L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Politics (385)

    Carlotta Caldonazzo

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August 12, 2016

Dall'inizio di agosto, gli Stati Uniti hanno rafforzato il loro impegno sul quarto fronte della guerra dichiarata ai cartelli del jihad oltre ad Afghanistan, Iraq e Siria; ma i fattori di divisione più preoccupanti vengono dall'interno dell'Alleanza Atlantica


Dalla morte del colonnello Muammar Gheddafi, il cammino della Libia verso l'instaurazione di uno stato di diritto, e persino verso l'instaurazione di uno stato, si può a buon diritto definire un'Odissea. Odyssey Dawn era il nome dato da Washington alle operazioni militari del 2011, nelle quali un ruolo importante fu giocato da Francia e Gran Bretagna. L'intervento, che ufficialmente avrebbe dovuto proteggere i civili da Gheddafi spianando la via al processo democratico, ha finito per destabilizzare l'intera regione, come dimostra il colpo di stato in Mali del 2012. In Libia, intanto, le milizie un tempo artificialmente alleate per rovesciare il regime, non trovano un accordo: il conflitto si polarizza gradualmente e si arriva alla formazione di due governi rivali, l'uno con sede a Tobruk e riconosciuto dalla comunità internazionale, l'altro con sede a Tripoli e vincitore delle elezioni del 2012. Dall'inizio del 2015 gruppi islamici che si proclamano affiliati ai cartelli del jihad del cosiddetto Stato islamico (Daech) iniziano a prendere il controllo di alcune aree, in particolare a Sirte e Derna. Tutto questo malgrado la presenza in territorio libico (non sempre dichiarata) di truppe speciali statunitensi, britanniche, francesi e italiane. E malgrado l'imposizione, di fatto, da parte della comunità internazionale di un governo di accordo nazionale (GNA), non votato da nessuno dei due parlamenti rivali e non riconosciuto dai due rispettivi presidenti.

Nel 2016 Washington ha messo in atto un piano, con l'obiettivo dichiarato di sostenere il governo di accordo nazionale, favorire la stabilizzazione e combattere i gruppi affiliati a Daech. Anche questa nuova serie di operazioni, coordinata dalla AFRICOM (comando delle truppe USA in Africa) fa riferimento all'Odissea, ma si articola in tre fasi. La prima, Odyssey Resolve, avviata all'inizio di quest'anno, comprende voli di ricognizione e supervisione congiunti a operazioni di intelligence; con la seconda, Junction Serpent, subentra la raccolta informazioni su “eventuali” bersagli da colpire, magari su richiesta del GNA e sotto la copertura della risoluzione ONU 2259 del 2015. I raid contro questi bersagli, infine, fanno parte della terza fase Odyssey Lightning: bombardamenti di supporto all'assedio di Sirte (città natale di Gheddafi, ultimamente sotto il controllo dei cartelli del jihad) da parte dell'esercito che fa riferimento al GNA. Un intervento controverso, definito illegale sia dal governo di Tripoli che dall'ambasciatore russo in Libia, ma soprattutto una mossa rischiosa, visti i risultati delle operazioni internazionali degli ultimi decenni. Come ha osservato il generale Sean MacFarland, comandante USA in Iraq, i successi militari non indeboliscono Daech, ma ne determinano la riorganizzazione in altri luoghi o secondo diverse modalità, come, ad esempio, l'adozione di tattiche di guerriglia. È quanto accaduto ad al-Qaeda in Afghanistan, mentre in Iraq, Siria e Libia i cartelli del jihad sono stati un “rifugio” di molti ex sostenitori dei regimi rovesciati.

 

Concentrando gli sforzi sulla guerra dichiarata al terrorismo, la comunità internazionale sembra dimenticare che non è questo il principale problema della Libia, ma l'assenza di uno stato e l'estrema difficoltà di fondare istituzioni in grado di gestire il paese. Inoltre, lo stesso aggrava le tensioni internazionali, acuite dagli ultimi sviluppi della situazione politica (e militare) in Turchia e dal recente riavvicinamento tra Ankara e Mosca, essenzialmente economico ma ricco di ripercussioni sul piano geopolitico. Tensioni che si riflettono in conflitti che, sia in Medio Oriente che in Libia, vengono portati avanti da numerosi gruppi che si contendono il controllo di un territorio e hanno, ciascuno da solo o con alleanze posticce, reti di alleanze a livello internazionale. È emblematico il caso del generale libico Khalifa Haftar, che nel 2014 ha lanciato l'operazione “dignità” nell'Est del paese, ufficialmente contro le milizie islamiche, e nel marzo 2015 ha guidato un'offensiva militare per “liberare” Tripoli dai combattenti di Fajr Libia, coalizione di gruppi islamici. Comandante dell'esercito durante il regime di Gheddafi, dopo la sua caduta Haftar ha ottenuto il sostegno di Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed è sospettato di avere legami con l'intelligence USA. Infine, lo scorso aprile, guidando una campagna per sottrarre Benghasi e, nelle intenzioni, Sirte da Daech, è arrivato anche il sostegno della Francia. Il suo peso politico in Libia, che va ben oltre la sua carica ufficiale di comandante dell' “esercito nazionale” e ministro della difesa del governo di Tobruk, rappresenta un ostacolo quasi insormontabile per il GNA.

 

Gli intrecci di alleanze che si sono avvicendati e sovrapposti dopo la fine della guerra fredda si stanno rivelando come altrettanti fattori di destabilizzazione. Si pensi ai privilegi di cui gode l'Arabia Saudita, importante esportatore di petrolio ma anche baluardo contro l'influenza iraniana in Medio Oriente. Il rapporto della Commissione congiunta di inchiesta statunitense, costituita immediatamente dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, oltre a sostenere la possibilità (pur precisando la necessità di prove, quindi di ulteriori ricerche) di contatti tra gli attentatori e “individui connessi al governo saudita”, evidenzia la scarsa collaborazione di Riyadh e il suo rifiuto di condividere informazioni su persone sospette e indagate dall'FBI, in quanto persone a conoscenza di segreti riguardanti la sicurezza nazionale. Nello stesso rapporto (secretato dall'ex presidente USA George W. Bush) si legge, peraltro, che l'FBI non aveva individuato queste reti di contatti prima degli attentati proprio in virtù dell'alleanza tra USA e Arabia Saudita. Ultimamente, poi, è la Turchia a suscitare tensioni. Dopo il “golpe fallito”, il comportamento del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha provocato in Europa dure reazioni, mentre le pressioni di Ankara su Washington per l'estradizione del predicatore islamico Fethullah Gülen hanno aperto un pericoloso contrasto con gli USA. Eppure la NATO ha reso la Turchia (seconda potenza militare dell'alleanza dopo gli USA) indispensabile nella “guerra al terrorismo”, anche se il principale obiettivo turco in Siria sono i Curdi del Partito di Unione Democratica più che i cartelli del jihad. Dal canto suo, l'Europa ha reso la Turchia indispensabile nella gestione del flusso dei profughi dalla Siria, arrivando persino a definirla “paese sicuro”, dimenticando i bombardamenti continui nelle regioni a maggioranza curda. A volte gli alleati possono rappresentare una minaccia più grave dei nemici stessi.

