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Carlotta Caldonazzo
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di Carlotta Caldonazzo
Decine di migliaia di persone, dalle organizzazioni sindacali al Partito democratico dei popoli (Hdp, il partito filocurdo), dai movimenti sociali ai comuni cittadini, hanno sfilato l'11 ottobre per le strade delle tre principali città della Turchia, per chiedere giustizia per le vittime dell'attentato suicida che ha fatto strage in un raduno di sindacati e pacifisti ad Ankara. Ma soprattutto per chiedere pace e porre l'amministrazione del presidente Recep Tayyip Erdoğan di fronte alle sue responsabilità. Alcuni, intanto, suggeriscono un coinvolgimento di apparati di governo nella strage di sabato, con lo scopo di proseguire sulla linea dell'accentramento dei poteri e del rifiuto di qualsiasi forma di dialogo politico, con il pretesto della “sicurezza”. Tra gli slogan gridati durante le manifestazioni di domenica c'era appunto katil devlet, “stato assassino”. Uno slogan tristemente noto, che riporta alla mente le immagini del decennio nero algerino. Anche allora, dopo l'ondata di proteste sociali e civili del 1988, il governo in carica scelse la linea della repressione e, per percorrerla fino in fondo, innescò (attraverso i movimenti islamici radicali) la scintilla che provocò la guerra civile. Altro elemento comune, anche in Algeria a trainare le proteste erano spesso i movimenti e partiti di sinistra sensibili ai diritti delle minoranze, in particolare alla causa berbera (autonomia e riconoscimento culturale per la minoranza berbera in Cabilia).
A meno di venti giorni dalle nuove elezioni parlamentari del 1 novembre, indette dopo la perdita della maggioranza assoluta del partito di governo (Akp, Partito Giustizia e Sviluppo) alle elezioni del 5 giugno e il fallimento delle successive trattative per formare una coalizione, lo staff di Erdoğan si trova nuovamente sotto una pioggia di critiche per l'atteggiamento accentratore e dispotico, da molti giudicato irresponsabile. Ancora una volta il casus belli riguarda il processo di pace con il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), avviato nel 2013 grazie alla mediazione di Selahattin Demirtaş (co-segretario dell'Hdp) e interrotto unilateralmente da Ankara lo scorso luglio. Vale forse la pena ricordare che la decisione di lanciare una nuova campagna militare era arrivata dopo quella che il governo considerava una rappresaglia del Pkk per l'attentato di Suruç, costato la vita a oltre trenta giovani attivisti, riuniti per discutere della ricostruzione della città curda siriana di Kobane. In comune con la strage di Ankara, oltre all'obiettivo (movimenti vicini alla causa curda) e alla tattica dell'attentato suicida, ci sarebbe (a quanto risulta dalle prime analisi) il tipo di esplosivo utilizzato. Solo che allora, trattandosi di Kobane, le autorità avevano scelto con fulminea sicurezza la pista dei cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (Daech), mentre questa volta il primo ministro Ahmet Davutoğlu ha incluso tra i sospetti anche il Pkk e due organizzazioni di “estrema sinistra”, ovvero il Partito-fronte rivoluzionario di liberazione del popolo e il Partito comunista marxista leninista. La prima, peraltro, sospettata di legami con il deep state, ovvero gli apparati di stato “occulti”, soprattutto da quando una militante di spicco, arrestata nel 2008 ma rilasciata nel 2012 in attesa di un nuovo processo, è stata uccisa dopo aver dichiarato in un'intervista di essere disposta a rivelare i legami tra il Movimento-fronte ed Ergenekon (gruppo ultranazionalista clandestino, accusato di infiltrare suoi elementi nell'esercito e nei servizi di sicurezza, sul modello di Gladio). Inoltre, c'è un terzo attentato simile per dinamica e obiettivo a quelli di Ankara e Suruç, ovvero quello compiuto il cinque giugno scorso da due attentatori suicidi (in tutti e tre i casi la dinamica è simile) a Diyarbakır, durante un raduno dell'Hdp. Una trentina di morti e un pericoloso aumento di tensione a due giorni dalle elezioni parlamentari.
Così, mentre in Tunisia il “quartetto nazionale per il dialogo” ha vinto il premio Nobel per la pace per aver salvato il paese dalla guerra civile, l'amministrazione Erdoğan viene accusata, oltre che di autoritarismo e censura (in particolare per l'atteggiamento repressivo nei confronti della stampa), anche di attuare una strategia della tensione con lo scopo di imporre un controllo più capillare in vista delle prossime elezioni. In effetti, in gioco per il presidente turco c'è la possibilità di fare della Turchia una repubblica presidenziale, completando l'iter di accentramento dei poteri. Nondimeno, l'Akp questa volta sarà costretto ad accettare i risultati delle elezioni parlamentari, a meno che non voglia trascinare il paese verso una guerra perpetua. Tanto più che l'ultima strage (la più sanguinosa della Turchia moderna) è avvenuta nella capitale amministrativa, malgrado i ripetuti contatti tra Erdoğan e i mukhtar, rappresentanti di quartieri e comunità locali. Incontri che vanno avanti da gennaio e riguardano la creazione di un sistema informativo speciale che permetterà a questi “notabili” di comunicare direttamente con il Ministero degli interni. Per ora il presidente turco ha chiesto loro di informare la polizia locale di eventuali attività sospette e luoghi di ritrovo di militanti del Pkk. Decisione anche questa assai controversa, visti i rischi che si corrono nel tentare di gestire un paese incoraggiando la pratica della delazione, che rischia, al contrario, di distruggere il tessuto sociale e le relazioni che lo costituiscono.
La situazione in Turchia, dunque, desta preoccupazioni. Anzitutto per il timore diffuso che Erdoğan possa tentare di guadagnare consensi mettendo in atto una strategia della tensione che potrebbe avere ripercussioni nefaste non solo sulla situazione interna ma anche sui conflitti in Siria e Iraq. Infatti, malgrado le promesse di Ankara di sostenere la coalizione internazionale contro il cosiddetto Stato islamico (una strategia, peraltro, di per sé discutibile), i bombardieri turchi finora hanno preso di mira quasi solo presunti rifugi del Pkk. Inoltre, a seguito della strage di Ankara, le autorità potrebbero prolungare il coprifuoco imposto in molte città del Sud-est a maggioranza curda, una misura che rischia di mettere in difficoltà chi vorrà recarsi alle urne il prossimo 1 novembre. Di contro, un serio confronto politico unito a una ripresa fruttuosa del processo di pace con il Pkk potrebbe essere il primo passo verso una maggior considerazione dei diritti fondamentali di tutti i cittadini turchi. Basti pensare che tra i deputati dell'Hdp entrati in parlamento alle parlamentari di giugno c'erano, oltre a un cospicuo numero di donne, vari attivisti dei movimenti in difesa di Lgbt. Occorre ricordare inoltre che, con quasi il 30% dei voti ottenuti alle ultime elezioni, Demirtaş, da anni avvocato dell'Associazione turca per i diritti umani e tra i fondatori del presidio di Amnesty international a Diyarbakır, avrebbe potuto offrire un contributo fondamentale al processo di democratizzazione della Turchia (che ovviamente passa anche per la soluzione della questione curda), garantendo rappresentanza politica non solo ai Curdi ma anche a quei movimenti che chiedono giustizia sociale. Significative le parole da lui pronunciate ad Ankara, durante la manifestazione all'indomani dell'attentato. “Il partito di Erdoğan ha le mani sporche di sangue”, ha detto il co-segretario dell'Hdp, “ci vogliono far tacere, ma noi continueremo la nostra lotta pacifica”. Ankara, tuttavia, non sembra intenzionata a cambiare linea, e non solo sul Pkk. Qualche giorno fa, ad esempio, un giornalista del quotidiano Hürriyet è stato aggredito da un gruppo di sostenitori dell'Akp, mentre il direttore del quotidiano Zaman è stato arrestato per un commento critico su Erdoğan sulla rete sociale Twitter. Insomma, finora, sullo sfondo delle richieste di pace, lavoro e democrazia (questo sarebbe stato lo slogan del corteo di Ankara del 10 ottobre) di movimenti e sindacati, l'unica forza ad aver chiesto un cessate il fuoco in vista delle elezioni è stata proprio il Pkk.
Intervista al professor Luciano Monti, docente di politiche dell’Unione europea alla Luiss di Roma.
È sotto gli occhi di tutti la mancanza di coordinamento tra gli stati dell’unione europea. Mentre i grandi sistemi macroeconomici come la Russia, gli USA, la Cina, prendono decisioni in tempo reale, il vecchio continente sembra quasi acefalo, soggetto solo ad un embrione di discorso corale, più somigliante ad un ibrido che ad un’entità ben definita. Molti di noi hanno riposto e forse ancora covano qualche speranza di vedere un’Europa coesa ma, allo stato dell’arte i sogni di molti cozzano con una realtà ben differente. Cerchiamo di fare il punto sullo stato dell’arte con il professor Luciano Monti, docente di politiche dell’Unione europea alla Luiss di Roma
Professore, qual è la situazione attuale , riuscirà il vecchio continente ad avere un centro decisionale degno della sua potenza economica?
Gli italiani hanno sempre considerato il seggio parlamentare di Bruxelles come un seggio collaterale. Per anni abbiamo eletto parlamentari in seno alla Comunità economica europea come parcheggio, mentre altri paesi hanno destinato a Bruxelles le loro prime file politiche o, comunque le loro forze migliori. Il meccanismo di trasformazione della Comunità europea in una unione politica è a metà strada , ancora non abbiamo una leadership politica europea. Ogni leader pensa a come essere leader del suo paese. Non ci sono più i Delors, i De Gasperi gli Shuman. La risposta è quindi semplice ed è anche colpa nostra: abbiamo un corpo burocratico, la Commissione europea, che ha dovuto assumere un ruolo superiore a quello affidatogli dall’atto costitutivo e dagli statuti comunitari, la quale sta sopperendo alla latitanza della parte politica. L a Merkel avrebbe i numeri per fare il leader ma non lo fa: quando ci sono le elezioni in Germania l’Europa, purtroppo, viene in secondo piano. Mi spiego meglio: per essere un leader devi essere stabile in seno alla Comunità, devi durare nel tempo. Per esempio, dalla creazione della Comunità noi italiani abbiamo avvicendato tantissimi rappresentanti in quanto i nostri governi sono durati poco, si pensi che Bruxelles fa pianificazioni settennali. Attualmente viviamo l’esperienza 2014/20020. Il piano italiano 2020 è stato abbozzato dal governo Berlusconi, hanno continuato a negoziarlo Monti, Letta e ora Renzi e chiamato ad attuare. In Europa abbiamo un sistema intergovernativo dove pesano solamente i paesi più influenti; come se fossimo in un’assemblea di condominio, dove alcuni condomini hanno più millesimi degli altri. Se si arriva invece alla soluzione politica finale la Commissione potrà prendere delle decisioni nell’interesse di tutti. Vista la durata dei nostri governi , purtroppo I nostri leaders tendono al breve periodo, preoccupati più della poltrona che dell’Europa. Un leader europeo può uscire solo da un paese che abbia un governo stabile nel tempo e se arriva ad esser lo le regole già ci sono, i commissari potrebbero tirare la volata.
Quanto pesa l ‘influenza politica americana in seno alla Comunità?
Attualmente siamo al decimo round del TTIP ( Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti ) - accordo commerciale tra Europa e Usa. L’influenza americana sarà determinata da quanti settori del TTIP verranno approvati ( il trattato è diviso in capitoli). In questo possono esserci dei vantaggi e degli svantaggi. Svantaggi per noi possono essere le coltivazioni di ogm o la sicurezza sul lavoro che negli USA è diversa che in Europa. Ma per noi, Il problema è un altro: siamo un Paese dove le piccole imprese sono il 94 %, mentre le francesi e tedesche sono medie e e grandi imprese. Il trattato allora deve essere concluso in chiave Europa/Usa o Franco-tedesca/ USA? Questo è il nostro problema. Con l’accordo ci sarebbero quasi un miliardo di consumatori tra di loro molto simili, con la Russia un accordo sarebbe ben più complicato. Il mercato americano e quello europeo si assomigliano già. Il dossier va comunque spacchettato, come le dicevo, intero non passerà mai, è costituito per capitoli. Quindi si potrebbero approvare da parte nostra solo quei capitoli nei quali siamo d’accordo con gli USA. Di ogm, per il momento, non se ne dovrebe parlare.
Crede che gli americani abbiano soffiato sul fuoco aiutando la destra in Ukraina in funzione anti russa per impedire un dialogo Europa-Russia?
Il problema sorse quando il presidenteViktor Janukovič rifiutò di firmare un trattato di associazione con l'Unione europea e venne spodestato. Era un accordo commerciale, identico al TTIP che l’Europa sta trattando con l’America. Il nuovo governo invece lo ha firmato, ma il presupposto per la firma di questo trattato è che l’Ukraina abbia delle infrastrutture adeguate, cosa che non ha. Viktor Janukovič chiese alla Comunità anche dei finanziamenti per creare infrastrutture adeguate per onorare l’accordo, ma l’Europa rispose picche, non aveva i soldi: la Russia invece avrebbe potuto dare aiuti all’Ukraina: petrolio. gas, etc. Noi europei siamo bravi a fare gli accordi ma non abbiamo i soldi per investire su tali accordi vedi, ad esempio, la faccenda del Kossovo.
