L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
Carlotta Caldonazzo
This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
15 novembre 2015, Parigi: Bataclan, il concerto della Rockband del momento; 22 marzo 2016, Bruxelles: sala partenze dell’aeroporto ...; 1 luglio 2016, Dacca: cena di chiusura della stagione lavorativa; 14 luglio 2016, Nizza: festeggiamenti in onore della giornata di festa nazionale sul lungomare affollato di vacanzieri; 26 luglio 2016, Rouen: una chiesa violata, un anziano parroco sgozzato....
Azioni terroristiche ....attacchi senza un reale filo conduttore...
Eppure sono “Brandelli di vita quotidiana portati via alla normalità per diventare momenti di paura e di morte...”
Ecco cosa sono gli attacchi terroristici, nulla più di questo...e la religione è solo un pretesto; l’ideologia o la provenienza geografica sono solo illusioni e l’unico risultato è l’ODIO.
Siamo caduti nella trappola della paura e i gruppi che si organizzano per ripulire paesi e città dai cittadini stranieri, musulmani e non musulmani... (in fondo non importa: l’importante è che chiunque è diverso da me, sia cacciato via!!) non sono altro che la negazione della Civiltà, della Democrazia e della Libertà di ogni uomo a sperare in un futuro dignitoso.
Abbiamo passato secoli ad erigere confini tra i popoli, a difendere territori e beni, ad alimentare l’intolleranza e il disprezzo e abbiamo dimenticato che non esistono razze superiori o religioni giuste...esiste, come sosteneva Einstein già nel 1933, soltanto la Razza Umana.
Quando arrivò negli Stati Uniti, anche al grande scienziato Albert Einstein gli impiegati dell'ufficio immigrazione chiesero di indicare su un modulo a quale razza appartenesse. E Einstein spiazzò tutti scrivendo: «umana». Allora sembrò una provocazione: era il 1933 e lo scienziato, fuggiva dalla sua Germania proprio perché erano iniziate le persecuzioni contro gli ebrei come lui.
Eppure aveva perfettamente ragione: gli uomini non hanno razze. O, meglio, la razza umana è una sola, con infinite variazioni al suo interno. Anche quando esprimiamo nobili e sacrosanti propositi, come nelle solenni dichiarazioni «Rifiuto ogni discriminazione per religione, genere, razza...», in realtà stiamo commettendo un errore.
Per fortuna, la scienza si è resa conto che dividere gli uomini in razze è semplicemente un errore. Quello che si può fare è individuare "popoli" o "etnie", cioè gruppi identificati da un insieme di caratteristiche che, nel loro complesso, li rendono unici. Ma non (o almeno non solo) caratteristiche fisiche, come il colore della pelle o dei capelli: decisivo, per identificare un popolo, è riconoscere una cultura comune. Come c'insegnavano gli antichi.
Ma purtroppo non basta cancellare la parola “razza” per cancellare l'atteggiamento di chi insulta le persone che ritiene "diverse" da sé.
E allora dobbiamo essere concreti e interrogarci sugli errori fatti fino ad ora, su come abbiamo gestito i flussi di uomini che, nel corso degli ultimi decenni hanno preferito affrontare i pericoli dei deserti, le insidie del mare, la cattiveria degli sfruttatori e degli aguzzini, per cercare, oltre i confini della propria Patria, una vita dignitosa, lontana dalle guerre, dalla fame e dall’assoluta assenza di libertà.
Quante delle nostre politiche migratorie sono basate sullo studio della Geopolitica, sulla conoscenza delle motivazioni profonde che portano interi popoli a cercare “vita” in terre lontane?
Credo che il massiccio fenomeno migratorio che stiamo vedendo sotto i nostri occhi, meriti una analisi più attenta, più accurata e soprattutto intesa a cercare soluzioni.
Quello che avviene nelle nostre città ha bisogno di una gestione esperta, che tenga conto dei pericoli che sono nascosti nei cittadini immigrati di seconda generazione, che frequentano le scuole dei nostri figli, che occupano posti di lavoro al fianco dei coetanei “nativi” e non certo per trovare ragioni di opposizione, ma piuttosto per cercare punti di incontro, reali scambi culturali e condivisioni.
In fondo esiste una precisa e puntuale normativa che spinge in questa direzione e sono sempre più convinta che la civile convivenza non possa non passare attraverso la reale conoscenza della legislazione, della cultura e delle abitudini del Paese che ci ospita. L’abbiamo visto nei nostri padri, che nel dopoguerra hanno lasciato campagne e abitazioni, per aspirare ad una vita migliore per se e per i propri figli...nulla di strano, dunque, nelle motivazioni di base che portano giovani disperati e numerose famiglie a tendere alla vita (migliore) in un Paese lontano dal proprio!
Ma non possiamo cavalcare la PAURA...questa distruggerà ogni buon proposito e alla fine distruggerà tutti noi!
Il primo segnale concreto, Domenica 31 luglio: una giornata memorabile!
23 mila musulmani sul territorio italiano hanno risposto all’appello del Prof. Foad Aodi, Presidente del Co-mai e del Movimento Uniti per Unire e Focal Point per l’Integrazione in Italia per l’Alleanza delle Civiltà (UNAOC) ed hanno portato il loro saluto a tutte le Chiese di Italia. Il messaggio del Presidente Aodi “Solo con l’unione possiamo far desistere gli assassini delle religioni dalla loro opera di massacro. Siamo stanchi di violenza che non ha Dio e siamo stanchi delle strumentalizzazioni del mondo arabo e musulmano ...”
... ancora il Presidente Aodi rinnova l’invito a tutte le comunità musulmane ad andare “oltre le divisioni di cultura di provenienza, di ideologia politica e di religione per sconfiggere il male comune”.
Questa è l’unica strada possibile!
Nella storia della Repubblica turca, il ruolo dell'esercito è da sempre quello di garante dei princìpi di laicità e ordine pubblico cui si ispirava Mustafa Kemal Atatürk; gli ultimi due colpi di stato militari riusciti, nel 1980 e nel 1997, molto diversi tra loro, sono stati realizzati in momenti di grave instabilità politica: i conflitti armati tra formazioni di destra e di sinistra nel primo caso, una “rischiosa” islamizzazione della società nel secondo
La schiacciante vittoria dell'AKP alle elezioni parlamentari del 2002 ha innescato in Turchia sviluppi politici simili a quelli degli anni '80 e '90, connessi con due colpi di stato militari che, sia pure con modalità diverse, avevano come obiettivi primari la liquidazione delle forze della sinistra e l'imposizione di ordine e stabilità. Quello del 1980, guidato dal generale Evren, aveva favorito l'ascesa di Turgut Özal, un “tecnocrate” incaricato di pianificare imponenti riforme di stampo liberista. Evren, a differenza degli ufficiali che avevano realizzato i colpi di stato del 1960 e del 1971, rigorosamente laici, utilizzava le confraternite religiose, profondamente radicate a livello sociale, senza che queste arrivassero a diventare soggetti politici. Ma dopo la vittoria elettorale del 1983, il partito della Madrepatria (ANAP) fondato da Özal mise in atto la sua vera linea politica: una sintesi di eredità islamica e ottomana, entrambe respinte dalle forze politiche che avevano fondato la moderna repubblica turca, militari e kemalisti (questi ultimi rappresentati dal Partito repubblicano del popolo – CHP).Özal infatti si serviva delle confraternite religiose, allora messe al bando, per assicurarsi un capillare controllo della società, ma a differenza di Evren, permise ad esse di emergere sulla scena politica. A ciò aggiungeva una politica estera pragmatica, filo-statunitense e filo-europea, esemplificata dall'adesione alla prima guerra del Golfo. Unica “concessione” ai nazionalisti laici fu l'istituzione in ogni villaggio di corpi paramilitari per combattere il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).
In tale contesto, si inserì appunto Necmettin Erbakan, che nel 1983 fondò il Partito della prosperità (RP), primo partito islamico turco, con una struttura simile alle confraternite religiose. A differenza di Özal, Erbakan introdusse nella sua retorica politica le aspirazioni dei nostalgici della grandezza ottomana, anti-occidentali e scontenti del liberismo degli anni precedenti: “sviluppo spirituale”, giustizia sociale, lotta alla corruzione, contrasto a “capitalismo, imperialismo e sionismo”. Nella sua ottica, la religione sarebbe stata un efficace collante sociale, utile anche nella soluzione della “questione curda” (molti curdi sunniti vengono cooptati in questo modo). Un ruolo essenziale era giocato inoltre dai legami internazionali dell'RP con le comunità turche all'estero e con i musulmani balcanici e caucasici. Dopo un decennio di marginalizzazione, l'RP ottenne grandi successi all'inizio degli anni '90, talvolta servendosi di alleanze tattiche con l'MHP. Divenuto primo ministro, Erbakan fu però costretto alle dimissioni da un nuovo golpe dei militari, che nel 1997 intimarono al governo di imporre controlli e restrizioni alle formazioni religiose, nel rispetto della laicità sancita dalla costituzione. Erbakan si dimise, il suo partito venne sciolto e dalle sue ceneri, nel 2001, nacque appunto l'AKP.
Memori dell'esperienza di Erbakan, i quadri dell'AKP, in particolare Abdullah Gül e l'allora sindaco di Ankara Erdoğan, hanno tentato una strategia più pragmatica, assegnando il ruolo che in passato era delle confraternite religiose al movimento del predicatore islamico Fethullah Gülen, in esilio volontario negli USA dal 1999, che coniuga da sempre un islam moderato (è stato il primo leader islamico a condannare gli attentati dell'11 settembre 2001) e orientato al sociale, con una politica estera filo-occidentale e filo-europea. Il suo movimento, Hizmet, ha milioni di seguaci in Turchia, soprattutto nella polizia (meno nell'esercito, elemento che ha destato perplessità su un suo possibile coinvolgimento nel tentativo di colpo di stato di quest'anno), nella magistratura, nei media e nell'istruzione, apparati chiave per il controllo di una società. Quindi, se da un lato Erdoğan sperava di volgere a suo favore l'influenza da lui esercitata a distanza, dall'altro ha sempre covato una profonda diffidenza. Dopo una prima rottura nel 2010 (in occasione della spedizione della Freedom Flotilla), la loro fragile alleanza si è infranta nel 2013, quando Gülen condannò la brutale repressione delle proteste di Gezi Park. Emblematico di questo sviluppo è l'imponente inchiesta della magistratura sulla presunta organizzazione eversiva Ergenekon: nel 2013 erano state condannate più di 250 persone, tra cui diversi alti ufficiali dell'esercito (le forze armate, per Erdoğan come in passato per altri leader islamici, sono un settore da controllare, anche servendosi di un alleato “infido” come Gülen), ma la sentenza è stata annullata lo scorso aprile dalla Corte Suprema turca, che ha definito il processo una montatura di settori della magistratura vicini a Gülen. Sempre nel 2013, decine di personaggi legati al governo dell'allora primo ministro Erdoğan sono finiti sotto processo per corruzione, altro episodio che Ankara ha definito un tentativo di golpe da parte dei gülenisti.
