anche per questo, il sostegno di Trump alla guerra indiretta condotta da Israele contro l'Iran, di cui Netanyahu non dubita, appare il contraddizione con l'annuncio del ritiro USA dalla Siria, visto con perplessità anche a Tel Aviv. A meno che non sia parte di una strategia volta a causare il fallimento dei negoziati di Astana e a far emergere le divergenze strategiche tra i suoi protagonisti, con l'obiettivo di isolare definitivamente Tehran.

Il complesso intreccio di equilibri ha finora indotto la Cina a optare per una strategia attendista e a preferire la realizzazione graduale e silenziosa delle nuove vie della seta (BRI – Belt and Road Initative). Un progetto economico, ma anche geopolitico, che coinvolge il Medio Oriente e l'Asia Centrale, regioni in cui Turchia, Russia e Stati Uniti (questi ultimi soprattutto con la Fondazione Rumsfeld, che promuove il forum annuale CAMCA – Central Asia-Mongolia-Caucasus-Afghanistan) cercano di espandere la propria influenza. Se in Medio Oriente Tehran imposta la sua strategia difensiva offrendo supporto agli sciiti presenti nei vari Stati, con i paesi centro-asiatici ha in piedi soprattutto relazioni economiche nei settori delle infrastrutture e degli idrocarburi, oltre a una cooperazione con Afghanistan e Turkmenistan nella lotta al terrorismo islamico e al narcotraffico. Rapporti resi ora più difficili dalle sanzioni imposte da Washington dopo l'uscita dal JCPOA. Anche per questo non è da escludersi che gli USA vogliano far emergere in Siria le divisioni tra Tehran, Mosca e Ankara e puntare su Israele e Arabia Saudita da un lato e Turchia dall'altro per la gestione del Medio Oriente, lasciando a Turchia e Russia la competizione per il controllo delle regioni centro-asiatiche. Se Trump avesse adottato tale strategia per isolare Tehran (magari in vista di un eventuale attacco militare), si potrebbe pensare che il suo obiettivo sia balcanizzare non solo la Repubblica islamica, ma l'intera Asia Centrale, il che gli permetterebbe di raggiungere tre obiettivi strategici, pur con il rischio di provocare conflitti sanguinosi: annientare l'Iran, colpire gli interessi russi e cinesi e arginare l'espansionismo di Ankara.

November 07, 2018

Le elezioni di metà mandato che si sono tenute nella giornata di ieri, 6 Novembre, sono state considerate da molti (2/3 degli elettori) come referendum sul Presidente.

I risultati che sono giunti nella notte hanno mostrato quando previsto dai poll: i democratici hanno ottenuto la maggioranza alla Camera mentre i repubblicani hanno mantenuto la maggioranza al Senato.

Questi risultati sono stati più positivi per i democratici piuttosto che per i repubblicani.

Se, da una parte, i repubblicani hanno mantenuto la maggioranza al senato, nei democratici troviamo motivo di svolta e di novità.

Queste difatti sono molte: per la prima volta una donna musulmana è stata eletta al Congresso americano, nel suo distretto per la Camera in Michigan; Alexandria Ocasio-Cortez, eletta alla Camera nel 14esimo distretto di New York, è la più giovane deputata di sempre (29 anni).

Non solo, queste elezioni hanno portato anche un ampio numero di donne al Congresso, soprattutto all’interno del partito democratico.

I repubblicani hanno subito una sconfitta dai democratici perdendo il Nevada con la vittoria di Rosen alle elezioni contro Heller.

I democratici hanno prevalso senza però travolgere i repubblicani, non si è verificato quindi il fenomeno “blue wave” di cui si è sentito parlare in questi giorni.

I repubblicani infatti sono riusciti a mantenere il controllo del Senato che, fino a poco tempo fa, sembrava potesse essere conquistato dai democratici.

Importanti vittorie sono state raggiunte però dai repubblicani che hanno conquistato tre seggi prima occupati dai democratici, come la Florida con Ron De Santis, North Dakota con Cramer e Texas con Ted Cruz che ha vinto contro Beto O’Rourke.

Beto O’Rourke è stata una delle figure di spicco in questa campagna elettorale: è riuscito comunque a raccogliere molti consensi grazie alla presenza latinoamericana presente nel territorio del Texas.

Trump, dal canto suo, nei suoi tweet ha parlato di “incredibile successo” dei repubblicani.

Quantificando quanto spiegato fin ora: alla Camera i democratici hanno ottenuto 219 seggi, ottenendo quindi la maggioranza, mentre i repubblicani 193; al senato invece i repubblicani hanno ottenuto 51 seggi mente i democratici 45 (risultati visibili sul Washington Post).

Da oggi, secondo alcuni, inizia la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2020 alle quali potrebbero presentarsi come candidati alcuni democratici che sono riusciti a raggiungere la Casa Bianca. Chissà che non si veda tra i candidati proprio Beto o’Rourke?

November 06, 2018

Oggi 6 novembre in America si terranno le “midterm elections”, le elezioni di metà mandato.

Le elezioni di metà mandato sono elezioni legislative, elezioni per il rinnovo parziale del Congresso per eleggere i governatori di 36 stati e l’assemblea legislativa. Si voterà anche per alcuni referendum.

Queste elezioni non riguardano la figura del Presidente, in quanto il suo mandato dura quattro anni, ma riguardano la composizione del Senato e del Congresso. Ogni quattro anni però, le elezioni  presidenziali e le elezioni di metà mandato coincidono.

Si vota per eleggere 435 deputati alla Camera, il quale mandato dura due anni, e per rinnovare un terzo del senato, 35 senatori su 100. Camera e Senato attualmente sono guidati da una maggioranza repubblicana e questo fa sì che Trump abbia finora potuto operare con una maggioranza a lui favorevole.

Qualora perdesse la maggioranza nel Parlamento sarebbe limitato nei decreti e nell’applicazione della propria politica.

I democratici hanno 7 possibilità su 8 di vincere alla Camera con una percentuale che tocca l’88%, mentre i repubblicani hanno 1 possibilità su 8 possibilità di vincere alla Camera con il 12%. Mentre al Senato invece c’è una possibilità su 5 che i democratici ottengano la maggioranza con una percentuale del 19.5% e i repubblicani hanno 4 possibilità su 5 di mantenere il controllo con l’80.5%.

Le previsioni su FiveThirtyEight ci mostrano che probabilmente il Senato rimarrà a maggioranza repubblicana in quanto il Senato rinnova 35 seggi su 100, di cui 26 in mano attualmente dei democratici i quali sono uscenti ed hanno, quindi, più da perdere rispetto ai repubblicani.