La Gran Bretagna, con il Commonwealth e suoi accordi privilegiati con l’America, ha una funzione di disturbo in seno alla Comunità o ha un interesse sostanziale nel partecipare a questa?
Questo non lo sanno neanche gli stessi governanti inglesi che tra breve faranno un referendum in merito. Io vedo la presenza degli inglesi in Europa come positiva. Hanno una visione transoceanica e gli inglesi sono grandi portatori di democrazia. Comunque non hanno interesse a spinte eccessive verso un’ unione politica europea, l’hanno sempre frenata e lo faranno sempre. La soluzione che si sta creando è un’Europa a due velocità, cosa che si è già un po’ creata. Vedi eurolandia e i paesi che ne sono fuori. Il problema vero è che in Europa non c’è ancora una visione unitaria. Ancora si erigono muri, vedi l’Ungheria. Per gli immigrati che sbarcavano in Sicilia non si preoccupavano, ora che passano per i Balcani si preoccupano.
L’attuale immigrazione potrebbe essere causa di maggior coesione tra i paesi europei o causa di maggiori divisioni?
Sotto il profilo economico per noi l’immigrazione è una manna del cielo. Per un motivo molto semplice: abbiamo una popolazione che è soggetta a invecchiamento da un lato e all’allungamento della vita dall'altro. Abbiamo una popolazione che lavora che diminuisce in maniera drastica. Questo è un grandissimo problema per le casse previdenziali che assicurano un sistema previdenziale e sanitario evoluto. L’unico modo per mantenere il nostro welfare è quello, come dicono i demografi, di aumentare la forza lavoro, e la forza lavoro non può che venire dagli immigrati. Il problema comunque va letto in chiave europea e quindi non si può dire, come fanno i tedeschi, voglio solo i siriani. Dal Senegal vengono le persone che sono al margine della società, dalla Siria scappano anche i professori, laureati etc. Tutto ciò è un’opportunità che l’Europa non può perdere. Qualcuno stima che nel 2030 avremo bisogno di almeno 100 milioni di persone in più per mantenere il nostro welfare.
Il mondo cambia velocemente. Internet viene sempre più usato. Qual è la politica europea, visto che nuova frontiera è il web? Quale la situazione nel nostro Paese?
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La priorità assolute dell’agenda 2020 è la crescita sostenibile, inclusiva ed intelligente. Dentro questa terza parola ci sono tutti gli investimenti europei sulle nuove tecnologie che devono permetterci lo sviluppo, visto che non abbiamo materie prime, l’unico paese europeo è la Norvegia che ha il petrolio, ma che non è nella comunità. Quindi l’investimento reale va fatto sulle risorse umane. Risorse umane che devono poter comunicare rapidamente e liberamente nel mercato del lavoro globalizzato. La famosa agenda digitale europea prevede importanti investimenti nel settore su due versanti. Il versante della infrastruttura telematica e quindi la necessità di portare a tutti i cittadini europei la banda larga e ultralarga e dall’altra parte quella che si considera la capacità di saper utilizzare da parte di tutti gli individui i nuovi strumenti . Quindi, da un lato servono le rotaie, le fibre ottiche, che vanno posate, e dall’altro servono i manovratori, cioè quelli che sanno utilizzare la struttura. L’Italia soffre di un ritardo digitale molto forte. L’Europa ci impone di coprire con la banda larga entro il 2020 il 98% della popolazione. Il nostro Paese però è particolare, diverso dagli altri, in quanto è costituito da moltissime aree interne: quasi la metà dei comuni italiani sono nelle aree interne, lontane dai centri di interesse maggiore , sono nelle cosiddette aree bianche, aree dove non solo non c’è la connettività, ma non ci sono neanche i progetti per farla in quanto aree di fallimento per il mercato: gli operatori privati non sono interessati a tali aree in quanto gli abbonati potenziali sono pochi. L’errore di fondo della Comunità allora è che non si deve individuare il numero in percentuale delle persone da raggiungi ma i kilometri quadrati da ricoprire. Gli abitanti delle aree bianche sono i più bisognosi. I paesini piccoli sono in spopolamento perché non c’è la rete. I giovani non rimangono dove non riescono a connettersi. Altro punto importante è che quasi tutte le nuove professioni sono in ambito elematico, quindi d tutti i cittadini devono essere messi in condizione di usare la banda larga. In Italia abbiamo la nostra agenda digitale, che poi sarebbe l’agenda digitale delle regioni che, per fortuna, stando utilizzando i fondi europei . Ad esempio la regione Lazio ha oltre 120 milioni destinati al digitale di cui una piccola parte è per informatizzare la pubblica amministrazione, il cui problema è quello di offrire rapidamente servizi pubblici, per il resto bisogna cercare di portare la rete dove manca. Comunque siamo in grande ritardo; ad esempio, la Spagna che nel 2010/11 era uguale a noi ora è molto più avanti.
Professore, per quanto attiene il patrimonio culturale noi europei siamo pieni di testimonianze culturali, qual’ è la politica comunitaria?
L’Europa ha messo la cultura al centro delle sue priorità politiche, anche perché la metà del patrimonio culturale mondiale è nel nostro continente. Il numero dei siti Unesco italiano è il primo in assoluto in tutto il mondo , esattamente 52 considerato anche il Vaticano. Si dimentica però che i monumenti sono la principale risorsa culturale. Il nostro problema , avendo un così alto numero di siti culturali, è la manutenzione , Pompei insegna, uno per tutti: Norma antica, insediamento preromano e poi romano è completamente abbandonato, quindi il problema è di mantenimento e soprattutto come rendere fruibile questo patrimonio. Prioritario è il problema della comunicazione, nessuno sa che a Norma c’è un sito archeologico di prima grandezza. Le strutture di accoglienza turistica sono assolutamente inefficienti.
Crede che, con il tempo, la Comunità possa uniformare gli apparati militari dei vari stati e creare un esercito unico?
Vista la fatica che facciamo a unificare la politica estera, immaginare di poter creare una forza militare unificata è molto difficile, dobbiamo prima trovare gli uomini che facciano una politica europea
Nel 1933 il cittadino statunitense Smedley D. Butler, dopo aver trascorso trentatrè anni e quattro mesi in servizio militare effettivo permanente in qualità di membro della più versatile e agile forza militare degli USA, il Corpo dei Marines, ricoprendo tutti i gradi della scala gerarchica, da sottotenente a maggiore generale fino a generale di divisione, ormai fuori dal lavoro, si sentì libero di parlare, ed ebbe a dire (e lo riportò nel libro "War is racket"): "In tutto quel periodo ho trascorso la maggior parte del mio tempo a fare il superman di prima classe, tutto muscoli e niente cervello, per il Grande Business di Wall Street e per i banchieri. In poche parole, ho fatto il racketeer, sono stato un delinquente, un gangster ed ho operato come emissario del capitalismo."
Quando il capitalismo, nella sua pratica di rapina, oltrepassa i confini della Nazione, diventa Imperialismo, ovvero crimine internazionale, ed è lo stesso Butler che ce ne dà la conferma: "Ripassando con lo sguardo tutto quanto feci allora, sento di poter impartire tante lezioni allo stesso Al Capone che avrebbe avuto parecchie cose da imparare da me. Il massimo che lui era riuscito a fare era stato di organizzare un racket in tre distretti cittadini. Noi Mariners operavamo su tre continenti."
Attualmente l'economia americana è completamente dipendente e intrecciata con il militarismo statunitense, così come ieri l'economia nazista era intrecciata con il militarismo tedesco. La spesa militare degli Usa è maggiore di quella di tutti gli altri paesi al mondo messi insieme. La maggior parte delle imprese dipende in un modo o nell'altro dai profitti della guerra e del militarismo: l'ottanta per cento delle commesse sono militari. Più di 250 miliardi di dollari all'anno vengono bruciati per le spese militari. Questo è l'unico settore della spesa federale che non subisce notevoli tagli. Lo scopo ultimo degli USA è il controllo dei destini del pianeta, militarmente, politicamente ed economicamente. E' guidato da un insaziabile appetito del profitto…
Dal 1945 ad oggi gli Stati Uniti d'America direttamente o mediati dalla maschera della NATO, hanno bombardato da due a tre Paesi all'anno. Gli interventi dell'imperialismo nordamericano hanno come obiettivi i punti di resistenza alla penetrazione neoliberista presenti ancora sul nostro Pianeta.
La Jugoslavia ha rappresentato (e in parte lo rappresenta ancora oggi) uno dei punti più pericolosi per la realizzazione del dominio globale (la cosiddetta globalizzazione!) del Mondo. In quest'area gli Stati Uniti hanno puntato all'utilizzo dell'elemento nazionalista ora semplicemente nazionalista (Croazia) ora anche religioso, in questo caso,musulmano (Bosnia, Kosovo), esasperando i conflitti etnici e teorizzando una situazione favorevole al loro intervento.
Un rapporto segreto della Cia del 1990, reso pubblico il giorno della festa nazionale della Jugoslavia, il 29 novembre, quasi come un macabro segnale del tipo "vi spaccheremo", prevedeva che entro diciottomesi, sarebbe avvenuto uno smembramento della Jugoslavia, con esplosioni di violenze che — affermava il documento — hanno "molte probabilità" di trasformarsi in guerra civile. Sempre secondo la Cia "l'esperimento jugoslavo è fallito e il Paese sarà smembrato" e aggiungeva che tutto ciò "sarà molto probabilmente accompagnato da esplosioni di violenza etnica e disordini che potrebbero portare ad una guerra civile". Il rapporto giungeva a definire con precisione che il presidente Slobodan Milosevic era da ritenere come "il principale istigatore" dei predetti conflitti jugoslavi.
Questo rapporto "segreto" della Cia faceva seguito all'approvazione delle legge 101-513 da parte del Congresso degli Stati Uniti, il 5 novembre del 1990. Tale norma prevedeva lo stanziamento di fondi per le operazioni internazionali e nella fattispecie essa distribuiva fondi oppure li attribuiva alle dirigenze delle varie repubbliche jugoslave in base a criteri politici, con la regola dell'appoggio ai secessionisti., una legge che praticamente ha segnato la condanna a morte della Jugoslavia. Una delle misure previste era così letale che il rapporto della Cia sopra riportato, si riferiva proprio a questa legge.
Un rapporto pubblicato durante i colloqui di Dayton (1995) dal Dipartimento di Stato Usa, "Bosnia Fact Sheet: Economic Sanctions Against Serbia and Montenegro", spiega che
"Le sanzioni hanno contribuito a un significativo declino della Jugoslavia. La produzione industriale e il reddito effettivo sono calati del 50% dal 1991. Ottenere un allentamento delle sanzioni è diventata una priorità per il governo jugoslavo". Il ricatto aveva funzionato e ora si poteva agire.
L'attuazione pratica di questo piano ha visto gli USA intervenire attraverso: 1.Fornitura di armi ai nazionalisti anti-serbi; 2.Copertura mediatica di crimini commessi dai nazionalisti allo scopo di far ricadere le responsabilità sui serbi; 3.Organizzazione e copertura del traffico di armi e droga i cui profitti sono stati destinati al finanziamento delle guerriglie anti-serbe. Da notare che qui è stato adottato lo stesso meccanismo utilizzato in Nicaragua dove i contras venivano finanziati dal commercio di droga fiorente in California. Oltretutto, nel Kosovo hanno agito gli stessi personaggi con la busta paga della Cia, fra cui lo statunitense Walker, già organizzatore degli squadroni della morte in San Salvador.
Da tempo gli Stati Uniti avevano aspirato a diventare i "padroni" dei Balcani. Un documento del Pentagono in parte pubblicato dal "New York Times" asserisce il bisogno di una totale supremazia mondiale degli Stati Uniti sia in termini politici che militari e il medesimo documento contiene esplicite minacce nei confronti di quei Paesi che aspiravano (o che aspirassero ancora oggi) ad aumentare il proprio ruolo nei Balcani.
Ecco alcuni stralci del documento: "Il nostro primo obiettivo è prevenire il riemergere di un nuovo rivale… ("nuovo" si intende dopo quello "vecchio", cioè l'URSS, ormai messa fuori combattimento- n.d.c.). Innanzitutto gli Stati Uniti devono sottolineare la necessità della loro leadership per stabilire e mantenere il nuovo ordine, convincere i potenziali competitori che non possono aspirare a un ruolo maggiore o perseguire un atteggiamento più aggressivo per proteggere i loro legittimi interessi".
"Dobbiamo essere responsabili degli interessi delle nazioni industrialmente avanzate per indurle a non cercare il rovesciamento dell'ordine politico ed economico stabilito. Infine, dobbiamo mantenere il meccanismo militare per scoraggiare potenziali competitori dall'aspirare ad allargare il loro ruolo regionale o globale".
