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Carlotta Caldonazzo
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Tra i “prodotti” mediorientali degli sviluppi geopolitici successivi al crollo dell'Unione Sovietica c'è la Turchia, aspirante membro dell'Unione Europea, ma anche pilastro dell'Alleanza atlantica (NATO): in Siria, Ankara raccoglie i frutti del suo pragmatismo politico dell'ultimo trentennio
Lo scorso 21 aprile, in un'intervista alla rete privata NTV, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato che la principale minaccia per la Turchia sono i partner strategici, criticando gli Stati Uniti e i loro alleati per il loro sostegno ai curdi delle Unità di difesa popolare (YPG) nella guerra contro i cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (IS). “Noi (turchi) non possiamo comprare armi dagli USA con il nostro denaro”, ha lamentato Erdoğan, “e purtroppo gli USA e le forze della coalizione danno gratuitamente queste armi, queste munizioni a organizzazioni terroristiche”. Quindi, ha accusato direttamente “i paesi occidentali” di strumentalizzare i terroristi dell'IS per sostenere “organizzazioni terroriste separatiste” curde. Dopo il suo commento ostentatamente equilibrato agli attacchi di USA, Francia e Gran Bretagna contro presunti siti di produzione e stoccaggio di armi chimiche in Siria, il presidente turco ha dunque marcato nuovamente le differenze tra Ankara e Washington: questa volta con il pretesto che dopo aver proposto all'ex presidente USA Barack Obama una collaborazione nella lotta contro il terrorismo, la Turchia è stata costretta ad affrontare questa guerra da sola, a causa della tattica temporeggiatrice degli Stati Uniti. Un riferimento all'operazione Ramo d'ulivo, lanciata da Ankara il 20 gennaio scorso: alcune regioni nella Siria settentrionale, tra le quali Afrin, ha precisato Erdoğan, sono state già “pulite” dalla presenza dei “terroristi”.
Per il presidente turco, la parola “terroristi” indica principalmente le YPG curde, che fanno riferimento al Partito dell'unione democratica (PYD), vicino al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Questo partito è ufficialmente ritenuto organizzazione terroristica anche dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea, che nondimeno hanno sostenuto le YPG nella guerra contro i cartelli del jihad. Contraddizioni simili hanno permesso alla Turchia di imporsi come attore protagonista nello scacchiere mediorientale, al punto tale da poter agire in piena autonomia da tutti gli altri attori regionali e mondiali. Questo è stato infatti il tono del ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu, la scorsa settimana, quando ha affermato che contrariamente alle aspettative del presidente francese Emmanuel Macron, il lancio di missili in Siria non è riuscito a “separare” la Turchia dal suo alleato russo. “Possiamo pensarla diversamente”, ha spiegato Çavuşoğlu, “ma le nostre relazioni con la Russia sono troppo solide per essere interrotte dal presidente francese”, anche se “non sono un'alternativa” a quelle con la NATO. Ankara conduce quindi una politica “conforme ai suoi interessi”, come ha puntualizzato il portavoce del governo turco, il vice primo ministro Bekir Bozdağ, senza schierarsi “pro o contro un paese”.
Sulla stessa linea si è espresso il 22 aprile il ministero degli Esteri turco a proposito dell'ultimo Rapporto sui diritti umani del Dipartimento di Stato USA. Il rapporto “privilegia i punti di vista di fonti legate ai terroristi”, “ignora i fatti” ed è “fondato su una considerazione distorta della responsabilità”, perché dà credito alle accuse di “circoli legati ai terroristi”. Esso inoltre ignora la lotta che la Turchia sta conducendo “contro il gruppo terrorista radicale FETÖ”, acronimo di Fetullahist Terrorist Organization, etichetta con cui le autorità turche bollano i sostenitori veri e presunti del predicatore islamico in esilio negli USA Fethullah Gülen. In proposito, il ministero degli esteri turco ha commentato che “non è una coincidenza che un simile rapporto, che riporta le parole di gruppi legati al terrorismo e descrive la lotta contro il terrorismo come un conflitto interno, è scritto in un paese dove vive il capo di FETÖ”. Sarà interessante ora osservare l'atteggiamento di Çavuşoğlu alla prossima riunione dell'Assemblea Generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a New York, prevista per il 24 e 25 aprile, sul tema della pace.
Erdoğan è riuscito quindi a instaurare relazioni con tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano i cui interessi siano compatibili, almeno in una certa misura, con quelli della Turchia. Anche al di fuori del complesso quadro mediorientale, Ankara si dice pronta ai negoziati per aderire all'Unione Europea, ma reagisce duramente a qualsiasi tentativo da parte di Bruxelles o di singoli paesi europei di mettere in dubbio i metodi autoritari delle autorità turche. Inoltre, dopo quasi due anni di tensioni con la Grecia, a seguito della decisione di Atene di concedere l'asilo agli ufficiali turchi fuggiti dopo il tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, Erdoğan ha affermato la necessità di una “pace”, apprezzando la volontà del primo ministro greco Alexis Tsipras di “voltare pagina”.
A questa “versatilità” in politica estera, corrispondono, sul fronte interno, l'impazienza di applicare la riforma costituzionale (approvata da un'esigua maggioranza al referendum del 2017) e la volontà di dare al nuovo sistema presidenziale una connotazione di massa. Per questo, consumata la rottura con l'antico alleato Gülen, Erdoğan cerca i consensi del tradizionale elettorato islamico (in buona parte conquistato proprio grazie a Gülen), pur mantenendo una solida alleanza con il Partito del movimento nazionalista (MHP) di Devlet Bahçeli. È a quest'ultimo che tende la mano quando, ad esempio, si scaglia contro USA e UE, perché i suoi voti potrebbero essere decisivi in vista delle prossime elezioni legislative e presidenziali. Una delle ragioni principali per cui il presidente turco ha voluto anticiparle al prossimo 24 giugno (erano previste per novembre 2019), su suggerimento di Bahçeli, è il rischio rappresentato da Meral Akşener, ex esponente dell'MHP che ha rotto con il partito e con Bahçeli a causa dell'atteggiamento di quest'ultimo, giudicato troppo compiacente nei confronti di Erdoğan. Soprannominata “la signora di ferro”, la Akşener ha fondato il Partito del bene (25 ottobre 2017), per proporre una forma di nazionalismo laico, critico nei confronti dell'islamizzazione della Turchia, ma anche della repressione scatenata da Erdoğan dopo il tentativo di colpo di Stato. Secondo le leggi turche, i partiti che non abbiano tenuto almeno un congresso nei sei mesi precedenti non possono partecipare alle elezioni: anticipando la data di queste ultime, la Akşener potrebbe essere esclusa dalla competizione.
Una scelta che è costata al presidente turco non poche critiche da parte delle opposizioni, che si sommano alle perplessità espresse dall'ONU a proposito della proroga (per la settima volta) dello stato di emergenza in Turchia. In proposito, Erdoğan ha chiarito che “lo stato di emergenza colpisce solo i terroristi”, quindi è una forma di tutela. Quanto alle elezioni, ha specificato che tutti i partiti potranno condurre la loro campagna con maggiore serenità e che “i brogli che si verificano alle elezioni americane non esistono nelle nostre elezioni”.
Il 18 marzo le Forze Armate Turche (TSK) della Repubblica di Turchia insieme alle forze armate dell’Esercito Libero Siriano (FSA) sono entrate nel centro di Afrin in Siria.
Dopo circa due mesi di scontri con i membri dell’Unità di Protezione Popolare (YPG-J) il governo al potere in Turchia ha ottenuto ciò che voleva. L’obiettivo dell’operazione era quello di “liberare la città dai terroristi”, anche perché le forze YPG e YPJ e la loro espressione partitica PYD sono state definite da parte del governo AKP (Partito dello Sviluppo e della Giustizia) come delle “organizzazioni terroristiche”.
In realtà non è stato soltanto il partito al governo da più di 15 anni ad adottare una definizione del genere. L’operazione è stata difesa da una buona parte della cittadinanza, oppure è stato fatto di tutto perché fosse così.
In questa seconda parte del mio approfondimento parlerò dei mezzi e dei metodi utilizzati dal governo per giustificare questa operazione. In primis i media, ma non soltanto, si sono messi a disposizione del governo. Insieme analizzeremo come la scuola pubblica, lo sport ed il mondo degli artisti sono stati utilizzati per creare un’opinione pubblica a favore della guerra.
Neanche un mese dopo l’inizio dell’intervento militare, un gruppo di artisti ha deciso di andare nella città di Hatay, al confine siriano, per dimostrare solidarietà ai soldati. Yavuz Bingöl, Tamer Karadağlı, Erhan Yazıcıoğlu, Erhan Güleryüz, Mustafa Ceceli e Zuhal Yalçın sono i primi nomi che saltano all’occhio. Il titolo dell’iniziativa era “Gli artisti insieme ai soldati”. Alla conferenza stampa, il 15 febbraio, era presente anche il vice presidente generale dell’AKP, Harun Karacan. Dopo l’incontro con la stampa i partecipanti sono andati in una caserma militare per incontrare i soldati e farsi delle fotografie. Tra i promotori dell’iniziativa c’era anche il cantante Erhan Güleryüz, l’ex solista del gruppo musicale Ayna. Güleryüz ha detto nel suo intervento: “Siamo qui per dire ai nostri soldati che gli 80 milioni di cittadini sono con loro”.
Pochi giorni dopo, il 23 febbraio, con un’iniziativa lanciata su internet da una serie di artisti, sono stati mandati numerosi messaggi di solidarietà ai soldati in missione. Mentre il famoso cantante di musica arabesca, Ibrahim Tatlises, definiva i soldati come degli “eroi”, la famosa attrice Hulya Koçyigit scriveva così: “ogni giorno prego perché i soldati ritornino sani e salvi a casa” e la famosa cantante Sibel Can scriveva queste parole per mostrare il suo sostegno: “Allah aiuti i nostri soldati”.