Donald Trump, dopo due anni dalla nomina a Presidente, affronta le elezioni con impopolarità. Il 52.8% dei votanti si mostra contrario e il 41.9% favorevole.

Qualora si trovasse a governare con una maggioranza democratica al Congresso rischierebbe di essere sottoposto al processo di messa in stato di accusa (Impeachment).

La procedura di impeachment infatti, per essere avviata, necessita solo della maggioranza semplice da parte del Congresso.

Per la rimozione dalla carica a Presidente, invece, è necessario il voto della maggioranza dei due terzi.

Ci sono stati tre casi in cui si è stato fatto ricorso all’ Impeachment: nel 1868 con Johnson, nel 1998 con Bill Clinton e nel 1974 con Nixon che, per evitare di essere sottoposto a processo, si dimise.

Se Trump dovesse essere sottoposto a un processo di messa in stato d’accusa gli sarebbe impedito di governare, in quanto posto continuamente sotto processo nei tribunali.

Le elezioni si tengono ufficialmente oggi ma milioni di americani hanno già votato tramite “l’Early voting”. Si tratta della possibilità di andare anticipatamente alle urne. Molte volte negli Stati Uniti le elezioni sono andate al di là di ogni previsione e, dunque, anche questa volta ogni proiezione, con qualsiasi percentuale venga proposta, potrebbe essere totalmente ribaltata.

October 26, 2018

Capire la realtà, anche con i dati, per combattere la battaglia sull’integrazione. Le cifre che fotografano la realtà degli stranieri in Italia contenute nel Dossier Immigrazione 2018: “non esiste nessuna invasione. L’Italia è già multiculturale”

 

Il numero degli stranieri che vivono in Italia è pressoché invariato, sia nel numero, sia nell’incidenza sulla popolazione complessiva, con un aumento fisiologico di residenti, in gran parte controbilanciato dalla notevole diminuzione dei migranti sbarcati e dalle nuove acquisizioni di cittadinanza. Dunque, contrariamente alla credenza che vorrebbe il paese assediato e invaso dagli stranieri, al netto dei movimenti interni il loro numero è stabile intorno ai 5 milioni dal 2013.

A fotografare fedelmente la realtà delle migrazioni in Italia attraverso la lente dei dati è, anche quest’anno, il Dossier Statistico Immigrazione, curato dal Centro Studi Idos in partenariato con il Centro Studi Confronti, il sostegno dell’Otto Per Mille della Tavola Valdese e la collaborazione dell’Unar, l’Ufficio nazionale contro le discriminazioni razziali; il Dossier è stato presentato oggi a Roma, al Nuovo Teatro Orione, e, in contemporanea in tutte le regioni e province autonome d’Italia.

Alla fine del 2017 gli stranieri residenti in Italia sono 5.144.000, circa 97.000 in più rispetto all’anno precedente (+1,9%), per un’incidenza dell’8,5% sulla popolazione totale. Tra i soli non comunitari, circa su due su tre (2.390.000) hanno un permesso di soggiorno di durata illimitata, che attesta un grado di radicamento e stabilità ormai consolidato. I restanti 1.325.000 (35% del totale) hanno un permesso a termine, in maggioranza per famiglia (39,3% del totale) o per lavoro (35,2%). Meno di 1 su 5 (239.000) è titolare di un permesso inerente alla richiesta di asilo o alla protezione internazionale o umanitaria. Alla fine dell’anno erano 187.000 quelli inseriti in un centro di accoglienza (Cas piuttosto che Sprar, 80,95% contro 13,15%).

Il crollo dei flussi. A tutto ciò si aggiunge il fatto che il boom di profughi che, attraversando il deserto e il Mediterraneo centrale, sono approdati sulle coste italiane si è pressoché esaurito nel 2017, dopo quattro anni in cui ne sono giunti, nel complesso, circa 625.000. Basti pensare, poi, secondo quanto hanno rilevato Unhcr e Oim, che mentre nel 2017 l’Italia ha convogliato il 69% degli oltre 172.000 migranti forzati arrivati in Italia via mare, nei primi 9 mesi del 2018 ne ha accolti sul suolo poco più di 21.000, un dato crollato di quasi il 90% rispetto allo stesso periodo del 2017.

Un’integrazione non più utilitaristica, ma basata sui diritti delle persone. «Sono dati che ci parlano della cruciale importanza delle politiche di integrazione, di cui oggi nessuno parla più e su cui sempre meno i governi intendono investire», ha spiegato Luca di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche Idos, aggiungendo, inoltre: «i numeri non bastano più: abbiamo bisogno di esempi, di testimoni, di buone prassi che mostrano in maniera concreta e tangibile che l’integrazione è possibile». E ancora, «nell’integrazione si vince insieme, perché, a dispetto di tutti i tentativi di imbastire conflitti sociali tra categorie ugualmente svantaggiate, i destini di italiani e immigrati sono già intrecciati nella nostra società». Poi, Di Sciullo, lasciando il palco del Teatro Orione agli interventi degli altri relatori, il vice moderatore della tavola valdese, Luca Anziani, il missionario comboniano padre Alex Zanotelli, il responsabile immigrazione del sindacato Usb, Aboubakar Souhamoro e il direttore dell’Unar, Luigi Manconi, ha così concluso: «è venuta l’ora di cambiare il paradigma del dibattito tra chi vuole chiudere all’immigrazione e chi si batte per una società pluralista e interculturale, tra buonisti e cattivisti».

“È venuta l’ora di avere il coraggio di alzare il tiro e di elevare le ragioni nella discussione a un livello più adeguato ai nostri principi di civiltà”, è il messaggio finale, condiviso, dell’incontro di presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2018 (a cui hanno partecipato le scolaresche di diversi licei della Capitale e che è stata dedicata al Comune di Riace, simbolo di un’accoglienza riuscita). Un messaggio fatto proprio dal direttore dell’Unar, Luigi Manconi, che in questo senso, ricordando l’omicidio avvenuto qualche giorno fa a Roma della piccola Desireè, ha invitato alla riflessione, non mancando di ammonire: «credo di interpretare il sentimento e il pensiero di tanti nel ritenere realizzabile una società della convivenza dove gli autori di un crimine tanto crudele non siano definiti assassini africani, senegalesi, ma assassini e basta». E in questa ottica, scrivono Claudio Paravati e Luca Di Sciullo nel testo introduttivo del rapporto: «il Dossier non si rassegna a parlare ancora all’intelligenza del pubblico; a quanti hanno il desiderio di documentarsi su un fenomeno che ci riguarderà a lungo tutti, interrogando le nostre coscienze».

