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Free mind (187)

Lisa Biasci
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 “Occorre avere la modestia e la prudenza di riconoscere che non tutto è per noi spiegabile”

                 

Tra Etruschi e Appiani - Da qualche tempo a questa parte, a seguito delle precisazioni sempre più a carattere stringente sulla arbitrarietà della decisione di trasformare l’ipogeo di Marciana in una fantasmagorica zecca del Principato di Piombino, appare del tutto evidente che le azioni che la Pubblica Amministrazione della Provincia e della Regione dovranno intraprendere saranno quelle di ripristinare un patrimonio archeologico del nostro Paese, sottraendolo all’uso a cui finora è stato destinato. Anche nella passata stagione estiva i fantasmi dei Principi Appiani, evocati dagli artefici della zecca, hanno guidato i visitatori a pagamento, all’interno del museo colà allestito, dove di sicuro gli accompagnatori avranno saputo illustrare la storia di questa fucina nella quale venivano coniate le preziose monete.

 

Chi ha contribuito direttamente o indirettamente a mantenere le cose come stanno all’interno dell’ipogeo in cui è stato allestito il museo della zecca, è il Prof. Luigi Donati, che com’è noto è un esperto di archeologia etrusca, il quale è stato incaricato dalla Soprintendenza di Firenze di esprimersi sulla natura dell’ipogeo di Marciana.

Egli si è quindi recato in trasferta all’isola d’Elba prendendosi il tempo necessario per esprimere in modo compiuto il risultato della sua indagine tecnica e, aggiungeremo noi, logica del suo pensiero.

L’ esperto incaricato - Che cosa poteva mai rappresentare oltre la stessa evidenza, anche agli occhi del professor Donati quel luogo tetro a Marciana, nella rievocativa via della Tomba, scavato nel profondo del durissimo granito e  improntato evidentemente dal committente alla indistruttibilità, per non dire all’eternità? Sembrava, infatti, una delle solite formalità da confermare piuttosto che da analizzare, a meno che non fossero subentrati ulteriori dettagli che al momento non sono conosciuti e che hanno indotto il Prof. Donati a decidere di non decidere.

Dalla lettura di alcuni passi della sua relazione e di un suo articolo su questo argomento,           si evince infatti che egli sia stato colpito da una sorta di sindrome di Stendhal in negativo, tanto da non saper esprimere ciò che per le sue formali qualità professionali, è stato ritenuto capace di gestire nell’interesse pubblico in qualità di segretario generale dell’Istituto di Studi Etruschi di Firenze.

In conclusione egli inoltra alla Soprintendenza di Firenze una sorta di relazione nella quale, dopo aver avuto la possibilità di vedere e rivedere in lungo e in largo tutti i particolari architettonici – compresi i graffiti di Fig. 2 - all’interno delle pareti, non si pronuncia. Proprio il contrario di quanto ha fatto il Prof. Michelangelo Zecchini in una mirabile opera di archeologia comparata, nella quale ad esempio, vengono confrontati, finanche nell’orientamento, i particolari architettonici della tomba etrusca di Castellina in Chianti, più uguale che simile a quella di Marciana, Fig 3.

La ratio del quesito - ll Prof. Donati, si è soffermato sui dettagli che non ha visto, anche se avrebbe potuto in qualche modo osservare un po’ meglio, ma che non superano come dimensioni circa il 5%, dell’intero ipogeo, per affermare: «Forse, da un'accurata esplorazione degli ambienti che esistono sul lato sinistro del complesso (che non ho potuto visitare) potrebbe venire qualche ulteriore informazione”.

 

Ma quell’ altro 95% comprensivo dei particolari architettonici e decorativi che invece ha visitato, non è stato sufficiente? Lo stesso Prof. Donati è divenuto così, modestamente insicuro da non essere in grado di riferire sulla natura dell’ipogeo?

Egli tuttavia qualcosa fa, riportando il pensiero di altri secondo cui, l’ ipogeo potrebbe essere un luogo di conservazione della neve, ovvero una neviera, tralascia di indicare, come superflui, i particolari e le caratteristiche tipiche di una neviera come qui in Fig.1; caratteristiche che avrebbero sicuramente dissuaso con raccapriccio molti altri dal riportare un’ ipotesi di questo genere.

Ma non finisce qui. Il Prof. Donati, non riuscendo a esprimersi nella sua materia, per la quale è stato inviato all’Isola d’Elba, riferisce anche di un’altra tesi, secondo cui l’ipogeo in questione, scavato a mano nel granito sicuramente in molti anni di duro lavoro, poteva essere stato concepito ad uso di “un approntamento, una sorta di caveau, facente parte della locale zecca” Fig. 1.