Forse il peggio è arrivato quando l’operazione si è conclusa. Il primo aprile un gruppo di artisti, insieme al Capo dello Stato Maggiore e al Presidente della Repubblica, si sono trovati in una caserma militare nella città di Hatay. Il cantante Ahmet Şafak ha descritto così il motivo della sua presenza in quel luogo: “Siamo qui accanto ai nostri figli. Abbiamo dimostrato che teniamo all’unità del nostro Stato e riteniamo che sia implacabile l’unità della nostra nazione turca”. Questa iniziativa è stata criticata duramente dai partiti all’opposizione (CHP e HDP) soprattutto per via delle canzoni patriottiche cantate dai cantanti con l’ausilio degli strumenti musicali in caserma. Il leader del Partito Popolare e Repubblicano, Kemal Kiliçdaroglu, ha trovato scorretto questo gesto allegro fatto in un contesto di morte. All’incontro erano presenti anche alcuni sportivi.
Con questi gesti “simbolici” il mondo artistico ha contribuito alla costruzione dell’immagine dell’operazione come se fosse una guerra d’indipendenza.
Il secondo campo, a livello nazionale e popolare, in cui si è cercato di legittimare e normalizzare la guerra, è stato il mondo dello sport.
Il primo marzo un gruppo di sportivi, insieme a un gruppo di artisti e numerosi parlamentari e dirigenti locali dell’AKP, sono andati nella città di Kilis per incontrare i soldati. Il 7 febbraio la società sportiva Aski Spor insieme ad alcuni atleti olimpici, ha lanciato un video messaggio in cui venivano pronunciate queste parole: “Sono nostre queste terre che abbiamo conquistato lottando nel 1071. E’ nostra questa patria”. Pochi giorni dopo l’inizio dell’operazione militare sono arrivate le prime notizie sulla morte dei soldati. Così la Federazione Turca Calcio (TFF) ha deciso di dedicare un minuto di silenzio prima di ogni partita “per commemorare i nostri martiri”. Ovviamente nelle tribune non mancava lo storico slogan patriottico “I martiri non muoiono, la patria non si spacca”. Nelle tribune non c’erano soltanto queste frasi ma c’erano anche dei momenti di grande coreografia. Prima della partita di calcio tra Konyaspor e Galatasaray, i tifosi della squadra anatolica hanno occupato una sezione intera scrivendo “Afrin” ed hanno alzato dei cartelli con scritto “Turchia”; in sottofondo non mancava un inno militare ottomano.
Il 15 marzo, alla luce dell’anniversario della vittoria militare dei Dardanelli del 1915, nelle tribune dello stadio appartenente alla squadra calcistica di Istanbul Basaksehir, si è vista sorgere la mappa rossa della Turchia con la bandiera disegnata sopra, i soldati con le divise dell’epoca ed in un angolo un soldato moderno che alzava la bandiera turca. Al centro di questo poster gigantesco c’erano alcuni giocatori della squadra che facevano il saluto militare. Sotto invece si leggeva questa frase: “Anche oggi, come il 18 marzo 1915, vinceranno i credenti, non quelli che sono in maggior numero”.
Ormai si parlava dell’operazione “Ramoscello d’ulivo” come di un intervento totalmente corretto e legittimo. Nei messaggi dei membri del governo, degli artisti e del mondo sportivo si leggevano soltanto parole nazionaliste e patriottiche. Si parlava di “conquistare” un territorio che per alcuni, in realtà, “era già nostro”. Non c’era spazio per avere dubbi sulla legittimità della guerra. Per chi avesse avuto qualche dubbio, invece, erano aperte le porte dei centri di detenzione. Di questo parlerò nel prossimo pezzo.
Come già detto, anche il mondo della musica ha sostenuto questa operazione militare. Il gruppo rap Geeflow ha lanciato il suo video su internet a favore dell’operazione. Il 24 febbraio è uscito il pezzo col titolo “Ramoscello d’ulivo”. Alcuni versi della canzone recitano: “Se ci sacrifichiamo, possiamo accedere al paradiso, se versiamo il nostro sangue, la patria diventa nostra”. Nel video ovviamente non mancano le immagini dei soldati e degli scontri, anche se non in modo netto e chiaro. Anche il rapper Yunus Akpunar si è dedicato a questa missione ed ha usato anche lui il nome dell’operazione come titolo del suo pezzo. In questo caso si vede il cantante allacciare i suoi anfibi e portare una casacca militare mentre canta la canzone. Alcuni versi del pezzo dicono: “Ci sono diversi terroristi nascosti tra di noi, facciamoci attenzione. Ci sono tanti traditori che vorrebbero dividere il nostro paese. Facciamoci attenzione e non dimentichiamoci dei nostri antenati”. In alcune immagini del video si vede il cantante sventolare la bandiera turca con una mano mentre con l’altra tiene una pistola grigia.
Un altro pezzo musicale invece è di Idris Altuner. Stavolta si tratta di un lavoro diverso. Mentre i pezzi rap sono tanti, Altuner decide di fare un pezzo tradizionale utilizzando gli strumenti e le melodie dell’orchestra militare ottomana, Mehter. Si tratta di un video professionale di alta qualità. Il cantante è vestito con dei costumi antichi e tradizionali. Durante il video si vedono i musicisti dell’orchestra Mehter. Nel pezzo in cui si vede il cantante andare su un cavallo in Cappadocia, Altuner pronuncia queste parole: “La vittoria si espanda da Afrin a Mimbic, tremino le montagne con il rumore degli anfibi del Turco”.
Forse la parte più aggressiva, per via dei suoi protagonisti, di tutta questa campagna di propaganda della guerra è quella del mondo della scuola.
Il 4 marzo, nella città di Bursa, gli studenti del Liceo Gursu Yildiz, si sono riuniti nel cortile della scuola per scrivere con i loro corpi la parola “Afrin” mentre li riprendeva un drone. Come sottofondo del video c’è una canzone militare ottomana. Nella città di Karabuk, sulla costa del Mar Nero occidentale, presso il Liceo Cumhuriyet un gruppo di studenti è sceso nel cortile per fare un’azione simile. Nel loro caso il lavoro svolto era più sofisticato. Mentre alcuni studenti scrivevano, con i loro corpi, “Ramoscello d’ulivo”, altri sventolavano una grande bandiera turca ed un altro gruppo con vestiti militari leggeva “il giuramento del commando”. Ovviamente anche in questo caso tutto è stato ripreso da un drone e nel video si sente una canzone militare ottomana.
In altri casi invece, oltre alla coreografia all’aperto, sono state fatte delle preghiere collettive di solidarietà con i soldati in missione. Proprio come nel caso della Scuola Femminile per gli Imam della città di Manisa, vicina alla costa dell’Egeo, dove 130 studentesse prima hanno scritto “Ramoscello d’ulivo” con i loro corpi, poi sotto la direzione del preside hanno letto delle preghiere.
Un altro caso di preghiera collettiva invece è stato fatto nella scuola elementare di Birikim Okullari di Istanbul. Stavolta la rappresentazione si è svolta all’interno, su un palco. Un gruppo di bambini che hanno, molto probabilmente, meno di 10 anni, si sono uniti con i palmi rivolti verso il cielo. Al centro un bambino prega per il bene della nazione e dei soldati ad Afrin e in sottofondo si sentono gli altri dire “Amen” in modo collettivo. Il video realizzato con gli studenti delle elementari si conclude con un pezzo ripreso all’aperto in cui si vedono decine di bambini sventolare una grande bandiera turca gridando: “I martiri non muoiono, la patria non si spacca”.
L’operazione militare “Ramoscello d’ulivo” è stata un elemento di grande dimostrazione di potere del governo ed è stata utilizzata anche per rafforzare i sentimenti nazionalistici già presenti nel tessuto sociale e storico del Paese. In realtà il governo AKP non ha fatto nulla di nuovo. In Turchia il terreno è molto fertile per le politiche nazionaliste e religiose, la sua storia è piena di periodi del genere. Il sentimento/l’orgoglio nazionalista ha radici molto profonde nella storia dei cittadini ed è il frutto di una serie di politiche nel mondo dell’istruzione, dell’arte, dello sport e non solo.
Dove non è stato possibile ottenere il sostegno popolare a favore dell’operazione militare, il governo, insieme al sistema giudiziario e alle forze dell’ordine, ha attivato il meccanismo della repressione e della censura. Questo sarà il tema del prossimo pezzo di questa serie.
da l"Avanti"
Venerdì 6 aprile presidii di fronte alle Prefetture e nelle piazze siciliane-A Catania alle ore 17,30 in via Etnea, angolo via Prefettura
Il giro d’Italia 2018 quest’anno partirà da...Israele. Dietro un contributo di MILIONI di euro da parte di Israele, gli organizzatori del Giro hanno deciso di far diventare lo sport uno strumento di propaganda; le prime tre tappe del Giro d’Italia partiranno da città israeliane, con partenza da Gerusalemme ovest. Tale scelta non è casuale, soprattutto dopo che il Presidente USA Donald Trump ha tentato di far dichiarare all’ONU Gerusalemme capitale di Israele. Che, se mai avvenisse, sarebbe l’atto simbolicamente conclusivo dell’annessione dei territori palestinesi. Anche il mese della data della partenza non è causale. Il 15 maggio 2018 è il 70° anniversario della creazione dello Stato d’Israele. Ma questa è anche la data che sancisce la Nakba, ossia la deportazione del popolo palestinese a seguito dell’occupazione del 1948.