August 01, 2016

Che il tentativo di colpo di stato del 15 luglio rappresenti un punto di svolta nella storia della Repubblica turca, è certo; ma la pista del golpe “autodiretto” potrebbe essere più una speranza che una soluzione, mentre l'ipotesi del golpe fallito suscita preoccupazioni sul futuro della Turchia, paese membro della NATO e importante tassello nello scacchiere regionale


Per analizzare le ipotesi avanzate da esperti e osservatori sul “golpe fallito” del 15 luglio, può essere utile risalire al punto di partenza della parabola ascendente del presidente Recep Tayyip Erdoğan: l'alleanza con i Fethullahçı, seguaci del predicatore Fethullah Gülen, il cui movimento, nato negli anni '80, ha guadagnato progressivamente terreno nei settori chiave della società: istruzione, soprattutto privata, scuole coraniche, moschee, accademie di polizia. Al punto che nel 2010 è stata vietata la pubblicazione dell'Esercito dell'Imam, saggio sulle “infiltrazioni” del movimento di Gülen nella società e nelle istituzioni turche: le bozze sono state distrutte e l'autore, il giornalista Ahmet Şık, condannato a un anno di carcere. Sono stati i Fethullahçı infatti a permettere al Partito giustizia e sviluppo (AKP) di Erdoğan di vincere le elezioni del 2002, anche se Gülen era già in esilio volontario negli USA dal 1999. Da allora il primato dell'AKP è sempre più solido, un fenomeno che potrebbe destare perplessità in un paese la cui costituzione prevede esplicitamente che l'esercito, costruito da Mustafa Kemal Atatürk sul modello giacobino, intervenga in caso di minaccia per i “valori kemalisti” (quindi, tecnicamente, se ad attuarlo sono i militari non si dovrebbe neppure parlare di “golpe”), pilastri della costituzione patria del 1924: primo fra tutti, la laicità dello Stato.

Eppure, già prima di Erdoğan, a puntare sull'islamizzazione della società era stato il generale Kenan Evren, autore del golpe del 1980, secondo alcuni caldeggiato o addirittura sostenuto dagli Stati Uniti per costruire un baluardo turco in un Medio Oriente in pieno riassetto geopolitico dopo la rivoluzione dell'ayatollah Khomeini in Iran, nel 1979, e per impedire l'ascesa delle forze della sinistra, che avrebbero potuto stabilire una “pericolosa” alleanza con i kemalisti. Insomma, dell'intervento in difesa dei valori repubblicani e laici c'era solo l'aspetto: il governo di Turgut Özal, controllato dai militari, ha adottato infatti una linea politica concentrata sulla privatizzazione e liberalizzazione dell'economia e sulla “tolleranza” delle confraternite religiose, due elementi contrari alla politica kemalista, ma utili per debellare i movimenti di sinistra. In particolare, hanno favorito l'ascesa di una nuova borghesia, mentre la fondazione di scuole religiose (perlopiù private) ha spianato la via alla nascita di una borghesia islamica. È qui che è nato il movimento di Gülen. Prima prezioso alleato, poi avversario pericoloso per Erdoğan, sempre per lo stesso motivo: la sua presenza radicata nel tessuto sociale. Un ostacolo che il presidente turco ha cercato di superare espugnando gradualmente tutte le sue roccaforti: in questo quadro andrebbe letta l'organizzazione da parte di Erdoğan della rete dei mukhtar (rappresentanti di quartiere o di piccoli centri urbani, eletti alle amministrative tra i non iscritti a partiti politici), nel 2015, con il pretesto della lotta al terrorismo, ma in realtà per ottenere un maggior controllo della società.

La rottura ufficiale tra Erdoğan e Gülen risale al 2013, quando il ricco predicatore (che intanto aveva espanso la sua rete di scuole in tutto il mondo, soprattutto negli USA) ha aspramente criticato la brutale repressione del governo turco delle proteste di Gezi park. Una buona occasione per Erdoğan per disfarsi del suo antico alleato in un momento di forza. Infatti, già nel 2007 l'AKP era riuscito a far eleggere presidente della repubblica Abdullah Gül, e, al contempo, a indebolire gradualmente il peso politico dell'esercito, fino ad arrivare al successo del referendum costituzionale del 2010: uno degli emendamenti proposti prevede che i militari accusati per tentativi di golpe siano giudicati da tribunali civili. Nel 2007, intanto, sono iniziati i maxi-processi a presunti membri di Ergenekon, una struttura parallela di Stato nata in piena guerra fredda sul modello di Gladio, che negli anni '70 in Turchia ha innescato la spirale di violenze politiche sfociata nel golpe del 1980. Tra le inchieste avviate c'è quella sul presunto piano Balyoz (ordito, secondo l'accusa, dai militari per rovesciare il governo dell'AKP), che nel 2014 la Corte costituzionale turca ha definito una montatura, annullando le precedenti sentenze di condanna.

Secondo diversi osservatori lo scandalo di corruzione che ha investito l'AKP e la stessa famiglia di Erdoğan alla fine del 2013 sarebbe stato scoperto (o costruito) dalla magistratura controllata dai Fethullahçı, per indebolire il presidente turco. Se fosse vero sarebbe stato un flop, anche perché l'AKP era in piena ascesa, nel mondo arabo, per la reazione all'incidente della freedom flotilla del 2010, in Occidente per il sostegno di Ankara all'Esercito siriano libero e per la creazione della Coalizione nazionale siriana, nata nel 2012 e dal 2013 con quartier generale a İstanbul. In questo modo Erdoğan ha avuto via libera persino per annullare la dialettica interna al suo partito, come dimostra l'uscita di scena forzata, a maggio, dell'ex primo ministro Ahmet Davutoğlu. Al di là delle conferenze stampa, il pomo della discordia, sia con Davutoğlu che con Gülen, è il progetto di Erdoğan di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale e la sua scelta di comportarsi come se questo ordinamento fosse già in vigore (che sia questo il vero golpe?). Progetto silenziosamente avallato dall'Unione Europea con l'accordo su migranti e rifugiati e dalla NATO che continua a non poter rinunciare all'esercito di Ankara, il secondo per dimensioni dopo quello statunitense.

Riepilogando, Erdoğan ha iniziato la sua ascesa sulla scia dell'islamizzazione della società favorita dal colpo di stato del 1980, formalmente organizzato e attuato da militari, mettendo a frutto l'eredità politica di Necmettin Erbakan e alleandosi con Gülen, l'unico a potergli garantire una solida base per guadagnare potere limitando il peso politico dell'esercito. Se fosse vero il coinvolgimento di Gülen nel tentato golpe del 15 luglio, sarebbero quindi da spiegare le posizioni lealiste della polizia, visto che quest'ultima è una sua roccaforte, non l'esercito “giacobino”. A meno che Erdoğan non sia riuscito a “purificare” le strutture dello Stato dalla presenza dei Fethullahçı ben prima delle ultime epurazioni. In questo quadro si potrebbe interpretare la forte “pressione” esercitata dal presidente turco sul capo dell'intelligence, Hakan Fidan, cui lo scorso anno ha di fatto impedito di dimettersi (nonostante il parere favorevole dell'allora primo ministro Davutoğlu). Quanto all'ipotesi che sia stato lo stesso Erdoğan a organizzare il golpe fallito per legittimare arresti arbitrari, non sembra che finora Ankara abbia avuto bisogno di pretesti, né per limitare le libertà fondamentali, né per giustificare l'uso della forza (basti pensare alle migliaia di sfollati curdi del Sud-est del paese o al rifiuto della comunità internazionale di affrontare seriamente il caso di Abdullah Öcalan). Se poi fosse stato davvero un tentativo dell'esercito di “salvare” la costituzione patria dal nuovo sultano, il suo fallimento significherebbe il tramonto definitivo della Turchia di Atatürk, uno Stato ma soprattutto una cultura.

August 01, 2016

15 novembre 2015, Parigi: Bataclan, il concerto della Rockband del momento; 22 marzo 2016, Bruxelles: sala partenze dell’aeroporto ...; 1 luglio 2016, Dacca: cena di chiusura della stagione lavorativa; 14 luglio 2016, Nizza: festeggiamenti in onore della giornata di festa nazionale sul lungomare affollato di vacanzieri; 26 luglio 2016, Rouen: una chiesa violata, un anziano parroco sgozzato....

Azioni terroristiche ....attacchi senza un reale filo conduttore...

Eppure sono “Brandelli di vita quotidiana portati via alla normalità per diventare momenti di paura e di morte...”

