L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Kaleidoscope (1297)

Free Lance International Press

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January 24, 2024

In questa nuova proposta di Veronica Liberale ci troviamo a vivere le avventure di quattro cinghiali diretti a Roma. Una commedia dolce ed amara in cui si racconta come la natura subisca lo stravolgimento a causa dell’essere umano, ma raccontato dall’altra parte: quella dei cinghiali. 

Macchia Desolata è un posto al limite della città, dove Nerina e Calidone (Antonia e Duccio) cercano di sopravvivere quando arriva Amaranta (Veronica) dalla Maremma con la sua numerosa famiglia. Dei cacciatori li inseguono, e sulla strada incontrano Red (Giuseppe), che li convince ad andare con lui in città dove li aspetta un futuro migliore. I tre si illudono e lo seguono in questa avventura, sperando di poter trovare un equilibrio con i "dumani" e convivere serenamente. 

“Cinghiali” è una proposta brillante, surreale e provocatoria, una piece per riflettere profondamente sullo stravolgimento della natura attuato dall'uomo, ma che non disdegna di inserire tematiche sociali attraverso metafore. 

Il tema trattato è molto sentito, esploso nel periodo della pandemia e ancora attuale. Una realtà che divide coloro che vorrebbero preservare il mondo animale e chi è più pragmatico e vorrebbe risolvere il problema attraverso l’abbattimento dei cinghiali. 

Ma che posizione prenderemmo se concedessimo la possibilità di esprimersi a questi animali? Se ascoltassimo il loro punto di vista, se dessimo voce alle loro paure e bisogni? Come in una favola per bambini che va alla ricerca di una morale, Veronica entra in questa scottante tematica con la sua profonda sensibilità, dando voce all’intimo del mondo e permettendogli di esprimersi, non solo attraverso qualche grugnito o con frasi che spesso contengono parole strampalate e distorte, ma soprattutto con concetti semplici ed elementari che ci svelano con ironia una realtà fantastica ma plausibile.

Veronica si discosta drasticamente con questa proposta dalle sue precedenti produzioni. Solo facendo molta attenzione si ritrova, è il caso di dire, la sua impronta. Questo testo è molto particolare, profondo e ricco di interessanti metafore.

Ho trovato delle forti analogie nei dialoghi, nei toni di voce e negli atteggiamenti, con il teatro dell’assurdo e del nonsenso. Dialoghi che si nascondono dietro un apparente paradosso volutamente infantile e strampalato, con cui i personaggi esprimono in maniera grottesca e ironica i loro disagi.

La prima cosa che traspare è una forte critica sul nostro modo di trattare la natura. Ma c’è anche un richiamo al mondo dei reietti, perché i nostri cinghiali sono rappresentati con l’aspetto di barboni, delle persone abbandonate agli angoli delle strade, di quelli con problemi mentali o sociali, scansati da tutti per il loro aspetto o per la loro situazione. Ci appaiono come i disagiati della irriverente pellicola “Brutti, sporchi e cattivi” che ai margini della società, vivono una vita dura e opprimente ignorati dalla società.

Questi cinghiali sono la rappresentazione di una minoranza schiacciata e dimenticata ma che esiste, pensa, desidera, spera e chiede aiuto al resto dell’umanità, che sorda e insensibile tira dritto e sorvola il problema, almeno finché questo non esplode e la travolge. Allora e solo allora, non potendo più girarsi dall’altra parte, dovrà farci i conti.

In questa proposta ho rivisto vicende vergognose legate alla storia dell’umanità, che spesso l’indifferenza ha foraggiato e permesso di crescere, acuirsi e degenerare. Vi ho visto riflesso l’esodo degli ebrei che fuggono vessati alla ricerca della Terra promessa, o le vittime dell’Olocausto, mentre a poco a poco si abbrutiscono perdendo i pochi residui di umanità che gli sono rimasti.

Durante lo spettacolo il pericolo è sempre incombente, si sparge per la sala opprimente, come un’ombra. È  una presenza eterea che ci circonda, è come una cornice invisibile che imprigiona e al contempo evidenzia il lato umano più insensibile e malvagio.

Non vediamo i dumani, ma li sentiamo lontani avvicinarsi sempre di più attraverso degli inquietanti spari.

Così i nostri cinghiali, che sembrano un incrocio tra sfortunati animali mitologici tramutati in barboni, con il loro linguaggio semplice ed elementare si muovono in una realtà artefatta che sembra quella partorita dalle saghe nordiche.