In occasione della presentazione, Idos ha lanciato il suo nuovo sito web, predisposto anche per l’e-commerce, dal quale sarà possibile acquistare il nuovo Dossier 2018 (e prossimamente anche le altre pubblicazioni di Idos), in formato sia cartaceo sia elettronico (pdf), e in quest’ultima versione anche per singoli capitoli. Il sito, che verrà allestito nella sua completezza nelle prossime settimane, è stato realizzato grazie alla collaborazione con la Cooperativa Lai Momo di Bologna, da anni partner di Idos per le iniziative regionali in Emilia Romagna.

October 17, 2018

La vicenda del giornalista saudita Jamal Khashoggi può complicare pericolosamente gli equilibri e l'attuale sistema di alleanze? Quali ripercussioni sul conflitto siriano e sullo scacchiere mediorientale?

 

Dopo oltre dieci giorni di indagini sull'affaire Khashoggi, l'editorialista del Washington Post scomparso lo scorso 2 ottobre nel consolato saudita a Istanbul, le forze di sicurezza turche hanno dichiarato di avere le prove che il giornalista sarebbe stato interrogato, torturato e ucciso all'interno della sede diplomatica e, nei giorni scorsi, hanno diffuso nomi e identità dei membri del presunto commando omicida. L'Apple watch di Khashoggi, inoltre, potrebbe aver registrato informazioni decisive. Di fronte alle dure reazioni di Washington e alle manifestazioni di preoccupazione della comunità internazionale, Ankara si presenta in tal modo come la più fedele alleata dell'Occidente democratico, nella veste (insolita, visti i numerosi arresti di giornalisti, soprattutto dopo il tentativo di colpo di stato del 2016) di protettrice dei “giornalisti dissidenti”.


Contestualmente, sembra avviarsi alla soluzione il caso del pastore statunitense Andrew Craig Brunson, arrestato in Turchia nell'ottobre 2016 e condannato a tre anni e tre mesi di reclusione con l'accusa di sostenere organizzazioni terroristiche, nella fattispecie il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) e la rete di Fethullah Gülen, il predicatore islamico in esilio negli USA, accusato da Ankara di aver ordito il tentato golpe del luglio 2016. Brunson è stato rilasciato dopo mesi di crisi diplomatica, culminata nell'imposizione, da parte degli Stati Uniti, di dazi su alluminio e acciaio ai danni della Turchia, che a sua volta aveva dato un contributo decisivo al crollo della lira turca. Ne era seguito un botta e risposta di misure protezionistiche, che sembrava preludere a una pericolosa rottura in seno all'Alleanza atlantica (NATO). Una frattura resa ancor più profonda dal discorso del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan al congresso dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (ONU) dello scorso settembre: condanna dei massacri in Bosnia, Ruanda, Somalia, Myanmar e soprattutto Palestina, e accuse al Consiglio di Sicurezza di rappresentare esclusivamente gli interessi particolari dei suoi cinque membri.


In sostanza, dopo almeno due anni di progressivo allontanamento da Europa e USA (dovuto anche alla svolta autoritaria di Erdoğan), contestuale alla creazione di una rete con Russia e Iran per i negoziati di Astana sul conflitto siriano, la Turchia sembra riavvicinarsi al suo alleato tradizionale di oltreoceano. Lo stesso che negli anni '90 le aveva permesso di espandersi, ai danni di Mosca, nei Balcani, come punto di riferimento per le comunità musulmane di Bosnia, Albania, Macedonia e Kosovo, in virtù del comune retroterra storico e dell'appartenenza alla scuola giuridico-religiosa hanafita. La stessa scuola maggioritaria tra i musulmani di Asia centrale e meridionale, Afghanistan, Pakistan, India, Bangladesh, nonché in Russia (in particolare nel turbolento Caucaso). Tra gli anni '90 del secolo scorso e il primo decennio dell'attuale, Turchia e Arabia Saudita, entrambe fedeli alleate degli USA, si erano quindi divise le aree di controllo in seno all'islam sunnita: Riyadh tra le popolazioni arabe, Ankara nei Balcani e in buona parte dell'Asia. Un controllo esercitato attraverso il finanziamento di centri di cultura islamica, scuole coraniche e religiose e moschee. L'Arabia Saudita, d'altronde, si era già affermata come baluardo dell'islam politico dopo la dissoluzione del movimento dei Fratelli Musulmani in Egitto, nel 1948.
Tale diarchia iniziò a incrinarsi nel 1995, quando in Qatar ascese al trono sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, deciso a emancipare il suo emirato dalla dipendenza da Riyadh. L'occasione si presentò nel 2002, quando, dopo il rifiuto saudita di concedere il suo spazio e le sue basi per l'attacco statunitense all'Iraq, Washington decise di trasferire il suo quartier generale delle forze aeree nel Golfo dall'Arabia Saudita al Qatar. Fu scelta quindi la base di al-Udeid, costruita nel 1996 e già impiegata dagli USA per la guerra in Afghanistan nel 2001. Peraltro, un accordo di cooperazione in materia di difesa tra Washington e Doha era stato stipulato dopo una serie di operazioni militari congiunte dei due paesi nel corso della campagna Desert Storm contro il regime iracheno nazionalista e laico di Saddam Hussein, lanciata nel 1991. La politica estera del Qatar si scontrava così in misura crescente con gli interessi strategici dell'Arabia Saudita, finché le divergenze si tradussero in rottura durante il regno di Abdullah bin Abdulaziz (reggente dal 1996, re dal 2005 al 2015).
Pretesto ideologico dello scontro è stato il sostegno qatariota ai Fratelli musulmani durante le rivolte arabe del 2011: il re saudita, dopo un progressivo inasprimento delle relazioni, si schierava apertamente contro questo movimento, come dimostra il suo plauso al colpo di stato in Egitto ai danni del presidente eletto Mohamed Morsi, che ha portato al potere l'attuale presidente Abdullah al-Sisi. Una posizione che segnò al contempo l'allontanamento definitivo della monarchia saudita dalle istanze palestinesi, sempre più sostenute, invece, dalla Turchia, a partire dall'operazione dell'esercito israeliano contro la nave Mavi Marmara nel 2010. Come la Turchia, Doha, si avvicinava intanto ai Fratelli musulmani in Nord Africa e Medio Oriente, ospitandone molti rappresentanti in fuga dal regime libico del defunto colonnello Muammar Gheddafi.