Il 30 marzo, Giornata della Terra per il popolo palestinese, l’esercito israeliano ha ucciso 17 palestinesi e ne ha feriti 1630 nell’illusione di poter fermare la Grande Marcia per il Ritorno. I crimini israeliani, da decenni denunciate da decine di risoluzioni dell’Onu, sempre disattese, proseguono grazie alle collusioni del complesso militare industriale occidentale ed alle complicità politiche degli Usa, dei governi europei e delle petro-monarchie arabe; le stesse istituzioni del nostro paese si rendono complici dello stato sionista avviando progetti comuni di sviluppo e di produzione di armamenti, che coinvolgono non poche Università italiane, promuovendo esercitazioni militari congiunte e fornendo materiale bellico. Denunciamo inoltre la subalternità di quasi tutti i media che hanno falsato la realtà di ciò che è accaduto nella Striscia di Gaza: non scontri o guerriglia , ma criminali cecchini israeliani che hanno fatto il tiro a segno su migliaia di donne, bambini ed uomini palestinesi.
Oramai non c’è più spazio per l’ipocrita equidistanza fra vittime e carnefici!
Facciamo appello al governo, dimissionario, Gentiloni ed a tutte le forze politiche, all’UCI (Unione Ciclistica Internazionale) di non essere complici dei crimini sionisti, strumentalizzando un momento di sport popolare, e di adoperarsi affinchè vengano annullate le 3 tappe del Giro d’Italia in Israele (4-5-6 maggio).
Chiamiamo alla mobilitazione tutte le realtà solidali con la resistenza del popolo palestinese durante le tappe siciliane, a partire dalla prima in Italia l’8 maggio a Catania, aderendo alla campagna internazionale “CambiaGiro”.
Boicottiamo l’economia di guerra israeliana
Lo sport è libertà Lo stato d’Israele è morte
Terra, Vita, Libertà per il popolo palestinese
Comitato catanese di Solidarietà col popolo palestinese (seguici su FB)
Assemblea regionale di Solidarietà col popolo palestinese
Catania: https://www.facebook.com/events/1986077491642097/
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Messina: https://www.facebook.com/events/668123156859193/
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https://bdsitalia.org/index.php/la-campagna-bds/ultime-notizie-bds/2405-pacbi-usa
http://nena-news.it/gaza-hrw-uccisioni-di-manifestanti-illegali-e-calcolate/
Tensioni diplomatiche, strappi all'interno di alleanze storiche, violazioni più o meno velate della sovranità degli Stati, tentativi di ritorno al protezionismo o di rispolverare dinamiche da guerra fredda, ma se il prossimo assetto geopolitico mondiale dovesse affermarsi nel cyberspazio?
Il duro botta e risposta tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il premier israeliano Benjamin Netanyahu riaccende uno scontro innescato nel 2010 dalla morte dei nove attivisti turchi, uno dei quali con cittadinanza statunitense, a bordo della nave Mavi Marmara. Commentando la brutale repressione da parte dell'esercito israeliano delle proteste nella Striscia di Gaza, Erdoğan ha chiamato Netanyahu “occupante” e “terrorista”, aggiungendo: “ciò che fai ai palestinesi oppressi sarà parte della storia e noi non lo dimenticheremo mai”. Immediata la reazione del premier israeliano, che ha respinto gli “insegnamenti morali” di un paese, la Turchia, che “da anni bombarda i civili indiscriminatamente”. Abbandonata la linea moderata dell'ex ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu, Erdoğan mira ad affermare il ruolo di potenza regionale della Turchia. Da un lato, quindi, con l'operazione ramo di ulivo, lanciata a gennaio, continua il suo progetto di sottrarre più territori possibili dal controllo delle forze curde siriane; dall'altro affianca Russia e Iran nelle vesti di garante del cessate il fuoco in Siria del dicembre 2016, ponendosi tra i promotori di una soluzione politica del conflitto; infine, ospita la delegazione statunitense in visita ufficiale per la quinta riunione del vertice sull'industria della difesa di Turchia e USA, confermando l'intenzione di cooperare con Washington e con la NATO in materia di sicurezza e lotta al terrorismo. Una tanto complessa quanto pragmatica costruzione di reti diplomatiche, che nelle intenzioni di Erdoğan dovrebbe assicurare ad Ankara un significativo peso geopolitico, anche attraverso il controllo di regioni che si estendono oltre i suoi confini riconosciuti.
La quasi totalità degli attuali focolai di tensione internazionali riguarda più o meno esplicitamente la nozione di sovranità nazionale, imperniata su due presupposti: primo, il diritto di ogni Stato a gestire autonomamente le proprie vicende interne; secondo, più controverso, la fondatezza e l'opportunità dell'identificazione di uno Stato con una nazione. Un concetto, dunque, già svuotato di senso dalla globalizzazione degli anni '90 del secolo scorso, nuova fase evolutiva del sistema capitalista. Ma la questione era resa ancor più urgente dagli interventi militari pseudo-umanitari a guida statunitense, ad esempio nel Golfo e nei Balcani, e dalle guerre civili a sfondo etnico o religioso in Asia e Africa (per citare qualche esempio, Nagorno Karabagh, Cecenia, il decennio nero in Algeria, Ruanda, Liberia, Sierra Leone, Somalia, Etiopia ed Eritrea). Dopo la caduta dell'Unione Sovietica, e la conseguente demonizzazione dell'utopia socialista fondata sulla solidarietà sociale e internazionale, era necessario dunque gestire nel modo più efficace possibile la transizione dal bipolarismo mondiale a un assetto dominato da un'unica potenza, gli Stati Uniti. L'obiettivo era fare in modo che tale processo recasse vantaggio alle economie “vincitrici” conglobandole in un unico sistema, in grado al contempo di garantire profitti e limitare al massimo le tensioni sociali e politiche interne e internazionali. Tuttavia, se il mercato è globale, la sovranità tenderà a essere parimenti globale, e se l'economia si basa più sulla finanza che sulla produzione, saranno gli interessi degli organismi finanziari a prevalere. Per le istituzioni politiche dei singoli Stati il margine di manovra iniziava a essere quasi nullo.
Parallelamente, già durante la guerra fredda, e con rinnovato vigore dagli anni '90, Washington ha incoraggiato l'emergere di potenze regionali. Anzitutto, per l'area europea e africana, è stata rafforzata la Comunità europea (oggi Unione Europea, il cui progetto iniziale risale al 1957), con la stipula del trattato di Maastricht e la definizione di precise responsabilità geopolitiche: la Germania riunificata avrebbe dovuto gestire le relazioni con l'Europa dell'Est anche in vista dell'ampliamento della NATO, mentre la Francia si sarebbe occupata dei rapporti con l'Africa (in primis la galassia soprannominata Françafrique). Quanto alle regioni economicamente strategiche dei Balcani e del Caucaso ex-sovietico, Washington ha scelto come riferimento la Turchia, in parte su basi storiche ma principalmente per il suo peso all'interno della NATO. Per il Medio Oriente e il mondo arabo (attraversato dalla diatriba tra nazionalismo e islam politico) la scelta è ricaduta invece sull'Arabia Saudita, sede dei principali luoghi santi dell'islam, ma soprattutto eminente produttore di petrolio, con i suoi satelliti nel Golfo. Infine, in funzione anti-cinese, Washington ha rinsaldato l'alleanza con il Giappone, oggi resa ancor più significativa dalle tensioni con la Corea del Nord e dall'eventualità che le velleità protezionistiche del presidente Donald Trump deteriorino le relazioni tra Stati Uniti e Cina. Particolare riguardo è stato poi riservato da Washington alle relazioni amichevoli con Israele: dopo gli accordi di Camp David del 1978, due tappe fondamentali sono state gli accordi di Oslo e l'intesa siglata lo stesso anno alla Casa Bianca dal premier israeliano Yitzhak Rabin e dal capo dell'Organizzazione di Liberazione della Palestina Yasser Arafat, alla presenza del presidente USA Bill Clinton.
In realtà la riduzione, o l'abolizione di fatto, della sovranità nazionale (e peggio ancora del principio di sovranità popolare, pilastro della democrazia) intesa come controllo e gestione di un territorio, rappresenta l'altra faccia della medaglia di un fenomeno meno evidente, ma più incisivo. L'avvento e la diffusione della “rete” internet, e successivamente l'estensione capillare dell'uso di computer portatili, tablet e smartphones, ha consentito di svolgere in uno spazio virtuale importanti operazioni che fino a un paio di decenni fa erano compiute in uno spazio fisico, come acquisti e pagamenti. All'interno della nuova società di massa 2.0 (o meglio 4.0) è praticamente impensabile una vita sociale “ordinaria” senza una connessione a internet. Le dispute sulla vendita dei dati degli utenti delle reti sociali, e soprattutto le restrizioni all'uso della rete imposte in paesi come la Russia, la Cina o l'Iran mostrano che il vero scacchiere geopolitico mondiale potrebbe ben presto spostarsi dagli spazi “tradizionali” di terra, acqua e aria a quello meno definibile e perciò più penetrante della rete.
15.01.2018 - Ormai è evidente, e viene spesso ripetuto, che Trump costituisce la più grave minaccia alla pace e alla sicurezza mondiali per lo meno degli ultimi 3 decenni (dopo che il Trattato INF del 1987 allontanò la minaccia di un conflitto nucleare, che il Doomsday Clock aveva valutato in soli 3 minuti dalla Mezzanotte), oltre che all’ambiente. Più volte ho commentato che la crisi coreana è stata causata in primo luogo dalla politica di minacce e di ricatti esercitata dagli Usa nei passati 20 anni, e che attualmente il vero irresponsabile è Trump che dichiara “fuoco e fiamme” mentre si trova sotto scacco, ben più che Kim Jon-un, il quale ha deciso di correre un rischio calcolato per uscire dalla crisi e da tempo offre la sua disponibilità a negoziare.