Ecco cosa sono gli attacchi terroristici, nulla più di questo...e la religione è solo un pretesto; l’ideologia o la provenienza geografica sono solo illusioni e l’unico risultato è l’ODIO.

Siamo caduti nella trappola della paura e i gruppi che si organizzano per ripulire paesi e città dai cittadini stranieri, musulmani e non musulmani... (in fondo non importa: l’importante è che chiunque è diverso da me, sia cacciato via!!) non sono altro che la negazione della Civiltà, della Democrazia e della Libertà di ogni uomo a sperare in un futuro dignitoso.

Abbiamo passato secoli ad erigere confini tra i popoli, a difendere territori e beni, ad alimentare l’intolleranza e il disprezzo e abbiamo dimenticato che non esistono razze superiori o religioni giuste...esiste, come sosteneva Einstein già nel 1933, soltanto la Razza Umana.

Quando arrivò negli Stati Uniti, anche al grande scienziato Albert Einstein gli impiegati dell'ufficio immigrazione chiesero di indicare su un modulo a quale razza appartenesse. E Einstein spiazzò tutti scrivendo: «umana». Allora sembrò una provocazione: era il 1933 e lo scienziato, fuggiva dalla sua Germania proprio perché erano iniziate le persecuzioni contro gli ebrei come lui.

Eppure aveva perfettamente ragione: gli uomini non hanno razze. O, meglio, la razza umana è una sola, con infinite variazioni al suo interno. Anche quando esprimiamo nobili e sacrosanti propositi, come nelle solenni dichiarazioni «Rifiuto ogni discriminazione per religione, genere, razza...», in realtà stiamo commettendo un errore.

Per fortuna, la scienza si è resa conto che dividere gli uomini in razze è semplicemente un errore. Quello che si può fare è individuare "popoli" o "etnie", cioè gruppi identificati da un insieme di caratteristiche che, nel loro complesso, li rendono unici. Ma non (o almeno non solo) caratteristiche fisiche, come il colore della pelle o dei capelli: decisivo, per identificare un popolo, è riconoscere una cultura comune. Come c'insegnavano gli antichi.

Ma purtroppo non basta cancellare la parola “razza” per cancellare l'atteggiamento di chi insulta le persone che ritiene "diverse" da sé.

E allora dobbiamo essere concreti e interrogarci sugli errori fatti fino ad ora, su come abbiamo gestito i flussi di uomini che, nel corso degli ultimi decenni hanno preferito affrontare i pericoli dei deserti, le insidie del mare, la cattiveria degli sfruttatori e degli aguzzini, per cercare, oltre i confini della propria Patria, una vita dignitosa, lontana dalle guerre, dalla fame e dall’assoluta assenza di libertà.

Quante delle nostre politiche migratorie sono basate sullo studio della Geopolitica, sulla conoscenza delle motivazioni profonde che portano interi popoli a cercare “vita” in terre lontane?

Credo che il massiccio fenomeno migratorio che stiamo vedendo sotto i nostri occhi, meriti una analisi più attenta, più accurata e soprattutto intesa a cercare soluzioni.

Quello che avviene nelle nostre città ha bisogno di una gestione esperta, che tenga conto dei pericoli che sono nascosti nei cittadini immigrati di seconda generazione, che frequentano le scuole dei nostri figli, che occupano posti di lavoro al fianco dei coetanei “nativi” e non certo per trovare ragioni di opposizione, ma piuttosto per cercare punti di incontro, reali scambi culturali e condivisioni.

In fondo esiste una precisa e puntuale normativa che spinge in questa direzione e sono sempre più convinta che la civile convivenza non possa non passare attraverso la reale conoscenza della legislazione, della cultura e delle abitudini del Paese che ci ospita. L’abbiamo visto nei nostri padri, che nel dopoguerra hanno lasciato campagne e abitazioni, per aspirare ad una vita migliore per se e per i propri figli...nulla di strano, dunque, nelle motivazioni di base che portano giovani disperati e numerose famiglie a tendere alla vita (migliore) in un Paese lontano dal proprio!

Ma non possiamo cavalcare la PAURA...questa distruggerà ogni buon proposito e alla fine distruggerà tutti noi!

Il primo segnale concreto, Domenica 31 luglio: una giornata memorabile!

23 mila musulmani sul territorio italiano hanno risposto all’appello del Prof. Foad Aodi, Presidente del Co-mai e del Movimento Uniti per Unire e Focal Point per l’Integrazione in Italia per l’Alleanza delle Civiltà (UNAOC) ed hanno portato il loro saluto a tutte le Chiese di Italia. Il messaggio del Presidente Aodi “Solo con l’unione possiamo far desistere gli assassini delle religioni dalla loro opera di massacro. Siamo stanchi di violenza che non ha Dio e siamo stanchi delle strumentalizzazioni del mondo arabo e musulmano ...”

... ancora il Presidente Aodi rinnova l’invito a tutte le comunità musulmane ad andare “oltre le divisioni di cultura di provenienza, di ideologia politica e di religione per sconfiggere il male comune”.

Questa è l’unica strada possibile!

                                                                                                      

July 18, 2016

Nella storia della Repubblica turca, il ruolo dell'esercito è da sempre quello di garante dei princìpi di laicità e ordine pubblico cui si ispirava Mustafa Kemal Atatürk; gli ultimi due colpi di stato militari riusciti, nel 1980 e nel 1997, molto diversi tra loro, sono stati realizzati in momenti di grave instabilità politica: i conflitti armati tra formazioni di destra e di sinistra nel primo caso, una “rischiosa” islamizzazione della società nel secondo

 

La schiacciante vittoria dell'AKP alle elezioni parlamentari del 2002 ha innescato in Turchia sviluppi politici simili a quelli degli anni '80 e '90, connessi con due colpi di stato militari che, sia pure con modalità diverse, avevano come obiettivi primari la liquidazione delle forze della sinistra e l'imposizione di ordine e stabilità. Quello del 1980, guidato dal generale Evren, aveva favorito l'ascesa di Turgut Özal, un “tecnocrate” incaricato di pianificare imponenti riforme di stampo liberista. Evren, a differenza degli ufficiali che avevano realizzato i colpi di stato del 1960 e del 1971, rigorosamente laici, utilizzava le confraternite religiose, profondamente radicate a livello sociale, senza che queste arrivassero a diventare soggetti politici. Ma dopo la vittoria elettorale del 1983, il partito della Madrepatria (ANAP) fondato da Özal mise in atto la sua vera linea politica: una sintesi di eredità islamica e ottomana, entrambe respinte dalle forze politiche che avevano fondato la moderna repubblica turca, militari e kemalisti (questi ultimi rappresentati dal Partito repubblicano del popolo – CHP).Özal infatti si serviva delle confraternite religiose, allora messe al bando, per assicurarsi un capillare controllo della società, ma a differenza di Evren, permise ad esse di emergere sulla scena politica. A ciò aggiungeva una politica estera pragmatica, filo-statunitense e filo-europea, esemplificata dall'adesione alla prima guerra del Golfo. Unica “concessione” ai nazionalisti laici fu l'istituzione in ogni villaggio di corpi paramilitari per combattere il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK).