Ancor più dura la linea del successore di Abdullah bin Abdulaziz, il principe ereditario Mohammed bin Salman, che in recenti interviste ha accusato i Fratelli Musulmani di aver ucciso suo zio, il re Faisal bin Abdulaziz, e di essere fertile terreno ideologico-religioso di organizzazioni terroristiche come al-Qaeda e il cosiddetto Stato islamico (IS). D'altro canto, già in precedenza, durante la sua competizione con Mohamed bin Nayef per la successione al trono, bin Salman aveva acuito le tensioni con il Qatar, tentando di isolarlo prima in seno al Consiglio di cooperazione del Golfo, poi a livello internazionale con il sostegno USA. Un appoggio che, terminata la presidenza di Barack Obama (tiepidamente a favore delle rivolte arabe del 2011), aveva trovato nella nuova amministrazione di Donald Trump, che al vertice di Riyadh del 20-21 maggio, ha firmato con l'Arabia Saudita un contratto da 350 milioni di dollari per la vendita di armamenti (dei quali la monarchia è il principale acquirente mondiale) e le ha assicurato pieno supporto contro Fratelli Musulmani e Iran.


Forte del suo peso internazionale e di un consistente consenso interno, bin Salman non ha quindi avuto alcuna remora a inasprire le divergenze con il Qatar, sfociate in crisi diplomatica nel 2017. Anno segnato da due eventi cruciali: in aprile, Doha ha firmato un “costoso” accordo con l'Iran e con milizie sciite e sunnite attive in Iraq e Siria, per il recupero dei 26 ostaggi rapiti nel 2015 durante una battuta di falconeria nell'Iraq meridionale, tra i quali figuravano esponenti della famiglia reale. Inoltre, il 24 maggio 2017, hacker presumibilmente provenienti dagli Emirati Arabi Uniti (secondo un articolo apparso due mesi dopo sul Washington Post), hanno pubblicato sul sito della Qatar News Agency false dichiarazioni dell'emiro a sostegno dell'Iran, di Hamas (movimento palestinese affiliato ai Fratelli musulmani), di Hezbollah e... di Israele (sic!): immediata la reazione di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, che hanno annunciato la rottura delle relazioni diplomatiche con il Qatar. Una crisi aggravata nell'agosto 2017 dal ripristino da parte di Doha dei rapporti diplomatici con Tehran e dall'avvio di una cooperazione economica tra i due paesi. Isolato dai suoi alleati-rivali del Golfo, l'emiro ha inoltre stretto un'alleanza tattica con la Turchia, sulla base del comune supporto ai Fratelli Musulmani. Nel dicembre 2015, Ankara ha annunciato l'apertura di una sua base militare in Qatar e l'inizio di una cooperazione militare “contro i nemici comuni”. Altri due accordi per il dispiegamento di soldati turchi nel piccolo emirato e per lo svolgimento di esercitazioni militari congiunte sono stati ratificati dal parlamento turco nel giugno 2017. Lo scorso luglio è stata poi la volta di Mosca, che ha aperto una trattativa con il Qatar per l'acquisto del sistema di difesa missilistica S-400.


L'affaire Khashoggi, in questo intricato sistema di alleanze tattiche e divergenze strategiche (si veda ad esempio la differente posizione di Mosca e Tehran da un lato e Ankara dall'altro sul conflitto siriano), potrebbe quindi fornire alla Turchia l'occasione per imporsi sulla scena internazionale come riferimento per l'islam sunnita non solo balcanico e asiatico, ma anche mediorientale, attraverso una poderosa affermazione in Siria, Palestina e ora anche nel Golfo. Una ghiotta opportunità di espansione per Erdoğan e per la sua vocazione espansionistica di ascendenze neo-ottomane.

October 13, 2018

La formazione intellettuale di Russo avviene nel contesto del movimento del ‘77. Un movimento in cui emergono, rispetto al 68’ nuove soggettività sociali: i sottoproletari e i proletari che vivono ai confini dell’emarginazione nelle periferie delle città. Il ‘77 vede la crescita della disoccupazione di massa e una mutazione della percezione di essa. Il proletario disoccupato vuole divertirsi e affinare le proprie capacità individuali. Le piazze sono terreni di scontro fra polizia e movimento e nascono le Br. Russo è a Pisa frequenta la facoltà di Veterinaria e del Movimento sperimenta il lato più distruttivo. Decide poi di cambiare facoltà scegliendo Filosofia. Alla madre dirà che la filosofia gli ha salvato la vita: non è solo una metafora.

Della filosofia seleziona la filosofia del linguaggio, sintomo di un atteggiamento immediatamente orientato alla prassi così come lo è l’adesione al movimento del ‘77. Partecipa alla rivista Philosophema, prodotta da un gruppo di studenti di filosofia facendosi carico dei problemi pratici della rivista e delle beghe intellettuali dei suoi partecipanti. Negli anni ’80 il riflusso nel privato lo avvicina alle assemblee del partito radicale: sono gli anni in cui matura la decisione di fare il giornalista. Cerca disperatamente uno sbocco alla sua passione: fa cronaca politica in radio locali fino a quando non incontra Radio radicale.

Da giornalista testimonia la guerra etnica del Ruanda, la guerra algerina, i genocidi del popolo Kosovaro e di quello ceceno. Il suo lavoro giornalistico ha avuto tre facce: l’inedita costruzione di reti di interdipendenza con le popolazioni locali, la sfera della militanza dei diritti umani; la cronaca in senso stretto. Questi tre lati si saldano nel segno di una sorta di artigianalità del prodotto informativo lontano dal circuito mainstream e vicino ad una informazione alternativa.

E’ nella vicenda del crollo della ex- jugoslavia che la sua voce trova una risonanza. Russo segue l’intero arco della crisi jugoslava testimoniandone le varie fasi. Segue tutti i passaggi dalla secessione slovena alla guerra di liberazione del Kossovo. Il massacro di questo popolo da parte dei serbi viene descritto nel dettaglio: le deportazioni di massa, la resistenza non violenta di Rugova, l’ingresso in scena dell’Uck , le disillusioni di Dayton e Rambouillet diventano atti di una grande scena in cui la vicenda jugoslava viene letta come processo di una più ampia guerra d’egemonia americana in Europa.

Della guerra di liberazione in Kosovo coglie la portata storica e politica delle ataviche persecuzioni serbe nei confronti degli albanesi. E’ protagonista - unico giornalista occidentale presente nell’area con i bombardamenti della Nato- di una rocambolesca fuga da Pristina assieme ai deportati kosovari verso la Macedonia. Si confonde con loro e per due giorni si perdono le sue tracce onde poi riapparire a Skopje. Reimondino della Rai lo accuserà di complicità con l’Uck.