Che Trump stia irresponsabilmente alzando la posta anche per quanto riguarda le armi e la minaccia nucleari è confermato una volta di più dalle indiscrezioni che sono trapelate sulla Nuclear Posture Review che la sua amministrazione adotterà a fine mese. La Nuclear Posture Review (NPR) è un documento che definisce la “postura”, la strategia nucleare che ogni amministrazione statunitense stabilisce all’inizio del proprio mandato. Quella precedente dell’amministrazione Obama risale a 8 anni fa: essa senza dubbio tradiva decisamente il discorso visionario pronunciato da Obama nel 2009 a Berlino su “un modo libero dalle armi nucleari” (e il Trattato Nuovo START che un anno dopo stabilì con la Russia confermava questa delusione), ma tuttavia questi atti, pur timidi e insufficienti, depotenziavano la minaccia nucleare immediata che era stata riaccesa dall’amministrazione Bush Jr. (il quale nella guerra all’Iraq del 2003 esplicitamente non aveva escluso il ricorso a qualunque tipo di arma, con evidente riferimento all’arma nucleare; e ho anche ricordato recentemente le sbronze con allucinazioni nucleari di Nixon https://www.pressenza.com/it/2017/10/alla-fiera-delle-follie-nucleari-mondo-sempre-meno-sicuro/, in che mani siamo!).
Trump ci riporta indietro di tre decenni, quando però i demenziali arsenali nucleari con 70.000 testate erano per così dire “motivati” con l’intenzione della deterrenza per la minaccia della “Distruzione mutua assicurata”, mentre oggi le armi nucleari vengono sviluppate dichiaratamente per potere essere usate!
Forse è opportuna una riflessione prima di esaminare i provvedimenti in materia nucleare. Trump ha recentemente proclamato la sua intelligenza superiore, ma credo che anche lo psicoanalista più in erba possa dire che egli è in preda a fobie, ossessioni, deliri di persecuzione (quindi in realtà senso di inferiorità) – sublimate, mascherate da deliri di onnipotenza – che come presidente della potenza militare più grande di tutti i tempi ne fa un pericolo capitale per tutta l’umanità. Ovviamente non si può ignorare che Trump impersona enormi interessi del complesso militare-industriale, e la componente più retriva, i falchi, del Pentagono.
La NPR di Trump
La sua NPR ne è una testimonianza emblematica: la paranoia che che gli Usa rischino di perdere la loro supremazia nucleare e debbano rafforzare negli altri la dissuasione ad usare queste armi portano a decisioni e provvedimenti che invece aggravano ulteriormente questo rischio, e finiscono per ritorcersi contro gli stessi Stati Uniti e diminuire la loro sicurezza (il paranoico è spesso autolesionista). Sapendo che gli Usa si sono preparati con le modernizzazioni in corso (avviate dall’amministrazione del Nobel per la Pace Obama!) per poter sferrare un first strike disarmante alla Russia (https://www.pressenza.com/it/2017/05/lallarme-un-first-strike-nucleare-alla-russia/), gli ulteriori potenziamenti e minacce rischiano di indurre uno Stato che sia minacciato a sferrare un primo colpo prima di venire annientato! E Trump di queste micce nucleari ne ha innescate più di una (https://www.pressenza.com/it/2017/12/bando-nucleare-urgente-molte-micce-innescate-la-santa-barbara-nucleare/).
Veniamo specificamente alla NPR di Trump. Alcune cose si sapevano, erano nell’aria o già dichiarate e le ho commentate su Pressenza, ma l’imprimatur ufficiale pone il sigillo definitivo, il punto di non ritorno.
Gli aspetti cruciali si possono così riassumere: gli Usa svilupperanno nuove testate nucleari di piccola potenza – “più utilizzabili” (more usable) –, e ampliano le circostanze in cui potranno fare ricorso a queste armi, abbassando così la soglia per il loro uso. Si deve sottolineare che il citato Nuovo START del 2010 vieta espressamente lo sviluppo di testate nucleari nuove (anche se questa norma è già stata aggirata dalle modifiche sostanziali della testata termonucleare B-61, che diventa di fatto una testata nuova, con nuove capacità militari). Vediamo i due aspetti separatamente.
Nuove testate di piccola potenza
La nuova NPR stabilisce lo sviluppo di due nuovi tipi testate nucleari:
1) Una nuova testata low yield, profondamente modificata, per i missili Trident D5 lanciati dai nuovi sommergibili nucleari della classe Columbia (con una sola parte della testata termonucleare, quella a fissione). Wolfsthal, che fu assistente speciale di Obama per il controllo degli armamenti e la nonproliferazione, commenta che questo progetto è “decisamente stupido” (dumb) perché il lancio di una testata di piccola potenza rivelerebbe la posizione del sommergibile: “spendiamo 5 miliardi di $ per ogni sommergibile per renderlo invisibile, e gli mettiamo testate il cui lancio lo renderebbe vulnerabile a un attacco russo; per me è inconcepibile dal punto di vista della strategia navale”. La paranoia che si tramuta in autolesionismo.
2) La reintroduzione di missili cruise, pure lanciati dai sommergibili: questa decisione, che Trump aveva preannunciato qualche settimana fa, viene giustificata con il pretesto di rispondere all’accusa alla Russia di violare il trattato INF (che ho già commentato in: https://www.pressenza.com/it/2017/12/bando-nucleare-urgente-molte-micce-innescate-la-santa-barbara-nucleare/).
Anche un bambino capisce che sviluppando testate nuove si va in direzione diametralmente opposta a quella del disarmo nucleare!
Inoltre, l’affidamento a testate di piccola potenza è estremamente pericoloso perché alimenta l’illusione, e quindi la tentazione, che esse possano venire realmente utilizzate, e quindi abbassa pericolosamente la soglia per una guerra nucleare. Ormai è chiaro da molto tempo che una guerra nucleare non può rimanere limitata, poiché l’escalation e la generalizzazione sarebbero inevitabili, e gli effetti dell’esplosione o di uno scambio anche limitati di testate nucleari avrebbe conseguenze catastrofiche e livello globale (si veda Alfonso Navarra, “Gli ordigni nucleari come arma di distruzione climatica”, https://www.pressenza.com/it/2018/01/gli-ordigni-nucleari-armi-distruzione-climatica/).
Allargamento delle circostanze per l’uso delle armi nucleari
In questa direzione va anche un notevole allargamento delle norme che consentono il ricorso alle armi nucleari. La precedente NPR di Obama escludeva tale uso contro “ Stati non nucleari aderenti al Trattato di Non Proliferazione che ottemperano gli obblighi del trattato”. La nuova NPT di Trump apre invece la possibilità di ricorrere alle armi nucleari in risposta a un attacco non nucleare “che causi vittime di massa (mass casualties)” o sia “diretto contro infrastrutture critiche o siti di comando e controllo nucleare”: l’ambiguità di termini quali “mass casualties” e “critical infrastructure” implica che gli Stati Uniti possono considerare il ricorso alle armi nucleari praticamente in qualsiasi conflitto armato!
Vale la pena di ricordare che nella Conferenza di Revisione del TNP del 2010 gli Stati Uniti e gli altri Stati nucleari si impegnarono solennemente a “diminuire il ruolo e il significato delle armi nucleari in tutti i concetti, le dottrine e le politiche militari e di sicurezza” e di perseguire negoziati per l’ulteriore riduzione degli arsenali nucleari.
Inutile dire che la NPR ribadisce esplicitamente le note tesi dell’amministrazione Trump sul nuovo trattato TPAN del 7 luglio scorso, dichiarando che esso “ha alimentato aspettative completamente irrealistiche”, e danneggia il regime di non proliferazione.
Oltre a quanto detto, gli Usa non ratificheranno il Trattato di messa al bando dei test nucleari (CTBT) del 1996: gli Usa non lo avevano mai ratificato nei trascorsi 21 anni (perché si sono sempre riservati di poter riprendere i test nucleari, e avevano potenziato il poligono del deserto del Nevada), ma ora questo rifiuto è ufficiale.
La NPR non fa assolutamente menzione dell’Art. VI del TNP.
Per gentile concessione dell'agenzia di Stampa Pressenza
La accettazione di Trump a trattare direttamente la questione coreana con Kim Jong – Un, pone il Presidente USA in una posizione molto più vulnerabile di qualsiasi altro capo di Stato.
Le conseguenze del negoziato - In tema di politica estera la mossa coreana, ossia, la proposta di una trattativa, che adesso Trump ha in mano, sarebbe molto perniciosa per la stessa leadership USA qualora il Presidente non ottenesse un risultato di tutta evidenza nel negoziato diretto con la Corea del Nord.
E’ però, altrettanto vero che il fronte politico contrario, composto dagli avversari di Trump, subirebbe in caso di un accordo con la Corea un notevole spiazzamento; spiazzamento soprattutto se questo ipotetico accordo fosse sufficiente a riportare la sicurezza del mondo fino adesso vicino al conflitto nucleare, nei ranghi dell’accettabilità.
Il previsto imminente colloquio Usa – Corea per un incontro diretto sulla contesa nucleare - di questo in effetti si tratta – ha sicuramente imbarazzato la stessa Cina, tradizionale alleata della Corea del Nord.
La Cina infatti, finora avvantaggiata dall’escalation delle ostilità tra Pyongyangd e Washington, avrebbe potuto far leva sul pragmatismo della Corea del Sud stretta tra i due fuochi, per incoraggiare l’unificazione territoriale tra le due Coree per affinità culturale, in tal caso, a gravissimo discapito degli americani in stanza nel sud-est asiatico.