Ovviamente, si potrebbe anche aggiungere che a prescindere dalla porta, le pareti dell’ ipogeo sono a prova di furto e non solo; avvalendosi infatti, della forma tipica degli ambienti costruiti per questo scopo, alla fine del corridoio vi è anche la scelta preferenziale della cella di destra o di quella di sinistra che danno maggior senso all’architettura per depositare in una il materiale da conio e nell’ altra le monete realizzate; Fig.3.

Neviera, zecca o tomba di pari dubbio - Per le ragioni viste sopra, il Prof. Donati impronta alla prudenza il suo pensiero, dando appunto la medesima probabilità di errore ai suoi “dubbi che in definitiva hanno ragione di esistere ma che non sono più circostanziati e numerosi di quelli che impediscono ad un etruscologo di riconoscere un monumento di sua competenza”.

Per renderci conto quali siano i particolari architettonici che esprimono per il Prof. Donati il medesimo livello di dubbio interpretativo, basta osservare la differenza architettonica tra l’ipogeo di Marciana e una tipica neviera; poi la differenza tra l’ipogeo e una zecca dove all’ interno poteva esserci, come detto sopra, una sorta di caveau e infine, l’ipogeo di Marciana e la tomba etrusca di Castellina che al Prof. Donati ha suscitato i medesimi dubbi del caveau della zecca e della neviera.

Sono proprio questi amletici scrupoli professionali, per i quali egli conclude con questa responsabile decisione che ricorda quella che nei tempi di Cristo a Gerusalemme divenne celebre, e che egli esprime in questi termini : “In conclusione, di fronte a casi complessi come questo, occorre avere la modestia e la prudenza di riconoscere che non tutto al momento è per noi spiegabile, nella speranza che qualche confronto o qualche novità fortunata portino altri elementi chiarificatori».

Abbia speranza il Prof. Donati.

Perché le banche non fanno la concorrenza alle fondazioni e alle case d'asta sul mercato dei dipinti del 900?

 

 

Le banche sembra abbiano poca visione del futuro. In Italia, per esempio non ve ne è una che sia in grado di concorrere sul mercato dei dipinti del 900. Eppure potrebbero guadagnare di più. E allora?

Facciamo delle considerazioni chiarificatrici, tanto per sgombrare il campo da ogni dubbio.

In Italia ed in Europa, ma non negli Usa, fondazioni e comité di artisti del 900 hanno il potere di sentenziare, in esclusiva, su quadri e sculture di artisti del periodo, perché, altrimenti, senza una loro approvazione le case d'asta non accetterebbero la vendita delle opere.

Le fondazioni sono gestite dai parenti degli autori, che le hanno fondate, e fanno il buono e cattivo tempo sul mercato, con esperti scelti da loro stessi. Perché?

Le case d'asta, invece, che hanno i loro esperti, non contano nulla, se non solo per indicare il valore di vendita dell'opera. Ma come è possibile che ciò accada?

Cosa succede, quindi, se per caso si eredita un'opera del 900 non autenticata, e le case d'asta si rifiutano di venderla, anche se si presentano attestati di esperti d'arte nazionali o internazionali?

Che gli esperti esterni alle fondazioni sembrano non contare nulla.

La legge italiana sulle fondazioni è ancora ferma al periodo del fascismo, per cui avrebbe bisogno di una bella revisione, ma tra i vari parlamentari, a nessuno interessa. Perché?

Giochini di potere. Qualche piccola casa d'asta, in presenza di attestati di primari esperti, provano a vendere l'opera a quattro soldi rispetto al reale valore di mercato, se ci fosse l'avallo della fondazione di riferimento. Poi, può accedere che su segnalazione alla fondazione di competenza, questa acquisti l'opera sottobanco, ancor prima di essere messa all'incanto, e successivamente approvi l'opera stessa per poi rivenderla al di mercato, guadagnandoci un sacco di soldi.

E su queste storture del mercato, forse, sarebbe necessario l'intervento della magistratura.

Negli Usa, invece, le fondazioni, per legge, non possono rilasciare alcuna autenticazione , ma solo promuovere le opere degli autori di loro pertinenza, con convegni, esposizioni,ecc.

Dunque, il mercato, italiano ed europeo, risultano drogati dal potere che hanno le fondazioni, senza alcun merito, e da case d'asta accondiscendenti che seguono come cagnolini il loro padrone.

E le banche? Se si dessero una smossa, forse il mercato dell'arte potrebbe essere più fiorente, e scalzare il potere delle fondazioni.