Eccoci allora alla Cecenia. Il popolo ceceno è come quello palestinese. Grozny è una città fantasma come Gaza durante le offensive israeliane. La Cecenia, stretta nella morsa del colonialismo russo resiste come resistono i palestinesi al colonialismo sionista. L’informazione tace sul genocidio ceceno così come su quello palestinese.

Si potrebbe dire che Putin ha vinto in Cecenia la partita dei media eliminando giornalisti e osservatori internazionali. Lo stesso sta accadendo a Gaza dopo la morte di Vittorio Arrigoni. Così come a Gaza, in Cecenia la Russia uccide i bambini e le gente con armi non convenzionali. E via discorrendo.

 
 Foto Oliviero Toscani - Antonio Russo a Pristina

Antonio Russo rompe la cortina di silenzio che copre la resistenza cecena salendo sulle montagne con quelli che sono i partigiani di una guerra di resistenza. Aveva materiale importante sull’uso criminale di armi non convenzionali da parte dei russi. Con la sua tragica uccisione, forse per mano dell’Fsb si è voluto eliminare un testimone scomodo dei crimini contro l’umanità commessi dai russi verso i ceceni. Forse è stato tradito. Forse la mano che l’ha portato via dalla vita è la stessa che ha ucciso anni dopo Anna Politovkskaja. Le torture che ha subito in una strada dellaGeorgia gridano giustizia. Una giustizia che tarda ad arrivare.

Una ultima riflessione sull’uomo. Antonio aveva rabbia, voleva cambiare in chiave idealistica le cose esponendosi in prima linea. Spesso ripeteva di voler essere mito di se stesso. Una immagine solipsistica, chiusa, segno di una sofferenza dura, serrata. Non ammetteva il compromesso, la sua lotta era pura. Un sogno spezzato che il giornalismo non di regime dovrebbe riprendere.

September 19, 2018

La cooperazione russo-cinese-mongola in occasione delle imponenti esercitazioni militari Vostok-2018 può essere intesa come un tentativo, caro soprattutto a Mosca, di superare le storiche rivalità con Pechino per sviluppare un sistema di difesa integrato ed efficiente; ma la vera battaglia potrebbe giocarsi sul piano della capacità di proiezione di potenza attraverso il soft power

 

 

In occasione delle esercitazioni Vostok-2018, che si sono svolte tra l'11 e il 15 settembre, tra i media internazionali sono emerse, sostanzialmente, due posizioni: la prima sconsiglia di sottovalutare un eventuale asse economico-militare tra Russia e Cina, cementato dalle politiche protezionistiche del presidente degli Stati Uniti Donald Trump; la seconda, invece, considera tale eventualità alquanto improbabile, ponendo l'accento sulle differenze tra gli interessi nazionali cinesi e russi, emerse, ad esempio, nel cauto atteggiamento di Mosca in relazione alle “nuove vie della seta” (BRI, Belt and Road Initiative), iniziativa del presidente cinese Xi Jinping, o negli appelli di Pechino al dialogo e alla distensione di fronte alla seconda guerra dell'Ossezia del Sud (2008) e all'occupazione russa della Crimea (2014).

 

Tra i principali argomenti di chi ventila l'ipotesi di un'alleanza russo-cinese, c'è il luogo scelto per le esercitazioni: per Vostok-2018 (Vostok significa “Oriente”) teatro delle operazioni è stata la regione russa orientale di Trans-Baikal, mentre per Zapad-2017 era stata la Bielorussia (Zapad significa “Occidente”, stesso nome delle esercitazioni del 1981, che coinvolsero i paesi aderenti al Patto di Varsavia): il Cremlino starebbe dunque tentando di estendere la propria proiezione militare lungo tutte le direttrici possibili, ivi incluso il Mediterraneo orientale, dove, all'inizio di settembre, ha effettuato esercitazioni navali. In secondo luogo, come ritiene Vassily Kashin della Scuola Superiore di Economia (citato in un articolo apparso il 28 agosto su Lettera43), c'è il fatto che mai prima di quest'anno Cina e Russia avevano effettuato esercitazioni militari comuni e mai Mosca aveva permesso ai cinesi l'accesso alle tematiche di pianificazione strategica: segno, questo, di una diversa considerazione della Cina da parte del Cremlino, non più come rivale, ma come “partner storico, come la Bielorussia” (che prese parte a Zapad-2017).

 

Sul fronte opposto, l'amministrazione USA e uno dei suoi più significativi alleati, il Giappone, tendono a minimizzare la portata storica di Vostok-2018, data la complessità delle relazioni russo-cinesi: da un lato, la Russia cerca in Pechino un alleato economico e strategico, come dimostra la calda accoglienza riservata a Xi Jinping a Vladivostok, per l'Eastern Economic Forum; dall'altro, Mosca guarda con diffidenza tanto l'espansionismo economico (quindi di influenza, ossia di potenza) insito nella BRI (Belt and Road Initiative, BRI - la via della seta), di cui la maggior parte dei corridoi economici terrestri si snoda nelle regioni ex-sovietiche dell'Asia centrale, quanto l'interesse crescente di Pechino per l'Artico. Infatti, regioni come il Mediterraneo orientale, l'Artico e soprattutto l'Asia centrale hanno uno status geopolitico “fluido”, oscillando tra gli storici legami con la Russia, culturali, economici e politici (si vedano le iniziative caldeggiate dal Cremlino, come la Convenzione sullo status giuridico del Mar Caspio), l'intraprendenza economica cinese (oltre alla BRI si può citare l'interesse di Pechino per il petrolio kazaco) e il soft power statunitense. Con la Turchia, membro NATO spesso ambiguo, che di tanto in tanto fa capolino.

 

In Asia centrale, Washington, che già ha mandato segnali “muscolari” a Mosca, dal Baltico all'Europa orientale, estende la propria influenza essenzialmente attraverso la Rumsfeld Foundation. Di proprietà di Donald Rumsfeld (segretario di Stato alla Difesa USA dal 2001 al 2006) e consorte, questa fondazione, creata nel 2007 (ex Joyce and Donald Rumsfeld Foundation, istituita nel 1985), annovera tra le sue iniziative il forum annuale CAMCA (Central Asia-Mongolia-Caucasus-Afghanistan), la cui prima edizione risale al 2014, e, dal 2008, il Central Asia-Caucasus Fellowship Program. Con la Rumsfeld Foundation collaborano il Central Asia-Caucasus Institute e il Silk Road Studies Program, fondati rispettivamente nel 1996 e nel 2002, per rispondere all'esigenza crescente di informazioni, ricerca e analisi. L'obiettivo dichiarato è incoraggiare Americani ed Europei a impegnarsi attivamente e su più settori nella regione. I paesi coinvolti, Afghanistan, Armenia, Azerbaijan (quest'anno il forum CAMCA si è tenuto nella capitale Baku), Georgia, Kazakhstan, Kirghizistan, Mongolia, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan, sono tutti parte di un'area di frizioni geopolitiche tra Russia, Cina e Stati Uniti, che si sono progressivamente acuite nell'ultimo decennio. Inoltre, occorre tener presente la sfera di influenza turca, che ruota attorno a Turkmenistan e Azerbaijan, quest'ultimo sostenuto da Ankara nel conflitto del Nagorno-Karabakh.