Questo sarebbe equivalso per la Cina ad estendere anche a Seul, la medesima influenza che ha su Pyongyang. Invece, il colloquio diretto per un concordato tra USA e Corea del Nord, non ha dato alla Cina - che comunque si è dovuta diplomaticamente congratulare per questo tentativo di conciliazione - la ambita possibilità di fungere da mediatrice con i propri indirizzi politici. Attualmente, gli eventuali possibili suggerimenti della Cina, non possono contare sulla propria supremazia ideologica comunista, perché come si vedrà, il comunismo coreano ha uno stampo politico diverso.
Le convergenze tra USA e Corea su questo ipotetico accordo, saranno così svincolate dalle dirette pressioni cinesi su Pyongyang; pressioni che sicuramente avrebbero salvaguardato la politica espansionistica della stessa Cina nell’Oceano Pacifico.
L’ anima della Corea - La Corea del Nord è formalmente uno stato socialista aderente ai principi del marxismo leninismo, ma è anche uno degli Stati che reggono il passo della necessità interne con la convenienza dei rapporti internazionali. L’ideologismo politico della Cina maoista e comunista, non trova perciò, riscontro nel regime coreano, quantunque alleato strategico fin dagli anni 50. L’aiuto alla guerra coreana contro gli Stati Uniti che la Cina ha assicurato attraverso le proprie forniture militari alla Corea del Nord, ha garantito l’ attuale regime prima e dopo l’accordo di suddivisione territoriale lungo la linea del 38º parallelo tra le due Coree.
La Corea del Nord è piuttosto uno Stato retto da un governo che dal punto di vista occidentale, assume i connotati dittatoriali di uno Stato nazionalista che concepisce l’amministrazione del Paese a immagine e somiglianza della stessa impostazione politica dominante. Non a caso, appaiono dei parallelismi tipici dell’estremismo di tutta evidenza, come l’emozione delirante e la dedizione fino al sacrificio del popolo coreano per il suo capo a cui tutto è dovuto, in quanto egli esprime simbolicamente l’anima della nazione.
L’interesse cinese - Merita una rapida digressione non sottovalutare il rilevante interesse della Cina anche nei confronti delle risorse minerarie coreane perché le immense potenziali ricchezze del sottosuolo coreano sono stimate dai 5 mila ai 10 mila miliardi di dollari. Tra queste vi sono i giacimenti delle cosi dette “terre rare” tra i più capienti del mondo, recentemente scoperti nelle alture della Corea del Nord. Attualmente la richiesta di mercato di questi elementi per una vasta gamma di applicazioni industriali, soprattutto del settore elettrico, è strategica. La Cina infatti, sensibilizzata pelosamente dal cosiddetto ambientalismo occidentale, ha investito enormi risorse economiche per la rapida trasformazione nel mondo dell’ attuale trasporto, da motori endotermici a benzina e diesel, a motori elettrici. Come poi se qui da noi, la ricarica delle batterie, avvenisse senza inquinamento, per grazia ricevuta.
La forza dei negoziati - La possibilità di successo per un colloquio di tal genere per le due Coree, poggia su aspetti di sicura convenienza politica interna, soprattutto della Corea del Nord, prima ancora che su valori internazionalmente riconosciuti a Trump.
Per quanto riguarderà l’eventuale successo americano, soprattutto di fronte all’opinione occidentale, questo dovrà superare con ampio margine, le attuali frontiere strategiche commerciali americane nell’est asiatico, e, dimostrare che il risultato ottenuto dalla Corea del Nord ha sicuramente rafforzato la leadership USA nel mondo, attraverso il Presidente Trump.
Svincolare la Corea del Nord dalle dipendenze cinesi e favorire in questo caso, una confederazione coreana aperta all’Occidente in cambio della denuclearizzazione militare, sarebbe un notevole successo per Trump e per il tutto l’ Occidente. Questa possibilità non è proprio così remota anche se del tutto in salita.
Altrettanto allettante sarebbe per il popolo coreano un novello “piano Marshall” USA che giocherebbe a favore del dittatore Kim Jong-un per l’improvviso benessere che si riverserebbe sulla popolazione e che sarebbe comunque a lui attribuito. La sopravveniente abbondanza dei beni di prima necessità, perennemente carenti, costituirebbe infatti per Kim Jong-un, un rafforzativo del consenso interno di grande rilevanza politica.
Il paradosso della razza - Altro fattore coreano di carattere emotivo tradizionale molto sentito dall’intero Paese è il concetto della cosiddetta purezza di razza, della quale noi occidentali disconosciamo da un pezzo ogni valore. Per i coreani del Nord invece, che si considerano l’espressione genuina della purezza asiatica, la riunificazione della propria gente assume un valore di notevole importanza anche per la Corea del Sud. Disse infatti, Kim Young-sam, il primo Presidente sud coreano eletto democraticamente, che nessun alleato è migliore di uno della stessa razza.
In conclusione - Ciò starebbe a significare che un eventuale Stato federale tra le due Coree avrebbe una motivazione interna in più, per preferire questa nuova realtà.
Se così avvenisse il successo del Presidente Trump consisterebbe nella denuclearizzazione militare della Corea del Nord e nel relativo allentamento coreano dai vincoli strategici dalla Cina. La Cina però non si limiterà a guardare.
Quando è l’emotività a prevalere sull’opportunità e sulle ragioni di Stato non si agisce per il bene del Paese ma, piuttosto, per ideologia politica
La scelta emotiva - Non giova all’Italia denigrare emotivamente le decisioni del Presidente Trump osteggiate dagli avversari politici e personali che non lasciano passare un giorno senza esprimere sotto ogni pretesto, la loro contestazione.
L’America è una nazione che ha, in particolare con l’Europa, l’interesse di mantenere il saldo legame che unisce le due realtà territoriali della civiltà occidentale oltre oceano e che finora ha consentito ai due continenti di realizzare e mantenere il grado di progresso e di confort della nostra quotidianità a cui non vorremmo mai rinunciare.
Se i livori ideologici di alcuni rappresentanti dell’informazione come ad esempio, la “nostra inviata speciale da New York”, dovessero far breccia attraverso la TV di Stato (che non è una TV delle tante) sulla consolidata simpatia del popolo italiano verso gli Stati Uniti d’America, sarebbe allora inevitabile che l’effetto di reciprocità prendesse il sopravvento. D’altra parte, a prescindere entro certi ragionevoli limiti della libertà di informazione dei vari inviati speciali da parte dello Stato che controlla l’emittente, se dopo un anno in mezzo di pressoché quotidiano report, gli organi di controllo lasciano immutate le cose, questo significa condividere l’informazione. Ma in tal caso si rischia di vanificare secoli di cordialità e amicizia tra Italia e America che hanno costituito il ponte della libertà a duro prezzo conquistata. E tutto questo in cambio di che cosa?
“Tanto peggio tanto meglio” - E altrettanto evidente il sarcasmo che si prepara in vista di un insuccesso di Trump, già preannunciato su alcuni importanti quotidiani del fronte opposto verso il Presidente degli Stati Uniti d’America che ha accettato di trattare con il dittatore coreano le modalità di un accordo antinucleare.
Non sarebbe la prima volta leggere nella stampa nostrana le buone ragioni a sostegno di Kim Yong nel confronto con il mondo occidentale rappresentato dall’America, per offrire un motivo in più ai seminatori di discordia contro le legittime ragioni dell’Occidente, purché possano indebolire la posizione di Trump.
La preferenza che sottende tanto astio nei confronti del bistrattato Presidente accusato di tutto e di più, trae origine dal risultato della scelta elettorale che le diverse lobby politiche avversarie ritenevano dover essere appannaggio dello schieramento di Hillary Clinton. Ma l’insuccesso delle elezioni presidenziali, ancora non digerito dopo un anno e mezzo di quotidiani tentativi denigratori, si è progressivamente trasformato in una avversione permanente verso Trump.
Non stupisca pertanto, qualora l’incontro tra Usa e Corea del Nord non abbia un successo americano più che evidente, un sostegno dei media occidentali a favore delle “buone ragioni” coreane, per indebolire ulteriormente la posizione di Trump.
Il premio Nobel per la Pace - D’altra parte, altri segni collaterali di rivalutazione mediatica del pregresso mandato presidenziale Usa al "democratico" ma forse più "conservatore" Obama, a cui è stato attribuito il Premio Nobel per la Pace nel 2009, si contrappongono sicuramente alla attuale politica USA del Presidente Trump, ritenuta temeraria.
È previsto infatti un iniziale talk-show su Net flix, ossia sugli schermi tv, nonché una successiva consacrazione hollywoodiana programmata per l’ ex Presidente Obama con la di lui famiglia, in antitesi a tutto quanto Trump rappresenterebbe di negativo, con particolare riferimento alla aggressiva politica estera a lui attribuita.
Certamente, trattandosi di opinioni e di libero pensiero, ognuno in Occidente può esprimere ciò che vuole; ma per quanto riguarda i fatti, come ad esempio, l’assegnazione a Obama nel 2009 del premio Nobel per la Pace, si fa rilevare semplicemente la pretestuosità politica dell’attribuzione di questo premio. Egli infatti, se non è stato il promotore, ha comunque preso parte a ben sette guerre nel mondo: Afghanistan, Libia, Somalia, Pakistan, Yemen, Iraq e Siria mentre il Presidente Trump, che risponde verbalmente in modo congruente alle tracotanze coreane, naturalmente è lui il guerrafondaio.
14 mar 2018 — Sono in corso simultaneamente, nella prima metà di marzo, due grandi esercitazioni di guerra – l’una nel Mediterraneo di fronte alle coste della Sicilia, l’altra in Israele – ambedue dirette e supportate dai comandi e dalle basi Usa/Nato in Italia.
Alla Dynamic Manta 2018 – esercitazione di guerra sottomarina, appoggiata dalle basi di Sigonella e Augusta e dal porto di Catania – partecipano forze navali di Stati uniti, Canada, Italia, Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Grecia e Turchia, con 5000 uomini, navi di superficie, sottomarini, aerei ed elicotteri.