In tale contesto, si inserì appunto Necmettin Erbakan, che nel 1983 fondò il Partito della prosperità (RP), primo partito islamico turco, con una struttura simile alle confraternite religiose. A differenza di Özal, Erbakan introdusse nella sua retorica politica le aspirazioni dei nostalgici della grandezza ottomana, anti-occidentali e scontenti del liberismo degli anni precedenti: “sviluppo spirituale”, giustizia sociale, lotta alla corruzione, contrasto a “capitalismo, imperialismo e sionismo”. Nella sua ottica, la religione sarebbe stata un efficace collante sociale, utile anche nella soluzione della “questione curda” (molti curdi sunniti vengono cooptati in questo modo). Un ruolo essenziale era giocato inoltre dai legami internazionali dell'RP con le comunità turche all'estero e con i musulmani balcanici e caucasici. Dopo un decennio di marginalizzazione, l'RP ottenne grandi successi all'inizio degli anni '90, talvolta servendosi di alleanze tattiche con l'MHP. Divenuto primo ministro, Erbakan fu però costretto alle dimissioni da un nuovo golpe dei militari, che nel 1997 intimarono al governo di imporre controlli e restrizioni alle formazioni religiose, nel rispetto della laicità sancita dalla costituzione. Erbakan si dimise, il suo partito venne sciolto e dalle sue ceneri, nel 2001, nacque appunto l'AKP.

Memori dell'esperienza di Erbakan, i quadri dell'AKP, in particolare Abdullah Gül e l'allora sindaco di Ankara Erdoğan, hanno tentato una strategia più pragmatica, assegnando il ruolo che in passato era delle confraternite religiose al movimento del predicatore islamico Fethullah Gülen, in esilio volontario negli USA dal 1999, che coniuga da sempre un islam moderato (è stato il primo leader islamico a condannare gli attentati dell'11 settembre 2001) e orientato al sociale, con una politica estera filo-occidentale e filo-europea. Il suo movimento, Hizmet, ha milioni di seguaci in Turchia, soprattutto nella polizia (meno nell'esercito, elemento che ha destato perplessità su un suo possibile coinvolgimento nel tentativo di colpo di stato di quest'anno), nella magistratura, nei media e nell'istruzione, apparati chiave per il controllo di una società. Quindi, se da un lato Erdoğan sperava di volgere a suo favore l'influenza da lui esercitata a distanza, dall'altro ha sempre covato una profonda diffidenza. Dopo una prima rottura nel 2010 (in occasione della spedizione della Freedom Flotilla), la loro fragile alleanza si è infranta nel 2013, quando Gülen condannò la brutale repressione delle proteste di Gezi Park. Emblematico di questo sviluppo è l'imponente inchiesta della magistratura sulla presunta organizzazione eversiva Ergenekon: nel 2013 erano state condannate più di 250 persone, tra cui diversi alti ufficiali dell'esercito (le forze armate, per Erdoğan come in passato per altri leader islamici, sono un settore da controllare, anche servendosi di un alleato “infido” come Gülen), ma la sentenza è stata annullata lo scorso aprile dalla Corte Suprema turca, che ha definito il processo una montatura di settori della magistratura vicini a Gülen. Sempre nel 2013, decine di personaggi legati al governo dell'allora primo ministro Erdoğan sono finiti sotto processo per corruzione, altro episodio che Ankara ha definito un tentativo di golpe da parte dei gülenisti.

July 17, 2016

Tanto la dinamica del tentativo fallito di golpe da parte di alcune frange dell'esercito turco, quanto il botta e risposta tra il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e il suo ex alleato, ora avversario politico, Fethullah Gülen sono solo alcuni dei sintomi delle lacerazioni che dilaniano la società turca e del difficile equilibrio tra il passato ottomano e l'eredità del padre della patria Mustafa Kemal Atatürk

In alcune delle immagini che mostrano la reazione popolare al colpo di stato del 16 luglio (http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/16/foto/golpe_fallito_in_turchia_la_festa_dei_sostenitori_di_erdogan-144215450/1/?ref=nrct-4#1), si vedono manifestanti esibire il gesto tipico dei “lupi grigi”, formazione laica di estrema destra nota in Italia per la vicenda di Ali Ağca e che ha come referente politico il Partito del movimento nazionalista (MHP). Lo stesso la cui fondazione, nel 1969, ha polarizzato i contrasti politici, sfociati negli anni '70 in conflitti armati e culminati con il colpo di stato del generale Kenan Evren. Un tentativo di riportare “ordine e stabilità” soffocando le forze di sinistra con l'appoggio delle confraternite religiose allora al bando. Lo scioglimento da parte di Evren di tutti i partiti ha finito per favorire, di fatto, la nascita di una forma tipicamente turca di islam politico, alternativa ai Fratelli musulmani nel mondo arabo e alla rivoluzione islamica iraniana e rappresentato oggi dal partito Giustizia e sviluppo (AKP) di Erdoğan. Tuttavia, all'interno dell'MHP, con cui Erdoğan ha rapporti politici opportunistici, è in atto una scissione: la guida storica di Devlet Bahçeli viene messa in discussione dall'ascesa di Meral Akşener, la cui corrente imputa a lui la sconfitta elettorale del giugno 2015 e la perdita di consensi in favore dell'AKP.

La Akşener, che si è distinta negli ultimi decenni per affermazioni imbarazzanti sulla “razza armena” e sulla necessità di liquidare la questione curda manu militari, punta a rendere l'MHP un interlocutore forte, indispensabile per l'AKP, e forse una possibile alternativa ad esso. La scorsa settimana, durante le celebrazioni della festa di fine Ramadan, il contrasto tra le due correnti è sfociato in tafferugli. Divisioni che alimentano un'instabilità mal celata dalle dimostrazioni di forza del governo, che continua a ignorare la frammentazione politica in atto negli ultimi anni. A partire dai risultati delle elezioni parlamentari del giugno 2015, che hanno segnato l'ascesa del Partito democratico dei popoli (HDP), filo-curdo e più volte accusato dal governo di essere il volto politico del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). Questo partito da un lato dà voce al malcontento popolare nei confronti della linea repressiva e accentratrice di Erdoğan, dall'altro raccoglie i consensi di quanti vorrebbero una politica più attenta al vero sviluppo economico, alla giustizia sociale, alla parità di genere e ai diritti fondamentali dell'individuo. Molti dei suoi elettori sono gli stessi che nel 2013 hanno organizzato le proteste di Gezi Park, brutalmente represse dal governo, e che lo scorso anno sono scesi in piazza in minigonna per manifestare contro lo stupro e l'assassinio di Özgecan Aslan. Di fronte a simili istanze, l'annullamento delle elezioni (le parlamentari di giugno 2015 sono state nuovamente indette a novembre, dopo il fallimento delle trattative per la formazione di un governo di coalizione) e le continue accuse di “terrorismo”non possono essere una soluzione valida, come non lo sono le alleanze posticce con l'ultradestra nazionalista.

D'altro canto, l'isolamento politico di Erdoğan ha coinciso con una rischiosa deriva islamico-radicale e autoritaria: lo scorso anno il presidente turco (che, occorre notare, agisce come se già fosse stato instaurato il sistema presidenziale) ha interrotto il processo di pace con il PKK e ha imposto nuove elezioni parlamentari dopo la sconfitta di giugno. Non pago della vittoria elettorale del novembre 2015, ha messo a tacere non solo media e giornalisti non allineati, ma anche la dialettica interna alimentata dall'ex primo ministro Ahmet Davutoğlu, uscito di scena lo scorso maggio. A differenza di quest'ultimo, il presidente sostiene infatti una linea accentratrice e basata su un consenso plebiscitario, come dimostra il giro di vite sulle libertà di stampa e di espressione e gli anacronistici tentativi di riforma della “morale pubblica”. In questa chiave, le opposizioni hanno letto la sua proposta di concedere la cittadinanza turca ai profughi siriani, contro la quale si sono schierate in modo compatto. Simili sviluppi, uniti all'instabilità economica e allo stato di emergenza permanente nel Sud-est del paese (bombardato quotidianamente dall'artiglieria di Ankara), in un momento in cui la Turchia è chiamata ad avere un ruolo chiave nelle vicende mediorientali, somigliano fin troppo ai contesti dei precedenti colpi di stato.