"É di importanza fondamentale preservare la Nato come principale strumento di difesa e sicurezza… Dobbiamo cercare di prevenire l'emergere di accordi di sicurezza fra i soli Stati europei che potrebbero indebolire e mettere in discussione l'esistenza della Nato".
In un discorso tenuto nel settembre 2001, il deputato USA Lester Munston, ha dichiarato: "Voi non vedrete mai apparire i piloti della NATO dinanzi ad un Tribunale dell'ONU. La NATO è accusatrice, procuratrice, giudice ed esecutore, poiché è la NATO che paga le bollette. La NATO non è sottomessa al diritto internazionale. Essa è il diritto internazionale".
Gianni Viola
L'emergenza umanitaria dei rifugiati delle zone di conflitto è uno degli esempi più visibili della necessità di affrontare le questioni razionalmente e alla radice.
Dopo decenni di terrore del conflitto nucleare, la caduta del muro di Berlino avrebbe potuto segnare l'inizio di un nuovo percorso, di confronto e di partecipazione politica anche di paesi fino ad allora condannati a vivere da satelliti di una delle due grandi potenze. Un cammino che si sarebbe potuto avviare già dalla fine del colonialismo “diretto”, ma che sarebbe stato spianato solo da una revisione radicale dell'assetto mondiale, dei modelli economici vigenti e degli equilibri geopolitici su questi fondati. Una simile opera di profonda riconsiderazione avrebbe messo dunque in discussione il nucleo del sistema capitalistico, soprattutto in tema di giustizia sociale e redistribuzione equa delle ricchezze, a livello sia nazionale che internazionale. Ad esempio, sarebbe stato un gesto di distensione la dissoluzione dell'Alleanza Atlantica (NATO), la cui ragion d'essere, dallo scioglimento del Patto di Varsavia, era venuta meno. Quanto al Medio Oriente e al continente africano, sarebbe stato necessario riflettere su quanto il modello dello stato nazione, peraltro imbrigliato da confini artificiali disegnati da vecchi dominatori, si adatti ad aree geografiche le cui popolazioni locali non ne hanno mai avvertito il bisogno. Si pensi ad esempio agli stati nati, e non nati (come il Kurdistan), a seguito della caduta dell'Impero Ottomano e dalla fine dei protettorati delle grandi potenze.
La comunità internazionale, tuttavia, ha scelto di procedere in direzione contraria, come dimostrano sia l'inclusione di nuovi paesi nella NATO, ormai divenuta un gendarme a servizio degli interessi degli Stati Uniti e dei loro satelliti (a discapito delle Nazioni Unite, che dal dopoguerra, dopo un'enfasi iniziale, hanno perso capacità e volontà di intervento), che l'irrigidimento dei sistemi capitalistici in vigore, con la conseguente erosione progressiva delle conquiste sindacali e delle lotte per i diritti civili degli anni '60 e '70. Un processo in parte favorito dalla mancanza del “termine di paragone” sovietico in materia di tutela economica da parte dello stato in favore delle classi meno abbienti. Inoltre, l'assenza di contrappesi geopolitici allo strapotere di Washington ha aperto la via a nuovi conflitti e, recentemente, all'innalzamento di numerose nuove barriere tra stati. Si pensi al muro costruito nel 1990 dalla Spagna per “proteggere” le sue enclaves marocchine di Ceuta e Melilla, al muro di Tijuana, eretto nel 1994 dagli USA al confine con il Messico, alla “barriera di sicurezza” innalzata a partire dal 2002 dallo Stato di Israele in Cisgiordania. Per arrivare, quindi, alle muraglie più recenti, come quella eretta nel 2010 tra Israele ed Egitto, quella costruita nel 2013 dall'Arabia Saudita al confine con lo Yemen, quella tra Bulgaria e Turchia (costruita nel 2014) e quella tra Ungheria e Serbia (fresca di costruzione).
Sono solo alcuni esempi di un atteggiamento dilagante su scala mondiale, di rifiuto del dialogo e di una miopia geopolitica che induce a preferire la “riduzione del danno” (peraltro controproducente) alla soluzione condivisa dei problemi.
Il risultato è stato una globalizzazione fallimentare, che da un lato ha imposto la “regola” dei due pesi e due misure, dall'altro ha garantito la libera circolazione e il libero scambio delle merci, in base agli interessi delle potenze regionali e mondiali, ma ha limitato la libera e sicura circolazione degli individui. Una situazione caratterizzata da continue tensioni, in cui l'Unione Europea non ha saputo, e probabilmente non ha voluto, crearsi uno spazio. Dagli anni '90, dunque, si sono susseguiti conflitti dalle conseguenze disastrose e ingestibili. Si pensi a quello divampato nella ex Jugoslavia (della cui dissoluzione Germania e Vaticano sono stati tra gli attori principali), che, coinvolgendo l'intera regione balcanica, ne ha dissestato l'economia e il tessuto sociale. Al punto che paesi come Bosnia Erzegovina, Albania e Kosovo, sono divenuti terre di nessuno nelle mani di trafficanti di droga, armi ed esseri umani (organi compresi) e, ultimamente, una delle maggiori sacche di reclutamento dei cartelli del jihad del cosiddetto “stato islamico” (noto come ISIS, IS, o con l'acronimo arabo Daish). Gli attentati dell'11 settembre 2001, inoltre, sono stati pretesto per ulteriori operazioni militari in paesi come l'Afghanistan (già devastato dal conflitto con i Sovietici e dalla guerra civile) e l'Iraq. Tutte guerre classificate ufficialmente come “interventi umanitari”, ma che hanno mostrato il vero volto dei meccanismi innescati da quella che l'economista, politologo ed esperto analista militare Edward Luttwack ha definito la “dittatura del capitalismo”. Ne sono esempi eloquenti lo scandalo delle torture nel centro di prigionia di Abu Ghraib, in Iraq, l'uccisione dell'ex presidente iracheno Saddam Hussein nel giorno della Festa del Sacrificio (ricorrenza religiosa importante per l'islam). In nessuno di questi frangenti l'ONU ha difeso i diritti degli oppressi, al punto che, mentre a Russia o Iran sono state imposte sanzioni (come all'Iraq di Saddam Hussein o alla Jugoslavia di Slobodan Milosevic), l'uso di ordigni al fosforo bianco sganciati dalla coalizione internazionale a guida USA su Falluja, in Iraq, o l'uso di armi non convenzionali da parte di Israele in Libano nel 2006 non sono stati puniti.
Le cosiddette “primavere arabe” (nate come rivolte della società civile), in concomitanza con gli annunci di apertura e cooperazione del presidente USA Barack Obama nei confronti del mondo arabo-islamico (strategia ben diversa da quella delle “guerre preventive” del suo predecessore), avevano lasciato sperare in un nuovo processo storico, che avrebbe condotto verso una democratizzazione e un maggior rispetto dei diritti nei paesi interessati. Tuttavia, anche in questo caso, l'intervento in Libia sponsorizzato da Francia e Gran Bretagna, il soffocamento delle proteste in Bahrein, il divampare di guerre civili in Yemen (dei cui rifugiati nessuno si cura) e Siria e infine l'ascesa dei cartelli del jihad in Iraq e Siria hanno riportato alla luce le disastrose ripercussioni delle strategie geopolitiche delle grandi potenze. Ne è un esempio eloquente la sorte del colonnello libico Muammar Gheddafi, la cui “funzione” per Europa e USA lo ha preservato da inchieste e condanne internazionali, persino quando è stato coinvolto nell'assassinio dell'ex presidente del Burkina Faso Thomas Sankara.
Sarà una coincidenza il fatto che sia stato ucciso prima che, in un eventuale processo alla Corte Penale Internazionale, potesse fornire spiegazioni di numerosi tragici eventi degli ultimi decenni?
Lasciando da parte le reazioni emotive (che nel mondo appaiono tragicamente selettive), risolvere le crisi umanitarie significa eradicarne le cause, che si possono rintracciare nei rapporti di sopraffazione che alimentano l'attuale sistema economico, in particolare da quando ha spostato il suo asse portante dalla produzione alle speculazioni finanziarie. La crisi greca, i conflitti, le brutalità dei cartelli della droga in America Latina e dei cartelli del jihad in Siria e Iraq, ne sono solo alcune conseguenze. La violenza, peraltro, non riguarda solo i rapporti tra stati, ma anche le relazioni tra individui inseriti in un tessuto sociale dissestato. Una soluzione potrebbe essere adottare un sistema economico (come il modello della decrescita felice) più equo, che sappia garantire il rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo e al contempo favorire la distensione delle relazioni internazionali. Infatti, come è impossibile gestire i conflitti all'interno di una società infestata da diseguaglianze, così è impensabile arginare le guerre continuando sulla linea della mercificazione degli esseri umani e della legittimazione dell'oppressione.
Carlotta Caldonazzo
Conversazione con Francesco Pugliese*, su guerra e pacifismo: per non consegnarci all’oblìo …
di Roberto Fantini
Il 24 marzo del 1999 ebbero inizio i bombardamenti in terra jugoslava da parte di una NATO oramai trasformata in strumento globale dell’ordine “occidentale”. Abili raffiche di perfide invenzioni linguistiche (da “guerra umanitaria” a “danni collaterali”), accompagnate da una tambureggiante retorica interventista, riuscirono, perlopiù, a far scivolare in secondo piano il volto tragico di un conflitto quasi tutto rovesciato sui civili. L’articolo 11 della nostra Costituzione venne palesemente rinnegato, gettando il nostro Paese, nelle vesti di attore protagonista, all’interno di un conflitto su ampia scala. Le tante voci della galassia pacifista-nonviolenta furono ignorate, irrise, zittite. Ma in molti continuarono a dire che un’altra via esisteva, che esiste sempre un’altra via opposta alla logica violenta delle armi.
Su tutto questo (e tanto altro ancora) Francesco Pugliese ha scritto un libro bellissimo, vero scrigno prezioso di informazioni indispensabili per provare a capire quanto veramente accaduto e, soprattutto, fonte inesauribile di messaggi carichi di pensiero positivo, di volontà di riflessione e di saggia voglia di continuare a sperare in un mondo meno malato.
Insieme a lui, abbiamo condotto la conversazione che segue.
- Francesco, sono arciconvinto che tu ci abbia regalato uno splendido lavoro, utilissimo per cercare di impedire che nella nostra memoria collettiva scenda definitivamente l’oblìo in merito agli orrori della tragedia jugoslava dell’ultimo decennio del XX secolo e, soprattutto, alle reali responsabilità di tali avvenimenti.
Quando e come è nato, in te, il progetto di questo libro?
Roberto, ti ringrazio per l’apprezzamento e spero anch’io possa essere davvero così: che serva almeno un poco “per cercare di impedire che nella nostra memoria collettiva scenda definitivamente l’oblìo in merito agli orrori della tragedia jugoslava”. Anche per contribuire a non farci dimenticare cos’è in concreto la guerra, oggi che questa dimenticanza tende purtroppo ad allargarsi e per non smettere di pensare quanto sia banalmente semplice la strada per giungere alla violenza e quanto terribilmente difficile poi tornare al lume della ragione e alla pace.
Il libro è frutto di un intreccio tra attività didattica, attivismo e studio dei movimenti contro la guerra. All’inizio un contributo richiesto da una collega per un progetto didattico sulla tragedia jugoslava; quindi la ricerca si è estesa alle attività e al ruolo dei movimenti e delle organizzazioni pacifiste, anche perché all’epoca stavo già lavorando alle ricerche che hanno portato alla Mostra Abbasso la guerra e al libro omonimo. Poi, grazie a varie sollecitazioni, è maturata l’idea di ampliare ancora e quindi la proposta di pubblicazione dell’editore.
- Tu, molto giustamente, affermi che “il mondo del pacifismo ha tenuto viva l’opposizione alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e ha contrastato la violenza come strumento di risoluzione dei conflitti. Ha sostenuto le ragioni della nonviolenza. E’ riuscito in gran parte a resistere alle seduzioni dell’interventismo umanitario e unilaterale ed ha denunciato i più o meno sofisticati aggiramenti del dettato dell’art. 11 della Costituzione e le giustificazioni sulla partecipazione italiana alla guerra del 1999 (pag. 66).
Non credi, però, che la vicenda jugoslava abbia rappresentato, nel bilancio complessivo, una sconfitta pressoché totale di tale mondo, sconfitta ulteriormente aggravata dai fatti di Genova 2001 e dall’avvento della cosiddetta “guerra al terrorismo”?
Hai fatto bene a riprendere gli elementi di positività delle esperienze e dell’impegno di quegli anni. E farlo non è secondario, né di poca importanza. E’ necessario per la verità storica. Perché ci aiuta a capire la complessità dell’impegno contro la guerra e la forza mostruosa dei guerrafondai e della cultura della guerra nella politica, nel linguaggio, nella quotidianità.