Tanto la dinamica del tentativo fallito di golpe da parte di alcune frange dell'esercito turco, quanto il botta e risposta tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il suo ex alleato, ora avversario politico, Fethullah Gülen sono solo alcuni dei sintomi delle lacerazioni che dilaniano la società turca e del difficile equilibrio tra il passato ottomano e l'eredità del padre della patria Mustafa Kemal Atatürk
In alcune delle immagini che mostrano la reazione popolare al colpo di stato del 16 luglio (http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/16/foto/golpe_fallito_in_turchia_la_festa_dei_sostenitori_di_erdogan-144215450/1/?ref=nrct-4#1), si vedono manifestanti esibire il gesto tipico dei “lupi grigi”, formazione laica di estrema destra nota in Italia per la vicenda di Ali Ağca e che ha come referente politico il Partito del movimento nazionalista (MHP). Lo stesso la cui fondazione, nel 1969, ha polarizzato i contrasti politici, sfociati negli anni '70 in conflitti armati e culminati con il colpo di stato del generale Kenan Evren. Un tentativo di riportare “ordine e stabilità” soffocando le forze di sinistra con l'appoggio delle confraternite religiose allora al bando. Lo scioglimento da parte di Evren di tutti i partiti ha finito per favorire, di fatto, la nascita di una forma tipicamente turca di islam politico, alternativa ai Fratelli musulmani nel mondo arabo e alla rivoluzione islamica iraniana e rappresentato oggi dal partito Giustizia e sviluppo (AKP) di Erdoğan. Tuttavia, all'interno dell'MHP, con cui Erdoğan ha rapporti politici opportunistici, è in atto una scissione: la guida storica di Devlet Bahçeli viene messa in discussione dall'ascesa di Meral Akşener, la cui corrente imputa a lui la sconfitta elettorale del giugno 2015 e la perdita di consensi in favore dell'AKP.
La Akşener, che si è distinta negli ultimi decenni per affermazioni imbarazzanti sulla “razza armena” e sulla necessità di liquidare la questione curda manu militari, punta a rendere l'MHP un interlocutore forte, indispensabile per l'AKP, e forse una possibile alternativa ad esso. La scorsa settimana, durante le celebrazioni della festa di fine Ramadan, il contrasto tra le due correnti è sfociato in tafferugli. Divisioni che alimentano un'instabilità mal celata dalle dimostrazioni di forza del governo, che continua a ignorare la frammentazione politica in atto negli ultimi anni. A partire dai risultati delle elezioni parlamentari del giugno 2015, che hanno segnato l'ascesa del Partito democratico dei popoli (HDP), filo-curdo e più volte accusato dal governo di essere il volto politico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Questo partito da un lato dà voce al malcontento popolare nei confronti della linea repressiva e accentratrice di Erdoğan, dall'altro raccoglie i consensi di quanti vorrebbero una politica più attenta al vero sviluppo economico, alla giustizia sociale, alla parità di genere e ai diritti fondamentali dell'individuo. Molti dei suoi elettori sono gli stessi che nel 2013 hanno organizzato le proteste di Gezi Park, brutalmente represse dal governo, e che lo scorso anno sono scesi in piazza in minigonna per manifestare contro lo stupro e l'assassinio di Özgecan Aslan. Di fronte a simili istanze, l'annullamento delle elezioni (le parlamentari di giugno 2015 sono state nuovamente indette a novembre, dopo il fallimento delle trattative per la formazione di un governo di coalizione) e le continue accuse di “terrorismo”non possono essere una soluzione valida, come non lo sono le alleanze posticce con l'ultradestra nazionalista.
D'altro canto, l'isolamento politico di Erdoğan ha coinciso con una rischiosa deriva islamico-radicale e autoritaria: lo scorso anno il presidente turco (che, occorre notare, agisce come se già fosse stato instaurato il sistema presidenziale) ha interrotto il processo di pace con il PKK e ha imposto nuove elezioni parlamentari dopo la sconfitta di giugno. Non pago della vittoria elettorale del novembre 2015, ha messo a tacere non solo media e giornalisti non allineati, ma anche la dialettica interna alimentata dall'ex primo ministro Ahmet Davutoğlu, uscito di scena lo scorso maggio. A differenza di quest'ultimo, il presidente sostiene infatti una linea accentratrice e basata su un consenso plebiscitario, come dimostra il giro di vite sulle libertà di stampa e di espressione e gli anacronistici tentativi di riforma della “morale pubblica”. In questa chiave, le opposizioni hanno letto la sua proposta di concedere la cittadinanza turca ai profughi siriani, contro la quale si sono schierate in modo compatto. Simili sviluppi, uniti all'instabilità economica e allo stato di emergenza permanente nel Sud-est del paese (bombardato quotidianamente dall'artiglieria di Ankara), in un momento in cui la Turchia è chiamata ad avere un ruolo chiave nelle vicende mediorientali, somigliano fin troppo ai contesti dei precedenti colpi di stato.
Nonostante i violenti scontri che si sono verificati nei giorni scorsi nella capitale Juba, il Sudan del Sud festeggia il suo quinto anniversario dall'indipendenza; cinque anni che il più giovane stato del mondo ha trascorso tra conflitti pressoché continui, interni e con il vicino Sudan
Alla vigilia del quinto anniversario dell'indipendenza del Sudan del Sud, l'esercito governativo fedele al presidente Salva Kiir e le truppe che fanno capo al vicepresidente Riek Machar si sono scontrati nella capitale Juba e nelle zone limitrofe. Assaltate a colpi di arma da fuoco e di artiglieria anche le basi della missione delle Nazioni Unite, la MINUSS, a Juba e Malakal. Secondo le stime ufficiali, i morti sono almeno trecento, tra i quali due caschi blu cinesi, e gli sfollati oltre 42mila, molti rifugiati nei campi allestiti all'interno delle basi ONU. È fallito dunque l'accordo siglato ad aprile, che aveva consentito a Machar di tornare a Juba e reinsediarsi a tutti gli effetti nella sua carica di vicepresidente, dopo tre anni di esilio forzato, con l'obiettivo di creare un esecutivo di unità nazionale che ponesse fine ai conflitti tra i due principali gruppi etnici del paese, i Dinka (cui appartiene Kiir) e i Nuer (cui appartiene Machar e che sono meno ostili al governo di Khartoum). Una guerra civile su base etnica e tribale, strumentalizzata dalle due parti in lotta per il potere al vertice del governo e del Movimento di liberazione del popolo sudanese (SPLM, partito di governo). La posta in gioco è il controllo di un paese ricco di petrolio e di terre rese fertili dai corsi d'acqua del sistema del Nilo.
Le tensioni tra Kiir e Machar erano emerse poco dopo l'indipendenza, esplodendo poi nel 2013, quando il vicepresidente mise in dubbio il suo sostegno alla guida di Kiir del partito e del governo alle elezioni presidenziali previste nel 2015 (poi rinviate). Kiir aveva dapprima ridotto i poteri del vicepresidente, poi aveva sospeso dal loro incarico Machar, accusato di preparare un golpe, e tutti i ministri del governo (tra i quali Pagan Amum, uno dei principali negoziatori dell'indipendenza, rimosso contestualmente dal suo incarico di segretario generale del SPLM). Anche allora la lotta per il potere era sfociata in violenti scontri tra Dinka e Nuer, durati dal 2013 al 2015, mentre la situazione era resa ancor più grave dalle dispute territoriali con Khartoum, dalle cui raffinerie Juba dipende ancora. Pur essendo un territorio ricco di petrolio, in Sudan del Sud non ci sono raffinerie, quindi l'oro nero deve essere inviato in Sudan prima di essere commercializzato (anche per questo motivo gli accordi di pace del 2005 prevedevano una spartizione equa dei proventi del petrolio). Inoltre, le casse sud-sudanesi sono state prosciugate dalla decisione di Kiir di pagare l'intervento delle truppe ugandesi in suo sostegno durante la guerra civile del 2013-2015. L'accordo di agosto del 2015, che a quella guerra avrebbe dovuto porre fine, ha portato intanto alla formazione di un governo di transizione, restituendo la carica di vicepresidente a Machar, anche se il suo effettivo ritorno a Juba è avvenuto solo ad aprile di quest'anno. Il trattato prevedeva inoltre che nella capitale venissero schierati sia l'esercito governativo che le truppe fedeli a Machar (ex ufficiali e soldati governativi), una clausola che anziché favorire la distensione ha imposto una convivenza forzata e problematica, in presenza di gravi fattori di rischio, come lo squilibrio numerico e di equipaggiamento tra i “due eserciti”.
Il ruolo dell'interposizione, in realtà, spetterebbe alla MINUSS, la missione ONU istituita lo stesso giorno della proclamazione dell'indipendenza del Sudan del Sud appunto per sostenere il governo di Juba “nel consolidamento della pace” e “nella prevenzione dei conflitti”. Con un organico iniziale di 7mila caschi blu, nel dicembre 2013 la risoluzione 2132 del Consiglio di Sicurezza ha deciso di inviarne altri 5.500, ma la missione finora non ha ottenuto successi di rilievo. Persino i campi allestiti per i rifugiati sono stati spesso oggetto di attacchi da parte delle fazioni armate, senza che il personale fosse in grado né di reagire, né di imporre sanzioni (gli estremi ci sarebbero, visto che si tratta di campi che ospitano civili). A gennaio di quest'anno, una squadra di osservatori ONU coordinata da Payton Knopf aveva espresso timori per il deterioramento della situazione, in particolare per i 2.3 milioni di profughi e i 3.9 milioni di persone a rischio di carenza di generi alimentari. Per questo, aveva invitato il Consiglio di Sicurezza ONU a votare per un embargo sulla vendita di armi a Juba, decisione finora ostacolata dal veto della Russia. L'accordo di pace del 2015, spiegava Knopf, è stato ripetutamente violato da entrambe le parti, rendendo il conflitto in Sudan del Sud paragonabile a quelli in Siria, Iraq e Yemen. Un blocco delle vendite di armi contribuirebbe dunque a ridurre la diffusione e l'intensità degli scontri, ma rischierebbe di essere inefficace se applicato al solo Sudan del Sud e non ai paesi vicini. Ad esempio, l'Uganda, che importa elicotteri da combattimento dall'Ucraina, ne ha a sua volta esportata una buona parte a Juba durante la guerra civile del 2013-2015.
Dopo gli ultimi scontri, l'11 luglio scorso il segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon ha chiesto nuovamente al Consiglio di Sicurezza di imporre un embargo sulla vendita di armi a Juba. Ma, come conferma un rapporto pubblicato dalla Human Security Baseline Assessment (HSBA, che segue da vicino lo sviluppo dei conflitti in Sudan e Sudan del Sud), decretare un embargo non basta se non si può garantire che venga rispettato, una situazione già vista nella regione del Darfur, nel vicino Sudan. In questo caso, si legge nel documento, gli stessi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU non erano concordi sulla sua “legittimità e utilità”. Inoltre, all'eventualità di un embargo sulla vendita di armi a Juba gli Stati Uniti si sono opposti fino al 2015, motivando la loro contrarietà con la “preoccupazione” delle capacità di autodifesa del giovane stato africano. Per Washington, tuttavia, la minaccia dell'embargo si sarebbe potuta utilizzare per spingere le parti in conflitto alla trattativa. Cina e Russia, dal canto loro, potrebbero porre il loro veto, anche perché, secondo un rapporto diffuso dall'International Peace Research Institute (IPRI) di Stoccolma, sono tra i principali esportatori di armi in Sudan del Sud. In particolare, nel 2011 il primato spettava alla Russia, nel 2013 al Canada e nel 2014 alla Cina, che ultimamente ha “manifestato perplessità” sulla vendita di armi a Juba. Così, secondo l'IPRI, lo scorso anno il Sudan del Sud ha aumentato vertiginosamente l'acquisto di armi da “paesi sconosciuti”, ovvero da paesi che non dichiarano le loro attività di compravendita delle armi.