 

La Turchia sta probabilmente tentando di incunearsi negli spazi in cui le grandi potenze non riescono a stabilire legami solidi, spesso a causa di gestioni maldestre dei conflitti, come è avvenuto nei Balcani, in Siria, nel Caucaso e in Asia centrale. Un processo che va avanti dagli anni '90, ossia dallo sgretolamento del blocco sovietico. Nel corso dell'ultimo decennio, tuttavia, Mosca sembra aver abbandonato la postura esclusivamente difensiva che aveva mantenuto dal crollo dell'Unione Sovietica. Nove anni dopo la sua tiepida reazione alla guerra lanciata dalla NATO contro la Serbia, storica alleata della Russia, a seguito della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo (17 febbraio 2008), sostenuta dagli USA, il Cremlino tenta di riprendere l'iniziativa sul piano strategico-militare: dall'Ossezia del Sud (2008) all'Ucraina (2014), fino ad arrivare alla Siria (2015). E al momento di riconoscere l'indipendenza della Crimea, ha addotto come giustificazione proprio l'indipendenza del Kosovo. Nel corso di questo decennio, la Russia ha consolidato le sue relazioni con la Serbia, che intanto cerca di ottenere, in cambio di un accordo territoriale con il Kosovo, l'accesso all'Unione Europea nel 2025. Mentre in Europa orientale gli USA sono direttamente impegnati con le numerose e significative basi NATO, i Balcani, sin dalla dissoluzione della ex-Jugoslavia, sono area di influenza tedesca (soprattutto in Croazia e Slovenia), ma anche turca (tra le popolazioni musulmane). Senza dimenticare l'ammissione alla NATO del Montenegro (giugno 2017), che si era dichiarato indipendente dalla Serbia nel 2006.

 

Dal canto suo, Pechino, che finora si è mostrata piuttosto restia a entrare in contrasto diretto con USA e Russia, ha espanso rapidamente il suo mercato, quindi la sua sfera di influenza, in Africa, grazie ai numerosi e cospicui progetti di partenariato, importazione di materie prime, costruzione di infrastrutture e promozione dello sviluppo locale. Al settimo Forum per la cooperazione tra Cina e Africa, che si è tenuto in questo mese a Pechino, hanno preso parte 53 capi di stato e di governo di paesi africani, oltre a un migliaio di uomini d'affari: la Cina ha promesso 60 miliardi di dollari di investimenti supplementari per lo sviluppo economico di questi paesi, di cui 15 destinati a finanziare programmi di aiuto gratuito e senza interesse. Dunque, a parte il botta e risposta di dazi, è il soft power il principale terreno di contesa tra Russia, USA e Cina. Un concetto che Mosca ha iniziato a prendere in considerazione di fronte alle rivoluzioni colorate in Georgia (2003), Ucraina (2004) e Kirghizistan (2005), tutte dimostrazioni che la proiezione di potenza non può essere solo militare.

July 26, 2018

La televisione di Stato non può essere trasportata in direzioni divergenti rispetto alle tradizionali relazioni di amicizia tra il nostro Paese e gli Stati Uniti d’America in nome della libertà di opinione di qualche dipendente Rai.

 

 

E’ fin dalla candidatura di Trump alla presidenza degli Stati Uniti d’America che la nostra inviata speciale, Botteri si strappa i capelli, si fa per dire, per evidenziare ogni possibile malefatta dello stesso Presidente prima e dopo la sua elezione alla guida suprema degli Stati Uniti.

Ora però che malgrado le vicissitudini abbastanza travagliate di questioni che tutto sommato fino adesso sono rimaste marginali, l’ostilità verso Trump che traspare dai reportage della stessa sulla tv di Stato del nostro Paese, persiste.

Infatti, nei video in cui appare a schermo pieno questa giornalista, come fosse lei l’oggetto del suo reportage, è difficile, molto difficile che non parli di Trump per riferire ciò che in termini negativi si dice sul Presidente.

Si fa però presente che Trump, al di là delle antipatie personali motivate da tutto ciò che si vuole, è pur sempre il Presidente in carica della nazione attualmente più potente del mondo.

 

 

La politica internazionale

D’altra parte, le impostazioni giornalistiche della TV di Stato del nostro Paese, adeguandosi nel passato alla linea politica della maggioranza all’epoca rappresentata, non hanno creato ostacolo né ai rapporti diplomatici né all’amicizia tradizionale tra gli Stati Uniti di America e l’ Italia.

Rimanendo nel tema delle ultime attualità internazionali, la Botteri in qualità di inviata speciale della Rai TV, è stata recentemente inviata in trasferta a Helsinki affinché riferisse ciò che nell’incontro storico tra Trump e Putin era stato ufficialmente concordato.

Avremmo ritenuto che stante l’interesse politico di un probabile avvicinamento tra le due superpotenze, la nostra inviata speciale riferisse proprio di queste aperture. E cioè qualcosa che poteva riguardare la politica internazionale, la Nato e le relazioni con la Ue di cui l’Italia fa parte.

 

 

Ad esempio

Il resoconto però, pur non destando ormai meraviglia, ha riguardato ciò che di negativo è stato detto di quel colloquio non a Helsinki ma in America dai media da cui probabilmente la Botteri ha attinto quella parte di informazione che ci ha propinato in TV.

Ora, considerato che l’attuale impostazione di governo è l’espressione della maggioranza della volontà popolare, sarebbe politicamente corretto che anche la Rai per le ragioni sopra accennate, non si schierasse per conto di qualche suo giornalista, come nel caso della Botteri, in un ingiustificato indirizzo di parte contraria.

Successivamente, un altro video della “nostra inviata speciale a New York” durante il telegiornale Rai dei giorni scorsi, riguardava le relazioni con l’America; ma i fatti che con tanta enfasi la Botteri si prodigava a raccontare, non riguardavano informazioni politiche, industriali o commerciali, come da un telegiornale RAI gli utenti si attendono. Si trattava invece, a seguito di tanto impegno, di notiziole di gossip, rivelate da alcuni settori mediatici, secondo i quali Trump avrebbe pagato una cosiddetta “coniglietta” per tacere sulla sua compagnia. D’ altra parte, variazioni e virtuosismi su un tema del genere hanno sostanzialmente la stessa insignificanza, sia se a rivelare questi “misteri” è stato l’ avvocato personale di Trump, sia se invece è stata proprio la “coniglietta”, oppure qualche altro personaggio.