E poi io penso un’altra cosa: mi lascia molto perplesso il ragionare con la logica vittoria/sconfitta. A parte il lessico, lo trovo riduttivo e fuorviante. Certo che è stato sconfitto (ma ha perso?), poteva vincere viste le forze in campo? Viviamo in un mondo dove la coscienza e l’impegno contro la soluzione guerra è così presente, diffusa, forte da riuscire ad impedire una guerra? Sono domande che mi pongo. E la risposta è purtroppo negativa. Ci sono ancora fatiche titaniche per cacciare la guerra dalla storia; per fare della guerra un tabù (Zanotelli).
Ciò detto, le esperienze, l’impegno, le elaborazioni del variegato mondo del pacifismo nel decennio del disastro jugoslavo sono state utili a questa finalità, a questa utopia? Penso di sì, sicuramente. Penso che questo mondo deve saper meglio rivendicare le sue ragioni, la sua storia, i suoi contributi, i risultati concreti. Chi aveva ragione? Chi aveva ragione sul disastro Iraq? Aveva ragione chi contrastava i bombardamenti in Libia nel 2011?
Certamente la vicenda jugoslava può ancora insegnare molto. Ha ribadito quanto è complesso e difficile il ruolo dei costruttori di pace e del pacifismo e quanto sia decisiva la sua capacità di allargare il fronte, di coinvolgere e attivizzare sempre più persone, di mobilitare le coscienze e sostenere pratiche profondamente democratiche e partecipative. E certo fosse stata più ampia la presenza dell’opinione pubblica e dei ceti politici europei i risultati avrebbero potuto essere maggiori e migliori.
- La cosa che più ho apprezzato, fra i numerosi pregi del tuo libro, è la tua chiara volontà di conferire massimo rilievo all’impegno di tanti individui che, in differenti contesti e con diverse metodologie, hanno cercato (prima, durante e dopo il conflitto) di continuare a farsi costruttori di pace. Non ti sembra che la situazione internazionale determinatasi in questi ultimi anni abbia reso e stia rendendo sempre più difficile il riproporsi di simili iniziative?
Il mondo, questo nostro mondo, ha bisogno urgente di costruttori di pace, come non mai. Il mondo dei costruttori di pace è di mille colori, è come un fiume carsico. Ma non basta. La bestia feroce e subdola della guerra è ancora presente e attiva in molte parti del mondo e gli scenari geopolitici planetari non lasciano certo tranquilli gli amanti della pace. C’è bisogno di una lotta per la pace più forte, più estesa, più creativa.
E soprattutto capace di coinvolgere altre persone, di creare consapevolezza e responsabilità, di produrre elaborazioni e culture di pace. Non solo per la ripulsa morale contro la guerra, per la pace come progetto politico, anche più conveniente economicamente.
Sottolineo due cose spesso dimenticate: nel settembre 2013 gli Usa hanno rinunciato all’attacco in Siria perché l’ opinione pubblica era ostile e per la mobilitazione promossa da Papa Francesco.
Certo è urgente il potenziamento dell’impegno pacifista: “ognuno può fare qualcosa” come diceva la parola d’ordine di una marcia Perugia – Assisi. Così si può superare la crisi che dura ormai da troppi anni dei movimenti pacifisti. Dobbiamo puntare sull’impegno dal basso che si deve organizzare e coordinare; non possiamo contare sull’impegno dei partiti politici che spesso hanno strumentalizzato l’impegno popolare contro la guerra o non sono stati poi coerenti soprattutto nelle votazioni in Parlamento. Preoccupa molto l’affievolirsi del ripudio della guerra scritto nella Costituzione italiana e in quella giapponese dopo la seconda guerra mondiale, che si accompagna alla crisi delle Nazioni Unite per la cui emarginazione il decennio della ex Jugoslavia è stato decisivo.
E indubbiamente anche nelle società il no alla guerra pare affievolito. Ed è pure allarmante a parer mio l’assenza pressoché totale del mondo della cultura e dell’università sulle questione del no alla guerra e della costruzione di una cultura di pace.
E’ fondamentale il rilancio dell’impegno pacifista dal basso. C’è da arginare il ritorno delle culture guerresche e l’escalation delle spese militari; una nuova corsa agli armamenti è in atto nel silenzio pressoché generale e non può che alimentare guerre e pericoli di guerra. Anche l’Italia vi partecipa (non solo gli F35) in modo massiccio, con enormi risorse che potrebbero essere destinate a soddisfare ben altri bisogni del Paese.
Insomma le urgenze non mancano certo, dobbiamo impegnarci per un rinnovato impegno di massa su questi temi e così rilanciare la lotta per l’abolizione della guerra. Voglio ricordare che, proprio 50 anni fa, nel celebre Manifesto Einstein e Russell si rivolgevano ai governanti e ai popoli: “è il problema che vi poniamo davanti, reale, terribile, non eludibile: dobbiamo mettere fine alla razza umana oppure l’umanità deve rinunciare alla guerra?”.
L’abolizione della guerra, ha detto Gino Strada, “è la prima garanzia di futuro per l’umanità e per il pianeta. Finché la guerra resterà tra le ‘opzioni possibili’ di fronte a problemi anche gravi, ci sarà sempre chi – per una ragione o per l’altra – finirà col ricorrervi”.
Una utopia, certamente. Ma non dimentichiamo che utopia nei secoli passati erano l’abolizione della schiavitù o del vaiolo o anche il pensare ad un’Europa non perennemente in guerra, il pensare al ripudio della guerra scritto nella Costituzione.
Un’utopia che l’uomo – se davvero tale - non può non perseguire come la cosa più bella, più razionale e più intelligente da realizzare. Più creativa, perché la guerra è il solito schema violento che si ripete da millenni.
Io credo allora che quanti si impegnarono sul fronte della pace anche durante il decennio in Jugoslavia hanno comminato in questa direzione e dato un contributo fondamentale; sebbene sconfitti, per la storia ufficiale.
FRANCESCO PUGLIESE
CAROVANE PER SARAJEVO
Promemoria sulle guerre contro i civili, la dissoluzione della ex Jugoslavia, i pacifisti, l’Onu (1990-1999)
MIMESIS, 2015
www.mimesisedizioni.it
Francesco Pugliese, docente e pubblicista, si occupa di ambientalismo e storia dei movimenti pacifisti e di opposizione popolare alla guerra. Tra le sue ricerche: I giorni dell’arcobaleno. Diario-cronologia del movimento per la pace, settembre 2002 - giugno 2003, Prefazione di Alex Zanotelli, Trento, 2004; Per Eirene. Percorsi bibliografici su pace e guerra, diritti umani, economia sociale, Forum trentino per la pace e i diritti umani, Trento, 2007; Il movimento dei Partigiani della pace e le sue manifestazioni in Umbria; numero speciale curato da Luciano Capuccelli, Per la Pace. Movimenti, culture, esperienze in Umbria 1950-2011, Perugia, 2012; In cammino per la pace. Persone e movimenti contro la guerra, Provincia Autonoma di Trento, 2013; Abbasso la guerra. Persone e movimenti per la pace dall’800 ad oggi, Trento, 2013; con la Mostra omonima itinerante, Manifesti raccontano… le molte vie per chiudere con la guerra (con Vittorio Pallotti), Prefazione di Peter van Den Dungen e Joyce Apsel, Trento, 2014.
Il consociativismo regna indisturbato dal dopo guerra in poi né, a tutt’oggi, si intravedono cambiamenti. Mandarinati della politica c’erano allora, mandarinati ci sono ora, cambiano le facce, per via dell’età, ma il minuetto e i giri di valzer sono sempre gli stessi. Si litiga per finta in pubblico e ci si accorda in privato: una poltrona a me, una a te, una all’amico degli amici e tutti vissero felici e contenti. Il meccanismo è talmente ben organizzato, oliato, strutturato e consolidato che risulta quasi impossibile cambiarlo. I comitati d’affari dietro le sbandierate ideologie prosperano oggi, come allora, e di soldi ne scorrono tanti, peccato siano i nostri. Una scarpa prima e una dopo il voto, parodiava il buon Totò: sanno bene che quelle scarpe li eleva dai miseri mortali. I tempi sono cambiati e oggi per appartenere alla casta ci vuole ben altro: posti di lavoro fittizzi, scatole vuote per sistemare elettori fedeli, parenti, bisogna concedere affitti di beni pubblici a prezzi irrisori, e chi più ne ha più ne metta. A destra è di moda la promessa di far pagare meno tasse, parola magica. Oramai però la coperta è corta, tanti soldi non ce ne sono più e mentre s’ingozzano a noi miseri promettono, promettono, promettono …: pontificano, i media fanno da eco, e noi inseguiamo nei sogni le loro promesse.
Intanto il popolo piange, cerca di salvarsi: non è vero che si vota in base all’ideologia, si vota in base al proprio tornaconto, un esempio per tutti: il comune di Roma ha 42 mila alloggi dati in affitto che molte volte non si riesce a capire neanche a chi, dato che l’intestatario potrebbe abitare in una casa di proprietà della o del consorte e subaffittare a prezzi, questa volta di mercato, l’appartamento assegnato. Ebbene, il prezzo medio percepito dal comune di Roma per ognuno dei suoi 42 mila alloggi è, in media, 7 euro al mese, si, avete letto bene, 7 euro. Ecco uno dei tanti sistemi per comperate i voti. Immigrati, appalti, costruzioni faraoniche, consulenze truffa, tutto è utile pur di mantenere e incrementare l’apparato di partito, sono arrivati al punto di mettere mafiosi nella commissione che dovrebbe indagare sulla mafia, l’antimafia, inutile dilungarsi, tant’è l’evidenza. Destra o sinistra, non ha importanza chi governa, un accordo (dicono per il bene del Paese) per mantenere poltrone e privilegi lo si trova sempre.
Come dicevamo, la coperta è corta, non ce n’è più per tutti, hanno divorato tutto, quindi, o il popolo o i sedicenti onorevoli dovrebbero rinunciare a qualcosa. Il popolo ha già dato e non può più dare, la classe politica che dovrebbe dare a sua volta fa finta di non capire, continua a parlare in nome di un popolo che non si sente più rappresentato, anzi preso per i fondelli. Continuano a farlo con le poltrone incollate, forti che le leggi le fanno loro, perfino ad personam, si sentono in trincea, boia chi molla, i privilegi sono una loro conquista. Sarebbero guai se il popolo si accorgesse del teatrino che inscenano da più di mezzo secolo, il guaio è che la gente se n’è accorta; Renzi , l’affabulatore, è una delle ultime carte rimastegli per salvare il salvabile (dal loro punto di vista); gli apparati di partito sono macchine voraci di danaro, se finissero in bancarotta crollerebbe il sistema, dovrebbero fare le valige. Caro Renzi, caro Berlusconi, caro Alfano, caro Salvini, e cari tutti, cari maghi delle parole e delle promesse mancate, se vogliamo giocare a fare sul serio incominciate a mandare a casa i pupazzetti della massoneria, dell’Opus Dei, delle multinazionali, degli ordini professionali, della Compagnia delle Opere, del Bilderberg, della Nato, delle banche, della mafia, della camorra, dei sindacati, ammesso che non siate voi stessi messi lì come pupazzi pompati da chi sa chi (noi una mezza idea ce l’abbiamo), incominciamo a togliere i finanziamenti all’editoria, ai vostri servi, e lasciate fare informazione ai veri servitori della società civile. Credo non vi convenga, sparireste subito dalla circolazione.
Virgilio Violo
In un paese dominato ormai da caos, criminalità, disoccupazione e incertezze, almeno un punto fermo lo abbiamo: in Italia i soldi ci sono, e anche parecchi. Ma sono distribuiti male. Quando non sono in mano alle mafie (ogni giorno vengono sequestrate decine di milioni di euro a boss, politici collusi e criminali), quando non vengono gettati dalla finestra per finanziare appalti truccati o opere inutili (tanto per dirne una: costato finora 470 mln, l’assurdo resort in Sardegna, che avrebbe dovuto ospitare il G8 prima che un Berlusconi già allora in preda al delirio decidesse di spostare tutto all’Aquila, sta ancora lì a marcire).
Per fortuna talvolta salta fuori una voce dal coro, in questo caso Fausto Scandola ha deciso di andare controcorrente, contro l’omertà e l’inerzia tipiche del nostro Paese, e ha iniziato a indicare la luna, anche se poi quasi tutti sono rimasti intontiti a fissare il dito. Già tra i dirigenti della Cisl, Scandola ha rivelato la settimana scorsa un dossier con le esatte cifre degli stipendi delle teste coronate del sindacato: nomi, cognomi e numeri che hanno scosso il popolo e i dirigenti della Cisl, facendo parecchio incavolare il primo e indignare i secondi. Per inviare il dossier, Scandola ha utilizzato delle mail, troppe mail, talmente tante che ai piani alti della Cisl sono caduti dalle nuvole e hanno reagito nel modo tipico delle lobby nostrane: allontanando il sindacalista.