Come? Facendo valutare le opere da propri esperti, scavalcando le fondazioni stesse, ed inoltre, su stime fatte dai loro esperti, concedere un anticipo sul valore presunto a chi lo richiede.

Ma come sopravvivono le fondazioni? Per ogni quadro, già catalogato da loro, e che viene venduto all'asta ricevono il 4% sul valore di acquisto, praticamente a vita.

Chi è in grado di spezzare questa catena dell'arte?

Dulcis in fundo. Le opere ante 900, dove non esistono fondazioni, si vendono all'asta solo con l'avallo degli esperti qualificati esistenti sul mercato.

E' bene ricordare che recentemente un'opera attribuita a Leonardo da Vinci è stata venduta negli Usa a 450 milioni di dollari, proprio da una casa d'asta internazionale. E se per caso, ci fosse stata una fondazione, l'opera poteva anche valere quattro soldi.

Ed allora, perché le fondazioni debbono avere l'esclusiva del mercato?

Dove non ci sono fondazioni gli esperti valgono, altrimenti no. Qualcuno è in grado di interrompere questo gioco delle parti?

                   

“Premio Italia diritti umani 2018” ®

Dedicata alla memoria dell’ ex Vice-presidente della Free Lance International Press Antonio Russo.
Aula Magna della facoltà valdese di teologia
Via Pietro Cossa  40  (piazza Cavour) ROMA

ROMA 14 Ottobre 2018

Il Premio Italia Diritti Umani nasce dall’esigenza da parte delle associazioni coinvolte di voler dare un giusto riconoscimento a coloro che, per la loro attività, si sono distinti nel campo dei diritti umani. In un mondo in cui il profitto sembra essere lo scopo ultimo di ogni intento, bisogna sostenere chi lotta veramente, sacrificando spesso gran parte (o del tutto) la propria esistenza per aiutare il prossimo. I Mass Media spesso non prestano la dovuta attenzione al tema dei diritti umani, se non in maniera superficiale. È giunto quindi il momento, non solo di dare un giusto riconoscimento a chi lotta per la difesa dei più deboli, ma anche di parlare su come possano essere tutelati meglio questi diritti che, anche in paesi come l’Italia oltre che all’estero, sono sistematicamente violati, soprattutto nei confronti dei più deboli.

 

In collaborazione con - Amnesty International – sezione italiana e Cittanet

 

PROGRAMMA

Moderatrice e presentatrice del premio: Neria De Giovanni, Free Lance International Press, Presidente dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari.

Interventi



Antonio Cilli: Cittanet founder
Mobile e video, un nuovo modo per fare giornalismo - Ore 16.10

Emanuela Scarponi - agenzia di stampa Africanpeople
Diritti umani in Africa - Ore 16,20 –
Maria Elena Martini – Presidente Ass. Arte e Cultura per i Diritti Umani
Educare ai Diritti Umani - Ore 16.30

Riccardo Noury - Portavoce Amnesty Italia
Le periferie dimenticate del mondo - Ore 16,40

Buffet ore 16.50 
Ore 17.10 - L’associazione Artisti civili presenta un estratto da
“Denunciami pure”
 di e con Ferdinando Maddaloni e Katia Nani  
ore 17,30
PREMIO ITALIA DIRITTI UMANI 2018

- Consegnano i premi e leggono le motivazioni gli attori:
 Elena Di Cioccio, Alessandra Izzo, Domenico Macrì, e lo scrittore Paolo Di Orazio 
Donate opere degli artisti:
Isabella Scucchia, Nastasya Voskoboynikova, Liliya Kishkis Marotta, Guia Muccioli


Via Federico Cesi 44 00193 Roma It.                                   www.flipnews.org                                 
Tel./fax ++6-96039188 - 32111689                                       e mail:
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 Quello che ci insegna il chirurgo di Lanciano         

               

Non ringrazieremo mai abbastanza Carlo Martelli, il chirurgo di Lanciano che, dopo la feroce aggressione in casa da parte di una banda di criminali, dal suo letto di ospedale, parlando a fatica, è stato in grado, con grande naturalezza, di pronunciare parole prive di odio, parole di salutare razionalità. Le armi in casa - ci ha detto - meglio lasciar stare. Non possono veramente aiutare a difenderci, ma possono solo renderci peggiori e più vulnerabili. Meglio confidare nelle forze dell’ordine e mettere da parte le pericolose pulsioni alla “giustizia fai da te”…

Bellissima la sua capacità di resistere alla tentazione della rabbia. Bellissimo il suo pacato ragionare non alterato, non imbrattato e incattivito dalle violenze subite.