Questo giovane stato, che ha festeggiato lo scorso 9 luglio il suo quinto anniversario dall'indipendenza, ha trascorso la maggior parte della sua esistenza tra conflitti e contraddizioni: a partire dal fatto che il governo, pur guidando uno dei paesi più poveri al mondo e con un tasso di alfabetizzazione del 27%, nel 2014 ha acquistato da una compagnia privata ucraina una fornitura di elicotteri da combattimento MI-24 per 43 milioni di dollari. Un paese “balcanizzato”, dunque, che ha percorso lo stesso cammino che accomuna da un lato i paesi ex coloniali africani e mediorientali (i cui confini furono disegnati dalle potenze coloniali, il cui obiettivo era lo sfruttamento delle risorse, non la creazione di entità politiche equilibrate), dall'altro paesi come quelli balcanici, un tempo uniti dal comune riferimento della sfera di influenza politico-economica dell'Unione Sovietica. Un cammino segnato da profondi contrasti ideologici, confessionali, etnici o tribali, alimentati o istigati da gruppi di potere interni, a loro volta variamente sostenuti da potenze esterne. Una spirale etichettata come “balcanizzazione”, solo perché quella negli stati che componevano l'ex Repubblica federale jugoslava è la prima guerra sul continente europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Persino i nomi sono frutto di un assetto politico internazionale che continua ciecamente a rispondere agli interessi delle potenze mondiali. O meglio, delle oligarchie che li guidano.
Le affermazioni del pentito Nuredin Atta Wehabrebi a proposito della rete di trafficanti di uomini e organi umani sono l'ennesimo sintomo delle difficoltà nella gestione dei fenomeni migratori causati dai conflitti e, in generale, del disagio sociale
L'inchiesta che ha portato al fermo di 38 persone in diverse città italiane è partita dalle dichiarazioni di un pentito. Si tratta di Nuredin Atta Wehabrebi, di nazionalità eritrea, primo ex-trafficante collaboratore di giustizia, arrestato nel 2014 e condannato lo scorso febbraio a 5 anni di carcere. Avrebbe deciso di uscire dall'organizzazione e rivelarne struttura e movimenti “perché ci sono stati troppi morti in mare”. Le sue affermazioni, considerate attendibili, hanno consentito di ricostruire dettagliatamente le attività di una rete criminale, con “cellule” in Africa Settentrionale e in Italia e la “base finanziaria” a Roma, in una profumeria di via Volturno, il cui gestore, Solomon, consegnava ogni sabato tra i 280mila e i 300mila euro a un complice, Gebremeskel Mikiele. Solomon avrebbe avuto un ruolo importante nei trasferimenti di denaro dai parenti dei migranti (attraverso il sistema Hawala) alla rete criminale, aiutato da un fratello in Israele, da un conoscente a Dubai, e, sempre secondo Wehabrebi, da italiani in viaggio a Dubai e in Israele. La polizia italiana sta ora cercando di identificare gli imprenditori italiani coinvolti nel traffico, mentre i fogli su cui venivano appuntate le “transazioni finanziarie”, sequestrati il 13 giugno, sono ancora oggetto di analisi. Diversi dunque i paesi in cui questa rete operava, compresa la Libia, base degli scafisti che dovevano portare i migranti in Italia, ed Egitto. Qui, ha dichiarato Wehabrebi, la “cellula egiziana” della rete di trafficanti portava i migranti che non potevano pagare il viaggio, ai quali venivano espiantati gli organi che in seguito venivano rivenduti per 15mila dollari circa.
Commerci illegali come quello di organi umani, di migranti, spesso minori non accompagnati, o di donne trovano terreno fertile in zone e tempi di crisi e conflitti, ossia quando l'emergenza economica pone in secondo piano la considerazione di sé come soggetto di diritti. Come di recente ha osservato Viviana Valastro di Save the Children molti ragazzi, in particolare egiziani, che tentano di approdare in Europa via mare, appena arrivano hanno l'urgenza di ripagare i debiti contratti con i trafficanti e per loro “è difficile capire il concetto di sfruttamento”: “a casa loro lavorano e sono pagati anche meno, per loro non è un problema lavorare per pochi soldi... è molto difficile far loro accettare che l'istruzione e la formazione potrebbero offrire una vita migliore”. Anche perché, nell'Europa colpita dalla crisi finanziaria, ciò non è sempre vero. Si aggiungono così alle sacche di disagio sociale, facile preda della criminalità organizzata. Nel giugno 2015, ad esempio, le autorità italiane hanno scoperto un giro di prostituzione minorile e traffico di stupefacenti nei pressi della stazione Termini di Roma. Uno dei ragazzi coinvolti, molti dei quali egiziani (migliaia sono i bambini egiziani dichiarati scomparsi all'arrivo in Italia), intervistato dal quotidiano italiano La Repubblica, ha spiegato: “i nostri genitori hanno speso tanto per mandarci qui e dobbiamo ripagarli”. Secondo le stime dell'Europol, i minori non accompagnati scomparsi in Europa nel 2015 sono circa diecimila. Ma non sono i soli a finire nelle maglie dello sfruttamento.
Nel 2012, il quotidiano statunitense New York Times (http://www.nytimes.com/2012/06/01/world/europe/european-crisis-bolsters-illegal-sales-of-body-parts.html?_r=0) ha pubblicato un'inchiesta in cui si rilevava un aumento del mercato illegale di organi umani nell'Europa colpita dalla crisi finanziaria. Persone in difficoltà economica e senza molte speranze di uscirne, soprattutto nei paesi balcanici usciti da conflitti (Serbia, Kosovo) e in Europa orientale (come la Russia e, in generale, i paesi dell'ex blocco sovietico), ma anche in Grecia, Spagna e Italia (si veda in proposito http://www.repubblica.it/2009/06/sezioni/cronaca/traffico-organi/traffico-organi/traffico-organi.html), cercano di vendere reni, polmoni, midollo osseo o cornee attraverso internet, alcuni ingaggiando addirittura investigatori privati alla ricerca di “acquirenti”. Simili “episodi”, in precedenza, erano stati documentati in molti paesi asiatici, come India, Nepal, Pakistan, Afghanistan, Bangladesh, Cambogia, Vietnam, Laos, Filippine e Cina, ma anche in Brasile: tutti paesi in cui il mercato della prostituzione, in particolare minorile, fa prosperare le finanze delle reti criminali. Secondo il New York Times, in Europa dell'Est il mercato di esseri umani e organi si sarebbe sviluppato nel periodo successivo alla dissoluzione dell'Unione Sovietica.
Lo sfruttamento di esseri umani ai fini del profitto non riguarda solo gli ultimi difficili decenni di riorganizzazione dell'assetto geopolitico (quindi anche economico) mondiale. Si pensi alle attestazioni letterarie, tra gli ultimi decenni dell'800 e l'inizio del '900, della dura vita dei carusi (Rosso Malpelo di Giovani Verga; Ciaula scopre la luna di Luigi Pirandello), o alle poesie di William Blake sulle sofferenze dei bambini spazzacamini nella Londra di fine '700. Periodi di transizione, di “rivoluzioni industriali”, durante i quali cambiamenti nei meccanismi di produzione hanno avuto drammatici impatti sociali. A proposito di crisi legate a fenomeni migratori, si può citare Ammiano Marcellino, storico romano del IV secolo d.C., che ha dedicato un celebre passo dei suoi Rerum gestarum libri al “turpe commercio” organizzato dai due generali romani Lupicino e Massimo, ai danni dei rifugiati goti che, a seguito delle scorrerie degli Unni, avevano ottenuto asilo dall'imperatore Valente. Anche i profughi di allora, stremati dalla fame, vendevano schiavi (spesso bambini) in cambio di carne di cane. Come oggi, corruzione e crimine proliferavano in contesti di crisi sociale ed economica. Come allora, per debellarle, o almeno ridurne la portata, si potrebbe uscire dall'ottica dei “provvedimenti di emergenza” e affrontare il problema del disagio sociale (che non ha nazionalità) in una prospettiva di giustizia ed equilibrio.
Tra i maggiori errori delle istituzioni europee e sovra-nazionali c'è la preferenza accordata alla “strategia delle emergenze”, che scavalca i meccanismi di base della democrazia e non è in grado di elaborare soluzioni a lungo termine.
Nella retorica che ha accompagnato le varie fasi del referendum del 23 giugno in Regno Unito, emergono almeno due questioni. Anzitutto, se nella maggior parte dei paesi membri una cospicua fetta di opinione pubblica guarda all'UE come a una struttura burocratica incomprensibile e repressiva, capace di defenestrare governi democraticamente eletti, urge una riflessione sul modo stesso in cui l'Europa unita è stata concepita o almeno su come quel progetto è stato realizzato, in particolare dopo la fine della guerra fredda. In secondo luogo, e più in generale, sarebbe opportuna una considerazione critica sulle moderne democrazie liberali e sull'assetto mondiale che sono andate delineando negli ultimi decenni.
Lo storico greco Senofonte, nel raccontare l'annuncio ad Atene della sconfitta definitiva nella guerra del Peloponneso, scrive: quella notte nessuno dormì; tutti piangevano non solo i caduti, ma ancor più se stessi, prevedendo di dover subire la sorte che gli Ateniesi avevano inflitto agli abitanti di Melo... e ancora agli abitanti di Istiea, di Scione, di Torone, di Egina e di molte altre popolazioni della Grecia (Elleniche II, 2, 3). Parafrasando, si potrebbe dire che i mercati finanziari europei, all'annuncio dei risultati del referendum del Regno Unito, hanno reagito con il sacro terrore di “fare la fine” della Grecia, che essi stessi, all'incirca un anno prima, hanno ridotto alla fame, calpestandone volontà e diritti. Quanto alla diffusione dell'ostilità anti-europea tra le opinioni pubbliche dei paesi membri, ci si potrebbe interrogare su chi vorrebbe vivere in un sistema che, secondo le sue necessità e i suoi profitti, impone misure economiche socialmente distruttive e persino cambiamenti di governo. Un sistema in cui la rappresentanza democratica è ridotta al minimo (alla formalità) e le decisioni sono, di fatto, appannaggio delle oligarchie finanziarie. Se la principale argomentazione contro la cosiddetta Brexit (uscita della Gran Bretagna dall'UE) è che il sistema si può riformare dall'interno, occorre tuttavia osservare che la volontà di cambiamento, o anche solo di autocritica, finora ha sfiorato lo zero assoluto. Se le istituzioni europee avessero mostrato maggiore disponibilità al dialogo democratico probabilmente non si sarebbe arrivati al riemergere dei particolarismi, tra muri e velleità di un ripristino della sovranità nazionale. Un concetto, quest'ultimo, accantonato da decenni in nome di organismi sovra-nazionali che teoricamente avrebbero dovuto impedire nuovi conflitti (dopo le due guerre mondiali e la successiva guerra fredda), ma che hanno scelto di farlo in modo tanto brutale quanto inefficace.