Nell’Italia della disoccupazione e della crisi, Scandola ha pubblicato dei dati che, se non fossero offensivi nei confronti degli italiani che la crisi la sentono eccome, sarebbero quasi tragicomici. Si va da Valeriano Canepari, ex presidente CISL Caf Nazionale, che nel solo 2013 ha preso circa 97 mila euro di pensione. Di pensione, non di stipendio, e visto che non erano sufficienti per affrontare le spese quotidiane ci si aggiungevano i 192 mila euro della Usr Cisl Emilia Romagna, sfiorando in tal modo i 300 mila euro. Passando per Ermenegildo Bonfanti, segretario nazionale Fnp Cisl, che si mette in tasca 225 mila euro in un anno, dei quali 143 mila di sola pensione. Fino ad Antonino Sorgi, presidente nazionale dell’Inas Cisl, che solo lo scorso anno si è preso 78 mila euro di pensione, 100 mila di compenso Inas e 77 mila come compenso di Inas Immobiliare, superando nell’insieme i 250 mila euro. Il tutto da un sindacato che pretende di farsi portavoce dei diritti dei lavoratori, degli immigrati, degli artigiani, della gente comune, e che già in passato aveva dato prova di non essere un ritrovo di santi. Raffaele Bonanni, ex segretario generale della Cisl, lasciò infatti l’incarico tra numerose critiche: sembra si fosse dato una ritoccata allo stipendio poco prima di ritirarsi, allo scopo di far lievitare l’assegno di pensione. Una storia che allora mise la pulce nell’orecchio di Scandola e che, unita alle segnalazioni anonime di alcune persone e al fatto che molti sindacalisti aderiscono al Cnel (dove i redditi sono pubblici), lo ha portato oggi a scoperchiare il vaso di Pandora dei mega stipendi dei colleghi.
Una volta svegliati dal torpore istituzionale grazie alle rivelazioni di Scandola (che nel frattempo ha preso le vie legali contro la sua espulsione), i pezzi grossi della Cisl, visti intaccati i loro privilegi, hanno immediatamente reagito nel modo più elegante e consono alla casta: espellendo il sindacalista, ma anche provando in qualche modo a giustificare gli stipendi. Qualcuno (Canepari) ha anche candidamente affermato che il suo compenso era da considerarsi solo come il costo aziendale finale, che assestava il suo stipendio, poverino, alla pur dignitosa cifra di 5800 euro mensili. La stessa Annamaria Furlan, attuale segretario generale del ritrovo di santi, non ne è uscita indenne: già nel 2008 si portava a casa 99 mila euro l’anno, che ora potrebbero arrivare a un tetto massimo di 114 mila, ai quali si aggiunge, per le spese extra, un 30% di indennità varie. Parliamo della stessa Furlan che sulle pagine de «La Nazione» affermava, in un esercizio di (speriamo involontaria) comicità, che «Per recuperare i livelli occupazionali antecrisi di questo passo impiegheremo almeno vent’anni». Almeno, ma forse anche trenta, o quarant’anni, o forse non ne usciremo mai, finché certa gente continuerà a prendere stipendi tali ai cui nemmeno Barack Obama arriva.
Emiliano Federico Caruso
Dall'ex ministro dell'economia greco Yanis Varoufakis, una critica marxista “atipica” al sistema che regge l'Eurozona
Che le si condivida o meno, le recenti scelte politiche del partito greco al governo Syriza, del primo ministro Alexis Tsipras e dell'ex ministro dell'economia Yanis Varoufakis hanno messo in luce le più gravi contraddizioni che dilaniano l'Eurozona. In particolare l'antinomia tra il carattere essenzialmente economico e monetario dell'Unione e la volontà dei paesi più forti di influenzare le politiche nazionali degli stati più deboli. Sul piano geopolitico, intanto, l'Unione Europea non è riuscita finora a elaborare e ad esprimere una posizione indipendente dagli Stati Uniti, limitandosi ad assistere da spettatrice a conflitti le cui ripercussioni sono ancora in atto. Dalle lacerazioni che hanno travolto i Balcani (attualmente, non a caso, una delle principali sacche di reclutamento dei cartelli del jihad della cosiddetta Organizzazione dello Stato Islamico – ISIS), agli errori strategici commessi nella “guerra al terrorismo” (Afghanistan, Iraq in primis), alla questione israelo-palestinese fino alla guerra civile in Libia e Siria. Ben lungi dall'intraprendere un dibattito serio sulla necessità di cambiare rotta verso una seria politica internazionale del disarmo, tra le conseguenze di questi conflitti si presta maggiore attenzione alle ondate di richiedenti asilo e migranti che ogni giorno tentano la traversata verso i paesi europei di frontiera (Italia, Spagna, Grecia) e ai quali si continua a rispondere innalzando barriere ed elaborando astrusi piani di redistribuzione dei rifugiati. Una simile reazione è sintomatica di un atteggiamento di fondo: curare i sintomi delle crisi, sia pure con effetti disastrosi, senza affrontarne le cause profonde.
Nel breve ma acuto saggio Confessioni di un marxista irregolare (traduzione italiana pubblicata dalla casa editrice Asterios), Varoufakis analizza le cause dell'attuale crisi europea partendo da considerazioni macroeconomiche.
Nel 2008, scrive, il capitalismo ha subito la sua seconda grave contrazione a livello mondiale (la prima era avvenuta nel 1929. NdR), causando una reazione a catena che ha sprofondato l'Europa in una spirale recessiva che sta tuttora minacciando gli europei con un vortice di depressione permanente, cinismo, disintegrazione e misantropia.
L'Unione Europea così com'è, infatti, è antidemocratica e irrazionale, un binomio foriero di conflitti tanto tra gli stati membri quanto all'interno delle loro rispettive società. Il problema dell'Europa dunque non è la crisi economica in sé, bensì la prospettiva adottata per risolverla. Un percorso che conduce verso un progressivo aggravarsi dell'ingiustizia sociale e, di conseguenza, verso una disumanizzazione della società.
L'esempio preso da Varoufakis in merito è eloquente. Nel film del 1953, L'Invasione degli ultracorpi, gli alieni aggrediscono gli umani dall'interno, riducendone i corpi a gusci che attraversano meccanicamente la vita quotidiana. Un processo equivalente, secondo Varoufakis, alla trasformazione del lavoro umano in una fonte di energia non differente dai semi, dall'elettricità e dai robot. Come se nell'espressione “risorse umane” (abbondantemente in uso) si celasse una de-umanizzazione dell'esistenza dei singoli, considerata quasi esclusivamente in termini di capacità produttiva. La crisi economica del 2008 si configura dunque come una crisi di civiltà che sta minando le fondamenta del capitalismo stesso. Impoverimento e de-umanizzazione provocano infatti un brusco calo nei consumi, molla della crescita economica, spingendo le società più fragili verso un sottosviluppo permanente. Secondo l'ex ministro dell'economia greco, è il film Matrix il miglior documentario sulla tendenza attualmente prevalente a cancellare dal lavoro umano tutte quelle caratteristiche che gli impediscono di diventare pienamente flessibile, perfettamente quantificato, infinitamente divisibile. Una linea che si legge nei manuali di management, nelle riviste accademiche di economia e, soprattutto, nei documenti prodotti dall'Unione Europea. Il paradosso tuttavia è che se si arrivasse davvero alla completa mercificazione del lavoro umano, lo si priverebbe al contempo di quella creatività che ne garantisce l'efficacia, generando così una Grande Recessione.
In questo contesto, la sinistra europea ha enormi responsabilità, poiché, rinunciando a una critica radicale e costruttiva al capitalismo, ha permesso ai neoliberisti di usurpare il testimone della libertà e di ottenere un trionfo decisivo in campo culturale e ideologico. Ad esempio, negli ultimi tre decenni di globalizzazione e di finanziarizzazione delle economie, in molti hanno gridato al deficit democratico. Quest'ultimo, in realtà, altro non rappresenta se non il successo del liberalismo nel separare l'economia dalla politica, lasciando la sfera economica al capitale. Una considerazione che dà ragione all'analisi marxiana dell'economia. L'analisi di Varoufakis, dunque, è fortemente ispirata, come lui stesso riconosce, a Marx, cui tuttavia vengono rivolte due critiche fondamentali. Anzitutto, una mancanza di dialettica e di riflessione su come le sue teorie sarebbero state recepite e attuate dai suoi seguaci, che, di fatto, in molti casi le hanno utilizzate per guadagnare potere approfittando della rabbia degli oppressi. In secondo luogo, il filosofo tedesco avrebbe commesso un errore di omissione, che l'ex ministro greco considera particolarmente grave: la convinzione di poter trovare la verità sul capitalismo nei modelli matematici che costituiscono gli schemi di riproduzione. Modelli algebrici teoricamente impeccabili, che tuttavia non tengono conto delle variabili “umane” (quindi imprevedibili) che incidono sui rapporti sociali e di produzione. Una critica simile a quella che il filosofo e scrittore francese Albert Camus rivolgeva a Marx nell'Uomo in rivolta, parlando di chimica delle anime.
Un capitolo a parte viene dedicato alla lezione dell'ex primo ministro britannico Margaret Thatcher per i radicali europei di oggi. Trasferitosi in Inghilterra da studente nel 1978, Varoufakis ha potuto osservare da vicino gli effetti sociali della linea politica della “Lady di ferro”. Inizialmente persuaso che la vittoria della Thatcher avrebbe prodotto lo shock necessario a rinvigorire le politiche progressiste, l'ex ministro greco ha ben presto constatato il ripiegamento della sinistra su se stessa, le profonde divisioni in seno alla classe operaia (tra emarginati e cooptati dal nuovo assetto neoliberista) e la finanziarizzazione estrema, che hanno finito per instillare misantropia nel tessuto sociale. Come la Thatcher si è resa responsabile di disastri economici e sociali, oggi è lo stesso capitalismo europeo che minaccia di smantellare l'Eurozona, l'Unione Europea e persino se stesso. L'uscita di singoli paesi dall'Euro, d'altronde, non provocherebbe altro che recessione nell'Eurozona e stagnazione senza prospettive di risalita per chi ne resta fuori. Un terreno assai fertile per il proliferare di movimenti e forze politiche xenofobi e l'ascesa di gruppi criminali. Ai leader europei Varoufakis rimprovera dunque di aver creato un'unione monetaria priva di strumenti per attutire gli shock, aumentandone dunque l'impatto e la portata delle conseguenze. In tal modo, le misure di austerità imposte dalla trojka non fanno che sprofondare i paesi più deboli in circoli viziosi di involuzione e recessione, difesi agli occhi dell'opinione pubblica attraverso menzogne e omissioni. Un esempio fra tutti, Olli Rehn (responsabile delle questioni economiche e finanziarie nella Commissione Europea), che ha recentemente accusato il Fondo Monetario Internazionale di aver rivelato alcuni errori commessi nei calcoli sui sistemi fiscali dell'Eurozona. Secondo Rehn, infatti, questo avrebbe minato la fiducia dei cittadini europei nelle loro istituzioni.
L'Europa così com'è dunque non funziona, ma uscirne sarebbe gravoso per i singoli. L'unica soluzione è ricostruire l'Unione Europea su basi differenti: politiche, di giustizia sociale, di solidarietà.
Carlotta Caldonazzo
Ma manca ancora un impegno serio e coerente della comunità internazionale per un abbandono definitivo
Test nucleare francese nel deserto algerino
di Carlotta Caldonazzo
A circa sessant'anni dal Manifesto Russell-Einstein, l'accordo sul programma nucleare iraniano tra Tehran e il gruppo 5+1, composto da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania, pone diversi interrogativi. Anzitutto sulle possibili conseguenze geopolitiche, soprattutto se si considerano le reazioni tra sdegno e allarme di Arabia Saudita e Israele, che riportano alla mente la guerra fredda. In secondo luogo, sul fatto che cinque dei sei paesi che si sono seduti al tavolo dei negoziati con l'Iran, esclusa la Germania, possiedono armi nucleari, assieme ad altri quattro. Un elemento tutt'altro che trascurabile, poiché rende paradossale le loro pretese di sentenziare sulla legittimità o meno di qualsiasi programma nucleare. Peraltro, anche se Washington, Pechino, Londra, Parigi e Mosca sono formalmente impegnate a ridurre progressivamente i rispettivi arsenali atomici, il loro impegno reale finora è stato abbastanza trascurabile.