Certo, non pochi giornalisti e direttori di giornali forcaioleggianti ci saranno rimasti piuttosto male (magari censureranno, manipoleranno, stravolgeranno). Anche per questo, bisognerebbe continuare a fargli interviste. Bisognerebbe invitarlo, una volta ristabilito, in tutti i programmi televisivi dove si urla e si inneggia ad un sempre maggiore uso della “forza”, sempre più vista e invocata come unica panacea.

Qualcuno ci disse che sarebbe meglio non aver bisogno di eroi (che, tra l’altro, spesso hanno pure combinato non pochi guai). D’accordo, facciamone pure a meno. Ma di persone così, che anche in situazioni estreme, che, anche nei panni di vittime “umiliate e offese”, non intendono rinunciare ad avere fiducia nel prossimo, nella giustizia fondata sul diritto, nella ragione che non vuole smettere di operare in maniera “chiara e distinta”, di persone così abbiamo tutti un immenso bisogno …

Per non essere risucchiati nel gorgo delirante e astuto dell’odio e della paura, nelle trappole di chi, in nome della difesa dei nostri corpi e (soprattutto) dei nostri portafogli, rischia di riuscire (giorno dopo giorno) a rubarci l’anima.

È difficile anche con la fantasia arrampicarsi sugli specchi per sostenere a lungo il tentativo. Auspicato l'intervento della Regione Toscana 

Le zecche italiane

Nel 2011 oltre 60 studiosi di tutto il mondo contribuirono con la loro scienza numismatica a ‘costruire’ due ponderosi volumi per un totale di 1664 pagine che - citiamo da IBS - “raccolgono la documentazione relativa a tutte le zecche italiane dal V secolo d. C. fino all'unità d'Italia. Si tratta di una ingente massa di dati ampiamente documentati, qui raccolti per la prima volta in un'unica opera, che offrono una comprensione ampia e comparativa delle attività delle zecche italiane... Non esistono lavori simili in ambito europeo”. Tale opera, che uscì con il titolo “ Le zecche italiane fino all’Unità”, fu pubblicata dall’Istituto Poligrafico dello Stato e fu curata dalla Prof.ssa Lucia Travaini dell’Università di Milano, considerata a ragione, dovunque, un’autorità in fatto di numismatica e di sedi di zecche, ma di Marciana non se ne fa menzione.

Orbene: nel mese di novembre 2017 intervistai la Prof.ssa Travaini sulla storia delle zecche. L’ ultima domanda riguardò la discussa veridicità della zecca di Marciana, ubicata in un ipogeo che il Comune ha dotato di allestimento museale, aprendolo a pagamento al pubblico.

La risposta bocciò ampiamente e con decisione, l’ipotesi di una zecca a Marciana. La stessa intervista fu pubblicata in significative riviste di archeologia e numismatica nazionali ancora reperibili on line, oltre alla sintesi, pubblicata come resoconto sulla stampa on line dell’Elba, affinché ne fosse informato anche il Comune di Marciana.

L’ aspettativa in primo luogo, era che il Comune, proprio perché allo scopo aveva speso qualche decina di migliaia di euro, verificasse le affermazioni contenute nell’intervista sentendo la Prof.sa Travaini o comunque esperti diversi da quelli locali a suo tempo retribuiti per il progetto zecca; in secondo luogo gli amministratori di questa suggestiva cittadina, che non ha bisogno di attrarre visitatori con invenzioni storiche perché trasuda di storia ‘vera’ da ogni casa che si osserva e da ogni via che si percorre, prendesse le determinazioni opportune.

L’eccesso di sicurezza

Niente però di tutto questo è avvenuto. Il museo della zecca   è stato riaperto nella stagione estiva senza verifiche scientifiche. Il Comune continua a diffonderne le notizie sul suo sito ufficiale. La pubblicità non si è fermata; i turisti hanno continuato a entrare a pagamento seguendo l’insegna di “una zecca che non c’è mai stata”.

Nel caso che, come sembra, i finanziamenti per il progetto zecca di Marciana provengano anche dalla Regione Toscana, considerata l’ insensibilità sul tema da parte del Comune, si renderebbe necessario l’intervento della Stessa Regione per chiarire come stanno le cose. Proseguendo infatti, su questa via, non si fa un bel servizio né a Marciana, né all’Elba, né alla Toscana, né agli ignari visitatori di un museo fondato sulla pubblica credulità di questa fantasmagorica zecca e tanto meno al nostro Paese che vive della autenticità del proprio patrimonio artistico e della credibilità del mondo intero.