July 14, 2016

Nonostante i violenti scontri che si sono verificati nei giorni scorsi nella capitale Juba, il Sudan del Sud festeggia il suo quinto anniversario dall'indipendenza; cinque anni che il più giovane stato del mondo ha trascorso tra conflitti pressoché continui, interni e con il vicino Sudan


Alla vigilia del quinto anniversario dell'indipendenza del Sudan del Sud, l'esercito governativo fedele al presidente Salva Kiir e le truppe che fanno capo al vicepresidente Riek Machar si sono scontrati nella capitale Juba e nelle zone limitrofe. Assaltate a colpi di arma da fuoco e di artiglieria anche le basi della missione delle Nazioni Unite, la MINUSS, a Juba e Malakal. Secondo le stime ufficiali, i morti sono almeno trecento, tra i quali due caschi blu cinesi, e gli sfollati oltre 42mila, molti rifugiati nei campi allestiti all'interno delle basi ONU. È fallito dunque l'accordo siglato ad aprile, che aveva consentito a Machar di tornare a Juba e reinsediarsi a tutti gli effetti nella sua carica di vicepresidente, dopo tre anni di esilio forzato, con l'obiettivo di creare un esecutivo di unità nazionale che ponesse fine ai conflitti tra i due principali gruppi etnici del paese, i Dinka (cui appartiene Kiir) e i Nuer (cui appartiene Machar e che sono meno ostili al governo di Khartoum). Una guerra civile su base etnica e tribale, strumentalizzata dalle due parti in lotta per il potere al vertice del governo e del Movimento di liberazione del popolo sudanese (SPLM, partito di governo). La posta in gioco è il controllo di un paese ricco di petrolio e di terre rese fertili dai corsi d'acqua del sistema del Nilo.

Le tensioni tra Kiir e Machar erano emerse poco dopo l'indipendenza, esplodendo poi nel 2013, quando il vicepresidente mise in dubbio il suo sostegno alla guida di Kiir del partito e del governo alle elezioni presidenziali previste nel 2015 (poi rinviate). Kiir aveva dapprima ridotto i poteri del vicepresidente, poi aveva sospeso dal loro incarico Machar, accusato di preparare un golpe, e tutti i ministri del governo (tra i quali Pagan Amum, uno dei principali negoziatori dell'indipendenza, rimosso contestualmente dal suo incarico di segretario generale del SPLM). Anche allora la lotta per il potere era sfociata in violenti scontri tra Dinka e Nuer, durati dal 2013 al 2015, mentre la situazione era resa ancor più grave dalle dispute territoriali con Khartoum, dalle cui raffinerie Juba dipende ancora. Pur essendo un territorio ricco di petrolio, in Sudan del Sud non ci sono raffinerie, quindi l'oro nero deve essere inviato in Sudan prima di essere commercializzato (anche per questo motivo gli accordi di pace del 2005 prevedevano una spartizione equa dei proventi del petrolio). Inoltre, le casse sud-sudanesi sono state prosciugate dalla decisione di Kiir di pagare l'intervento delle truppe ugandesi in suo sostegno durante la guerra civile del 2013-2015. L'accordo di agosto del 2015, che a quella guerra avrebbe dovuto porre fine, ha portato intanto alla formazione di un governo di transizione, restituendo la carica di vicepresidente a Machar, anche se il suo effettivo ritorno a Juba è avvenuto solo ad aprile di quest'anno. Il trattato prevedeva inoltre che nella capitale venissero schierati sia l'esercito governativo che le truppe fedeli a Machar (ex ufficiali e soldati governativi), una clausola che anziché favorire la distensione ha imposto una convivenza forzata e problematica, in presenza di gravi fattori di rischio, come lo squilibrio numerico e di equipaggiamento tra i “due eserciti”.

Il ruolo dell'interposizione, in realtà, spetterebbe alla MINUSS, la missione ONU istituita lo stesso giorno della proclamazione dell'indipendenza del Sudan del Sud appunto per sostenere il governo di Juba “nel consolidamento della pace” e “nella prevenzione dei conflitti”. Con un organico iniziale di 7mila caschi blu, nel dicembre 2013 la risoluzione 2132 del Consiglio di Sicurezza ha deciso di inviarne altri 5.500, ma la missione finora non ha ottenuto successi di rilievo. Persino i campi allestiti per i rifugiati sono stati spesso oggetto di attacchi da parte delle fazioni armate, senza che il personale fosse in grado né di reagire, né di imporre sanzioni (gli estremi ci sarebbero, visto che si tratta di campi che ospitano civili). A gennaio di quest'anno, una squadra di osservatori ONU coordinata da Payton Knopf aveva espresso timori per il deterioramento della situazione, in particolare per i 2.3 milioni di profughi e i 3.9 milioni di persone a rischio di carenza di generi alimentari. Per questo, aveva invitato il Consiglio di Sicurezza ONU a votare per un embargo sulla vendita di armi a Juba, decisione finora ostacolata dal veto della Russia. L'accordo di pace del 2015, spiegava Knopf, è stato ripetutamente violato da entrambe le parti, rendendo il conflitto in Sudan del Sud paragonabile a quelli in Siria, Iraq e Yemen. Un blocco delle vendite di armi contribuirebbe dunque a ridurre la diffusione e l'intensità degli scontri, ma rischierebbe di essere inefficace se applicato al solo Sudan del Sud e non ai paesi vicini. Ad esempio, l'Uganda, che importa elicotteri da combattimento dall'Ucraina, ne ha a sua volta esportata una buona parte a Juba durante la guerra civile del 2013-2015.

Dopo gli ultimi scontri, l'11 luglio scorso il segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon ha chiesto nuovamente al Consiglio di Sicurezza di imporre un embargo sulla vendita di armi a Juba. Ma, come conferma un rapporto pubblicato dalla Human Security Baseline Assessment (HSBA, che segue da vicino lo sviluppo dei conflitti in Sudan e Sudan del Sud), decretare un embargo non basta se non si può garantire che venga rispettato, una situazione già vista nella regione del Darfur, nel vicino Sudan. In questo caso, si legge nel documento, gli stessi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU non erano concordi sulla sua “legittimità e utilità”. Inoltre, all'eventualità di un embargo sulla vendita di armi a Juba gli Stati Uniti si sono opposti fino al 2015, motivando la loro contrarietà con la “preoccupazione” delle capacità di autodifesa del giovane stato africano. Per Washington, tuttavia, la minaccia dell'embargo si sarebbe potuta utilizzare per spingere le parti in conflitto alla trattativa. Cina e Russia, dal canto loro, potrebbero porre il loro veto, anche perché, secondo un rapporto diffuso dall'International Peace Research Institute (IPRI) di Stoccolma, sono tra i principali esportatori di armi in Sudan del Sud. In particolare, nel 2011 il primato spettava alla Russia, nel 2013 al Canada e nel 2014 alla Cina, che ultimamente ha “manifestato perplessità” sulla vendita di armi a Juba. Così, secondo l'IPRI, lo scorso anno il Sudan del Sud ha aumentato vertiginosamente l'acquisto di armi da “paesi sconosciuti”, ovvero da paesi che non dichiarano le loro attività di compravendita delle armi.

Questo giovane stato, che ha festeggiato lo scorso 9 luglio il suo quinto anniversario dall'indipendenza, ha trascorso la maggior parte della sua esistenza tra conflitti e contraddizioni: a partire dal fatto che il governo, pur guidando uno dei paesi più poveri al mondo e con un tasso di alfabetizzazione del 27%, nel 2014 ha acquistato da una compagnia privata ucraina una fornitura di elicotteri da combattimento MI-24 per 43 milioni di dollari. Un paese “balcanizzato”, dunque, che ha percorso lo stesso cammino che accomuna da un lato i paesi ex coloniali africani e mediorientali (i cui confini furono disegnati dalle potenze coloniali, il cui obiettivo era lo sfruttamento delle risorse, non la creazione di entità politiche equilibrate), dall'altro paesi come quelli balcanici, un tempo uniti dal comune riferimento della sfera di influenza politico-economica dell'Unione Sovietica. Un cammino segnato da profondi contrasti ideologici, confessionali, etnici o tribali, alimentati o istigati da gruppi di potere interni, a loro volta variamente sostenuti da potenze esterne. Una spirale etichettata come “balcanizzazione”, solo perché quella negli stati che componevano l'ex Repubblica federale jugoslava è la prima guerra sul continente europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Persino i nomi sono frutto di un assetto politico internazionale che continua ciecamente a rispondere agli interessi delle potenze mondiali. O meglio, delle oligarchie che li guidano.