E qui veniamo alla seconda questione. Nell'illusione che il capitalismo, in quanto trionfo della libertà economica, dopo la fine dei totalitarismi, sarebbe stato l'antidoto a qualsiasi possibile deriva autoritaria, si è attribuito a esso il ruolo di motore inamovibile del nuovo sistema mondiale finalmente (in teoria) al riparo da conflitti. È lo spirito che ha animato la globalizzazione, che, con l'obiettivo di creare un mercato globale uniformando gli standard commerciali, è divenuta strumento di omologazione violenta, in spregio delle particolarità culturali locali (un po' quello che è stato la perdita di biodiversità nel settore agricolo). Dunque, come sottolinea l'ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis: una sfera economica separata da quella politica, ma concepita secondo il principio per cui il fine giustifica i mezzi, che Machiavelli circa mezzo secolo fa ha posto a fondamento dell'arte politica separata dalla morale. Di conseguenza, è l'economia, il mercato, a imporre regole e tempi di attuazione che, invece di essere controllato da uno Stato (quindi dalla politica, ritenuta dalla vulgata ufficiale “dei vincitori” fonte di ogni conflitto e totalitarismo) garante della giustizia sociale, ne prende esso stesso le redini schiacciandolo tra i propri ingranaggi. Peraltro, la globalizzazione è andata di pari passo con la transizione dal capitalismo produttivo (economia reale) al capitalismo finanziario (economia “virtuale”), che ha privato ancor più le società civili della possibilità di avere voce in capitolo. Mentre la produzione è fondata sul lavoro, e quindi assegna peso alle “masse”, le speculazioni finanziarie sono processi ad appannaggio esclusivo delle oligarchie della finanza, incomprensibili e inaccessibili ai più. Il risultato è stato un aumento dei conflitti, acuiti dall'ingiustizia sociale e dal deterioramento delle istituzioni democratiche.
Secondo Varoufakis esiste una differenza fondamentale tra la democrazia ateniese del V secolo a.C e le moderne democrazie liberali: mentre la prima rendeva “il povero”, “il nullatenente”, partecipe e quasi protagonista della scena politica (anche perché sui rematori nullatenenti era fondata la potenza navale, quindi l'imperialismo economico-militare, di Atene), le attuali democrazie hanno le loro radici nella Magna Carta Libertatum (1215), che contiene le concessioni del re d'Inghilterra Giovanni Senzaterra ai baroni inglesi, quindi è centrata sugli interessi dell'aristocrazia dei possidenti. In comune con l'Atene di Pericle, sia pure con le dovute differenze storiche, invece, le moderne democrazie hanno una politica estera imperialista e aggressiva, portata avanti grazie a un'Alleanza atlantica (NATO) priva da decenni di una controparte che ne ridimensioni la volontà di potenza. Non a caso il Patto di Varsavia è stato sciolto nel 1991, anno in cui sono iniziati conflitti sanguinosi come quello della ex Jugoslavia o quello nel Nagorno Karabakh (evocato ultimamente da papa Francesco durante la sua visita ufficiale in Armenia).
In un sistema mondiale, non solo europeo, calibrato sugli interessi dei grandi istituti finanziari e delle multinazionali, le forze populiste trovano terreno fertile per far emergere i particolarismi, come la via più facile per uscirne recuperando la propria “identità” e con essa il proprio peso politico. È questa la risposta che molti danno alla distopia di un ordine mondiale che Varoufakis ha accostato allo scenario rappresentato nel film Matrix. Quanto alla Gran Bretagna, ad esempio, invece di centrare l'attenzione sul fatto che, come ha di recente spiegato Roberto Saviano di fronte al parlamento britannico, la City di Londra e Wall Street sono la principale “lavanderia dei clan del narcotraffico” (un fenomeno del quale i più sono all'oscuro), la destra ha preferito sfruttare l'insofferenza delle classi medio-basse imputandola alla permanenza nell'UE. Anche se, occorre ricordare, Londra è entrata e rimasta nell'Unione con varie riserve e una significativa autonomia. Un esempio del deterioramento delle istituzioni democratiche su scala mondiale è invece la questione della diffusione delle armi negli Stati Uniti, dove neanche tutte le stragi degli ultimi decenni hanno potuto scalfire il potere delle lobby dei produttori di armi. Persino il presidente Barack Obama di fronte a queste ultime è impotente, il che significa che il suo potere come capo di stato eletto dalla volontà popolare è limitato da un'oligarchia economica che, non dovendo rispondere agli elettori, agisce “liberamente” (e impunemente) per tutelare i propri profitti.
In tale quadro, è inutile appellarsi di continuo alla strategia delle emergenze da affrontare (emergenza migranti, emergenza crisi, emergenza terrorismo, emergenza brexit), di breve respiro ma inefficace a lungo termine. Se vi sono tante emergenze, d'altra parte, significa che il sistema stesso andrebbe messo in discussione. Ma ciò è possibile solo ricorrendo alla dialettica democratica, quindi aumentando il livello di democratizzazione anziché ridurlo in favore dei potentati economici.
Gli animali sono da sempre i migliori amici dell’uomo ma quest’ultimo non sempre è loro amico e ne tanto meno dell’ambiente. Mentre gli animalisti italiani e del resto del mondo si stanno battendo con “unghie e con denti“, per strappare ai cinesi, in occasione della loro festa annuale, l’ulteriore sterminio di cani e gatti, a casa nostra intanto, nella Calabria del terzo millennio succede qualcosa di peggio. La locale sezione Enpa (Ente Nazionale Protezione Animali) da mesi chiede al Sindaco di Gioia Tauro, Pedà, in vista dell’estate, di disporre di un sito cittadino (come prevede la legge) per approntare un canile (finanziato anche da privati) onde mettere in sicurezza i cittadini dagli animali randagi ma anche far cessare un vero e proprio massacro degli stessi che, nel migliore delle ipotesi, se non muoiono investiti, vengono uccisi a bastonate da sadici individui, divertiti dalla mattanza. Per non parlare di altri che muoiono avvelenati dopo ore ed ore di terribile agonia.
In tutto questo il sindaco Pedà ha risposto con un’ordinanza che impone ai cittadini di raccogliere le deiezioni dei propri animali e se questi ultimi, sono di grossa taglia imporre loro la museruola anche se tenuti al guinzaglio. Museruola d’estate .....? Ma lo sanno anche i più sprovveduti che i cani respirano con la lingua, quindi la museruola li renderebbe nervosi se non addirittura inferociti. Ma che belle delibere si emettono dal sindaco Pedà a Gioia Tauro ! Si perché, l’illustre primo cittadino (sic!) non se l’è presa mica solo con i cani .... !
C’è un’altra interessante disposizione infatti, che colpisce i cittadini della Marina di Gioia, esattamente quelli denominati “del fiume”, che fiume non è, bensì, lo scarico a mare dell’ultimo tratto della “fogna a cielo aperto”. A costoro, che da vent’anni si ammalano di cancro per l’adiacente discarica e per il “fiume”, verrà dai vigili urbani, distaccata l’acqua potabile (anche questa nella calda estate!) per morosità. Morosità impostasi da loro stessi, i cittadini direttamente, non per indigenza, ma per protestare contro gli sperperi del comune, invece rimasto insensibile, per vent’anni, a questo vero dramma degli abitanti gravemente ammalati. Ora c’è solo da sperare che il Sindaco nell’”erigendo” canile non ci rinchiuda i cittadini morosi, così da risolvere con “un colpo” unico due bei problemi ! La politica, lo si sa, di questi tempi e in quasi tutt’Italia, si è ancor più dimostrata capace di scelte veramente “stupefacenti” !
*Per la crudezza delle immagini evitiamo di pubblicare i resti di un cane prima ucciso a bastonate e poi gettato morente sotto il treno in arrivo.
Le organizzazioni non governative denunciano le brutalità del regime di Manama: dagli esili forzati alle torture in carcere, fino alla chiusura del principale partito di opposizione, al-Wefaq; quasi inesistente la reazione della comunità internazionale
Nelle ultime settimane, le autorità del Bahrein hanno inasprito i meccanismi di repressione del dissenso politico, arrestando e costringendo all'esilio diversi esponenti di spicco dell'opposizione. Il culmine si è registrato il 13 giugno, quando il tribunale di Manama ha ordinato la sospensione delle attività e la chiusura delle sedi di al-Wefaq, la più grande forza politica di opposizione, che durante le proteste del 2011 si è fatta portavoce del malcontento della maggioranza sciita emarginata dalla scena politica e, in generale, delle richieste di un vero progresso in direzione della democrazia e dei diritti. Secondo il ministro della giustizia si è trattato di una misura volta a “salvaguardare la sicurezza del regno”, mentre l'unica timida reazione della comunità internazionale sono state le generiche espressioni di “preoccupazione” del Dipartimento di Stato statunitense. Come nel 2011, quando le manifestazioni vennero soffocate dall'intervento saudita, ufficialmente sotto l'egida del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), gli organismi sovranazionali si sono dimostrati ancora una volta inefficaci, sia nel promuovere la democrazia e il rispetto dei diritti umani, sia nel proporre soluzioni valide ai conflitti. Se di quest'ultimo fallimento si possono citare come esempi Libia, Iraq e Siria, per il primo spicca l'impunità di cui godono l'Arabia Saudita e i regimi satelliti nel Golfo, Bahrein e Yemen in primis.
La sentenza del tribunale amministrativo di Manama è in realtà solo l'atto conclusivo di una serie di azioni repressive ai danni di al-Wefaq, che il prossimo 6 ottobre affronterà l'udienza sul suo scioglimento definitivo. Tra i capi d'accusa, “incitamento alla violenza settaria” e coinvolgimento in una “rete politica internazionale”. Un riferimento, quest'ultimo, non troppo velato a presunti tentativi di ingerenza da parte di Tehran, sbandierati dal regime come pretesto per la repressione. Il 13 giugno, il giorno prima della sentenza, la polizia di Manama aveva arrestato Nabil Rajab, attivista per i diritti umani più volte detenuto per il suo impegno civile, recentemente liberato da un provvedimento di grazia “concesso” dal re Hamad bin Isa Al Khalifa. Ufficialmente le autorità vogliono interrogarlo sulla presunta “diffusione di false notizie”, ma il suo arresto, insieme a quello di altri attivisti, immediatamente prima della 32esima sessione del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, lascia intendere che il vero scopo è impedire qualsiasi espressione di dissenso, soprattutto in sedi internazionali. A maggio di quest'anno, Amnesty International aveva denunciato la revoca della cittadinanza e il conseguente rischio di espulsione di Tarimoor Karimi, l'avvocato e attivista che nel 2011 aveva preso parte alle proteste: provvedimenti che violano esplicitamente le leggi internazionali, ma vengono ripetutamente utilizzate contro gli oppositori alla monarchia assoluta. Il meccanismo è quasi sempre lo stesso: revoca della cittadinanza (che rende illegale la permanenza in territorio bahreinita) ed esilio forzato. Negli stessi giorni, la corte d'appello di Manama aveva portato da 4 a 9 anni di reclusione la condanna della guida di a-Wefaq, Ali Salman, accusato di istigazione alla violenza e all'odio contro il governo e tentativo di colpo di stato. Quanto a un'altra attivista, Zainab al-Khawaja, cittadina danese-bahreinita, uscita dal carcere a maggio per motivi umanitari (era stata arrestata a marzo per aver strappato una foto del re), all'inizio di giugno ha scelto di autoesiliarsi in Danimarca: in un'intervista ha spiegato che le autorità di Manama avevano avvertito l'ambasciata danese del rischio di un nuovo arresto.