Accordo sul programma nucleare tra Iran e Gruppo 5+1
Le autorità iraniane hanno sempre negato di avere intenzione di procurarsi armi nucleari, ma il loro divieto di accesso ad alcuni siti militari per gli osservatori internazionali ha destato sospetti, in particolare negli Usa e nei loro alleati in Medio Oriente, Arabia Saudita e Israele in testa. Questo accordo si può dunque considerare una vittoria, visto che Tehran ha accettato un monitoraggio da parte della comunità internazionale, ma a livello geopolitico si tratta di uno dei tanti casi della logica dei due pesi e due misure. Si potrebbe infatti obiettare che l'impegno sulla riduzione degli arsenali atomici di cinque dei sei paesi che hanno negoziato l'accordo non è sottoposto ad alcun controllo indipendente. Potrebbe essere quindi motivo di allarme il fatto che, come riporta l'Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI), nove paesi (USA, Cina, Gran Bretagna, Francia, Russia, India, Pakistan, Israele e Corea del Nord) possiedano complessivamente circa 15.850 armi nucleari, di cui 4.300 pronte per l'uso in diverse basi militari e 1.800 mantenute sotto codice di massima allerta. Ad averle ridotte, tra 2014 e 2015, sono stati solo Usa (in misura ridotta) e Russia (in misura più consistente). La Francia, invece, ha mantenuto invariato il suo arsenale, come Pakistan, Israele e Corea del Nord, mentre la Cina lo ha addirittura accresciuto (http://www.sipri.org/media/pressreleases/2015/yb-june-2015). Occorre aggiungere in proposito che le leggi internazionali in materia di armamenti nucleari, non essendo aggiornate, non tengono conto delle armi all'uranio di ultima generazione.
Tra i paesi maggiormente preoccupati dello sviluppo del programma nucleare iraniano, figura l'Arabia Saudita. Eppure questa potente petromonarchia fu tra i maggiori finanziatori del progetto del Pakistan di produrre l'atomica, lanciato nel 1974 dall'allora primo ministro pakistano Zulfikar Ali Bhutto. Al punto che, negli anni '80, un rappresentante di spicco dell'esercito di Islamabad, in visita ufficiale a Riadh, disse al re saudita: “le nostre conquiste sono le vostre”. Nel 1998, inoltre, il primo ministro pakistano Nawaz Sharif, prima di praticare il suo primo test nucleare, si premurò di informare Riyadh, ringraziandola del suo sostegno, soprattutto finanziario. Una cooperazione che ha suscitato nelle diplomazie occidentali il timore che l'Arabia Saudita avesse siglato un accordo segreto con il Pakistan per assicurarsi la fornitura di tecnologie necessarie per fabbricare la bomba atomica, nel caso in cui venisse minacciata la sua sicurezza nazionale. Inquietudini aggravate da quanto riportato dal sito www.globalsecurity.org a proposito di un accordo tra i due paesi su uno scambio di armi nucleari e petrolio (http://www.globalsecurity.org/org/news/2003/031022-pakistan_saudi-arabia.htm).
Quanto a Tel Aviv, secondo il SIPRI è in possesso di circa 80 testate nucleari e, assieme a India, Pakistan e Corea del Nord, è una delle quattro potenze atomiche non riconosciute (dunque non menzionate) nel Trattato di non-proliferazione (NPT). Per Israele la corsa agli armamenti nucleari è iniziata subito dopo la sua fondazione, nel 1948, ed è approdata, alla fine degli anni'50, alla costruzione del primo reattore nucleare a Dimona. Indispensabile in questo è stato il sostegno, ufficialmente segreto, della Francia, paese che ha riconosciuto l'NPT ma non il diritto al risarcimento delle vittime algerine dei suoi esperimenti nucleari. Il primo di questi, del 13 febbraio 1960, avvenne in piena guerra di indipendenza algerina.
Le armi nucleari sono entrate ufficialmente nella strategia militare francese oltre cinquant’anni fa e, alla Corte Internazionale di Giustizia, principale organo giudiziario delle Nazioni Unite, Parigi ha difeso il proprio diritto-dovere di averle per mantenere la pace e la sicurezza nel mondo. A questo “nobile motivo” sono dovuti i 17 esperimenti effettuati tra il 1960 e il 1966, di cui quattro atmosferici a Reggane (nella provincia di Adrar) e 13 sotterranei a In Ecker (Hoggar, 150 km a Nord di Tamanrasset). I primi facevano parte di un’operazione che prendeva il suo nome da un simpatico topo-canguro del deserto, il Gerboa (gerboa blu, bianco, rosso, verde): quattro esplosioni tra il 13 febbraio del 1960 e il 25 aprile dell’anno successivo, con effetti devastanti e ancora percepibili nell'ambiente. Un'invasione che neppure la decolonizzazione ha saputo fermare, se si considera che 11 dei 17 esperimenti sono stati effettuati nei quattro anni successivi al 5 luglio 1962, data della proclamazione dell’indipendenza. Il 18 marzo 1962, infatti, a margine degli accordi di Evian che ponevano fine alla guerra di liberazione, il Fronte di Liberazione Nazionale ha accettato (all’interno di quelli che vengono chiamati annexes secrets) che la Francia utilizzasse per altri cinque anni i siti del Sahara per test nucleari, chimici e balistici.
A Taouirit, distretto fantasma a 36 km dal punto Zero di Hamoudia (40 km a Sud di Reggane), dove il 13 febbraio del 1960 venne fatta esplodere la bomba A, non resta quasi più alcuna forma di vita. Una potenza tre o quattro volte maggiore di quella dell’atomica di Hiroshima, e ripercussioni registrate anche in Mali, Niger, Sudan e Senegal. Un'intera regione condannata al suo paesaggio lunare per i prossimi 24.000 anni. Chi è sopravvissuto e ha potuto rendere testimonianza mette l’accento sull'irreversibilità dell'impatto degli esperimenti sull'ambiente e sui suoi abitanti. Cancro della pelle, leucemia, malformazioni e danni alla vista sono le conseguenze che per prime si sono manifestate su chi si trovava entro un raggio di 150 km da Hamoudia al momento dell'esplosione del 1960, anche perché il materiale contaminato lasciato sul posto dai Francesi è stato inconsapevolmente riutilizzato per costruire abitazioni di fortuna. Senza considerare la scomparsa della fauna locale (volpi del deserto, dromedari e capre) e l'inquinamento irrimediabile della falda freatica.
Soldati francesi assistono a un test nucleare in Algeria
Le terre del Touat e del Tidikelt un tempo erano fertili, caratterizzate da una cospicua produzione di cereali, datteri, lenticchie, ortaggi e da una fauna numerosa e variegata. Un ecosistema irreparabilmente compromesso dai test nucleari, definiti da Mekki Kaloum, sociologo e ricercatore di Adrar, un crimine contro l’umanità e contro la natura. Da qualche anno, attraverso appelli trasmessi tramite i media, Kaloum tenta di censire tutte le persone direttamente colpite, giungendo finora oltre quota 10.000. Le autorità francesi infatti reclutavano con la forza manodopera algerina: il 40% da Adrar, il 24% da Zaouiet Kounta, il 7% da Fenoughil, l’11% da Reggane, percentuali incerte da Tindouf e Béchar, tutti uomini di età compresa tra 12 e 46 anni. Molti di loro hanno solo costruito gli impianti, credendo di partecipare ad un programma di urbanistica coloniale ordinario. Chi invece ha “lavorato” a Hamoudia come cavia umana durante e dopo l’esplosione è stato munito di collari: uno per l’identificazione, uno per la misurazione delle radiazioni. Salmi Mohamed, uno dei testimoni, racconta che c’erano circa quaranta Algerini nelle tende quel giorno. Alle 16 (poche ore dopo l’esplosione) è stato ordinato loro di uscire e di mettersi proni sotto il sole coprendo il viso. Mohamed Belhacen, un altro testimone, racconta che prima dell’esplosione i Francesi avevano chiesto agli abitanti della zona di lasciare le loro case, temendo che crollassero. Prima una luce, aggiunge, come un sole, un quarto d’ora dopo un rumore assordante e alla fine l’onda che si propagava sottoterra come un terremoto. Disegnando i suoi ricordi nella sabbia, rammenta quel fumo nero, giallo, marrone che saliva verso l’alto, sotto gli occhi increduli della popolazione, che non capiva cosa stesse accadendo. Ancora oggi la produzione agricola è ferma, come gli scambi commerciali (un tempo assai remunerativi) tra i contadini locali e i mercanti del Mali. Il dramma è reso ancor più grave dalla carenza di personale medico: a Adrar, capoluogo della wilaya, non c’è un vero ospedale, ma soltanto uno stabilimento pubblico ospedaliero.
Altre testimonianze arrivano invece dagli ex detenuti del triangolo della morte, come Noureddine Belmouhoub e Abdelkader. In M’guel, Reggane, Oued Namous: tre caserme francesi all’interno del perimetro contaminato dalle radiazioni, riciclate come carceri dal governo algerino. Secondo il Comitato per la Difesa dei Detenuti vi sarebbero stati rinchiusi 24.000 presunti membri del FIS. Tra costoro, Noureddine e Abdelkader, detenuti a In M’guel, ai piedi della montagna di In Ecker, dove, a causa della radioattività, hanno perso l'olfatto. Il Massiccio dell’Ahaggar venne scelto come sito per i test nucleari dopo che, in un'esplosione a cielo aperto, a Reggane le cose non andarono come previsto e 195 soldati furono contaminati, dieci dei quali morirono in brevissimo tempo. Il primo esperimento sotterraneo, nelle gallerie scavate appositamente sotto l'Ahaggar, è del 1 maggio 1962, ma qualcosa anche lì andò storto. La galleria cedette insieme a parte del fianco della montagna, lasciando fuoriuscire una nube di gas, polveri e materiali radioattivi (nel 2005, secondo i rilevamenti dell’AIEA, il livello di radioattività nella zona era ancora molto alto). Negli anni '90, i detenuti delle tre caserme dismesse scavavano buche profonde fino a tre metri, raccogliendo i vecchi picchetti di metallo, senza sapere nulla dei pericoli cui sarebbero andati incontro. Anche di questi test, infatti, nessuno era stato informato e nessuna precauzione era stata presa per la popolazione locale. Al contrario, le autorità coloniali esposero direttamente alle radiazioni, ad un km dal punto zero, 150 prigionieri algerini, per la maggior parte combattenti della resistenza.
Dopo la strage di Sousse, centinaia di Algerini hanno promesso di trascorrere le vacanze in Tunisia.
Dopo oltre un decennio di sanguinosi fallimenti della “guerra al terrorismo”, alcune reazioni all'attacco di Sousse, rivendicato dai cartelli del jihad dell'organizzazione del cosiddetto Stato Islamico (nota anche come Daesh o ISIS), mostrano che per conciliare “pace, giustizia e prosperità” l'unica via è probabilmente l'elaborazione di un approccio socio-politico radicalmente diverso. Ad esempio, opponendo alla logica dell'azione-reazione armata il tentativo di costruire una società inclusiva, basata sulla partecipazione anziché sulla competitività e la sopraffazione.In molti in Algeria hanno scelto di trascorrere le proprie vacanze in Tunisia per ragioni economiche, altri perché in fondo si sentono “più sicuri” lì che in patria, oppure per ostentare coraggio di fronte a “energumeni come questi”. Nondimeno, altrettanto numerosa è la schiera di chi ha optato per questa meta per dimostrare la propria solidarietà ai fratelli tunisini. “Quaranta milioni di Algerini invaderanno le spiagge tunisine dopo Ramadan”, è uno degli slogan che si leggono sulle reti sociali. C'è addirittura chi ha cambiato appositamente i propri piani, come una ventitreenne di Guelma, “per essere solidali con i nostri fratelli tunisini” e “perché morire in Algeria o in Tunisia è lo stesso”. Un'affermazione, quest'ultima, che lascia intravvedere quella che forse è l'unica vera strategia contro i cartelli del jihad: la prospettiva della solidarietà internazionale. Peraltro, la stessa logica, mutatis mutandis, si potrebbe applicare anche ai conflitti interni ai singoli paesi, puntando all'eliminazione di qualsiasi forma di emarginazione. Il gesto di migliaia di Algerini non è infatti l'unico segnale della necessità di un contratto sociale che ponga fine all'ottica della sopraffazione e dello sfruttamento in vista del profitto. Ve ne sono stati nel passato, dal motto omnia sunt communia, “tutte le cose sono comuni” di Thomas Müntzer, agli appelli lanciati dal primo presidente del Burkina Faso indipendente, Thomas Sankara, fino ad arrivare alle vicende greche o all'impennata di consensi per il Partito Democratico dei Popoli (HDP) alle ultime elezioni parlamentari turche.
Se il colonialismo propriamente detto comportava la dominazione politica e militare diretta da parte delle potenze mondiali su interi continenti (America Latina, Asia, Africa), nell'era post-coloniale governi, multinazionali e centri di potere affini hanno messo in campo strategie più sottili. Un esempio eloquente è l'edonismo reaganiano, il cui fulcro è la competizione. Diffondere in una società il mito del successo sociale inteso come raggiungimento del proprio esclusivo benessere, anche a detrimento di altri, significa esortare implicitamente gli individui a seppellire qualsiasi forma di senso della collettività. Questo, a sua volta, spiana la via a meccanismi di emarginazione che all'interno delle singole società colpiscono le categorie più fragili (a causa della povertà o di disabilità fisiche) o le minoranze, mentre nei rapporti internazionali impediscono la crescita e l'autosufficienza dei paesi meno potenti. Se il Tesoro è fondamentale, la vita umana non lo è, dice Caligola nell'omonimo dramma di Albert Camus, ovvero, se si erge il profitto a cardine dell'esistenza umana, si finisce per disinteressarsi della dignità intrinseca di quest'ultima. Chi accetta una simile mentalità e decide di attuarla può anche ammantarla di altisonanti vesti religiose o ideologiche, la sostanza non cambia. Il risultato sarà sempre distruttivo, perché la competizione è un po' come l'antitesi dell'utopia. Questa infatti, come sosteneva Eduardo Galeano, è all'orizzonte... Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino dieci passi e l'orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare. La competizione sociale invece, a ogni traguardo, spinge a conseguirne di nuovi, trascinandosi affannosamente di vittoria in vittoria, in una corsa alla reciproca distruzione che si configura al contempo come autodistruzione incosciente.