 

 

Tra RAI e Hyde Park di Londra

Non si ritiene però, che argomenti del genere siano meritevoli di ulteriori commenti, ma neppure che “la nostra inviata speciale” della televisione di Stato a cui tutti i contribuenti debbono il canone, continui imperterrita dopo oltre due anni dalle elezioni americane, la sua consueta impostazione di notizie negative che va a scovare dovunque, purché riguardino il Presidente degli Stati Uniti d’America. La Rai non è l’angolo di Hyde Park dove salendo su una scala, ognuno dice quello che vuole.

Forse qualcuno riterrà che sia stata posta troppa attenzione sull’opinione di una giornalista. Questo sarebbe vero e anche contrario allo spirito dello stesso giornalismo di esprimersi liberamente; ma qui non si tratta di opinioni su TV private ma di notizie fornite attraverso la Rai-TV di Stato e ciò che viene riferito da questa fonte primaria di informazione assume una rilevanza pressoché ufficiale, poiché il governo attuale del Paese è in qualche modo, oggettivamente responsabile anche delle divulgazioni di notizie sulla stessa TV che per un verso o per un altro lo rappresenta. Questo non è giusto e soprattutto non è proficuo ai rapporti tra due Paesi tradizionalmente amici.

July 18, 2018

 

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Sembra ormai sulla via dell’archiazione la morte del giornalista investigativo Bechir Rabani, che si era infiltrato nei gruppi violenti di sinistra come gli antifas ed era stato trovato morto nel dicembre 2017,   poco dopo aver presentato delle denunce sui finaziamenti occulti del finanziere globalista George Soros a queste organizzazioni.  Bechir Rabani, 33 anni, di origine palestinese, con passaporto svedese, era un giornalista indipendente e blogger molto conosciuto in Svezia per le sue inchieste e per le sue rivelazioni circa le collusioni fra i settori dell’alta finanza e le organizzazioni pro  immigrazione che operano in Europa.

Alcune delle sue inchieste avevano suscitato reazioni ed attacchi dagli  ambienti della sinistra mondialista e dai media ufficiali che lo accusavanodi “complottismo”(guarda caso NDR) .

I sui amici avevano scritto di lui “”Bechir era un combattente caparbio che ha sperato nella giustizia e che senza esitazione ha difeso tutti quelli che  non potevano o non osavano. Ricorderemo Bechir per la sua energia, la sua forza trainante e non da ultimo per il suo lavoro”.

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Bechir Rabani

Poco prima della sua strana morte Rabani aveva rivelato che era in procinto di svelare i legami di corruzione che collegavano Soros con il produttore televisivo e presentatore, Robert Aschberg, un  personaggio molto conosciuto in Svezia . Robert Aschberg, pochi giorni prima della morte di Rabani, risulta che aveva rifiutato una intervista con lui e aveva fatto minacciare il giornalista tramite la moglie.

Di fatto Rabani aveva promesso di disporre di prove per mettere in luce il lavoro occulto di Soros ed i sui piani per destabilizzare l’Europa.

Il popolare presentatore e showman televisivo, Robert Aschberg (su cui  Rabani stava indagando per i suoi collegamenti con Soros), membro del consiglio di amministrazione dell’Expo Foundation,  multimilionario, è il nipote di Olof Aschberg, un banchiere ebreo che finanziò i bolscevichi nel 1917 e dai quali fu nominato (per riconoscenza) direttore della Banca internazionale Ruskonbank.

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Robert Aschberg

Questo personaggio, ex maoista in gioventù, si dedicava alla caccia ai così detti “trolls” antimigrazione che, secondo lui, diffondevano falsità contro i migranti, utilizzava la TV per mettere all’indice gli   oppositori antiglobalisti e praticava forme di intolleranza contro qualsiasi dissidenza contro la linea mondialista ed immigrazionista della sistema politico svedese.

Secondo la polizia, il giornalista Rabani è stato trovato morto in circostanze sospette. Facilmente l’inchiesta sulla morte del giornalista  sarà archiviata come suicidio da barbiturici o per morte naturale, considerando “naturale”la morte di un giovane di 33 anni pieno di energia e di voglia di lottare in prima persona contro le possenti organizzazioni globaliste che, in Svezia, come in Europa, gestiscono i  grandi media, la finanza e i principali partiti politici.

Nota: Di fronte ad un mondo di giornalisti prostituiti al potere, Bechir Rabani era un esempio di valido di un uomo che non si era piegato alle offerte di soldi e carriera ma che si era dedicato alla ricerca della verità. A suo rischio e pericolo.

Fonti:   <http://www.thetruthseeker.co.uk/?p=162897> TheTruth Seeker

<http://culture-wars.com/bechir-rabani-popular-swedish-alternative-media-jou

rnalist-found-dead-suspicious-circumstances/> Culture-wars.com

Traduzione e nota: Luciano Lago   di:

<https://www.controinformazione.info/misteriosa-morte-di-un-giornalista-che-

investigava-sui-finanziamenti-di-soros-ai-gruppi-antifa-in-europa/>

controinformazione.info

July 18, 2018

Di fronte ai fenomeni migratori che attualmente interessano l'area euro-afro-asiatica, si è spesso fatto riferimento al concetto di porto sicuro, espressione desunta (e liberamente interpretata) dal diritto internazionale.

Quando un tema complesso come quello delle migrazioni si trova, suo malgrado, al centro dello scontro tra le diverse forze politiche di un paese, è facile perdere di vista il contesto internazionale e i suoi principali focolai di tensione. Così, per le stesse ragioni, può capitare che da oggetto di riflessione questo tema diventi strumento di propaganda di diverse forze politiche, soprattutto se queste ultime si contendono la scena in un quadro sociale (e di conseguenza istituzionale) che manifesta segni di cedimento. Pertanto, può risultare utile astrarre da ogni visione particolaristica degli eventi, tentando di dar loro una collocazione lungo gli assi del tempo e dello spazio.