L’esercitazione è diretta dal Comando Nato di Lago Patria (Jfc Naples), agli ordini dell’ammiraglio statunitense James Foggo. Nominato dal Pentagono come i suoi predecessori, egli comanda allo stesso tempo le Forze navali Usa in Europa e le Forze navali Usa per l’Africa, il cui quartier generale è a Napoli Capodichino.
A cosa serva la Dynamic Manta 2018 lo spiega lo stesso ammiraglio Foggo: è iniziata la «Quarta battaglia dell’Atlantico», dopo quelle delle due guerre mondiali e della guerra fredda. Essa viene condotta contro «sottomarini russi sempre più sofisticati che minacciano le linee di comunicazione marittima fra Stati uniti ed Europa nel Nord Atlantico».
L’ammiraglio accusa la Russia di condurre «una attività militare sempre più aggressiva», citando come esempio caccia russi che sorvolano a bassa quota navi Usa. Non dice però che queste navi da guerra incrociano nel Baltico e nel Mar Nero a ridosso del territorio russo.
Lo stesso fanno i droni-spia Usa Global Hawk che, decollando da Sigonella, volano due o tre volte la settimana lungo le coste russe sul Mar Nero.
L’ammiraglio Foggo, mentre col cappello di comandante Nato prepara in Italia le forze navali alleate contro la Russia, col cappello di comandante delle Forze navali Usa in Europa invia dall’Italia la Sesta Flotta alla Juniper Cobra 2018, esercitazione congiunta Usa-Israele diretta principalmente contro l’Iran.
Dalla base di Gaeta è giunta ad Haifa la Mount Whitney, nave ammiraglia della Sesta Flotta, accompagnata dalla nave da assalto anfibio Iwo Jima. La Mount Whitney è un quartier generale galleggiante, collegato alla rete globale di comando e controllo del Pentagono anche attraverso la stazione Muos di Niscemi.
La Juniper Cobra 2018 – cui partecipano 2500 militari Usa e altrettanti israeliani – è iniziata il 4 marzo, mentre il premier Netanyahu, incontrando il presidente Trump, sosteneva che l’Iran «non ha rinunciato alle sue ambizioni nucleari» (non dicendo che è Israele l’unica potenza nucleare in Medioriente) e concludeva «l’Iran va fermato, questo è il nostro comune compito».
L’esercitazione simula la risposta israeliana al lancio simultaneo di missili da Libano, Iran, Siria e Gaza. Lo scenario reale può invece essere quello di un lancio missilistico falsamente attribuito agli Hezbollah libanesi alleati dell’Iran, quale pretesto per attaccare il Libano mirando all’Iran.
Al massino 72 ore dopo, dichiarano ufficiali statunitensi e israeliani, arriverebbero dall’Europa (in particolare dalle basi in Italia) forze statunitensi per affiancare quelle israeliane nella guerra.
La presenza alla Juniper Cobra del generale Scaparrotti, capo del Comando Europeo degli Stati uniti, conferma tale piano, che egli ha definito in un incontro con lo stato maggiore israeliano l’11 marzo. Poiché Scaparrotti è anche Comandante supremo alleato in Europa (carica che spetta sempre a un generale Usa), il piano prevede una partecipazione Nato, soprattutto italiana, a sostegno di Israele in una guerra su larga scala in Medioriente.
(il manifesto, 13 marzo 2018)
Il discorso del presidente russo Putin sullo stato della nazione, dedicato alle questioni interne e internazionali, ha suscitato in Italia scarso interesse politico-mediatico e qualche commento ironico. Eppure dovrebbe essere ascoltato con estrema attenzione.
Evitando giri diplomatici di parole, Putin mette le carte in tavola. Egli denuncia il fatto che negli ultimi 15 anni gli Stati uniti hanno alimentato la corsa agli armamenti nucleari, cercando di acquisire un netto vantaggio strategico sulla Russia.
Ciò viene confermato dalla stessa Federazione degli scienziati americani: per mezzo di rivoluzionarie tecnologie, gli Usa hanno triplicato la capacità distruttiva dei loro missili balistici da attacco nucleare.
Allo stesso tempo – sottolinea Putin – gli Usa, uscendo dal Trattato Abm, hanno schierato un sistema globale di «difesa missilistica» per neutralizzare la capacità russa di rispondere a un first strike nucleare.
Sulla scia dell’espansione della Nato ad Est, hanno installato siti missilistici in Romania e in Polonia, mentre altri sistemi di lancio (di missili non solo intercettori ma anche da attacco nucleare) sono su 18 navi da guerra dislocate in aree vicine al territorio russo.
La Russia ha più volte avvertito gli Stati uniti e gli stati europei membri della Nato che, in risposta a tale schieramento, avrebbe adottato delle contromisure. «Nessuno però ci ascoltava, quindi ora ascoltateci», avverte Putin.
Passa quindi al linguaggio della forza, l’unico evidentemente che capiscono a Washington. Dopo aver ricordato che dopo il crollo dell’Urss la Russia aveva perso il 44,6% del suo potenziale militare e che gli Usa e i loro alleati erano convinti che essa non l’avrebbe più potuto ricostruire, Putin mostra su due grandi schermi i nuovi tipi di armi strategiche sviluppati dalla Russia.
Un missile da crociera lanciato dall’aria armato di testata nucleare, con raggio d’azione praticamente illimitato essendo alimentato a energia nucleare, una rotta imprevedibile e la capacità di penetrare attraverso qualsiasi difesa anti-missile.
I missili Kinzhal e Avangard con velocità ipersonica (oltre 10 volte quella del suono).
Il missile balistico intercontinentale Sarmat da 200 tonnellate su piattaforma mobile, con raggio di 18000 km, armato di oltre 10 testate nucleari che manovrano a velocità ipersonica per sfuggire ai missili intercettori.
Un drone sottomarino più veloce di un siluro che, alimentato a energia nucleare, percorre distanze intercontinentali a grande profondità colpendo porti e fortificazioni costiere con una testata nucleare di grande potenza.
Putin rivela le caratteristiche di tali armi perché sa che gli Stati uniti stanno sviluppando armi analoghe e vuole avvertirli che la Russia ormai è al loro livello o a un livello superiore.
Ciò conferma che la corsa agli armamenti nucleari si svolge non sulla quantità ma, sempre più, sulla qualità delle armi, ossia sul tipo di vettori e sulle capacità offensive delle testate nucleari.
Conferma allo stesso tempo il crescente pericolo che corriamo avendo sul nostro suolo armi nucleari e installazioni strategiche Usa, come il Muos e il Jtags in Sicilia.
Il ministro degli esteri russo Lavrov denuncia che «Stati europei non-nucleari membri della Nato, violando il Trattato di non-proliferazione, vengono addestrati dagli Usa all’impiego di armi nucleari tattiche contro la Russia».
L’avvertimento è chiaro, anche per l’Italia. Ma nessuno dei principali partiti ne ha preso atto, cancellando dalla campagna elettorale, con una sorta di tacito accordo, qualsiasi riferimento alla Nato e alle armi nucleari. Come se ciò non avesse niente a che fare con il nostro futuro e la nostra stessa vita.
(il manifesto 6 marzo, pubblicata il 9 marzo)
28 feb 2018 — Il piano fu preannunciato tre anni fa, durante l’amministrazione Obama, quando funzionari del Pentagono dichiararono che «di fronte all’aggressione russa, gli Stati uniti stanno considerando lo spiegamento in Europa di missili con base a terra» (il manifesto, 9 giugno 2015).
Ora, con l’amministrazione Trump, esso viene ufficialmente confermato. Nell’anno fiscale 2018 il Congresso degli Stati uniti ha autorizzato il finanziamento di «un programma di ricerca e sviluppo di un missile da crociera lanciato da terra da piattaforma mobile su strada».
È un missile a capacità nucleare con raggio intermedio (tra 500 e 5500 km), analogo ai 112 missili nucleari Cruise schierati dagli Usa a Comiso negli anni Ottanta.
Essi vennero eliminati, insieme ai missili balistici Pershing 2 schierati dagli Usa in Germania e agli SS-20 sovietici schierati in Urss, dal Trattato sulle forze nucleari intermedie (Inf), stipulato nel 1987. Esso proibisce lo schieramento di missili con base a terra e gittata compresa tra 500 e 5500 km.
Washington accusa ora Mosca di schierare missili di questa categoria e dichiara che, «se la Russia continua a violare il Trattato Inf, gli Stati uniti non saranno più vincolati da tale trattato», ossia saranno liberi di schierare in Europa missili nucleari a raggio intermedio con base a terra.
Viene però ignorato un fatto determinante: i missili russi (ammesso che siano a raggio intermedio) sono schierati in funzione difensiva in territorio russo, mentre quelli statunitensi a raggio intermedio sarebbero schierati in funzione offensiva in Europa a ridosso del territorio russo. È come se la Russia schierasse in Messico missili nucleari puntati sugli Stati uniti.
Poiché continua la escalation Usa/Nato, è sempre più probabile lo schieramento di tali missili in Europa. Intanto l’Ucraina ha testato agli inizi di febbraio un missile a raggio intermedio con base a terra, realizzato sicuramente con l’assistenza Usa.
I nuovi missili nucleari statunitensi – molto più precisi e veloci dei Cruise degli anni Ottanta – verrebbero schierati in Italia e probabilmente anche in paesi dell’Est, aggiungendosi alle bombe nucleari Usa B61-12 che arriveranno in Italia e altri paesi dal 2020.
In Italia, i nuovi Cruise sarebbero con tutta probabilità di nuovo posizionati in Sicilia, anche se non necessariamente a Comiso. Nell’isola vi sono due installazioni Usa di primaria importanza strategica.