Il loro aspetto e il loro status di braccati e reietti sembrano una trasposizione delle vicende che coinvolgono gli immigrati di oggi, che rifiutati dalla società che hanno “invaso”, scorrazzano per le nostre vie cittadine. Una forte allegoria del miraggio di trovare nella nostra città quel paradiso perduto tanto anelato, ma che rappresenta per loro un infelice connubio tra pericolo e salvezza: da una parte trovano i “buoni”, gli animalisti, e dall’altra i cattivi, i cacciatori assassini.

Tutto viene raccontato come fosse una favola per bambini. Il linguaggio e le scene si servono di un approccio volutamente leggero che però nasconde la profondità e la sensibilità di Veronica.

Così, in una scenografia semplice e minimale che mi ha ricordato quella del suo “Gregory”, tra i rumori e i versi della natura, i giochi di luce e l’attenta regia di Pietro De Silva, i quattro artisti sono riusciti a comunicare con la loro bravura i messaggi della storia raccontandoci paure, ansie, esperienze, speranze e sogni di queste creature selvatiche alle quali e impossibile non affezionarsi, che vivono alla giornata e a cui Veronica aggiunge una dote tutta umana: la spinta per andare oltre, per guardare al futuro. Così, come in ogni suo lavoro, ecco il suo fil rouge: la scelta e il riscatto personale.

Nel triste e drammatico, ma a mio avviso trionfante epilogo, ritrovo così tutta l’essenza della dolce Veronica.

 

 

“Cinghiali”  di Veronica Liberale 

regia di Pietro De Silva 

con Duccio Camerini, Antonia Di Francesco, Veronica Liberale e Giuseppe “Zep” Ragone

 

 

January 21, 2024

January 20, 2024

La frase emblematica racchiude in sé il corpo dello spettacolo. L’amore qui non segue un cliché, rompe gli schemi e si libera. È semplicemente un amore che infrange ogni barriera, non vincolato alla coppia eterosessuale, che non ha obblighi. È un sentimento travolgente che arriva inaspettato.

Il testo sottolinea come l’amore non abbia sesso, come entri di prepotenza nella vita delle persone, cambiandole.

Pina è  una prostituta che vive in uno squallido seminterrato da cui vede “la strada all’altezza degli occhi”, scorgendo il mondo indifferente che le passa accanto. La visione che ha di questo mondo è come quella di una lumaca o di un verme che per sopravvivere deve schivare quei passi distratti, che già l’hanno ampiamente calpestata.

Vive dunque ai piedi della società, non parla mai di volti scorti dalla sua finestra, ma solo di scarpe che le sfiorano il volto mentre passano indifferenti. Sono le orme di una società che vogliono nasconderla perché di lei si vergognano e solo dopo averla sfruttata di notte, preferiscono dimenticarla di giorno.

Pina ha un figlio che non può crescere perché è sola e forse anche a causa del suo mestiere e della sua situazione psichica.

Infelice, si appresta a scrivere una lettera, l’ultima. 

Quest'azione però sembra essere l’inizio di una nuova vita. Forse la lettera ha inaspettatamente aperto la porta di un’altra  dimensione, è stata ascoltata in forma di preghiera da qualche entità sovrumana.

Così, inaspettatamente nella sua vita appare l’unica persona che finora sia stata in grado di ascoltarla e capirla andando oltre i pregiudizi e le apparenze, ed è riuscita con delicatezza e discrezione a penetrare la sua intimità.

È Principessa, un uomo che probabilmente condivide, come lei, un marciapiede. Nella sua borsa ha una parrucca bionda e delle scarpe con i tacchi alti.

Tra i due nasce qualcosa di speciale, si capiscono, si sentono e cominciano a condividere una passione comune fatta di un sentimento vero e profondo privo di secondi fini.

A dare vita a questa particolare storia, scritta da Donatella Diamanti, sono due artisti d’eccezione: Tiziana Sensi e Mariano Gallo, in arte Priscilla.

La vicenda è raccontata con particolare  delicatezza, sfruttando un’atmosfera onirica, eterea, fantastica.

Quando i due si incontrano, si specchiano in loro stessi, vedendo il loro riflesso. Seppur appaiano completamente diversi, si completano. Lei è frenetica, logorroica, infantile; lui posato, riflessivo e schivo.

 

Credo che una persona che arrivi a pensare al suicidio debba essere oltremodo disperata o coraggiosa. Pensare di affrontare l'ultimo viaggio con un biglietto di sola andata vuol dire aver superato abbondantemente il proprio punto di rottura, aver oltrepassato il proprio limite di resistenza al dolore. Significa essere arrivati ad uno stato di assuefazione che porta a convivere con quel dolore e cercare con questo gesto la pace.