Che in Bahrein non esistano garanzie di rappresentanza democratica non è una novità. La monarchia assoluta degli Al Khalifa, di religione sunnita (con posizioni simili a quelle della dinastia regnante saudita), governa con il pugno di ferro un paese a maggioranza sciita, in un piccolo ma strategico arcipelago del Golfo Persico. Basti pensare che degli 80 seggi totali del parlamento, i 40 della camera alta sono di nomina regia, mentre il potere legislativo dei 40 della camera bassa, eletti dalla popolazione, è limitato dall'arbitrio del re. Ma per Riyadh la posta in gioco è troppo alta: da un lato considera Manama un prezioso baluardo contro l'influenza iraniana sulle comunità sciite della Penisola Araba, dall'altro teme che eventuali conquiste sul piano dei diritti da parte della popolazione sciita in Bahrein possano incoraggiare la sua minoranza sciita ad avanzare rivendicazioni simili (in Arabia Saudita gli sciiti non possono esercitare professioni come quella di insegnante o magistrato e vivono, di fatto, come cittadini di secondo ordine). D'altro canto, a interessarsi della posizione strategica di questo arcipelago non è solo Riyadh: il porto di Mina Salman ospita un'importante base della marina militare statunitense, la Naval Support Activity, mentre nella capitale Manama si trova il quartier generale della V flotta. Inoltre, nel novembre 2015, la Royal Navy britannica ha avviato i lavori di costruzione di un'importante base, la prima nel Golfo Persico dal 1971, con il compito di “garantire e preservare la sicurezza regionale”.
L'ordinamento democratico antico, appena restaurato dopo un colpo di stato oligarchico, ha condannato a morte Socrate; così, la democrazia nella sua forma attuale ha avuto le sue vittime illustri: giornalisti, intellettuali, artisti.
La condanna a morte di Socrate, nel 399 a.C., avvenne in un'Atene da poco tornata alla democrazia dopo il regime dei trenta tiranni. Allora non esistevano sondaggi, ma il teatro comico ci lascia interessanti testimonianze sulle posizioni prevalenti all'interno di quell'opinione pubblica che proprio Pericle, celebrato come il fondatore della democrazia, aveva contribuito a rendere così influente sulla scena politica. Ma Atene era soprattutto a capo di un “impero”, la lega di Delo, nata ufficialmente per proseguire il conflitto contro i Persiani e presto divenuta strumento dell'egemonia ateniese sulle città alleate. A permettere la nascita e il consolidamento di questo impero è stata la strategia del dominio sui mari (detto talassocrazia), che ha al contempo favorito sia un notevole sviluppo economico, sia l'accesso alla rappresentanza politica dei ceti più poveri del demos. Nell'Atene di Pericle, i nullatenenti venivano reclutati come rematori sulle navi da guerra, sottraendo il primato nella difesa della città alla fanteria dei ceti medio-alti (gli opliti) e, soprattutto, alla cavalleria dell'aristocrazia fondiaria (qui era lo zoccolo duro della fazione oligarchica, quindi degli oppositori politici di Pericle). Nel primo anno della guerra del Peloponneso, che vede opposte Atene e Sparta, le due grandi potenze greche, il sistema democratico ateniese inizia a vacillare, a partire dalla devastante pestilenza del 429 a.C., durante la quale morì lo stesso Pericle e i suoi due figli legittimi. In seguito, secondo lo storico greco Tucidide (testimone diretto degli eventi), la democrazia e l'impero di Atene iniziano un lento declino e, contestualmente, un progressivo irrigidimento. Nell'ultimo discorso all'assemblea popolare ateniese, Pericle presenta il conflitto come una guerra “giusta”: E' giusto che alla condizione onorevole in cui, grazie al suo impero, si trova la nostra città voi portiate aiuto (dato che di tale condizione voi tutti vi vantate)... Né dovete credere che ora si lotti per una cosa sola, per la libertà o la schiavitù: al contrario anche riguardo alla perdita dell'impero... Dal comandare voi non potete più tirarvi indietro, anche se qualcuno spaventato dalla presente situazione per ignavia vorrebbe farlo, sostenendo la parte dell'uomo onesto. Voi possedete in questo potere quasi una tirannide (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 63; ). I successori di Pericle alla guida della fazione democratica non sono “alla sua altezza” e l'ordinamento che dirigono vira verso la demagogia. Attraverso quest'ultima viene appunto convinta l'assemblea popolare ad approvare la disastrosa spedizione in Sicilia del 415 a.C.
Anche il sistema democratico contemporaneo, minacciato dai sistemi totalitari del Novecento, ha vissuto, a partire dalla guerra fredda, brusche virate autoritarie, nelle quali il potere per mantenersi ha “sacrificato” diverse vittime sull'altare della democrazia da difendere. Si pensi al maccartismo, all'operazione Ajax in Iran, all'operazione Condor in America Latina. Fino ad arrivare alle guerre “umanitarie”, quasi sempre combattute sotto l'egida dell'Alleanza Atlantica (NATO) nel mondo monopolare uscito dalla guerra fredda dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Conflitti dettati da una ferrea logica di potenza, che non ammette diritto di replica considerando ogni forma di dialettica una minaccia. Anche questo sistema, dunque, come quello antico, ha mietuto vittime. Anzitutto tra le popolazioni afflitte dalla corruzione e dalla spietatezza delle dittature (più o meno mascherate) che ha contribuito a imporre. In secondo luogo tra le voci critiche come il primo ministro svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 (http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/02/27/olof-palme-caso-ancora-aperto/514605/), e il “Che africano”, Thomas Sankara, ucciso nel 1987. In terzo luogo tra i testimoni scomodi, come la giornalista Ilaria Alpi, morta insieme all'operatore Miran Hrovatin nel 1994, a Mogadiscio, in un agguato organizzato dall'intelligence statunitense con l'aiuto di Gladio e dei servizi segreti italiani (http://www.repubblicaonline.it/2016/03/24/ora-e-ufficiale-ilaria-alpi-fu-uccisa-dalla-cia-il-vergognoso-silenzio-generale/).
Se sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è stata fatta (parzialmente) luce, non si può dire lo stesso per quelle di Enzo Baldoni in Iraq nel 2006 (http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/28/enzo-baldoni-ucciso-in-iraq-e-insultato-in-italia/1101209/), di Vittorio Arrigoni nella striscia di Gaza nel 2011 (http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/15/vittorio-arrigoni-5-anni-dalla-morte-la-madre-egidia-oggi-non-riconoscerebbe-questa-europa-disumana-manca-la-sua-voce/2639329/) e di Giulio Regeni in Egitto nel 2016 (http://www.flipnews.org/component/k2/stop-alla-tortura-e-verita-per-giulio-regeni.html). Se la democrazia non può prescindere dalla responsabilità e dalla consapevolezza collettive, come nell'“impero” ateniese del V secolo a.C., così anche nell'imperialismo democratico contemporaneo la responsabilità ricade sullo stesso corpo civico cui spetta la sovranità. Con una differenza: mentre l'antica democrazia ateniese era diretta, oggi il demos si esprime attraverso i suoi rappresentanti. Dunque, all'assemblea popolare abbiamo sostituito il parlamento, ma i meccanismi di repressione (talvolta soppressione) del dissenso e della critica sono rimasti invariati, come anche la propaganda che presenta i conflitti come guerre di difesa della “cultura” e dei “valori” democratici.
La condanna a morte di Socrate apre il IV secolo a.C., che è quello della crisi del modello democratico ateniese. Anche se la sua è stata un'“esecuzione politica” (oltre ad essere una voce critica, Socrate era stato maestro di Alcibiade e Crizia, considerati fonte di innumerevoli mali per la loro città), l'accusa che gli veniva rivolta era essenzialmente religiosa e oscurantista: non credere negli dei e corrompere i giovani, un'astuta operazione di propaganda demagogica, impossibile da conciliare, a livello teorico, con l'autentica tradizione democratica. In modo analogo, è probabile che la crisi che le istituzioni democratiche stanno vivendo (di cui uno dei sintomi è l'emergere della cosiddetta “anti-politica”) sia legata alla spregiudicatezza con cui voltano le spalle di fronte alle vittime degli imperi attuali.
Nominato il nuovo primo ministro e presidente del Partito Giustizia e Sviluppo, la Turchia si avvia verso un nuovo sistema costituzionale e tenta di affermare il proprio ruolo di “interlocutore chiave” in Medio Oriente
L'insediamento del nuovo primo ministro turco Binali Yıldırım non è il primo segnale dell'accentramento di poteri ai vertici di Ankara, ma l'uscita di scena di Ahmet Davutoğlu segna la fine di quel minimo di dialettica politica interna al governo e al partito Giustizia e Sviluppo (AKP). Già quest'ultimo fatto è indice di un cambiamento avvenuto: la fine del sistema parlamentare e l'instaurazione di un sistema presidenziale de facto. La riforma costituzionale è ancora solo nelle intenzioni del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, ma quest'ultimo, già nel suo simbolico trasferimento di residenza da İstanbul ad Ankara dopo la vittoria alle prime presidenziali della storia della Turchia, aveva dato un segnale chiaro: la sua prima tappa era stata una preghiera personale alla moschea Eyüp Sultan, meta di pellegrinaggio dei musulmani turchi ma anche il luogo in cui i sultani ottomani erano soliti pregare prima dell'ascesa al trono.
Con lo stesso spirito, lo scorso 22 maggio, al congresso straordinario dell'AKP per la nomina del nuovo presidente, Erdoğan non ha partecipato in prima persona perché la costituzione turca stabilisce l'imparzialità del presidente della Repubblica. Tuttavia, “virtualmente” la sua presenza era forte e non solo per la nota scritta che ha mandato e di cui è stata data pubblica lettura. La sala era piena di manifesti con la sua immagine e in apertura il ministro della giustizia Bekir Bozdağ, che presiedeva il congresso, ha ribadito chiaramente (e in barba alla costituzione vigente) che “l'AKP resterà il partito di Tayyip (Erdoğan n.d.r.) finché la nostra gente dirà che è il partito di Tayyip... l'AKP ha solo un leader, il nostro presidente Recep Tayyip Erdoğan”. Quindi, la lettura della nota scritta del “Presidente”, che auspica l'abolizione di “questa strana regola che obbliga il presidente a recidere i legami con la dirigenza del partito”. Come dire che il problema principale di Palermo è il traffico. In un momento in cui vi sarebbero diverse questioni urgenti da affrontare, il neoeletto presidente dell'AKP Yıldırım indica esplicitamente la priorità massima della Turchia: “la cosa più importante che abbiamo da fare oggi è trasformare una situazione de facto in una situazione ufficiale, per porre fine alla confusione, e il modo per farlo è una nuova costituzione che instauri il sistema presidenziale”.