A differenza di al-Qaeda, nella sua forma originaria, i cartelli del jihad che fanno riferimento all'organizzazione dello Stato Islamico (Daish o Isis), portano alle estreme conseguenze su scala internazionale i risultati dell'ottica del profitto e della competitività. Sotto la veste dell'islam radicale, si cela infatti da un lato una forma di economia di stampo criminale (che si alimenta di traffici e contrabbandi di varia natura), dall'altro la volontà di molti di uscire dal mondo globalizzato all'insegna del profitto e della competizione, a partire proprio dall'abbattimento dei confini. Il metodo scelto, tuttavia, è quella stessa sopraffazione, esasperata da una gestione brutale del potere, sulla quale si basa l'attuale assetto mondiale. Molti individui finiti nella lista dei foreign fighters, prima di arruolarsi in Daish, conducevano esistenze apparentemente soddisfacenti, ma nel profondo alienate. Il fascino esercitato dal “califfato” risiede appunto nel voler opporre un modello sociale alternativo a quello attualmente in vigore, aspetto che caratterizza anche altri movimenti estremisti che, dall'inizio dell'ultima crisi economica, sono in crescita in diversi paesi del mondo (basti citare i movimenti e i partiti di estrema destra). All'interno di un tessuto sociale distrutto, nel quale una cattiva congiuntura economica insinua la paura di perdite materiali, molto spazio è lasciato a chi cavalca il terrore generando altro terrore. Un esempio è costituito proprio dalla propaganda di Daish.
In tale contesto, è legittimo definire fallimentare a priori qualsiasi “guerra al terrorismo” concepita come soluzione manu militari. Bombardare i nemici di turno finora non ha portato che circoli viziosi di catastrofi umanitarie e ulteriore dissesto del tessuto sociale. Dunque, ulteriore terreno fertile per la proliferazione dell'estremismo. Basti pensare che in testa alla lista delle aree di provenienza dei foreign fighters di Daish ci sono i Balcani. Similmente fallimentare d'altra parte è la costruzione di muri, come quello voluto dall'Ungheria al confine con la Serbia per fermare i migranti irregolari o quello che la Tunisia sta costruendo lungo parte della frontiera con la Libia per evitare infiltrazioni terroristiche. Fatti piuttosto paradossali, un quarto di secolo dopo l'esultanza mondiale per la caduta del muro di Berlino. Tuttavia, a margine della geopolitica delle grandi potenze (regionali o internazionali), sopravvive un approccio alle relazioni tra individui e tra stati che mira a unire invece che a dividere. Come quello secondo il quale, come dice la giovane di Guelma, morire in Tunisia o in Algeria è lo stesso: un modo di pensare radicalmente opposto (a differenza di quello dei cartelli del jihad) all'attuale ordine mondiale. Secondo Thomas Sankara, per l'imperialismo è più importante dominarci culturalmente che militarmente. La dominazione culturale è la più flessibile, la più efficace, la meno costosa. Il nostro compito consiste nel decolonizzare la nostra mentalità. Affermazioni che mostrano l'importanza di piccoli gesti compiuti nei rapporti quotidiani tra individui (come le dimostrazioni di solidarietà degli Algerini verso la Tunisia), come di comportamenti adottati nelle relazioni tra stati (si veda l'ultimo incontro tra Papa Francesco I e il presidente boliviano Evo Morales). Costruire una società inclusiva non significa infatti omologare tendenze, usi o tradizioni. Al contrario, una cittadinanza realmente fondata sulla partecipazione implicherebbe il rispetto e la salvaguardia delle peculiarità di ognuno. Abbattere le frontiere che rendono nemici uomini affini (come auspicava il geografo anarchico francese Élisée Reclus) significa infatti valorizzare l'opera dei singoli in vista della comune prosperità.
C’è un giornalista internazionale che i pacifisti e gli attivisti italiani vogliono ringraziare
“Hai chiamato i media per la manifestazione contro l’ingerenza in Siria?” “Ho chiamato Hamid”.
“Quale radio o tivù ha parlato della protesta a Roma contro le bombe saudite in Yemen?” “Irib di Hamid”.
“Chi potrebbe coprire il convegno sulla nuova architettura finanziaria internazionale?” “Penso proprio che Hamid lo farà”.
“Della stampa chi viene all’evento sulla Palestina?” “Hamid, tornato in tempo da un altro servizio”.
“Ieri hanno intervistato un religioso sul che fare davvero contro il ‘califfato’…” “Sì, è stato Hamid”.
Se siete attivi su qualche buona ma scomoda causa, contro le guerre di aggressione, contro le ingiustizie internazionali, per un Medioriente di pace, non aspettatevi grandi coperture mediatiche. Anche quando un giornalista si presenta, poi magari il suo servizio non va in onda.
Ma qualche eccezione c’è. Accanto al fotoreporter italiano Stefano Montesi – grazie anche a lui! – si può contare sul reporter-giornalista Hamid Masoumi Nejad. Corrispondente della radio-televisione pubblica iraniana in Italia, Hamid è il giornalista che copre gli eventi spostandosi da un capo all’altro dell’Italia in un baleno. Veloce, mai nervoso. Professionale, sempre gentile.
Arriva con la sua telecamera Sony, fa le riprese reggendo anche il microfono. Poi va in redazione e, regista di se stesso, confeziona il reportage; per Irib in farsi e italiano; poi tutto finisce su Youtube, anche in altre lingue, per una circolazione internazionale. Hamid, da 16 anni è iscritto alla Free Lance International Press, associazione internazionale di giornalisti free lance che ha sede a Roma.
Particolarmente grata ad Hamid è la nostra Rete No War, che dal 2011 in questi quattro anni di macello nella generale indifferenza le ha provate tutte. Prima contro il criminale e truffaldino intervento aereo della Nato in Libia. Poi contro la sporchissima guerra coperta in Siria. Infine le indecenti disumane bombe saudite sullo Yemen. Senza dimenticare la campagna che la Rete ha avviato, per l’uscita dalla Nato.
Per le nostre manifestazioni, per i flash mob, per i tentativi di pressione politica, Hamid c’è sempre. E anche il suo sorriso. Tashakor!
La questione del referendum è una questione complessa, analizzando i dati e le percentuali attribuite al "si" e al "no" possiamo capire che non si tratta di uno schieramento compatto e ben diviso tra l'elettorato dei vari partiti, ma piuttosto di un voto trasversale che raccoglie in misura diversa le percentuali di coloro che sono a favore e coloro che sono contrari alla firma di un accordo specifico.
Dopo mesi di contrattazione, come sapete, il governo greco si è trovato davanti all'imposizione di dover firmare un accordo tale e quale a quello presentato a Samaras nel precedente governo, con addirittura l'aggiunta di alcuni punti peggiorativi. Questi mesi sono passati tra un
incontro e l'altro, tra una speranza di accordo annunciata e poi smentita. In maniera organizzata, ogni possibile accordo veniva fatto fallire per volere del governo tedesco oppure dal Fondo Monetario Internazionale o comunque da uno dei tre componenti della exTroika.
A niente sono serviti gli enormi passi fatti dal governo greco per arrivare ad una firma.
Tutto questo tempo è stato "perso" in maniera cosciente e studiata in modo da far arrivare il governo greco allo scadere della rata che avrebbe dovuto pagare al Fondo Monetario Internazionale alla fine di giugno. Usando il ricatto del fallimento, la ex Troika ha cercato di mettere con le spalle al muro il governo greco e quindi di costringerlo a firmare un accordo molto svantaggioso per il proprio popolo imponendo l'ultimatum.
Il referendum è stato quindi indetto per porre la questione direttamente a coloro che andranno a subire le conseguenze di questo accordo.
Il fronte del "si" è per l'immediata firma dell'accordo così com'è stato imposto.
Ovviamente, vergognandosi e trovando di cattivo gusto l'autodefinizione "Mnimoniaki" ovvero "ProMemorandum" hanno deciso di mistificare il senso del quesito referendario e si sono definiti il fronte per il "si" all'euro e all'Europa. Perché parlo di mistificazione mediatica? Perché anche molti di coloro che sostengono il "no" sono a favore dell'euro e dell'Europa ed è per stare nell'euro e nell'Europa che da mesi spingono per un accordo applicabile. Anche il fronte del "no" sostiene la necessità di firmare un accordo con la controparte, ma non con i termini molto svantaggiosi di questo accordo specifico.
La propaganda per il "si" è sostenuta da tutti coloro che vedono un guadagno diretto nella firma dell'accordo così com'è, ovvero coloro che rappresentano il capitalismo greco e che vedono di buon occhio la riduzione di stipendi e pensioni, la riduzione delle tasse per i grandi capitali, la cancellazione ulteriore dei diritti dei lavoratori, la svendita e la commercializzazione del patrimonio naturalistico greco, le privatizzazioni dei servizi e dei beni essenziali come sanità, istruzione, acqua ed energia elettrica etc... Questi sono i maggiori interessati affinché il fronte del "si" vinca il referendum.
Poi, siccome questo nucleo che ha un interesse diretto per il "si" è in realtà composto da un piccolo numero di persone, viene fatto il possibile per convincere anche coloro a cui non converrebbe affatto la firma di questo accordo.
E com'è possibile convincere anche queste persone a votare una cosa contro il proprio interesse?
Facile, si crea un clima di terrore, paventando l'uscita dall'euro, dall'Europa, il fallimento e il disastro economico e sociale del paese, la perdita di tutti i propri soldi etc...in caso di vittoria del "no".
In questo sporco lavoro aiutano molto le tv private greche che a ciclo continuo trasmettono servizi che hanno lo scopo di terrorizzare il popolo greco, molte volte riciclando in maniera forviante fotografie ed immagini del passato e magari provenienti da altri paesi. Poi, come se questo non bastasse, c'è il recital delle dichiarazioni di tanti primi ministri che vedono a rischio le politiche di austerity che stanno portando avanti nei propri paesi.
Loro, i politici, sono tra i più accaniti e contrari al referendum. Vedono come cosa pericolosissima il diffondersi della pratica referendaria e temono che questa forma di democrazia diventi una prassi richiesta da altri popoli d'Europa. L'esempio del primo ministro Matteo Renzi è eclatante, ha dichiarato: "Sarà un referendum tra la Dracma e l'Euro" . In questo carosello di dichiarazioni non è solo, ma ben inserito in un fronte che fa di tutto per terrorizzare il popolo greco. In tanti hanno fatto dichiarazioni in cui la vittoria del "no" coincide con l'uscita dall'euro e dall'Europa. Cosa, che non è vera ed è proprio il più accanito nemico del governo greco a dichiaralo pubblicamente, infatti proprio il ministro delle finanze tedesco W.Schäuble ha dichiarato ieri che anche con la vittoria del "no" la Grecia resterà nell'euro e si continuerà a trattare.
Per aiutare il fronte del "si" e contribuire ad incentivare il clima di terrore, da alcuni giorni la Grecia è stata costretta ad un regime di Capital Control. Le banche sono chiuse ed è possibile ritirare dai bancomat solo una cifra di 60 euro il giorno. Come vedremo analizzando le varie percentuali, la chiusura delle banche ha determinato un cambiamento sulle percentuali di voto.
Prima della chiusura delle banche le percentuali erano:
57% a favore del del "NO"
30% a favore del "SI"
13% indecisi
Dopo la chiusura delle banche le percentuali sono variate in questo modo:
46% a favore del "NO"
37% a favore del "SI"
17% indecisi
Nell'insieme della popolazione le percentuali sono così disposte:
51% a favore del "NO"
34% a favore del "SI"
15% indecisi
Alla domanda: "Ti recherai a votare per questo referendum?" Le percentuali dei votanti alte:
86% andrò a votare
8% non andrò a votare
6% non ho deciso
Il risultato finale della ricerca, ottenuto analizzando l'opinione di coloro che si recheranno a votare è :
33% a favore del "SI"
54% a favore del "NO"
13% indecisi
Il fronte del "NO" è tutt'ora in vantaggio.
A sostenere il "NO" a questo accordo imposto sono i partiti di governo (Syriza e Anexartiti Ellines) più il partito di opposizione di estrema destra Chrisi Avghi.
A sostenere il "SI", quindi la firma di questo accordo sono i seguenti partiti di opposizione: Nea Dimokratia, Pasok, Potami. Il KKE partito comunista greco, boicotta il referendum e propone di annullare la scheda.