Oppure, come sembra essere Pina, bisogna essere degli sconsiderati, dei folli, degli irresponsabili incoscienti ed immaturi. Effettivamente a primo impatto Pina può sembrare così.

Con il suo atteggiamento fanciullesco e superficiale nasconde però ben altro.

Pina è egregiamente interpretata da una mirabile Tiziana Sensi, che ci restituisce un personaggio candido, dolcissimo, estremamente delicato ed indifeso. Si aggira saltellando come la vispa Teresa per questo orrendo sottoscala ricreato da una scenografia che lascia a bocca aperta, impreziosita da effetti luce e sonori molto suggestivi.

Pina è molto particolare: loquace, logorroica ed infantile,  probabilmente a seguito di diversi traumi si è chiusa in questo stato di perenne fanciullezza, in cui è regredita.

Satura di un’esistenza fatta di stenti e di infelicità, ha deciso di farla finita, ma lo fa in maniera impacciata e goffa. Finché nella sua vita entra “casualmente” questo singolare personaggio magico e misterioso interpretato  da Mariano.

L’artista, come sempre, si muove delicatamente e fascinosamente, animato dalla sua essenza in cui due forze, quella maschile e quella femminile, si fondono e si compenetrano per dare forma ad un unico ed irripetibile essere dai tratti angelici ma anche profondamenti umani.

I due sembrano condividere un futuro simile, parallelo. Sembra che il destino li abbia voluti far incontrare, incrociandone le strade.

 

Dopo un iniziale impatto traumatico, almeno per Principessa, travolta dall’irruenza di Pina, trovano una sintonia.

Ho notato che mentre Pina rivela il suo vero nome, l’altro si nasconde dietro uno pseudonimo. Che celi la sua vera identità di essere celeste o immaginario?

La vita sembra non aver dato molto ai due, ma almeno ora si riscatta  facendoli incontrare e rompendo la loro profonda solitudine. In meno di un'ora, la pièce con profondità ed intensità ci trasporta in questa romantica e drammatica vicenda rendendoci testimoni di un particolare rapporto che vediamo crescere piano piano,  delicatamente, in punta di piedi.

Mariano è un artista fuori le righe, si muove con la sua forte e affascinante personalità. Quasi non sembra umano; è una specie di angelo caduto dal cielo ma per sua scelta e non per punizione divina. Sembra aver scelto scientemente il suo destino, quello di salvatore. Con il suo fascino maschile e femminile ammalia e seduce non solo il pubblico, ma anche questa dolce e amorevole donna.   

Tiziana interpreta magistralmente questa creatura, restituendoci una donna svuotata della sua essenza ma bella e amabile che per proteggersi vive in un mondo tutto suo.

Nell'interpretazione di Tiziana vedo la quintessenza della donna abusata e sfruttata, mentre in Mariano l’ Angelo della morte che con estrema bontà, inviato chissà dal destino, dalla sorte o dal padreterno, viene in soccorso di questa fragile creatura.

Mariano è un personaggio iconico, surreale, onirico, che si muove sfiorando il palco in questa realtà che sembra immaginaria.

Poi, abbandona per un momento quei tratti divini e magici di cui è dotato per tramutarsi in un uomo che vuole proteggere e poi accompagnare questa donna verso l’ultimo passo.

Due personaggi suggestivi interpretati divinamente, toccanti, emozionanti, a tratti divertenti e sempre dolcissimi, che affrontano insieme un dramma che si tramuta in una storia di amore romantica che sembra volerli unire per l’eternità.

Tiziana e Mariano riescono a toccare l’intimo dello spettatore e ad emozionarlo, come la stessa creatrice del testo, che a fine spettacolo ci ha rivelato di essersi profondamente commossa.

L’amore che va oltre la distinzione dei sessi e si rivela senza confini, incanta e suggestiona.

 

“La Strada all’altezza degli occhi”
di Donatella Diamanti
con Mariano Gallo e Tiziana Sensi
Scene Alessandro Chiti
Regia Luca Gaeta
Aiuto Regia Caterina Gramaglia
Costumi Ilaria Ceccotti
Disegno Luci Francesco Bàrbera

 

 

"Una come me" è una commedia teatrale di Mauro Graiani con Matilde Brandi, Salvo Buccafusca e Andrea Zanacchi, musiche di Pino Cangialosi e la sapiente regia di Francesco Branchetti che attraverso la sua grande esperienza non sbaglia mai un colpo.