July 05, 2016

Le affermazioni del pentito Nuredin Atta Wehabrebi a proposito della rete di trafficanti di uomini e organi umani sono l'ennesimo sintomo delle difficoltà nella gestione dei fenomeni migratori causati dai conflitti e, in generale, del disagio sociale

L'inchiesta che ha portato al fermo di 38 persone in diverse città italiane è partita dalle dichiarazioni di un pentito. Si tratta di Nuredin Atta Wehabrebi, di nazionalità eritrea, primo ex-trafficante collaboratore di giustizia, arrestato nel 2014 e condannato lo scorso febbraio a 5 anni di carcere. Avrebbe deciso di uscire dall'organizzazione e rivelarne struttura e movimenti “perché ci sono stati troppi morti in mare”. Le sue affermazioni, considerate attendibili, hanno consentito di ricostruire dettagliatamente le attività di una rete criminale, con “cellule” in Africa Settentrionale e in Italia e la “base finanziaria” a Roma, in una profumeria di via Volturno, il cui gestore, Solomon, consegnava ogni sabato tra i 280mila e i 300mila euro a un complice, Gebremeskel Mikiele. Solomon avrebbe avuto un ruolo importante nei trasferimenti di denaro dai parenti dei migranti (attraverso il sistema Hawala) alla rete criminale, aiutato da un fratello in Israele, da un conoscente a Dubai, e, sempre secondo Wehabrebi, da italiani in viaggio a Dubai e in Israele. La polizia italiana sta ora cercando di identificare gli imprenditori italiani coinvolti nel traffico, mentre i fogli su cui venivano appuntate le “transazioni finanziarie”, sequestrati il 13 giugno, sono ancora oggetto di analisi. Diversi dunque i paesi in cui questa rete operava, compresa la Libia, base degli scafisti che dovevano portare i migranti in Italia, ed Egitto. Qui, ha dichiarato Wehabrebi, la “cellula egiziana” della rete di trafficanti portava i migranti che non potevano pagare il viaggio, ai quali venivano espiantati gli organi che in seguito venivano rivenduti per 15mila dollari circa.

Commerci illegali come quello di organi umani, di migranti, spesso minori non accompagnati, o di donne trovano terreno fertile in zone e tempi di crisi e conflitti, ossia quando l'emergenza economica pone in secondo piano la considerazione di sé come soggetto di diritti. Come di recente ha osservato Viviana Valastro di Save the Children molti ragazzi, in particolare egiziani, che tentano di approdare in Europa via mare, appena arrivano hanno l'urgenza di ripagare i debiti contratti con i trafficanti e per loro “è difficile capire il concetto di sfruttamento”: “a casa loro lavorano e sono pagati anche meno, per loro non è un problema lavorare per pochi soldi... è molto difficile far loro accettare che l'istruzione e la formazione potrebbero offrire una vita migliore”. Anche perché, nell'Europa colpita dalla crisi finanziaria, ciò non è sempre vero. Si aggiungono così alle sacche di disagio sociale, facile preda della criminalità organizzata. Nel giugno 2015, ad esempio, le autorità italiane hanno scoperto un giro di prostituzione minorile e traffico di stupefacenti nei pressi della stazione Termini di Roma. Uno dei ragazzi coinvolti, molti dei quali egiziani (migliaia sono i bambini egiziani dichiarati scomparsi all'arrivo in Italia), intervistato dal quotidiano italiano La Repubblica, ha spiegato: “i nostri genitori hanno speso tanto per mandarci qui e dobbiamo ripagarli”. Secondo le stime dell'Europol, i minori non accompagnati scomparsi in Europa nel 2015 sono circa diecimila. Ma non sono i soli a finire nelle maglie dello sfruttamento.

Nel 2012, il quotidiano statunitense New York Times (http://www.nytimes.com/2012/06/01/world/europe/european-crisis-bolsters-illegal-sales-of-body-parts.html?_r=0) ha pubblicato un'inchiesta in cui si rilevava un aumento del mercato illegale di organi umani nell'Europa colpita dalla crisi finanziaria. Persone in difficoltà economica e senza molte speranze di uscirne, soprattutto nei paesi balcanici usciti da conflitti (Serbia, Kosovo) e in Europa orientale (come la Russia e, in generale, i paesi dell'ex blocco sovietico), ma anche in Grecia, Spagna e Italia (si veda in proposito http://www.repubblica.it/2009/06/sezioni/cronaca/traffico-organi/traffico-organi/traffico-organi.html), cercano di vendere reni, polmoni, midollo osseo o cornee attraverso internet, alcuni ingaggiando addirittura investigatori privati alla ricerca di “acquirenti”. Simili “episodi”, in precedenza, erano stati documentati in molti paesi asiatici, come India, Nepal, Pakistan, Afghanistan, Bangladesh, Cambogia, Vietnam, Laos, Filippine e Cina, ma anche in Brasile: tutti paesi in cui il mercato della prostituzione, in particolare minorile, fa prosperare le finanze delle reti criminali. Secondo il New York Times, in Europa dell'Est il mercato di esseri umani e organi si sarebbe sviluppato nel periodo successivo alla dissoluzione dell'Unione Sovietica.

Lo sfruttamento di esseri umani ai fini del profitto non riguarda solo gli ultimi difficili decenni di riorganizzazione dell'assetto geopolitico (quindi anche economico) mondiale. Si pensi alle attestazioni letterarie, tra gli ultimi decenni dell'800 e l'inizio del '900, della dura vita dei carusi (Rosso Malpelo di Giovani Verga; Ciaula scopre la luna di Luigi Pirandello), o alle poesie di William Blake sulle sofferenze dei bambini spazzacamini nella Londra di fine '700. Periodi di transizione, di “rivoluzioni industriali”, durante i quali cambiamenti nei meccanismi di produzione hanno avuto drammatici impatti sociali. A proposito di crisi legate a fenomeni migratori, si può citare Ammiano Marcellino, storico romano del IV secolo d.C., che ha dedicato un celebre passo dei suoi Rerum gestarum libri al “turpe commercio” organizzato dai due generali romani Lupicino e Massimo, ai danni dei rifugiati goti che, a seguito delle scorrerie degli Unni, avevano ottenuto asilo dall'imperatore Valente. Anche i profughi di allora, stremati dalla fame, vendevano schiavi (spesso bambini) in cambio di carne di cane. Come oggi, corruzione e crimine proliferavano in contesti di crisi sociale ed economica. Come allora, per debellarle, o almeno ridurne la portata, si potrebbe uscire dall'ottica dei “provvedimenti di emergenza” e affrontare il problema del disagio sociale (che non ha nazionalità) in una prospettiva di giustizia ed equilibrio.

June 24, 2016

Tra i maggiori errori delle istituzioni europee e sovra-nazionali c'è la preferenza accordata alla “strategia delle emergenze”, che scavalca i meccanismi di base della democrazia e non è in grado di elaborare soluzioni a lungo termine.