La stazione Muos di Niscemi, una delle quattro su scala mondiale (2 negli Usa, 1 in Australia e 1 in Sicilia) del sistema di comunicazioni satellitari che collega a un’unica rete di comando tutte le forze statunitensi, anche nucleari, in qualsiasi parte del mondo si trovino.
La Jtags, stazione di ricezione e trasmissione satellitare dello «scudo anti-missili» statunitense, che sta per divenire operativa a Sigonella. È una delle cinque su scala mondiale (le altre si trovano negli Stati uniti, in Arabia Saudita, Corea del Sud e Giappone). La stazione, che è trasportabile, serve non solo alla difesa anti-missile ma anche alle operazioni di attacco, condotte da basi avanzate come quelle in Italia.
«Gli Stati uniti – spiega il Pentagono nel rapporto «Nuclear Posture Review 2018» – impegnano armi nucleari, dispiegate in basi avanzate in Europa, per la difesa della Nato. Queste forze nucleari costituiscono un essenziale legame politico e militare tra Europa e Nord America».
Legandoci alla loro strategia non solo militarmente ma politicamente, gli Stati uniti trasformano sempre più il nostro paese in base avanzata delle loro armi nucleari puntate sulla Russia e, quindi, in bersaglio avanzato su cui sono puntate le armi nucleari russe.
(il manifesto, 27 febbraio 2018)
21 feb 2018 — C’è un partito che, anche se non compare, partecipa di fatto alle elezioni italiane: il Nato Party, formato da una maggioranza trasversale che sostiene esplicitamente o con tacito assenso l’appartenenza dell’Italia alla Grande Alleanza sotto comando Usa.
Ciò spiega perché, in piena campagna elettorale, i principali partiti hanno tacitamente accettato gli ulteriori impegni assunti dal governo nell’incontro dei 29 ministri Nato della Difesa (per l’Italia Roberta Pinotti), il 14-15 febbraio a Bruxelles.
I ministri hanno prima partecipato al Gruppo di pianificazione nucleare della Nato, presieduto dagli Stati uniti, le cui decisioni sono sempre top secret. Quindi, riunitisi come Consiglio Nord Atlantico, i ministri hanno annunciato, dopo appena due ore, importanti decisioni (già prese in altra sede) per «modernizzare la struttura di comando della Nato, spina dorsale della Alleanza».
Viene stabilito un nuovo Comando congiunto per l’Atlantico, situato probabilmente negli Stati uniti, allo scopo di «proteggere le linee marittime di comunicazione tra Nord America ed Europa». Si inventa in tal modo lo scenario di sottomarini russi che potrebbero affondare i mercantili sulle rotte transatlantiche.
Viene stabilito anche un nuovo Comando logistico, situato probabilmente in Germania, per «migliorare il movimento in Europa di truppe ed equipaggiamenti essenziali alla difesa». Si inventa in tal modo lo scenario di una Nato costretta a difendersi da una Russia aggressiva, mentre è la Nato che ammassa aggressivamente forze ai confini con la Russia. Su tale base saranno istituiti in Europa altri comandi della componente terrestre per «migliorare la risposta rapida delle nostre forze».
Previsto anche un nuovo Centro di Cyber Operazioni per «rafforzare le nostre difese», situato presso il quartier generale di Mons (Belgio), con a capo il Comandante supremo alleato in Europa che è sempre un generale Usa nominato dal presidente degli Stati uniti.
Confermato l’impegno ad accrescere la spesa militare: negli ultimi tre anni gli alleati europei e il Canada l’hanno aumentata complessivamente di 46 miliardi di dollari, ma è appena l’inizio. L’obiettivo è che tutti raggiungano almeno il 2% del pil (gli Usa spendono il 4%), così da avere «più denaro e quindi più capacità militari». I paesi europei che finora hanno raggiunto e superato tale quota sono: Grecia (2,32%), Estonia, Gran Bretagna, Romania, Polonia.
La spesa militare dell’Unione europea – è stato ribadito in un incontro con la rappresentante esteri della Ue Federica Mogherini – deve essere complementare a quella della Nato.
La ministra Pinotti ha confermato che «l’Italia, rispettando la richiesta Usa, ha cominciato ad aumentare la spesa per la Difesa» e che «continueremo su questa strada che è una strada di responsabilità». La via dunque è tracciata. Ma di questo non si parla nella campagna elettorale.
Mentre sull’appartenenza dell’Italia all’Unione europea i principali partiti hanno posizioni diversificate, sull’appartenenza dell’Italia alla Nato sono praticamente unanimi. Questo falsa l’intero quadro.
Non si può discutere di Unione europea ignorando che 21 dei 27 paesi Ue (dopo la Brexit), con circa il 90% della popolazione dell’Unione, fanno parte della Nato sotto comando Usa. Non si possono ignorare le conseguenze politiche e militari – e allo stesso tempo economiche, sociali e culturali – del fatto che la Nato sta trasformando l’Europa in un campo di battaglia contro la Russia, raffigurata come un minaccioso nemico: il nuovo «impero del male» che attacca dall’interno «la più grande democrazia del mondo» con il suo esercito di troll.
(il manifesto, 20 febbraio 2018)
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Erdogan (a sin.) con Mattarella |
Dalla sua entrata nell'Organizzazione del trattato dell'Atlantico del Nord (NATO), Ankara è passata dal profilo di alleato mansueto e utile a quello di partner indispensabile; ora, forte della sua posizione e delle relazioni tattiche con Russia e Iran, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan presenta il conto ai suoi vecchi alleati
L'operazione Ramo di ulivo, lanciata dalla Turchia nella regione siriana di Afrin nella notte tra il 19 e il 20 gennaio, ha sostanzialmente due finalità strategiche. Erdoğan infatti intende da un lato affermarsi sullo scenario politico interno come l'unica figura in grado di difendere i confini della Turchia e la sicurezza nel suo territorio, dall'altro imporsi come interlocutore indispensabile nel futuro assetto strategico dell'intera regione. Ambiguità e pragmatismo, con cui Ankara ha dato una veste di legittimità alle sue aspirazioni egemoniche, le hanno consentito di costruirsi un ruolo di attore di primo piano tra i Balcani e il Medio Oriente sin dai tempi della guerra fredda. Gia nel 1950, l'anno successivo alla fondazione della NATO, la Turchia contribuì con 5.000 uomini al contingente dell'Organizzazione delle nazioni unite (ONU) a guida statunitense impegnato nella guerra tra le due Coree, che si concluse nel 1953. Fu questo il “pagamento anticipato” dell'ingresso nell'Alleanza atlantica, avvenuto ancor prima della fine del conflitto, nel 1952. Una decisione che causò una svolta nella politica estera turca, che il padre della patria Atatürk immaginava orientata essenzialmente all'area eurasiatica, quindi tesa a stabilire buone relazioni con l'Unione Sovietica. Tale cambiamento (che non comportò una rottura completa delle relazioni con Mosca) permise alla Turchia di potenziare il proprio esercito grazie al sostegno della NATO, ma soprattutto di Washington, con cui Ankara stabilì relazioni bilaterali solide. Infatti, il dominio sovietico sul Mar Nero rendeva indispensabile per il blocco occidentale il controllo degli Stretti, che il Trattato di Losanna del 1923 aveva assegnato alla Turchia.
Tale strategia ebbe il suo coronamento a partire dagli anni '90 del XX secolo, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, nei due decenni in cui la Cina rimase sostanzialmente estranea alle dinamiche che posero le basi del nuovo (dis)ordine mondiale, i cui esiti disastrosi hanno nel conflitto siriano la loro manifestazione più evidente. Nel ventennio tra anni '90 e primi anni 2000, la Turchia si impose di fatto come pedina indispensabile del controllo statunitense nei Balcani e in area caucasica, facendo leva nel primo caso sui legami culturali e religiosi con le popolazioni musulmane, nel secondo sui legami “etnici” con gli azeri. In tal modo ottenne da sola, nell'ambito della globalizzazione, lo stesso peso geopolitico dell'Unione Europea, concepita inizialmente come strumento per impedire eventuali tentativi di espansione sovietica a Ovest, poi (a partire dal trattato di Maastricht del 1992) come mediatore in vista dell'estensione del sistema di alleanze USA. Un piano strategico nel quale la Germania avrebbe dovuto gestire la “transizione” nei paesi dell'Europa orientale, mentre la Francia avrebbe dovuto curare i rapporti con la sponda meridionale del Mar Mediterraneo. Nondimeno, dal momento in cui Washington si impose come unica potenza mondiale, l'ONU, fondata dopo la seconda guerra mondiale per limitare al massimo il diritto di ricorrere alla guerra per dirimere i conflitti, divennero sempre più manifestamente mezzi per stabilire il suo controllo americano su regioni un tempo a vario titolo comprese nella sfera di influenza sovietica.