Infatti Yıldırım, ingegnere navale, è da sempre un alleato fedele del presidente turco, sin dal suo esordio negli anni '90 come direttore della compagnia dei traghetti di İstanbul, quando Erdoğan era sindaco della città. Co-fondatore dell'AKP, di formazione conservatrice, da ministro dei trasporti, degli affari marittimi e delle comunicazioni ha portato a buon fine i grandi progetti che dovrebbero rappresentare la “grande Turchia”, la “nuova Turchia”. Uno fra tutti, il terzo ponte sul Bosforo (i lavori sono stati affidati all'italiana Astaldi e al gruppo turco Ictas), la cui inaugurazione è prevista per agosto. Nominato presidente dell'AKP con un plebiscito, in un congresso che è stato, secondo le sue stesse parole, “un esempio di vera lealtà”, ha ricevuto 1405 voti su 1411 (i restanti sei voti sono stati dichiarati non validi). Nella stessa seduta, Davutoğlu ha lasciato ufficialmente la carica di presidente del partito (e di primo ministro), che deteneva dall'agosto 2014, quando Erdoğan aveva ottenuto la presidenza della Repubblica. Nella sua dichiarazione conclusiva, ha esortato i suoi colleghi a tenersi alla larga dalla corruzione politica, precisando che le sue dimissioni sono state una mossa necessaria per evitare spaccature nel partito. “Nessuno è insostituibile”, ha aggiunto, “ma l'AKP ha sei valori insostituibili: la tutela della dignità umana, il seguire la propria coscienza, la condivisione del sapere, la giustizia, la solidarietà nazionale e la volontà popolare. Per questo uno dei traguardi più importanti della nuova era sarebbe stato avere una costituzione libera e democratica”.
Tuttavia, il cammino verso la democrazia per Ankara (e non solo) è ancora lungo. Secondo il presidente del Partito repubblicano del popolo (CHP) Kemal Kılıçdaroğlu l'ultimo congresso dell'AKP è stato un vertice “sul modello coreano”, in riferimento al regime di Pyongyang. Intanto, dal Partito democratico dei popoli (HDP, filo-curdo e impegnato sul fronte dei diritti umani) arriva un allarme sull'uso politico dell'abolizione dell'immunità per i parlamentari indagati. Solo il suo presidente Selahattin Demirtaş ha 41 inchieste aperte a suo carico, con capi d'accusa che vanno dall'insulto al presidente al sostegno a un'organizzazione terroristica (con riferimento al Partito dei lavoratori del Kurdistan – PKK). Gli ultimi sviluppi (come se ce ne fosse bisogno) hanno destato preoccupazione nelle cancellerie europee e a Washington. La cancelliera tedesca Angela Merkel, ad esempio ha espresso i suoi timori riguardo alle condizioni della minoranza curda e per la mancanza di democrazia. “Uno stato democratico ha bisogno di un sistema giudiziario indipendente, di una stampa indipendente e di un parlamento forte”, ha detto a Erdoğan durante il vertice mondiale sui diritti umani che si è tenuto nei giorni scorsi a İstanbul. Dal canto suo, Erdoğan ha più volte esortato l'Unione Europea a rispettare i termini dell'accordo sul ricollocamento di migranti e rifugiati e ad accelerare le pratiche per l'abolizione dei visti per i cittadini turchi in area Schengen. Un invito velato di minaccia: se non si procede verso l'integrazione della Turchia, gli accordi bilaterali con l'UE potrebbero saltare.
La situazione che ora viene additata dalla comunità internazionale come motivo di apprensione è frutto di anni di scelte politiche del partito di governo (l'AKP), soprattutto dal 2014. Eppure al momento di stipulare l'accordo sul ricollocamento dei migranti e rifugiati nessuno ha sollevato obiezioni sulla definizione della Turchia come “paese terzo sicuro”. Basti pensare, a proposito di democrazia e di una costituzione che impone al presidente della repubblica l'imparzialità, che sarà Erdoğan a presiedere la prima riunione del nuovo governo formato da Yıldırım. Lo stesso presidente turco ha assicurato che gli ultimi emendamenti alla legge anti-terrorismo, che hanno suscitato critiche in UE (in quanto pretesto per la repressione del dissenso politico), non sono negoziabili. Similmente, Ankara non mostra l'intenzione di rivedere la sua politica dei visti nei confronti dei cittadini greco-ciprioti, altro punto incluso nelle 72 condizioni che Bruxelles ha chiesto alla Turchia di rispettare in cambio della libera circolazione dei suoi cittadini in area UE. Ma ora Erdoğan ha dalla sua una maggioranza compatta, come ha detto Yıldırım all'ultimo congresso dell'AKP: “la tua passione è la nostra passione, la tua causa la nostra causa, il tuo cammino il nostro cammino”. Frasi che rievocano pagine oscure della storia europea.
Le mire accentratrici di Erdoğan, nondimeno, hanno anche risvolti tragicomici: durante il World Humanitarian Summit dei giorni scorsi, il presidente turco ha salutato il primo ministro greco Alexis Tsipras, domandandogli in un misto di turco e inglese dove fosse la sua cravatta e ricordandogli che in una precedente occasione gliene aveva regalata una lui stesso. Altro che la questione di Cipro! Tsipras è senza cravatta. Ma il re, anzi il sultano, è nudo.
Le dimissioni di Ahmet Davutoğlu dalla dirigenza del partito e dalla carica di primo ministro aprono scenari preoccupanti sull'eccessivo accentramento dei poteri nelle mani del presidente Recep Tayyip Erdoğan
Dopo quattordici anni di vita politica e due da primo ministro e presidente del partito Giustizia e Sviluppo (AKP, attualmente al governo), Ahmet Davutoğlu si è dimesso. Una decisione presa, secondo il quotidiano turco Hürriyet Daily News, a causa di contrasti sorti con Erdoğan su diverse questioni, tra le quali il giro di vite sulla libertà di stampa e il sistema presidenziale. Sta di fatto che per le due principali forze di opposizione, il Partito repubblicano del popolo (CHP) e il Partito democratico dei popoli (HDP), le dimissioni di Davutoğlu sono in realtà un “colpo di stato” di Erdoğan. Di fronte a questo nuovo sviluppo, che riduce al minimo la dialettica interna al governo di Ankara, l'Unione Europea è apparsa preoccupata, soprattutto in merito al recente accordo sulla gestione della questione dei migranti e rifugiati. Se Bruxelles, priva di strategie per affrontarla, conta sulla Turchia è proprio per l'immagine di stabilità che Erdoğan ne aveva dato, a partire dalla vittoria alle elezioni parlamentari dello scorso novembre. Si tratta dunque di una preoccupazione proporzionale alla fiducia nell'ennesimo “uomo forte”, che rischia ora di fare la fine degli altri “uomini forti” cui le grandi potenze si sono affidate nei momenti di crisi geopolitica.
Davutoğlu si era distinto nell'ambiente accademico per la sua interessante visione di profondità strategica. La Turchia, secondo lui, avrebbe dovuto approfittare della sua posizione strategica e della sua identità di democrazia musulmana ma laica per affermarsi come ponte tra Europa, Caucaso e Medio Oriente. Tre regioni che a livello geopolitico, sia pure su diversi livelli e per ragioni differenti, vivono una fase di profonda crisi. Una prospettiva coraggiosa, che, in teoria, avrebbe permesso alla Turchia di riaffermarsi come grande potenza regionale, ricomponendo contraddizioni interne (come la questione curda) e conflitti esterni (come la questione armena) in un delicato equilibrio di forze. Per questo, nel 2010 la rivista statunitense Foreign Policy lo aveva classificato al settimo posto tra i pensatori politici mondiali. E per la stessa ragione, Davutoğlu avrebbe potuto essere un personaggio chiave per una soluzione diplomatica del conflitto siriano, tanto più urgente oggi, se è vero quanto affermato dalla stessa Foreign Policy qualche giorno fa, a proposito delle intenzioni del Fronte al-Nusra (ramo siriano di al-Qaeda, sostenuto da Ankara per abbattere il regime del presidente Bashar al-Asad) di fondare un emirato nel Nord della Siria, “alternativo” al califfato dei cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico.
La prima divergenza tra Erdoğan e Davutoğlu è emersa lo scorso anno, quando l'allora primo ministro ha sostenuto la decisione di Hakan Fidan, capo dell'intelligence turca (MİT), di dimettersi dalla sua carica per candidarsi alle elezioni parlamentari che si sarebbero tenute il 7 giugno: le stesse che hanno segnato la perdita della maggioranza assoluta dell'AKP e che, per il fallimento non proprio casuale delle trattative per un governo di coalizione, sono state ripetute il 1 novembre. In quell'occasione, Erdoğan ha praticamente costretto Fidan a mantenere il suo incarico nel MİT, come uomo chiave per la sicurezza interna e per combattere il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), con il quale il processo di pace è stato interrotto. A proposito di queste controverse elezioni, Davutoğlu si è mostrato più aperto al confronto con le altre forze politiche, preferendo, al contrario di Erdoğan, un governo di coalizione a nuove elezioni. Inoltre, secondo indiscrezioni, le sue posizioni sul sistema presidenziale voluto da Erdoğan erano più moderate, come dimostrerebbe la sua intenzione di portare il dibattito in parlamento. Similmente, l'ex primo ministro turco era apparso più flessibile di Erdoğan sui colloqui di pace con il PKK, mentre il presidente ha colto tutte le opportunità per risolvere il conflitto manu militari. Davutoğlu ha mostrato inoltre una certa freddezza sulla proposta di Erdoğan di ampliare la definizione di terrorismo nel codice penale turco, che peraltro già prevede “reati” come insulto al presidente o denigrazione dell'identità turca.
Per questo le opposizioni temono ora che le restrizioni alla libertà di stampa aumentino sensibilmente, in una situazione già difficile per i giornalisti turchi. Ne è un esempio il caso di Erdem Gül e Can Dündar, rispettivamente direttore del quotidiano turco di opposizione Cumhuriyet e caporedattore della sede di Ankara. Entrambi sono stati condannati lo scorso sei maggio a cinque anni di prigione per aver rivelato segreti di Stato e fatto propaganda per un'organizzazione terroristica, per la pubblicazione di un reportage su un traffico di armi dalla Turchia alla Siria attraverso automezzi dell'intelligence turca. In occasione del loro arresto, mentre Davutoğlu aveva detto di attendere il verdetto del tribunale, Erdoğan è stato sempre sicuro della loro colpevolezza, arrivando a minacciare Dündar di fargliela pagare cara. Lo stesso giorno della sentenza, di fronte al tribunale di Istanbul, Dündar è scampato illeso a un attentato, nel quale un uomo, in seguito arrestato, ha tentato invano di sparargli a una gamba. I primi a intervenire sono stati la moglie e il legale del giornalista (membro del partito CHP). Dündar ha poi dichiarato in aula di aver subito due tentativi di assassinio, uno davanti al tribunale, il secondo al processo, per aver fatto giornalismo. Il suo assalitore, intanto, afferma di aver agito individualmente, “per dargli una lezione”: “se avessi voluto ucciderlo lo avrei fatto, gli ho sparato a una gamba per spaventarlo”. Chissà se ora l'Unione Europea rivedrà la sua definizione della Turchia come “paese sicuro”, indispensabile per portare avanti l'accordo sui rifugiati...