Dal generico al concreto

Ecco cosa scrive nel suo sito ufficiale il Comune di Marciana che però, non disponendo di alcun supporto storico che possa dimostrare quanto sostiene, con le sue affermazioni conduce a un travisamento della realtà.

“La Zecca di Marciana venne fatta realizzare dalla famiglia Appiani intorno agli ultimi anni del Cinquecento. Il paese di Marciana infatti, fu utilizzato dai Principi di Piombino come residenza estiva, collocata nell’attuale “palazzo Appiani”. Le motivazioni della scelta di Marciana anziché in altro centro dell’isola sono molto verosimilmente da ricercarsi nella relativa vicinanza con Piombino, nell’esistenza, in prossimità del palazzo, di una struttura fortificata e nell’essere Marciana l’unico paese elbano in contatto visivo con Piombino. Originariamente la Zecca era composta da tre ambienti adibiti alla coniazione di monete emesse nel Principato di Piombino, in cui si apriva un cunicolo scavato nella roccia granodioritica usato come probabile deposito monetario.”

E’ appena il caso di osservare che:

  • non esiste alcun documento che comprovi la realizzazione della zecca a Marciana alla fine del XVI secolo o in qualsiasi altro momento;
  • a Marciana non esiste un palazzo Appiani, ma solamente la casa di Grimaldo Bernotti, majordomo degli Appiani;
  • Marciana non era sicura, come dimostra il fatto che il pirata Dragut la devastò intorno alla metà del Cinquecento: la sua ‘ struttura fortificata” (la Fortezza) non era adatta a sostenere i terribili attacchi barbareschi;
  • da nessuna parte c’è scritto che la zecca era composta da tre ambienti e da un cunicolo usato come deposito monetario: non è assolutamente credibile che il Principe di Piombino fosse tanto “illuminato” da far scavare nel duro granito un’opera ciclopica per impegno e fatica al fine di realizzare un luogo di coniazione di monete in mezzo al mare, ossia all’isola d’Elba, poiché in caso di attacco piratesco il ricorso liberatorio più rapido e conveniente sarebbe stato solo…….. quello del pianto;
  • la narrazione di questa fantasmagorica zecca riesce ancora a stupire con fantasie come questa del cunicolo ad uso di cassaforte. Usando però la stessa moneta della fantasia, si potrebbe aggiungere che il cunicolo (e le due camere adiacenti) potrebbero essere state ispirate alle “camere della morte” di qualche tonnara della vicina costa piuttosto che al tipico ambiente della zecca. Una morte per affumicazione sarebbe stata più che certa per qualsiasi malcapitato destinato per qualche minuto, in stanze sotterranee, a quel genere di lavoro;
  • non c’è alcuna motivazione per la quale una piccola zecca, com’era quella di Piombino, gravata peraltro da seri problemi, dovesse creare una succursale a Marciana;
  • nessuno ha mai visto o descritto, per il semplice fatto che non esistono, le monete coniate a Marciana.

“Tutti gli uomini del Presidente”

A supporto della indifendibile ostinazione a favore di questo genere di zecca, il Comune ricorre infine ad una citazione mirata, chiamando in causa un numismatico del Settecento:

“Guido Antonio Zanetti, nel volume Nuova raccolta delle monete e zecche d’Italia (1779), così la descrive riferendosi ai Principi di Piombino” : «Questi le fecero coniare nella propria Zecca che avevano fatto erigere sì in Piombino in luogo vicino alla Cittadella, ove ancora si conserva la fabbrica sebbene negletta, che in Follonica, come pure nell'Isola d'Elba oltre Rio, ed anche in Marciana restando oggidì denominata una stanza di ragione della Casa Bernotti la Officina della Zecca”..

Il fantasioso numero di zecche cosparse nel piccolo Principato di Piombino (Follonica, Rio e Marciana) non regge il confronto con la reale disponibilità monetaria della Famiglia Appiani.

A tale proposito è sufficiente riportare il parere della Prof.ssa Travaini che così si esprime: “Vorrei però ricordare che questa trattazione sulle monete di Piombino dello stesso Zanetti fa parte di una grande dedica dell'intero volume all’eminentissimo e reverendissimo Principe Cardinale Ignazio Boncompagni Ludovisi dei principi di Piombino eccetera eccetera. Benché lo Zanetti fosse uno studioso di grande serietà, il fatto di aver inserito questa nota in chiusura della sua trattazione sulle monete di Piombino (posta in apertura al volume e da lui redatta) può lasciar pensare a una lieve sfumatura di ostentazione nell'enfasi elogiativa”.