Lo spettacolo sta calcando i palcoscenici di tutta Italia con il giusto successo e l'acclamazione del pubblico.

E' la storia di una donna cinquantenne che a causa di una strana forma di schizofrenia si sdoppia in Maria e Sole; due entità nella stessa persona. Due caratteri completamente differenti, due realtà nello stesso corpo senza che una sia a conoscenza  dell'altra

Matilde Brandi riesce in modo lodevole a gestire le due personalità cambiando in modo camaleontico il carattere di una e dell'altra. Indubbiamente la sua arte attoriale è di grande livello, spontanea, energica, di grande impatto con il pubblico che osserva e ascolta una storia da risvolti comici, ma con il messaggio di una malattia psichiatrica di difficile se non impossibile soluzione anche se nella commedia, una pasticca potrebbe cambiare la vita di Maria-Sole.

Salvo Buccafusca e Andrea Zanacchi due attori di una grande capacità interpretativa, preparati, competenti ed empatici,  appoggiano l'eleganza di Maria e la stravaganza di Sole in un alternarsi di scene molto ben costruite e pensate. I cambi di scena sono ritmati con una tempistica perfetta. Branchetti con la sua regia firma sempre ottimi spettacoli contornandosi di ottime scelte per gli allestimenti, i costumi, i tempi di scena.

a s. Matilde Brandi e Marzia Carocci

Matilde Brandi, Salvo Buccafusco e Andrea Zanacchi chiudono lo spettacolo salutando il pubblico con  una  canzone di Gloria Gaynor di fine anni '70 e qui la splendida Matilde basta che accenni due o tre passi di ballo per farci ricordare di quanto  l'attrice sia completa e di quanto il suo essere soubrette sappia incantare e di come la sua energia sia contagiosa. Ecco che la magia del teatro diventa apprezzamento di un  pubblico che applaude la simpatia, la perizia, la forza teatrale di un trio meraviglioso che ha saputo donare la bellezza, il respiro, il battito di tanti cuori che solo il teatro sa dare-

 

 

 

  Rabbi Lynn Gottlieb

Di fronte al nostro mondo insanguinato che, giorno dopo giorno, ci appare sempre più infernale, ci ritroviamo ad  interrogarci sovente (pur nella consapevolezza che tutto quello che potremmo fare noi, umili donne di lettere e di intelletto, inciderà sempre  ben poco sul  divenire doloroso degli eventi)  in merito a  come contrastare le quotidiane celebrazioni della violenza nelle sue varie declinazioni, prime fra tutte quelle di carattere bellico.

Una cosa indubbiamente preziosa (forse soltanto consolatoria, certo, ma  forse anche pedagogicamente terapeutica) potrebbe risultare il cercare di rivolgere lo sguardo mentale verso chi si adopera, ignorato dalle luci dei palcoscenici mediatici, nel continuare a seminare parole di saggezza e di fiducia nelle possibilità umane di ribellarsi alla tirannia delle armi e della prepotenza politica.

Perché, per le nostre anime ferite, può costituire una fonte salutare e vivificante il sapere che, in ciascuna nazione flagellata dai conflitti, all’interno di ogni schieramento, esistono e lavorano (spesso osteggiate, minacciate, emarginate, censurate e represse) persone pronte a rischiare la propria vita per non smettere di chiedere, di cercare e di costruire Giustizia e Pace.

 Perché ci comunica una forza immensa, carica di operosa speranza, il sapere che esistano (tanti!) giornalisti, intellettuali, religiosi, obiettori di coscienza, ecc. che, nonostante tutto, non intendono rassegnarsi, tacere, obbedire, ma che continuano a difendere e soccorrere le vittime, a denunciare i crimini, a rifiutare  la faziosità che occulta il vero e nobilita i boia, che continuano, soprattutto, ad impedire alla propria ragione di abdicare e di arrendersi, proseguendo nel proprio lavoro di riflessione, di onesta informazione,  di discussione critica, e, soprattutto, di ben ragionati irenici insegnamenti ed esortazioni. 

E più di tutte, credo,  meritano attenzione e immenso rispetto le voci nonviolente che non cessano di ammonirci e di provare a guidarci verso una più corretta visione dei fatti e verso possibili (più o meno utopiche) soluzioni alternative.