Alessandro Pajno, il neo-presidente del Consiglio di Stato, ha presentato al pubblico il frutto dello sforzo del Consiglio quale contributo al riordino della Pubblica Amministrazione che il Governo si accinge a varare. 13 pareri in 50 giorni, con la media di circa un mese per ciascun atto. Quasi 700 pagine di quei 13 pareri, frutto dell’esame dei 481 di cui complessivamente si compongono. Si è trattato di mettere a fuoco il nuovo assetto dell’apparato pubblico – oltre agli 11 decreti del primo pacchetto Madia (gli ultimi tre pareri; Servizi pubblici locali; Forze di polizia e direttori Asl- sono in via di pubblicazione), in un mese e mezzo è stato esaminato anche il nuovo codice dei contratti pubblici e il decreto del processo telematico presso il Tar e il Consiglio di Stato che decollerà il prossimo primo luglio.
La conferenza stampa sull’attività del Consiglio di Stato è il primo di una serie di appuntamenti diretto a creare un canale di comunicazione tra il Consiglio di Stato, i Tribunali amministrativi ed il cittadino. L’obiettivo è quello di informare sull’attività della Giustizia amministrativa, i traguardi raggiunti ed il lavoro che si sta svolgendo. In particolare, questo primo incontro ha riguardato i più recenti pareri del Consiglio di Stato sugli atti normativi del Governo tra i quali la riforma della pubblica amministrazione, il codice dei contratti pubblici e il canone RAI. “Nel dare i pareri”, ha sottolineato Franco Frattini, Presidente della Sezione consultiva degli Atti Normativi ,”abbiamo tenuto fermi tre principi: tendere alla codificazione e, dunque, evitare che lo sfilacciamento di norme faccia perdere di vista l’unitarietà dell’impianto; fare in modo che la riforma funzioni, evitando il più possibile eventuali rischi di blocco; valutarne l’impatto economico e sociale”
Articolo pubblicato il 17 aprile 2016 su http://tapnewswire.com/2016/04/top-10-indications-that-isis-is-a-usisraeli-creation/
A cura di Makia Freeman.
Traduzione di Adavede.
L’Isis è una creazione israelo/americana, un fatto evidente come il cielo blu.
Per molti lettori di notizie alternative, questo è già palesemente ovvio, ma questo articolo è stato scritto per la stragrande maggioranza della popolazione del mondo, che ancora non ha idea di chi stia dietro all’avvento dell’Isis.
Non importa per quale nome si facciano passare – Isis, Isil, Is, Daesh – il gruppo è stato deliberatamente ingegnerizzato dagli Stati Uniti ed Israele, per perseguire alcuni obiettivi geopolitici. Sono una organizzazione di terroristi religiosi, fondamentalisti, Sunniti, creata per terrorizzare e rovesciare alcune nazioni arabe Sciite, come la Siria e l’Iraq, ma non si tratta di una organizzazione solamente “islamica”.
Possono essere islamici , e possono patrocinare lo stato islamico, ma stanno lavorando molto per raggiungere gli obiettivi del Sionismo. E’ sorprendente vedere quanta gente sta combattendo per questo. Siamo stati inondati dalla propaganda che riguarda la guerra al terrore, fraudolenta, in particolare termini come “terrorismo islamico” e “Islam radicale” sono comparsi, ma frasi molto più accurate sarebbero “terrorismo Sio-islamico”, e “Sio-Islam radicale”.
Agenzie segrete come il Mossad e la Cia ne tirano i fili.
Ecco qui una lista dei 10 principali indicatori e prove che l’Isis è una creazione israelo-americana
1) Isis è l’acronimo di Mossad
Cominciamo con ciò che è ovvio. Isis è esso stesso un acronimo, non per stato islamico in Iraq e Siria, ma per Israeli Secret Intelligence Service (servizi segreti di intelligence israeliani). E’ solo un altro modo per descrivere il Mossad, la losca agenzia il cui motto è “attraverso l’inganno, puoi portare la guerra”.
In questo video (https://youtu.be/jYONiyG-CZk) i due autori intervistati (il giornalista americano Dan Raviv e il giornalista isreliano Yossi Melman) rivelano che Isis è l’acronimo del Mossad.
2) La precognizione sull’Isis, attraverso documenti trapelati della Dia:
L’americana Dia (agenzia di intelligence della Difesa) è una delle 16 agenzie militari di intelligence americane. Sulla scorta di un documento trapelato, ottenuto da Judicial Watch, la Dia scrive, il 12 agosto 2012 che:
“..c’è la possibilità di instaurare un Principato Salafita, dichiarato o meno, nella Siria dell’est (zone di Hasaka e Der Zor) e questo è esattamente ciò che vogliono i poteri che supportano l’opposizione, di modo da isolare il regime siriano..”
Questo è stato scritto prima della comparsa dell’Isis sulla scena planetaria. Chiaramente l’Isis non è stata una rivolta casuale, ma piuttosto un ben orchestrato e strigliato “gruppo di opposizione”.
I “poteri che supportano l’opposizione” si riferisce a l’arabia saudita, la turchia, e i Gcc ( i paesi della cooperazione del golfo), nazioni come il Qatar, che sono supportati, in cambio, dall’asse americano-inglese-israeliano nella loro battaglia per spodestare il presidente siriano Bashar Al-Assad.
Come ho sottolineato in questo articolo Syrian Ground War.. , gli Stati Uniti stanno appoggiano le nazioni sunnite, mentre la Russia, la Cina e l’Iran quelle Sciite, per cui esiste un potenziale che le cose sfocino in una terza guerra mondiale.
Nel sito Tapnewswire si vedano i flash dei documenti della Dia
(Per maggiori informazioni si guardi il seguente articolo: http://wakeup-world.com/2015/11/24/reality-check-proof-us-government-wanted-isis-to-emerge-in-syria/
Include 7 pagine del documento citato sopra del Pentagono, che incluse i dettagli circa le ragioni per cui il governo stava operando in Siria, prima dell’emergere dell’Isis)
3) L’Isis non ha mai attaccato Israele.
E’ più che mai strano e sospetto che l’Isis non abbia mai attaccato Israele – è un altra indicazione che l’Isis è controllata da Israele. Se l’Isis fosse stato il frutto di una rivolta indipendente e genuina che non era stata segretamente orchestrata dagli Stati Uniti e Israele, perchè mai non avrebbero dovuto tentare di attaccare il regime sionista, che ha attaccato all’incirca tutti i vicini stati mussulmani, a partire dall’anno del suo insediamento, il 1948?
Israele ha attaccato l’Egitto, la Siria e il Libano, e naturalmente ha decimato la Palestina. Israele ha sistematicamente provato a dividere e conquistare i suoi vicini arabi. E si è lamentata continuamente del terrorismo islamico! Ancora, quando l’Isis è comparsa sulla scena come una organizzazione terroristica islamica, barbarica e sanguinaria, apparentemente non ha avuto problemi con Israele e non ha individuato motivi per occuparsi di un regime che ha perpetrato una dose massiva di ingiustizie contro gli Islamici.
Questo spinge la credibilità al un punto di rottura.
Il fatto è che Isis e Israele non si attaccano reciprocamente – essi si sostengono reciprocamente. E’ stato anche scoperto che Israele si è occupata delle cure di alcuni soldati dell’ISIS e di altri ribelli anti-Assad nei suoi stessi ospedali! Si tratta di nemici mortali, o del migliore degli amici?
4) I furgoncini della Toyota
Dov’è che l’Isis ha preso una intera flotta di furgoncini Toyota? Perché così tanti dei suoi scatti fotografici riguardano una flotta di Toyota che corrispondono - corrispondenti cioè, sia per modello che per colore? Come l’articolo della Information Clearing House umoristicamente statuisce.
“La storia ufficiale è che l’Isis li avrebbe rubati ai “buoni terroristi” (di Al Nusra), a cui sarebbero stati dati, questi bei veicoli, dal governo degli Stati Uniti. Cosa che sembrerebbe guidare verso almeno un paio di domande. Non ultima delle quali, perchè gli stati uniti riforniscono terroristi di qualsivoglia estrazione con suv di lusso? E a tal proposito, di quanti suv parliamo? Di quanti, con esattezza? In quali garage l’Isis tiene parcheggiata questa massiccia flotta? E perchè sono tutti a marca Toyota? E’ una scelta dei terroristi o un gusto del governo americano? La Toyota se l’è mai presa, per l’associazione tra i suoi trucks e i terroristi?”
Alcuni di questi trucks sono dei veicoli usati che sono partiti dagli Usa o dal Canada e sono arrivati in Siria. Per esempio, questo veicolo che riporta la scritta di un idraulico del Texas, ha fatto scoprire con orrore al suo ex proprietario che il suo vecchio veicolo sarebbe stato adoperato per la guerra, con il suo logo ancora lì su una portiera!
5) Gli skill di prima classe, nell’uso dei social media, dell’Isis.
La storiella delle Toyota ci spinge dritti alla prossima domanda, in merito all’Isis.
Chi si occupa della loro pubblicità? Come hanno fatto ad ottenere così tante foto delle Toyota che se ne vanno in giro? Come sono riusciti ad ottenere quella risma di video (falsi) che ritraggono le decapitazioni? Come ha potuto fare, un barbaro gruppo di assassini, che parlano una lingua molto diversa dall’Inglese, che propinano ideali religiosi fondamentalisti (come la Sharia) e spesso criticano tutto ciò che è occidentale, a gestire con maestria i social media occidentali, per diffondere i loro messaggi, la propaganda e le loro sfide?
6) Il gruppo israeliano SITE è sempre il primo a rilasciare i video dell’Isis.
Un’altra chiave in omaggio che l’Isis è una creazione Usa/Israele è che il gruppo israeliano SITE (Search for International Terrorist Entities) è stato spesso fra i primi a trovare e a rendere pubblici i video ( come la cofondatrice Rita Katz s’è lasciata sfuggire in più di una occasione). Site è stata implicata in una sfilza di video di finte decapitazioni dell’Isis, nel 2014.
False flag falliti! Si ignorino per un momento i brutti lavori svolti con photoshop. Si noti in questa foto come la luce getta ombre sul lato destro della faccia e del collo di un ostaggio, e sul lato sinistro del viso e del collo dell'altro ostaggio.. Parlando di finte decapitazioni, perchè questa Tv di fiction turca mostra una decapitazione che è identica a quelle dell’Isis?
7) Il capo dell’Isis Baghdadi, un agente del Mossad.