Non tutto è evanescente

Un’altra citazione dello stesso Comune Marciana ricorda che: “il Museo della Zecca di Marciana è stato inaugurato nel 2014 su progetto degli architetti Silvestre Ferruzzi e Luciano Giannoni”.

A questo punto, per meglio capire come sono andate le cose, si rende opportuno chiedere a terzi in causa per quale motivo ufficiale sono stati richiesti e ottenuti dalla Pubblica Amministrazione i fondi utilizzati per la progettazione e l’allestimento di quel luogo a dimostrazione di zecca. Tale domanda si reputa legittima in quanto questo Museo oltre ad aver sottratto al patrimonio archeologico del nostro Paese un luogo di notevole valore storico e rappresentativo dell’epoca etrusca a cui viene attribuito, i fondi utilizzati per l’altra finalità rappresentano una distrazione di pubblico denaro a scopo (senza entrare in dettagli) non certo previsto dalla legge.

- Tra gli assolti in un processo a carico di sette persone con l'ipotesi di traffico di materiale 'dual use' in violazione dell'embargo, conclusosi ieri a Como, figura anche il corrispondente per l'Italia Hamid Masoumi Nejad dell'Irib, il network di stato della Repubblica islamica, nonché socio della Free Lance International Press.

Hamid è un giornalista della Stampa estera, molto noto in Iran per i suoi servizi dall'Italia. Su di lui è stato di recente scritto anche un libro per denunciare i lunghi anni passati senza una sentenza, e per il trattamento ricevuto - compreso il carcere in isolamento - per il sospetto di essere una spia. "E' la fine di un incubo” ci ha raccontato il nostro collega, vittima innocente di giochi di potere che passano sulle teste di tutti noi – Noi che conosciamo bene il collega e lo abbiamo sostenuto in tutti questi anni, consapevoli della sua estraneità ai fatti, non abbiamo mai avuto modo di dubitare della sua onestà intellettuale e  grande professionalità. Nell'ordinanza c'era scritto che non era giornalista e l'associazione dei giornalisti lo sospese solo sulla base delle notizie dei giornali. Il collega in tutti questi anni ha solo chiesto una sentenza. Ora chiede una notizia, perché : ” quando mi hanno arrestato sono finito in prima pagina e ora che sono stato assolto spero in un trafiletto per la dignità della mia professione".

Dopo che il grande scandalo del tir di prosciutti scomparso e misteriosamente ritrovato vuoto sotto l’abitazione dell’onorevole Quattroganasce, fu aperta un’ interrogazione parlamentare nell’intento di chiarire la faccenda.

Il primo a parlare fu il Ministro dell’Interno Il quale, visibilmente imbarazzato, disse:  “Onorevoli colleghi, quantunque le concomitanze suppositive portino incontrovertibilmente all’ anamorfosi congetturale, si presume, con assoluta certezza, che la sindrome del dubbio possa avocare la  prodromica reiezione delle lutulenti azioni lubridiche del reo“.

“Che ha detto!?”chiese il Segretario della Lega. Ha detto che stanno indagando, rispose un compagno di partito.

Allora, presa la parola, il Ministro di Grazia e Giustizia disse: “I sofismi dell’anacoluto postulato inficiano l’ipocondria latente dell’elusivo solipsismo pragmatico mentre il paradigma della  scrasia criptica obbliga a trascendere l’oggettivismo apologetico della sinapsi procedurale”.

L’onorevole Calogero Scalia mormorò al compagno che gli era accanto: “Ma ‘anacoluto’ parola offensiva è? Aah!?” Nooo! rispose sicuro e persuasivo il suo collega.

A questo punto intervenne il Ministro della Pubblica Istruzione che così si espresse: “Se la metonimia analogica edulcora il pregenetico antropofagismo tendenziale la catàbasi icastica della congettura avulsiva induce a confutare le inconsulte supposizioni obnubilate nel repente dileguarsi del tabulo bottino”.

Alcuni annuivano tra loro ostentando l’aria di chi ha capito tutto altri avevano in faccia l’espressione di chi è stato colto con le mani nel sacco.

“Ma l’hanno trovati i prosciutti?” chiese il senatore Pansagrossa. Pare di no, rispose sconsolato un suo collega.

S’era fatta ormai l’ora di cena quando qualcuno disse sottovoce che il pranzo a mensa era servito.

Non si sa come ma tutti capirono all’istante ed in un baleno si disperse l’assemblea.