Nella retorica che ha accompagnato le varie fasi del referendum del 23 giugno in Regno Unito, emergono almeno due questioni. Anzitutto, se nella maggior parte dei paesi membri una cospicua fetta di opinione pubblica guarda all'UE come a una struttura burocratica incomprensibile e repressiva, capace di defenestrare governi democraticamente eletti, urge una riflessione sul modo stesso in cui l'Europa unita è stata concepita o almeno su come quel progetto è stato realizzato, in particolare dopo la fine della guerra fredda. In secondo luogo, e più in generale, sarebbe opportuna una considerazione critica sulle moderne democrazie liberali e sull'assetto mondiale che sono andate delineando negli ultimi decenni.

Lo storico greco Senofonte, nel raccontare l'annuncio ad Atene della sconfitta definitiva nella guerra del Peloponneso, scrive: quella notte nessuno dormì; tutti piangevano non solo i caduti, ma ancor più se stessi, prevedendo di dover subire la sorte che gli Ateniesi avevano inflitto agli abitanti di Melo... e ancora agli abitanti di Istiea, di Scione, di Torone, di Egina e di molte altre popolazioni della Grecia (Elleniche II, 2, 3). Parafrasando, si potrebbe dire che i mercati finanziari europei, all'annuncio dei risultati del referendum del Regno Unito, hanno reagito con il sacro terrore di “fare la fine” della Grecia, che essi stessi, all'incirca un anno prima, hanno ridotto alla fame, calpestandone volontà e diritti. Quanto alla diffusione dell'ostilità anti-europea tra le opinioni pubbliche dei paesi membri, ci si potrebbe interrogare su chi vorrebbe vivere in un sistema che, secondo le sue necessità e i suoi profitti, impone misure economiche socialmente distruttive e persino cambiamenti di governo. Un sistema in cui la rappresentanza democratica è ridotta al minimo (alla formalità) e le decisioni sono, di fatto, appannaggio delle oligarchie finanziarie. Se la principale argomentazione contro la cosiddetta Brexit (uscita della Gran Bretagna dall'UE) è che il sistema si può riformare dall'interno, occorre tuttavia osservare che la volontà di cambiamento, o anche solo di autocritica, finora ha sfiorato lo zero assoluto. Se le istituzioni europee avessero mostrato maggiore disponibilità al dialogo democratico probabilmente non si sarebbe arrivati al riemergere dei particolarismi, tra muri e velleità di un ripristino della sovranità nazionale. Un concetto, quest'ultimo, accantonato da decenni in nome di organismi sovra-nazionali che teoricamente avrebbero dovuto impedire nuovi conflitti (dopo le due guerre mondiali e la successiva guerra fredda), ma che hanno scelto di farlo in modo tanto brutale quanto inefficace.

E qui veniamo alla seconda questione. Nell'illusione che il capitalismo, in quanto trionfo della libertà economica, dopo la fine dei totalitarismi, sarebbe stato l'antidoto a qualsiasi possibile deriva autoritaria, si è attribuito a esso il ruolo di motore inamovibile del nuovo sistema mondiale finalmente (in teoria) al riparo da conflitti. È lo spirito che ha animato la globalizzazione, che, con l'obiettivo di creare un mercato globale uniformando gli standard commerciali, è divenuta strumento di omologazione violenta, in spregio delle particolarità culturali locali (un po' quello che è stato la perdita di biodiversità nel settore agricolo). Dunque, come sottolinea l'ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis: una sfera economica separata da quella politica, ma concepita secondo il principio per cui il fine giustifica i mezzi, che Machiavelli circa mezzo secolo fa ha posto a fondamento dell'arte politica separata dalla morale. Di conseguenza, è l'economia, il mercato, a imporre regole e tempi di attuazione che, invece di essere controllato da uno Stato (quindi dalla politica, ritenuta dalla vulgata ufficiale “dei vincitori” fonte di ogni conflitto e totalitarismo) garante della giustizia sociale, ne prende esso stesso le redini schiacciandolo tra i propri ingranaggi. Peraltro, la globalizzazione è andata di pari passo con la transizione dal capitalismo produttivo (economia reale) al capitalismo finanziario (economia “virtuale”), che ha privato ancor più le società civili della possibilità di avere voce in capitolo. Mentre la produzione è fondata sul lavoro, e quindi assegna peso alle “masse”, le speculazioni finanziarie sono processi ad appannaggio esclusivo delle oligarchie della finanza, incomprensibili e inaccessibili ai più. Il risultato è stato un aumento dei conflitti, acuiti dall'ingiustizia sociale e dal deterioramento delle istituzioni democratiche.

Secondo Varoufakis esiste una differenza fondamentale tra la democrazia ateniese del V secolo a.C e le moderne democrazie liberali: mentre la prima rendeva “il povero”, “il nullatenente”, partecipe e quasi protagonista della scena politica (anche perché sui rematori nullatenenti era fondata la potenza navale, quindi l'imperialismo economico-militare, di Atene), le attuali democrazie hanno le loro radici nella Magna Carta Libertatum (1215), che contiene le concessioni del re d'Inghilterra Giovanni Senzaterra ai baroni inglesi, quindi è centrata sugli interessi dell'aristocrazia dei possidenti. In comune con l'Atene di Pericle, sia pure con le dovute differenze storiche, invece, le moderne democrazie hanno una politica estera imperialista e aggressiva, portata avanti grazie a un'Alleanza atlantica (NATO) priva da decenni di una controparte che ne ridimensioni la volontà di potenza. Non a caso il Patto di Varsavia è stato sciolto nel 1991, anno in cui sono iniziati conflitti sanguinosi come quello della ex Jugoslavia o quello nel Nagorno Karabakh (evocato ultimamente da papa Francesco durante la sua visita ufficiale in Armenia).

In un sistema mondiale, non solo europeo, calibrato sugli interessi dei grandi istituti finanziari e delle multinazionali, le forze populiste trovano terreno fertile per far emergere i particolarismi, come la via più facile per uscirne recuperando la propria “identità” e con essa il proprio peso politico. È questa la risposta che molti danno alla distopia di un ordine mondiale che Varoufakis ha accostato allo scenario rappresentato nel film Matrix. Quanto alla Gran Bretagna, ad esempio, invece di centrare l'attenzione sul fatto che, come ha di recente spiegato Roberto Saviano di fronte al parlamento britannico, la City di Londra e Wall Street sono la principale “lavanderia dei clan del narcotraffico” (un fenomeno del quale i più sono all'oscuro), la destra ha preferito sfruttare l'insofferenza delle classi medio-basse imputandola alla permanenza nell'UE. Anche se, occorre ricordare, Londra è entrata e rimasta nell'Unione con varie riserve e una significativa autonomia. Un esempio del deterioramento delle istituzioni democratiche su scala mondiale è invece la questione della diffusione delle armi negli Stati Uniti, dove neanche tutte le stragi degli ultimi decenni hanno potuto scalfire il potere delle lobby dei produttori di armi. Persino il presidente Barack Obama di fronte a queste ultime è impotente, il che significa che il suo potere come capo di stato eletto dalla volontà popolare è limitato da un'oligarchia economica che, non dovendo rispondere agli elettori, agisce “liberamente” (e impunemente) per tutelare i propri profitti.

In tale quadro, è inutile appellarsi di continuo alla strategia delle emergenze da affrontare (emergenza migranti, emergenza crisi, emergenza terrorismo, emergenza brexit), di breve respiro ma inefficace a lungo termine. Se vi sono tante emergenze, d'altra parte, significa che il sistema stesso andrebbe messo in discussione. Ma ciò è possibile solo ricorrendo alla dialettica democratica, quindi aumentando il livello di democratizzazione anziché ridurlo in favore dei potentati economici.