Se la Turchia può rimproverare agli USA di sostenere quelli che considera i “terroristi” delle Unità di difesa popolare siriane (YPG curde) è quindi anzitutto a causa della perdita di credibilità degli organismi sovranazionali, in primis dell'ONU, le cui risoluzioni acquistano un'efficacia direttamente proporzionale alla loro utilità per Washington e i suoi alleati, e dell'Unione Europea. In secondo luogo, Ankara può facilmente trarre profitto dalla linea dei “due pesi e due misure” adottata da Europa e USA nelle relazioni internazionali. Tale linea è divenuta particolarmente evidente dagli anni '90, quando gli Stati Uniti, rimasti l'unica potenza mondiale dopo la caduta dell'URSS, hanno di fatto modificato le regole internazionali sul ricorso alla guerra stabilite dalla Carta dell'ONU nel 1945. Uno sviluppo di cui è particolarmente responsabile il governo USA di William Jefferson Clinton (1993-2001), che attribuì alla Turchia il ruolo di “gendarme” della globalizzazione nei Balcani (di concerto con la Germania) e in Medio Oriente. In quest'ultimo scenario, tra i maggiori disastri provocati dal monopolarismo mondiale a guida statunitense spiccano la libertà di Israele di ignorare le risoluzioni ONU e le difficili condizioni del popolo curdo. Per il primo caso basti citare che l'iniziativa del presidente USA Donald John Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele affonda le sue radici in una legge approvata dal Congresso nel 1995 (che autorizzava il trasferimento della rappresentanza diplomatica di Washington da Tel Aviv a Gerusalemme). Nel secondo caso, il sostegno statunitense alle forze curde siriane delle Unità di difesa popolare (YPG) nella guerra contro i cartelli del jihad non solo non ha impedito che la Turchia le prendesse come obiettivo delle operazioni militari lanciate nel gennaio scorso, anzi, al contrario, viene utilizzato da Ankara come strumento di pressione sugli Stati Uniti. Il governo turco infatti ha invitato domenica scorsa Washington a “recuperare le armi inviate ai terroristi”, da una posizione di forza: il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), cui sono affiliate le YPG in Siria, è nella lista delle organizzazioni terroristiche non solo in Turchia, ma anche negli Stati Uniti e in Europa. Inoltre, l'alleanza recentemente stipulata con Mosca e Tehran per la gestione dei colloqui di pace tra le fazioni in guerra in Siria ha aumentato il peso di Ankara nella regione.
Così, Erdoğan con l'operazione Ramo di ulivo sta tentando di imporre il proprio ruolo nei Balcani e in Medio Oriente, non più come gendarme degli USA ma come soggetto politico con una propria visione strategica. Nei Balcani devastati dalle politiche miopi di Bruxelles e Washington esercita un controllo culturale attraverso la fondazione e il finanziamento di moschee e centri islamici. In Siria invece punta a privare i curdi del controllo dei loro territori e di un qualsiasi peso politico in futuri negoziati di pace. Domenica il presidente turco ha sottolineato per l'ennesima volta la continuità tra Impero ottomano e attuale Repubblica di Turchia, ossia quella rinata dopo il rocambolesco tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016, unita attorno al “nuovo” padre della patria, che mira a garantire l'unità del paese (che in realtà significa repressione del dissenso) e la sua sicurezza interna ed esterna (contro i nemici del PKK). Domenica scorsa il Partito democratico dei popoli (HDP, partito turco filo-curdo) ha eletto i suoi nuovi due dirigenti, visto che poche sono le speranze di liberare dal carcere i precedenti. Messa a tacere ogni dialettica istituzionale, il nuovo sultano presenta il conto ai vecchi alleati.
Salvini: "Un obbligo di 6-8 mesi, ragazzi e ragazze potranno scegliere se farlo civile o militare. Meglio militare: educa all'uso delle armi, evitando disastri come quello di Macerata. E integra chi è venuto dall'altra parte del mondo crescendolo nell'amore per l'Italia".
Si leggono sui quotidiani le dichiarazioni di intenti del leader della Lega Salvini circa la reintroduzione del servizio di leva obbligatorio: insomma, come dice un noto scrittore americano "A volte ritornano". Le opinioni non possono essere che discordanti. Chi vorrebbe andare a fare la naja al giorno d'oggi? Pochini fra i nostri ragazzi credo. Da molti si dice che il servizio militare sia tempo gettato alle ortiche. La vita è tanto comoda in casa con mamma e papà, no? Meglio tirare a campare, fare i bamboccioni che crescere quasi di colpo. Meno rogne, meno regole, meno, anzi, assolutamente niente disciplina. Guardate che qui non sto affatto propugnando le idee del buon Salvini che il militare l'ha fatto e proprio in quella caserma milanese oggi adibita a ricovero o rifugio migranti, la caserma Montello. Però… però qualche ragione l'ha pure quando dice che la Naja militare "Educa a un uso responsabile consapevole dell'arma, come avviene in Svizzera, anche per evitare i disastri che vediamo in questi giorni e quando sei in camerata non conta nulla dove sei nato. E un servizio di leva obbligatorio, civile o militare ma soprattutto militare, aiutarebbe l'integrazione di ragazzi che sono venuti qui dall'altra parte del mondo e che cresceranno con l'amore per l'Italia. Credo poi – Continua Salvini - che per i nostri ragazzi sia meglio battagliare in Parlamento per il servizio militare obbligatorio che per la liberalizzazione di alcune droghe. Mio figlio ha 14 anni e io spero che un giorno possa dire che il suo papà ha fatto qualcosa di concreto. "
E per quanto concerne all'aggravio delle spese statali per il mantenimento di un esercito di leva Salvini afferma che: "Se si vuole i soldi si trovano. Non credo nel solo servizio civile, perché se uno vuole oggi ha mille possibilità. Quindi meglio un obbligo di 6-8 mesi, per ragazzi e ragazze che potranno scegliere se farlo civile o militare. Molti Stati che hanno disarmato ora stanno tornando sui propri passi". Credo comunque che la vecchia Naja di buona memoria qualche successo l'avesse ottenuto ritengo io: aveva fatto in modo che ragazzi del nord e ragazzi del sud si amalgamassero fra loro, conoscessero le rispettive culture fondendole poi comunque in quella nazionale. Si sentivano soprattutto italiani e non più solo siciliani o piemontesi. E guardate che non fu poco! I ricordi di chi scrive, ormai lontani tanti anni da quei tempi, sono comunque positivi. Frequentavo l'università ma non pensai che il servizio militare fosse la perdita di diciotto mesi della mia vita e che avrebbe compromesso i miei studi. Infatti non fu così. Ero felice di indossare la divisa alpina dell'esercito italiano come avevano fatto a loro tempo, mio padre e mio nonno e che lo si voglia credere o no fui arricchito da quell'esperienza. Quando uscii per l'ultima volta dalla "Cesare Battisti" di Merano sapevo di avere una certezza in più nella mia vita.
Silvio Foini
L'ITALIA NEL PIANO NUCLEARE DEL PENTAGONO
Comitato promotore della campagna #NO GUERRA #NO NATO
Italia
25 gen 2018
Il Nuclear Posture Review 2018, il rapporto del Pentagono sulla strategia nucleare degli Stati uniti, è attualmente in fase di revisione alla Casa Bianca. In attesa che sia pubblicata la versione definitiva approvata dal presidente Trump, è filtrata (più propriamente è stata fatta filtrare dal Pentagono) la bozza del documento di 64 pagine.
Esso descrive un mondo in cui gli Stati uniti hanno di fronte «una gamma senza precedenti di minacce», provenienti da stati e soggetti non-statali. Mentre gli Usa hanno continuato a ridurre le loro forze nucleari – sostiene il Pentagono – Russia e Cina basano le loro strategie su forze nucleari dotate di nuove capacità e assumono «un comportamento sempre più aggressivo anche nello spazio esterno e nel cyberspazio».
La Corea del Nord continua illecitamente a dotarsi di armi nucleari. L’Iran, nonostante abbia accettato il piano che gli impedisce di sviluppare un programma nucleare militare, mantiene «la capacità tecnologica di costruire un’arma nucleare nel giro di un anno».
Falsificando una serie di dati, il Pentagono cerca di dimostrare che le forze nucleari degli Stati uniti sono in gran parte obsolete e necessitano di una radicale ristrutturazione. Non dice che gli Usa hanno già avviato, nel 2014 con l’amministrazione Obama, il maggiore programma di riarmo nucleare dalla fine della guerra fredda dal costo di oltre 1000 miliardi di dollari.
«Il programma di modernizzazione delle forze nucleari Usa – documenta Hans Kristensen della Federazione degli scienziati americani – ha già permesso di realizzare nuove tecnologie rivoluzionarie che triplicano la capacità distruttiva dei missili balistici Usa».
Scopo della progettata ristrutturazione è, in realtà, quello di acquisire «capacità nucleari flessibili», sviluppando «armi nucleari di bassa potenza» utilizzabili anche in conflitti regionali o per rispondere a un attacco (vero o presunto) di hacker ai sistemi informatici.
La principale arma di questo tipo è la bomba nucleare B61-12 che, conferma il rapporto, «sarà disponibile nel 2020». Le B61-12, che sostituiranno le attuali B-61 schierate dagli Usa in Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, rappresentano – nelle parole del Pentagono – «un chiaro segnale di deterrenza a qualsiasi potenziale avversario, che gli Stati uniti posseggono la capacità di rispondere da basi avanzate alla escalation».
Come documenta la Federazione degli scienziati americani, quella che il Pentagono schiererà nelle «basi avanzate» in Italia ed Europa non è solo una versione ammodernata della B61, ma una nuova arma con una testata nucleare a quattro opzioni di potenza selezionabili, un sistema di guida che permette di sganciarla a distanza dall’obiettivo, la capacità di penetrare nel terreno per distruggere i bunker dei centri di comando.
Dal 2021 – specifica il Pentagono – le B61-12 saranno disponibili anche per i caccia degli alleati, tra cui i Tornado italiani PA-200 del 6° Stormo di Ghedi. Ma, per guidarle sull’obiettivo e sfruttarne le capacità anti-bunker, occorrono i caccia F-35A.
«I caccia di nuova generazione F-35A – sottolinea il rapporto del Pentagono – manterranno la forza di deterrenza della Nato e la nostra capacità di schierare armi nucleari in posizioni avanzate, se necessario per la sicurezza». Il Pentagono annuncia quindi il piano di schierare F-35A, armati di B61-12, a ridosso della Russia. Ovviamente per la «sicurezza» dell’Europa.
Nel rapporto del Pentagono, che il senatore democratico Edward Markey definisce «roadmap per la guerra nucleare», c’è dunque in prima fila l’Italia. Interessa questo a qualche candidato alle nostre elezioni politiche?
(il manifesto, 23 gennaio 2018)