Avola. Per scelta, Maurizio Inturri da due anni si occupa di cronaca e solo casualmente si è imbattuto in un'inchiesta sulla mafia di Avola. Chiariamo sin da subito che non esistono eroi giornalisti che scrivono di mafia, ma solo giornalisti che si occupano o intendono occuparsi di tutto ciò che riguarda la cronaca.

 

Il famoso caso del “Chiosco dei fiori“ posto di fronte all’ingresso del cimitero di Avola è frutto di una sua delicata e lunga inchiesta: testimonianze e registrazioni, come da deontologia giornalistica, sono passate dalle sue mani a quelle degli inquirenti, ma prima di questi ultimi a quelle del giornalista Paolo Borrometi, che le ha utilizzate per scrivere un articolo nella testata online "La Spia". 

 

L’inchiesta sul Chiosco dei fiori, una rivendita quasi secolare già di proprietà della famiglia Cancemi e oggi finita nelle mani dei Crapula, è stata una minuziosa raccolta di informazioni grazie al racconto di un suo testimone. Erano sconvolgenti le informazioni che Inturri riceveva dalla sua fonte.

 

Un chiosco che in molti avevano visto per circa due settimane sotto la gestione di un impresario di pompe funebri. che lo stava rimettendo a posto ripulendolo dalle erbacce prima della nuova apertura, ma che tutto ad un tratto è passato all’impresa dei Crapula, che ne ha annunciato l'acquisizione con tanto di cartelloni recanti la scritta “Nuova gestione“.

 

Cosa sarà successo? La risposta si può riassumere in due parole: semplice mafiosità..

 

La signora Cancemi proprietaria del chiosco aveva richiamato il locatario a cui aveva concesso il locale dicendogli di riconsegnarle le chiavi perché era stata minacciata di morte da Desireè, Christian, Rosario Crapula e Francesco Giamblanco. "Se non fai quello che vogliamo ti faremo saltare in aria!", disse.

Purtroppo, come accade spesso, per questa sua denuncia agli inquirenti e sul suo blog (https://inturrimaurizio.wordpress.com/), Inturri è stato vittima di aggressioni, minacce e querele per diffamazione a mezzo stampa. Per queste ultime sono stati accusati lui, il Borrometi e il senatore Giarrusso. Tra l'altro, le denunce sono fioccate anche quando Inturri ha riferito dell’appoggio del clan Crapula ad un candidato al consiglio comunale nelle elezioni amministrative di Avola di giugno 2017.

Per molti sarà storia passata, ma sappiamo tutti che la “Mafia non dimentica“.

 

Oggi, a distanza di un anno, la DdA di Catania ha confermato quanto scritto da Inturri nel mese di agosto 2017: ad avere preso il testimone del comando del gruppo dal proprio padre è Desiré Crapula, e non il marito di quest'ultima, Francesco Giamblanco.

Il Gip di Catania, infatti, nell’ordinanza cautelare a carico di Francesco Giamblanco, Massimo Rubino e dell'onorevole Giuseppe Gennuso, tutti e tre accusati in concorso di voto di scambio politico mafioso, precisa che: “Il Crapula Michele aveva costituito all’interno del clan Trigila un gruppo proprio e benché arrestato manteneva e risulta mantenere ancora il controllo del gruppo attraverso la moglie Magro Venera e i figli Desireé, Aurelio (detto Cristian) e Rosario”.

Questa precisazione del Gip di Catania conferma quanto da denunciato da Inturri pubblicamente e agli inquirenti sempre nell’agosto del 2017. A seguire Inturri riporta quanto scrisse il 9 agosto 2017. Quello che sapeva di certo, perché lo aveva ascoltato con le sue orecchie era:

 

1. Che ogni quindici giorni circa, la moglie del boss Michele, Vera, si recava dal marito.

2. Che un giorno mentre Inturri si trovava in negozio è arrivata la stessa e con voce di comando rivolgendosi alla figlia Desiré gli ha detto: "...dobbiamo fare i biglietti aerei perché devi venire anche tu!"

3. Che Desirè era l’unica che si occupava dei rapporti con le banche e con la contabilità e che in più di una occasione, davanti ai dipendenti, non trovando il marito Ciccio, si è espressa dicendo “Iddu a stari ca’! Tal’è ca’ accuminciu a lassallu senza mangiari!“ ("Lui deve rimanere qui! Guardate che lo lascio morire di fame", frase che, avendo toni mafiosi, assume significati diversi, anche sinistri, a seconda delle circostanze, ndr). Espressione accompagnata con sguardo feroce e non come occasionalmente si mostrava ai clienti o davanti ad un pubblico non appartenente alla sua cerchia familiare.