June 25, 2016

Gli animali sono da sempre i migliori amici dell’uomo ma quest’ultimo non sempre è loro amico e ne tanto meno dell’ambiente. Mentre gli animalisti italiani e del resto del mondo si stanno battendo con “unghie e con 7denti“, per strappare ai cinesi, in occasione della loro festa annuale, l’ulteriore sterminio di cani e gatti, a casa nostra intanto, nella Calabria del terzo millennio succede qualcosa di peggio. La locale sezione Enpa (Ente Nazionale Protezione Animali) da mesi chiede al Sindaco di Gioia Tauro, Pedà, in vista dell’estate, di disporre di un sito cittadino (come prevede la legge) per approntare un canile (finanziato anche da privati) onde mettere in sicurezza i cittadini dagli animali randagi ma anche far cessare un vero e proprio massacro degli stessi che, nel migliore delle ipotesi, se non muoiono investiti, vengono uccisi a bastonate da sadici individui, divertiti dalla mattanza. Per non parlare di altri che muoiono avvelenati dopo ore ed ore di terribile agonia.

In tutto questo il sindaco Pedà ha risposto con un’ordinanza che impone ai cittadini di raccogliere le deiezioni dei propri animali e se questi ultimi, sono di grossa taglia imporre loro la museruola anche se tenuti al guinzaglio. Museruola d’estate .....? Ma lo sanno anche i più sprovveduti che i cani respirano con la lingua, quindi la museruola li renderebbe nervosi se non addirittura inferociti. Ma che belle delibere si emettono dal sindaco Pedà a Gioia Tauro ! Si perché, l’illustre primo cittadino (sic!)lkuji non se l’è presa mica solo con i cani .... !

C’è un’altra interessante disposizione infatti, che colpisce i cittadini della Marina di Gioia, esattamente quelli denominati “del fiume”, che fiume non è, bensì, lo scarico a mare dell’ultimo tratto della “fogna a cielo aperto”. A costoro, che da vent’anni si ammalano di cancro per l’adiacente discarica e per il “fiume”, verrà dai vigili urbani, distaccata l’acqua potabile (anche questa nella calda estate!) per morosità. Morosità impostasi da loro stessi, i cittadini direttamente, non per indigenza, ma per protestare contro gli sperperi del comune, invece rimasto insensibile, per vent’anni, a questo vero dramma degli abitanti gravemente ammalati. Ora c’è solo da sperare che il Sindaco nell’”erigendo” canile non ci rinchiuda i cittadini morosi, così da risolvere con “un colpo” unico due bei problemi ! La politica, lo si sa, di questi tempi e in quasi tutt’Italia, si è ancor più dimostrata capace di scelte veramente “stupefacenti” !

*Per la crudezza delle immagini evitiamo di pubblicare i resti di un cane prima ucciso a bastonate e poi gettato morente sotto il treno in arrivo.

June 17, 2016

Le organizzazioni non governative denunciano le brutalità del regime di Manama: dagli esili forzati alle torture in carcere, fino alla chiusura del principale partito di opposizione, al-Wefaq; quasi inesistente la reazione della comunità internazionale

Nelle ultime settimane, le autorità del Bahrein hanno inasprito i meccanismi di repressione del dissenso politico, arrestando e costringendo all'esilio diversi esponenti di spicco dell'opposizione. Il culmine si è registrato il 13 giugno, quando il tribunale di Manama ha ordinato la sospensione delle attività e la chiusura delle sedi di al-Wefaq, la più grande forza politica di opposizione, che durante le proteste del 2011 si è fatta portavoce del malcontento della maggioranza sciita emarginata dalla scena politica e, in generale, delle richieste di un vero progresso in direzione della democrazia e dei diritti. Secondo il ministro della giustizia si è trattato di una misura volta a “salvaguardare la sicurezza del regno”, mentre l'unica timida reazione della comunità internazionale sono state le generiche espressioni di “preoccupazione” del Dipartimento di Stato statunitense. Come nel 2011, quando le manifestazioni vennero soffocate dall'intervento saudita, ufficialmente sotto l'egida del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), gli organismi sovranazionali si sono dimostrati ancora una volta inefficaci, sia nel promuovere la democrazia e il rispetto dei diritti umani, sia nel proporre soluzioni valide ai conflitti. Se di quest'ultimo fallimento si possono citare come esempi Libia, Iraq e Siria, per il primo spicca l'impunità di cui godono l'Arabia Saudita e i regimi satelliti nel Golfo, Bahrein e Yemen in primis.

La sentenza del tribunale amministrativo di Manama è in realtà solo l'atto conclusivo di una serie di azioni repressive ai danni di al-Wefaq, che il prossimo 6 ottobre affronterà l'udienza sul suo scioglimento definitivo. Tra i capi d'accusa, “incitamento alla violenza settaria” e coinvolgimento in una “rete politica internazionale”. Un riferimento, quest'ultimo, non troppo velato a presunti tentativi di ingerenza da parte di Tehran, sbandierati dal regime come pretesto per la repressione. Il 13 giugno, il giorno prima della sentenza, la polizia di Manama aveva arrestato Nabil Rajab, attivista per i diritti umani più volte detenuto per il suo impegno civile, recentemente liberato da un provvedimento di grazia “concesso” dal re Hamad bin Isa Al Khalifa. Ufficialmente le autorità vogliono interrogarlo sulla presunta “diffusione di false notizie”, ma il suo arresto, insieme a quello di altri attivisti, immediatamente prima della 32esima sessione del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, lascia intendere che il vero scopo è impedire qualsiasi espressione di dissenso, soprattutto in sedi internazionali. A maggio di quest'anno, Amnesty International aveva denunciato la revoca della cittadinanza e il conseguente rischio di espulsione di Tarimoor Karimi, l'avvocato e attivista che nel 2011 aveva preso parte alle proteste: provvedimenti che violano esplicitamente le leggi internazionali, ma vengono ripetutamente utilizzate contro gli oppositori alla monarchia assoluta. Il meccanismo è quasi sempre lo stesso: revoca della cittadinanza (che rende illegale la permanenza in territorio bahreinita) ed esilio forzato. Negli stessi giorni, la corte d'appello di Manama aveva portato da 4 a 9 anni di reclusione la condanna della guida di a-Wefaq, Ali Salman, accusato di istigazione alla violenza e all'odio contro il governo e tentativo di colpo di stato. Quanto a un'altra attivista, Zainab al-Khawaja, cittadina danese-bahreinita, uscita dal carcere a maggio per motivi umanitari (era stata arrestata a marzo per aver strappato una foto del re), all'inizio di giugno ha scelto di autoesiliarsi in Danimarca: in un'intervista ha spiegato che le autorità di Manama avevano avvertito l'ambasciata danese del rischio di un nuovo arresto.

Che in Bahrein non esistano garanzie di rappresentanza democratica non è una novità. La monarchia assoluta degli Al Khalifa, di religione sunnita (con posizioni simili a quelle della dinastia regnante saudita), governa con il pugno di ferro un paese a maggioranza sciita, in un piccolo ma strategico arcipelago del Golfo Persico. Basti pensare che degli 80 seggi totali del parlamento, i 40 della camera alta sono di nomina regia, mentre il potere legislativo dei 40 della camera bassa, eletti dalla popolazione, è limitato dall'arbitrio del re. Ma per Riyadh la posta in gioco è troppo alta: da un lato considera Manama un prezioso baluardo contro l'influenza iraniana sulle comunità sciite della Penisola Araba, dall'altro teme che eventuali conquiste sul piano dei diritti da parte della popolazione sciita in Bahrein possano incoraggiare la sua minoranza sciita ad avanzare rivendicazioni simili (in Arabia Saudita gli sciiti non possono esercitare professioni come quella di insegnante o magistrato e vivono, di fatto, come cittadini di secondo ordine). D'altro canto, a interessarsi della posizione strategica di questo arcipelago non è solo Riyadh: il porto di Mina Salman ospita un'importante base della marina militare statunitense, la Naval Support Activity, mentre nella capitale Manama si trova il quartier generale della V flotta. Inoltre, nel novembre 2015, la Royal Navy britannica ha avviato i lavori di costruzione di un'importante base, la prima nel Golfo Persico dal 1971, con il compito di “garantire e preservare la sicurezza regionale”.

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