È interessante analizzare come anche all'interno dell'elettorato di ogni partito il voto sia trasversale e diviso tra "SI" e "NO" in percentuali che variano a seconda del partito.
Partito di governo SYRIZA:
"NO" 77% "
SI" 15% indecisi
8%
Partito di governo Anexartiti Ellines:
"NO" 60% "
SI" 31% indecisi
9%
Partito di opposizione Nea Dimokratia:
"NO" 22% "
SI" 65% indecisi
13%
Partito di opposizione Chrisi Avghi:
"NO" 80% "
SI" 20% indecisi
0%
Partito di opposizione To Potami:
"NO" 21% "
SI" 68% indecisi
11%
Partito di opposizione KKE:
"NO" 57% "
SI" 20% indecisi
23%
Partito di opposizione Pasok:
"NO" 21% "
SI" 65% indecisi
14%
Il referendum ha già ottenuto una vittoria prima ancora di sapere se vincerà il "SI" oppure il "NO".
Ha di fatto mobilitato l'attenzione internazionale sul problema Grecia e in oltre ha spaventato i politici dell'Eurogruppo che hanno chiesto a più riprese che il referendum venga ritirato e che allarmati da questa scelta non prevista del governo greco stanno cercando proprio in queste ore di elaborare una nuova proposta e di arrivare finalmente ad un accordo.
Mancano ancora pochi giorni al voto...staremo a vedere cosa succederà.
I dati relativi ai sondaggi di opinione sono stati presi dal quotidiano "Η Εφημερίδα των Συντακτών" del 7 luglio
Durante la notte è stato approvato il referendum che chiama a decidere il popolo greco sul proprio futuro. La data sarà il 5 luglio 2015. Con 178 voti a favore e 120 contrari il parlamento greco ha confermato la decisione presa poche ore prima dal Consiglio dei Ministri.
Hanno votato a favore i parlamentari dei partiti di governo, Syriza e Anexartiti Ellines. Insieme a loro anche il partito di estrema destra Chrisi Avghi ha sostenuto l'approvazione del referendum.
Contrari, ovviamente Nea Dimokratia e Pasok, che storicamente avrebbero accettato ogni "Memorandum" possibile ed immaginabile proposto dall'Eurogruppo e che mai si sono preoccupati di consultarsi con il proprio popolo per approvare o rifiutare provvedimenti imposti dal governo tedesco (Eurogruppo ndr). Il Potami, il partito neoliberista creato poco prima delle ultime elezioni politiche per ostacolare il Syriza, che ha alla guida un giornalista proveniente dall'area di interesse politico ed economico delle tv private e che viene sostenuto e proposto dall'Eurogruppo come possibile partito di governo al posto del Syriza, ha ovviamente votato contro il referendum. Anche il Potami è d'accordo con l'accettare in maniera incondizionata di ogni imposizione dettata dall'ex-Troika.
Vergognosa anche la posizione del Partito Comunista Greco KKE che ovviamente ha votato contro. Cosa che non mi stupisce per niente. Storicamente ha sempre privilegiato il "ruolo guida del partito" alla libera e personale valutazione del singolo cittadino. Molto probabilmente il 5 luglio sosterrà l'astensionismo. Ingessato nelle proprie posizioni continua a sostenere l'uscita dalla Comunità Europea senza vedere che la questione del referendum è un avvenimento storico e che vada come vada è un importante passo del governo e del popolo greco che potrà esprimersi in prima persona su una cosa così fondamentale per il proprio futuro. Questo referendum non è importante solo per il popolo greco, ma un importante esempio di democrazia per tutti i popoli d'Europa.
Come quasi sempre accade, coloro che sono contrari al far esprimere liberamente gli elettori coincidono con coloro che, ora che si andrà al voto referendario voteranno a favore del "Memorandum". Il primo obiettivo che hanno individuato davanti a loro è stato quello di impedire che il popolo prenda parte in prima persona a queste scelte importantissime che lo riguardano. Evidentemente, come abbiamo visto fino ad alcuni mesi fa, per molti partiti salire al governo non significa rappresentare la volontà espressa dalla maggioranza del proprio popolo, ma al contrario significa privilegiare gli interessi di una piccola casta che in questo caso vede i propri interessi coincidere con quelli contenuti nell'attuale proposta dell'Eurogruppo e nel "Memorandum" imposto dall'allora Troika.
Un altro avvenimento che ritengo importante commentare è il voto a favore del referendum espresso dal partito di estrema destra Chrisi Avghi. Fino ad ora, durante questi mesi di governo di sinistra e di estenuante trattativa il pericolo più grande sono state le possibili energie destabilizzanti che l'estrema destra incoraggiata dalla destra più moderata avrebbero potuto mettere in atto. Il rischio di un improvviso "caos" generato a tavolino per distruggere l'unità interna al paese è sempre stato presente e a tratti evidente. Il fatto che ieri anche i parlamentari di Chrisi Avghi si siano espressi a favore del referendum ricompatta, per quanto possibile, un unità nazionale che in questo momento è molto importante.
Intanto, la notizia del referendum ha spinto molte persone ha ritirare dai propri conti bancari più soldi possibili. Davanti ai bancomat si possono vedere file di cittadini più o meno lunghe. La paura di perderli è tangibile. Il ricordo del trattamento fatto a Cipro è un ricordo sempre molto fresco. Questo, che spesso viene presentato dai mass media come atto di sfiducia dei cittadini verso il proprio governo, è da interpretare invece come atto di paura verso un sistema bancario che evidentemente da tempo non è più sotto totale controllo greco. La gente non si fida di ciò che la Banca Centrale Europea può fare per ricattare e mettere il popolo greco in difficoltà in questo momento cruciale in cui viene chiamato a decidere.
Iraq, Iran, Siria, Turchia: l'unione contro i cartelli del jihad non appiana le divergenze tra i vari gruppi
Nonostante il successo elettorale in Turchia del Partito Democratico del Popolo (HDP - Halkların Demokratik Partisi), nato su temi come la giustizia sociale e i diritti delle minoranze, in particolare quella curda, permane la situazione di stallo nel processo di pace tra Ankara e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK - Partîya Karkerén Kurdîstan). Situazione complicata dal monito del Gruppo delle Comunità in Kurdistan (KCK - Koma Civakên Kurdistan), secondo cui l'HDP non può imporre il disarmo del PKK, né la guida di quest'ultimo Abdullah Öcalan, dal carcere di İmralı, è in condizioni di impartire ordini. Insomma, tutto dipenderà dai risultati concreti della trattativa con il governo turco, finora condotta non da esponenti del partito maggioritario Giustizia e Sviluppo (AKP - Adalet ve Kalkınma Partisi), ma da ufficiali dell'intelligence. Si complica dunque la posizione dell'HDP e del suo esponente di spicco Selahattin Demirtaş, che, a due giorni dalla conquista di 30 seggi nel parlamento turco, aveva indicato proprio in Öcalan la figura in grado di garantire la fine del conflitto. Demirtaş aveva perciò condannato l'isolamento cui l'AKP ha condannato la guida del PKK e si era detto disponibile a partire per İmralı con una delegazione del suo partito per imprimere ai negoziati una svolta costruttiva. Peraltro la questione del Kurdistan turco è di fondamentale importanza regionale, poiché la sua mancata soluzione impedisce di trarre dai successi contro i cartelli del jihad dello Stato Islamico (ISIS) in Siria e Iraq il peso politico necessario per avanzare rivendicazioni territoriali unitarie. Infatti, malgrado abbiano avuto la prova di quanto l'unione sia determinante, le comunità curde disseminate tra Iraq, Iran, Siria e Turchia sono ben lungi dal trovare un terreno comune.
A fine maggio, si è riaccesa persino l'ostilità tra PKK e Partito Democratico del Kurdistan Iraniano (PDKI - Partî Dêmokiratî Kurdistanî Êran), formazione vicina al Partito Democratico del Kurdistan (PDK - Partîya Demokrata Kurdistanê) di Massoud Barzani, presidente della Regione del Kurdistan Iracheno (KRG). Fondato nel 1945 e di posizioni laiche, federaliste e socialdemocratiche, già nel 2004 il PDKI aveva protestato contro la creazione del Partito della Libera Vita del Kurdistan (PJAK - Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê), ritenuto estremista e legato al PKK. Quest'ultimo, dal canto suo, ha sempre accusato il PDKI di vendere i diritti dei curdi iraniani in cambio del sostegno finanziario delle autorità del Kurdistan iracheno. Il 24 maggio di quest'anno il conflitto è esploso nuovamente a seguito del dispiegamento di truppe da parte del PDKI al confine tra Iran e Turchia. Una mossa percepita dal PKK come un tentativo da parte di Ankara e del PDK di vanificare le vittorie militari curde in Siria e Iraq e il successo elettorale dell'HDP. Viceversa, il PDKI accusa da sempre il PKK di assecondare Tehran pur di colpire le fazioni che non si allineano con le sue posizioni. Uno schema simile a quello della guerra di metà anni '90 in Iraq tra il PDK e il Partito di Unione Patriottica del Kurdistan (PUK - Yekêtiy Niştîmaniy Kurdistan) dell'ex presidente iracheno Jalal Talabani. Rispetto ad allora, tuttavia, l'attuale guida del PDK Massoud Barzani ha assunto posizioni concilianti invitando tutte le formazioni curde a non risvegliare lo spettro della guerra civile.
Eppure a rendere quasi probabile l'instaurazione, se non di uno stato curdo, almeno di un'alleanza sovranazionale, era stata nel settembre 2014 la creazione di Burkan al-Firat, il vulcano dell'Eufrate, piattaforma militare costituita dall'Esercito Siriano Libero (FSA) e le Unità di Protezione Popolare (YPG - Yekîneyên Parastina Gel) per cacciare l'ISIS dal governatorato siriano di Raqqa. Per la prima volta dunque una formazione sostenuta apertamente da potenze occidentali e regionali (fino a Settembre 2012 il FSA aveva il suo quartier generale nella provincia turca di Hatay) si univa ad una forza vicina al PKK, considerato organizzazione terroristica da molti paesi tra i quali Turchia, Siria, Iran, Unione Europea e Stati Uniti. Similmente, ad agosto 2014, aveva lasciato ben sperare l'alleanza nella guerra contro i cartelli del jihad tra i peshmerga, esercito regolare della regione autonoma del Kurdistan iracheno, e le YPG. Sembrava infatti che si potesse superare definitivamente l'antinomia tra PKK e Partito di Unione Democratica (PYD - Partiya Yekîtiya Demokrat, che nel 2012 aveva fondato le YPG) da un lato e PDK e PDKI dall'altro.
Vi sono inoltre formazioni curde di matrice islamica, come quella chiamata Hezbollah Curdo (HK -Hizbullahî Kurdî). Fondata nel 1978 in Turchia da Hüseyin Velioğlu (ucciso nel 2000 in uno scontro a fuoco con la polizia turca), negli anni '80 divenne un partito di massa nei principali centri urbani della provincia di Diyarbakır, arrivando nel decennio successivo allo scontro armato con il PKK, di ideologia marxista e fino ad allora forte soprattutto nelle zone rurali. Parallelamente, HK organizzò una serie di attentati contro le forze di polizia turche e contro i giornali che diffondevano informazioni sulla sua organizzazione, come Özgür Gündem e 2000'e Doğru. Quest'ultimo, in particolare, nel 1992 riferì le testimonianze di simpatizzanti di HK, che accusavano vari esponenti del partito di essersi “formati” nel quartier generale dei reparti antisommossa della polizia turca di Diyarbakır, ma l'autore dell'articolo venne ucciso due giorni dopo da ignoti. A seguito dell'annuncio della fine della lotta armata nel 2002, parte di HK confluì nell'associazione Solidarietà con gli Oppressi (Mustazaflar ile Dayanışma Derneği, abbreviato in Mustazaf Der), accusata nel 2010 da un tribunale di Diyarbakır di attività terroristiche. Due anni dopo, il movimento fondò il Partito Pace e Democrazia, poi denominato Partito della Causa Libera (Hür Dava Partisi, abbreviato in Hüda-Par), il cui nome è tornato sulle testate turche all'inizio di giugno per l'uccisione di Aytac Baran, presidente di una fondazione islamica ad esso legata a Diyarbakır. Il suo successore ha subito puntato il dito contro il PKK, riferendo che Baran ultimamente aveva ricevuto minacce dai suoi sostenitori. Le ragioni dell'omicidio, cui sono seguiti scontri armati costati la vita ad altre tre persone, restano tuttavia ignote, nonostante l'arresto di 18 sospetti da parte della polizia turca. Altra benzina sul fuoco delle tensioni che nei giorni precedenti alle elezioni parlamentari del 7 giugno hanno infiammato la provincia di Diyarbakır, con oltre 100 aggressioni ai danni di sedi e manifestazioni l'HDP. Fino alle due esplosioni che, durante il comizio del 5 giugno nella città di Diyarbakır, capoluogo dell'omonima provincia, hanno ucciso tre persone, seminando il panico tra la folla. Episodio del quale Demirtaş ha accusato direttamente formazioni affiliate all'ISIS.