 

Da questa inchiesta, sono stati tratti i video, inchiesta su Fanpage.it di Sandro Ruotolo e i vari articoli a livello nazionale, ma il nome di Inturri è stato sempre accantonato da illustri giornalisti e dalle testate giornalistiche locali e nazionali, così come è stato deliberatamente taciuto da chi doveva assicurare garanzie per la sua incolumità fisica e totale solidarietà, cioè a dire da

Paolo Borrometi. Ma così non è stato.

E’ proprio qui e per tali motivi che bisogna chiedersi come mai è calato un silenzio assordante su un aspirante giornalista che ha deciso di parlare e denunciare la mafia proprio nella provincia dei Crapula, dei Trigila, degli  Aparo.

 

Perché e chi ha deciso di lasciare senza scorta mediatica Maurizio Inturri? Quale testimonianza scritta e\o oculare avrebbero avuto oggi inquirenti e Paolo Borrometi senza di lui?

 

 

A cura di Emiliano Federico Caruso

Fondazioni e comité stravolgono le regole del mercato dell’arte. Ecco perché. Cosa si cela, dunque, dietro il labirinto delle fondazioni preposte alla convalida degli artisti che ne fanno parte ?

Certamente non dovrebbero rappresentare il dogma della certezza, anche perché di esperti validi, al di fuori delle fondazioni, ne esistono, eccome.

E allora? C’è odore di bruciato. Infatti, il comune mortale che ritiene di possedere un’opera, firmata o non, di un artista del 1900 , se vuole provare a venderla deve rivolgersi alla fondazione preposta per l’autenticazione . Il che significa che un pugno di esperti possano dettar legge, facendo il bello e cattivo tempo. Tradotto alla romana, una “sola”.

Ecco perché:

  1. Le case d’asta, senza il placet delle fondazioni non vendono l’opera;
  2. I giudizi espressi da altri esperti, in un libero mercato, sembra non abbiano valore. Perché?
  3. Perché le Fondazioni vogliono tenere sotto controllo il mercato, a loro piacimento, naturalmente con il consenso delle case d’asta. Il che significa che un’opera bocciata da una fondazione non ha un valore di mercato. Falso. Infatti per le opere di autori che non hanno dietro alle spalle una fondazione, come gli artisti ante 900, sono gli esperti che attribuiscono un’opera ad un pittore o scultore, e ne indicano anche il valore. Prova ne sia un dipinto di Leonardo venduto a New York alla cifra record di 450 milioni di dollari. Il che dimostra che gli esperti di mercato contano, eccome.
  4. Il gioco delle parti qual’è? Le fondazioni, in generale, bocciano l’opera a loro sottoposta, anche se autentica , poi in collegamento con gallerie e case d’asta sarebbero disponibili a farla acquistare da un terzo, se dovesse essere posta in vendita, naturalmente a prezzi stralciati, per poi, magari, approvarla dopo. Un mercato milionario.
  5. Come difendersi dal verdetto negativo delle fondazioni? Non sottoponendo l’opera al loro giudizio, e farla stimare da esperti esterni, e poi cercare di venderla privatamente , od anche attraverso le pochissime case d’ asta disponibili a bay passare le fondazioni, che, è bene ricordare, incassano il 4% sul valore del venduto nelle aste degli autori che sono da loro schedati.
  6. La soluzione migliore per valutare un’opera, resta comunque di sottoporla all’Unione Europea Esperti D’arte , riconosciuta dal governo italiano ( anche se comporta dei costi), e con la cui certificazione è possibile vendere l’opera attraverso le case d’asta. L’ente, prima del rilascio dell’attestato di autenticità effettua tutte le analisi scientifiche dell’opera e poi riunisce il Comitato di esperti per la valutazione finale. L’Unione copre tutto il territorio nazionale ed ha uffici di rappresentanza sia in Europa che negli Usa.
  7. E’ bene ricordare, comunque, che la legge inerente le fondazioni risale al 1939 e non è stata mai aggiornata. La normativa prevede che un famigliare dell’artista defunto possa costituirne la fondazione e possa esprimere l’autenticità delle opere esaminate fino ai 70 anni dal decesso dell’artista stesso.
  8. In verità le fondazioni dovrebbero occuparsi di altro, e cioè promuovere l’operato dell’artista defunto, con convegni , mostre, ecc. Infatti negli Usa così è. Le fondazioni non possono mai autenticare l’opera dell’artista,ed il ruolo spetta solo ad esperti esterni, cioè al mercato. E negli Usa ci sono 2.000 fondazioni.

E da noi? Fondazioni e case d’asta a braccetto stravolgono il mercato.

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