Simon Elliot (Elliot Shimon) aka Al-Baghdadi è nato da genitori ebrei ed è un agente del Mossad. Riportiamo di seguito tre traduzioni che intendono asserire con chiarezza che il califfo Al-Baghdadi è in pieno un agente del Mossad e che è nato da padre e madre ebrei. “Il vero nome di Abu Bakr al-Baghdadi è Simon Elliott.. Colui il quale viene chiamato semplicemente “Elliott” è stato reclutato dall’israeliano Mossad ed è stato addestrato in spionaggio e guerra psicologica contro gli arabi e la società islamica. Questa informazione viene attribuita ad Edward Snowden.
8) Comunicazioni trapelate che evidenziano il piano di rovesciamento della Siria.
Julian Assange di Wikileaks ha fatto un gran lavoro per catturare le informazioni circa quello che stava accadendo in Siria, anni prima delle “primavere arabe” e l’attule guerra, iniziata nel 2011.
Ci ha rivelato che William Roebuck, poi chargé d’affaires dell’ambasciata americana a Damasco, stava progettando la destabilizzazione del governo siriano. Le seguenti citazioni inviate da Roebuck a Washington dimostrano come egli stesse evidenziando le debolezze di Assad:
Vulnerabilità:
L’alleanza con Teheran: “Bashar sta camminando sul filo del rasoio nelle sue sempre più forti relazioni con l'Iran, in cerca del supporto necessario, pur non alienandosi del tutto le relazioni con i moderati stati vicini arabi sunniti, così da non essere percepito come qualcuno che favorisca gli interessi sciiti persiani e fondamentalisti. La decisione di Bashar di non sostenere i Talebani. La decisione di Bashar di non partecipare al vertice dei Talabani di Ahmadinejad a Teheran, dopo il viaggio FM Moallem in Iraq, può essere visto come una manifestazione della sensibilità di Bashar all’ottica araba, circa la sua alleanza iraniana.
Possibile azione:
Giocare sulle paure Sunnite dell’interferenza iraniana.
Ci sono timori in Siria che gli iraniani siano attivi e nel proselitismo sciita e nella conversione dei, per lo più poveri, sunniti. Anche se spesso esagerati, tali timori riflettono un elemento della comunità sunnita in Siria che è sempre più sconvolta da e focalizzata sulla diffusione dell'influenza iraniana nel loro paese, attraverso attività che vanno dalla costruzione di moschee fino agli affari. Sulle missioni locali egiziane e saudite qui, (così come sugli importanti capi siriani religiosi sunniti), stanno dando sempre maggiore attenzione alla questione che dovremmo coordinare più strettamente con i loro governi, sui modi per pubblicizzare meglio e focalizzare l'attenzione regionale sulla questione.
9) La Russia bombarda Isis, gli Usa li proteggono.
La pubblicità afferma:”Secondo quanto la politica estera americana in Siria: noi vogliamo combattere l’Isis mentre combattiamo contro il presidente Assad...sebbene l’Isis sta combattendo contro Assad, e i russi stanno aiutando la Siria a combattere l’Isis...per cui dobbiamo combattere la Russia per fermarli dal combattere con la Siria, contro l’Isis..
Se ti sembra folle, è perchè lo è!”
Prima che la Russia entrasse militarmente in Siria, gli Stati Uniti reclamavamo il fatto che essa fosse attaccata dall’Isis, sebbene la Russia fosse capace di fare in pochi mesi ciò che gli Usa non sono stati capaci di fare in anni. Perchè, l’esercito americano è a tal punto incapace, oppure questa è una ulteriore prova che gli Usa hanno finanziato e sostenuto l’Isis per tutto questo tempo? Ci sono stati vari rapporti che ai soldati americani sia stato ordinato di non colpire obiettivi Isis, anche se avessero una chiara visione dei nemici, come questo articolo riporta: “Alcuni piloti degli Stati Uniti che sono tornati dalla guerra contro lo Stato islamico in Iraq stanno confermando che sono stati fermati dal lanciare il 75 per cento dei loro ordigni su obiettivi terroristici, perché non potevano ottenere l'autorizzazione per lanciare l'attacco, secondo un membro di spicco del Congresso.
Non possiamo ottenere l'autorizzazione anche quando abbiamo un chiaro obiettivo di fronte a noi ", ha detto Royce [rappresentante degli Stati Uniti, Ed Royce, presidente della Commissione Affari Esteri della Camera]. "Non capisco per nulla questa strategia, perché questo è ciò che ha permesso all'ISIS il proprio vantaggio e la capacità di reclutamento. Inoltre, perché il portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner, ha dovuto lottare per festeggiare il fatto che l’ISIS aveva perso Palmyra di recente?
10) L’Isis è sempre la scusa per ulteriori interventi armati:
Infine, si consideri questo: perché è l'ISIS sempre la scusa perfetta per un ulteriore intervento militare in Siria? Data la storia dell'ingerenza straniera in Siria, in particolare dagli Stati Uniti e Israele negli ultimi 70 anni, non è piuttosto conveniente che lo spettro dell'ISIS è la giustificazione offerta per proporre delle no-fly zone, attacchi aerei e truppe di terra? Come altro avrebbero fatto gli Stati Uniti e Israele a conquistare il Medio Oriente, senza il loro scagnozzo, l'ISIS?
Si prega di condividere questo articolo con coloro che non si sono ancora risvegliati alla verità sull'ISIS. Molti lo hanno già intravisto attraverso la propaganda. Una volta che noi siamo in numero sufficiente, l'utilità di questo gruppo terroristico ridicolo, pericoloso e vaudevilliano decadrà - e forse verrà raggiunta una massa critica di persone, per tirare via la tenda e, per una volta, avere un assaggio dei veri burattinai che tirano i fili della guerra.
Scambio di accuse tra Armenia e Azerbaijan; l'espansionismo turco e il pragmatismo russo evidenziano l'ennesimo fallimento europeo
Le ultime tensioni tra Mosca e Ankara erano emerse il 24 novembre 2015, quando la contraerea turca aveva abbattuto un jet russo, a margine, per così dire, del conflitto siriano. Al primo aprile, questo è lo scacchiere regionale. A 22 anni dal cessate il fuoco, nuovi scontri si sono verificati tra Armenia e Azerbaijan nel Nagorno-Karabakh, enclave a maggioranza armena e cristiana in territorio azero, la cui indipendenza, proclamata nel 1991, non è riconosciuta dalla comunità internazionale. Dopo il Medio Oriente, anche il Caucaso è dunque (di nuovo) campo di battaglia per la supremazia regionale di Russia e Turchia, senza trascurare il potenziale ruolo dell'Iran, parzialmente riammesso nella comunità internazionale dall'accordo sul programma nucleare e dal suo potenziale apporto alla guerra contro i cartelli del jihad in Siria e Iraq. In tale contesto, la componente etnica e confessionale del Nagorno-Karabakh fa da corollario al dedalo intricato di relazioni internazionali che si è andato instaurando dal crollo dell'Unione Sovietica. Un discorso che vale per il Caucaso, (dove si trovano anche Cecenia, Ossezia e Daghestan), come per i Balcani, non a caso due significative sacche di reclutamento di foreign fighters per l'autoproclamato Stato islamico (Daech).
Il Nagorno-Karabakh è al centro di contese territoriali sin dal suo tentativo di secessione del 1988, quando era ancora una delle Oblast autonome dell'URSS, come Cecenia, Ossezia del Nord e Ossezia del Sud. La politica demografica dell'allora segretario generale del Partito comunista e Presidente del consiglio dei ministri dell'Unione Sovietica Iosif Stalin consisteva nell'ostacolare in tutti i modi la formazione di territori etnicamente compatti, in quanto potenziale fattore di disgregazione. Così, il Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena ma in pieno territorio azero, è rimasto integrato nella compagine sovietica fino al suo dissolvimento. Nel 1991, quando sia Armenia che Azerbaijan hanno proclamato la loro indipendenza, la contesa territoriale è sfociata in una guerra che, secondo le stime, ha provocato circa 30mila morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Un ruolo non indifferente nel raggiungimento della tregua, siglata nel 1994 a Mosca, è stato giocato dall'Iran, che allora dovette fronteggiare la reazione della propria opinione pubblica, in particolare della numerosa minoranza azera che ancora abita nel suo territorio (16% circa della popolazione totale) e che chiedeva a Tehran di sostenere i “fratelli” sciiti azeri contro gli “infedeli” armeni. Gli Azeri, sia in Iran che in Azerbaijan, sono infatti in larga maggioranza musulmani sciiti duodecimani, la stessa religione ufficiale della Repubblica islamica.
Al di là degli sforzi del Gruppo di Minsk, istituito nel 1992 dall'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) per favorire una soluzione diplomatica del conflitto nel Nagorno-Karabakh, a rivendicare il ruolo di arbitro erano (e sono ancora) due potenze regionali rivali: Turchia e Russia, entrambe consapevoli della posizione strategica del Caucaso, ricco di gas naturale e passaggio ideale per i gasdotti verso l'Europa. Ankara, che ha con gli Azeri (popolazione di ceppo turco) profondi legami etnici, e con l'Armenia un'altrettanto profonda e storica inimicizia, sostiene Baku, con cui si è apertamente schierata anche la scorsa settimana. La Turchia del presidente Recep Tayyip Erdoğan, inoltre, è preda di deliri espansionistici e nostalgie ottomane, come ha ampiamente dimostrato a proposito della guerra in Siria, che per lui si riduce sostanzialmente alla guerra contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Mosca, dal canto suo, storicamente alleata dell'Armenia nel conflitto con l'Azerbaijan, negli ultimi giorni ha dato prova di un “impeccabile” pragmatismo politico: il Primo ministro Dimitri Medvedev, pur chiedendo a entrambe le parti di porre fine alle ostilità, ha dichiarato che la Russia continuerà a essere il primo esportatore di armi sia in Armenia che in Azerbaijan. In caso contrario, ha spiegato, qualche altro attore regionale potrebbe soppiantarla, distruggendo definitivamente l'equilibrio di forze (peraltro alquanto dinamico) in atto. “Le armi”, ha aggiunto Medvedev, “si possono e si dovrebbero comprare non solo per essere un giorno utilizzate, ma anche come fattore di deterrenza”. Il Cremlino, intanto, offre un contributo significativo alla guerra contro i cartelli del jihad, anche per motivi interni: l'immediato antecedente del cosiddetto “califfato” di Daech è stato fondato nel 2007 in Cecenia, altro territorio caucasico conflittuale. Si tratta dell'organizzazione di Doku Umarov, ucciso dall'intelligence russa nel 2013, in Qatar, e sostituito da Abu Muhammad al-Qatari.
Il 3 aprile l'Azerbaijan ha annunciato unilateralmente un cessate il fuoco e, due giorni dopo, è entrata in vigore una tregua, prodotto della mediazione russa. Ma le accuse reciproche di violazioni e gli scambi di artiglieria suscitano non pochi timori, soprattutto perché l'Unione Europea è oggi molto più debole di quanto non lo fosse negli anni '90, quando sperava di poter costituire un blocco geopolitico in grado di far pesare le proprie decisioni sul piano internazionale.