Dal punto di vista geopolitico, l'Europa (escluso il Regno Unito), l'Africa e le regioni economicamente meno avanzate dell'Asia si possono considerare periferiche, non trovandosi tra i protagonisti della contesa “a bassa intensità” attualmente in corso. Questi infatti sono Stati Uniti, Cina (seconda potenza economica mondiale dal 2010) e Russia e la posta in gioco può essere tanto l'egemonia economico-strategica mondiale, quanto la definizione di precise sfere di influenza. A differenza di quanto avvenne durante la guerra fredda, quando l'opposizione di fondo era tra capitalismo e comunismo, oggi lo scontro riguarda tre sistemi economici che, sia pure con le dovute distinzioni, si possono definire economie di mercato. Nessuna implicazione ideologica dunque, e nessun tentativo saliente di soppiantare il capitalismo globalizzato con un modello nuovo. Un aspetto su cui vale la pena riflettere, visto che il capitalismo è un sistema fondato sull'espansione costante e che, fino a prova contraria, non si ha espansione infinita su una superficie (quella terrestre) finita e con risorse non sempre rinnovabili.

Nell'assurdità di un'ipotesi di conflitto militare diretto, Pechino e Mosca cercano di guadagnare più terreno possibile e di ridurre l'egemonia di Washington sui tre piani economico, commerciale e strategico-militare. La Cina, secondo la linea del presidente Xi Jinping, mira a estendere il proprio controllo del Mar Cinese meridionale e orientale, da un lato presentandosi come mediatore tra Stati Uniti e Corea del Nord, dall'altro lavorando per una progressiva, e possibilmente (ma non necessariamente) pacifica, riannessione di Taiwan. Un obiettivo, quest'ultimo, particolarmente arduo se si considera che nel 2016 è stata eletta presidente di Taiwan Tsai Ing-wen, segretaria del Partito democratico progressista, che vorrebbe l'indipendenza dell'isola. Senza considerare che la Cina ha un'altra spina nel fianco, quella degli Uiguri, popolazione turcofona e musulmana che vive nel nord-ovest del paese, con maggiori concentrazioni nella regione autonoma del Xinjiang. All'interno di questo quadro regionale e internazionale teso, il presidente giapponese ShinzoAbe lo scorso novembre ha espresso l'intenzione di potenziare l'esercito giapponese, modificando la Costituzione del 1947, elaborata dal generale statunitense Douglas MacArthur, a seguito della disastrosa resa di Tokyo. Quindi, il Giappone, che fino al 2010 era la seconda potenza mondiale, avrebbe di fronte a sé due alternative: tentare di ottenere ampi margini di potenziamento militare facendo leva sull'immenso interesse che per gli USA ha la base di Yokosuka, fulcro della loro talassocrazia nel Pacifico, ma in tal caso rischierebbe di diventare un “utile satellite” di Washington nel suo scontro con Pechino; oppure affermare la necessità di avere un esercito con compiti che vadano oltre l'autodifesa, per affrontare i pericoli cui lo espone la sua posizione geografica. Finora la linea di Abe è stata quest'ultima, ma potrebbe incontrare l'opposizione non solo della Cina, ma anche degli stessi USA.

Dal canto suo, la Russia, ha già conquistato un ruolo significativo nello scacchiere mediorientale, anche grazie all'intesa con Iran e Turchia, limitando il potere di intervento statunitense. Inoltre, stabilire relazioni amichevoli con Ankara, soprattutto in un momento in cui i rapporti turco-statunitensi non sono idilliaci, può essere utile per Mosca anche per risolvere la spinosa questione dell'insurrezionalismo islamico in Cecenia e nel Caucaso senza ulteriori spargimenti di sangue. Tuttavia, un'intesa duratura tra Russia e Turchia è difficile da mantenere, malgrado le sue enormi potenzialità economiche: anzitutto perché la Turchia è un importante membro dell'Organizzazione del trattato dell'Atlantico del Nord (NATO); in secondo luogo perché i rispettivi interessi potrebbero portare allo scontro, ad esempio sul controllo del Mar Nero; in terzo luogo perché il pragmatismo politico turco non consente previsioni a lunga scadenza. Contemporaneamente, Mosca è al centro di sospetti e inchieste che riguardano lo spionaggio (soprattutto con il Regno Unito) e l'ingerenza nelle vicende interne di un altro paese (gli USA). Inoltre, la Russia è ancora oggetto di sanzioni a causa della crisi ucraina, che, insieme alle accuse di arresti arbitrari e vessazioni ai danni di dissidenti politici, mina la sua credibilità internazionale. Contestualmente, i progetti per i gasdotti che dovrebbero consentire le esportazioni del gas russo in Europa (Germania in primis) non sono andati giù a Washington, che vede nel vecchio continente un mercato appetibile per il suo gas.

In tale contesto complesso e teso, assumono particolare rilievo le dichiarazioni del presidente statunitense Donald Trump durante la recente intervista all'emittente CBS. Prima del suo vertice con il presidente russo Vladimir Putin, Trump ha criticato la linea delle precedenti amministrazioni, i molti anni di follia e stupidità che hanno reso le attuali relazioni con Mosca le peggiori di sempre. Gli USA hanno molti nemici, ha aggiunto, compresa l'Unione Europea (UE), a causa di cosa fanno [...] in tema di commercio. Quanto a Russia e Cina, benché la prima sia nemica per certi aspetti, mentre la seconda a livello economico, si tratta di due concorrenti. Inoltre, con Mosca, Trump è convinto di poter competere con successo nel settore energetico: dovremo competere con il gasdotto (Nord Stream 2) e penso che lo faremo con molto successo, ha dichiarato a Helsinki, durante la conferenza stampa congiunta con Putin. Peraltro, lo scorso dicembre, il presidente USA aveva definito Pechino e Mosca sue concorrenti strategiche, la prima per la sua espansione economica in Europa e Asia, la seconda perché danneggia gli interessi americani.

Tra le sue “definizioni”, può essere di particolare interesse quella sull'Europa come nemico: anzitutto perché, se è vero che a insidiare l'egemonia statunitense sono l'espansionismo economico cinese in Europa e Africa e i tentativi russi di conquistare il mercato energetico europeo, definire l'Europa nemico può essere un modo per colpire indirettamente gli interessi di Pechino e Mosca. In un momento, peraltro, in cui l'UE, di fronte alla “questione migranti”, sta lasciando emergere le sue profonde divisioni interne. A tal proposito, durante la sua ultima visita a Londra, Trump ha affermato che i migranti stanno facendo perdere all'Europa la sua identità, criticando al contempo la linea morbida della premier britannica Theresa May in tema di Brexit. Critiche successivamente stemperate, ma che denotano una visione delle relazioni internazionali che tende a privilegiare un asse esclusivo con Londra, emarginando Bruxelles dalla scena geopolitica internazionale. Probabilmente, anche in vista della competizione con Russia e Cina sul controllo del Mar Glaciale Artico.

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