Una di queste voci è rappresentata, ad esempio, da Rabbi Lynn Gottlieb, la prima donna ordinata rabbino nel movimento del Rinnovamento ebraico  (1981). In un suo articolo recentemente apparso su Azione Nonviolenta*,

  • viene da lei sottolineato come a giocare un ruolo fondamentale nelle vicende politiche dello stato israeliano sia stato  sfortunatamente il sionismo ebraico, “irrevocabilmente legato alla visione del mondo dei coloni bianchi, suprematisti, profondamente antisemiti, islamofobici e coloniali”, e basato sulla convinzione che, per gli ebrei, fosse indispensabile possedere “il potere di uno stato nazionale completamente militarizzato”.
  • A suo avviso, nell’attuale catastrofico momento, si sta realizzando, all’interno di “una campagna di uccisioni di massa senza alcun riguardo per la vita civile”, una spaventosa espulsione  di centinaia di migliaia di palestinesi che si riallaccia con forza alla Nakba del 1948.
  • La Gottlieb, poi, denuncia con grande amarezza il brutale tradimento subìto in tanti anni, ad opera della comunità internazionale e  degli Stati americani ed europei, dalle migliaia di palestinesi che hanno lottato in modo nonviolento per porre fine all’occupazione militare.
  • E denuncia anche il fatto che, all’interno delle comunità ebraiche statunitensi, chiunque cerchi di proporre soluzioni politiche eque, miranti allo smantellamento dell’occupazione e dell’apartheid, istituendo anche il diritto al ritorno, venga ignorato e zittito con il marchio infamante dell’ “antisemitismo”.
  • Accusa, inoltre, la società israeliana di aver coltivato per 75 anni la cosiddetta  “arroganza del privilegio”, ovverosia  uno stato d’animo basato sulla negazione dell’umanità dell’altro e producendo, così, una visione della realtà tanto distorta quanto pericolosa, e, ancora peggio, provocando un progressivo indurimento di cuore di fronte alle condizioni di sofferenza palestinese.

“La gente dell’Olocausto - arriva a dire Lynn Gottlieb - sta usando il linguaggio dell’olocausto per giustificare atti di carneficina genocida.”

  • Ed ai leader della comunità ebraica viene rimproverato di essersi rifiutati di prendere posizione contro l’oppressione palestinese per paura di “ essere licenziati, di dividere le loro comunità o di perdere i finanziamenti”, contribuendo, in tal modo, ad alimentare l’impunità israeliana e la repressione del popolo palestinese, sottoposto ad una “punizione collettiva, alla negazione dei bisogni fondamentali come alloggio, cibo, acqua e libertà di movimento e alla continua umiliazione e aggressione”.
  • Ma - sottolinea con vigore questa tenace donna rabbino - la tesi del diritto di Israele a difendersi anche commettendo atrocità contro un’intera popolazione, fondata sulla convinzione che la “sicurezza ebraica” debba essere conseguita con l’applicazione sistematica della “politica del  ‘con ogni mezzo necessario’  non è accettata da tutti i sopravvissuti all’Olocausto, tanto meno da tutti gli ebrei.”
  • A questo proposito, riferisce le splendide parole pronunciate da Anna Columba (sopravvissuta all’Olocausto) durante una manifestazione di protesta con le Donne in Nero, in Piazza Zion a Gerusalemme:

“Ho perso tutta la mia famiglia nell’Olocausto. I nazisti erano assassini. Non voglio che siamo come loro. Meglio essere tra i perseguitati che tra i persecutori,  perché almeno abbiamo ancora la nostra anima umana.”

  • L’ebraismo da lei abbracciato e praticato (Shomeret Shalom), plasmato sulla base delle tradizioni e delle eredità ebraiche nonviolente in correlazione con gli attivisti praticanti nonviolenti contemporanei, la spinge a sostenere iniziative di concreta “riparazione dei peccati del sionismo”, miranti al conseguimento dell’immediato “cessate il fuoco” e al via libera agli aiuti umanitari, nonché a costruire un movimento di solidarietà con il popolo palestinese, in modo da sostenere  forze operanti all’interno della società israeliana, come le organizzazioni  Zochrot** e B’Tselem***, che lavorano per  “l’equità, la dignità e il diritto palestinese a ritornare a un’unica comunità di ebrei e palestinesi, come cittadini con uguali diritti davanti alla legge.”

 

  • La Gottlieb, dopo aver dichiarato “fallito” il sionismo, definendolo anche “muktseh”, ovvero inaccettabile all’interno dello stesso ebraismo, afferma che l’unica strategia adottabile per il raggiungimento di un mondo sicuro per palestinesi ed ebrei sarà quella della “solidarietà verso una giustizia amorevole” .
  • “Scelgo - dice - di riporre la mia fede nell’idea che la nostra liberazione come esseri umani è interdipendente. Tutti o nessuno di noi. Per il bene dei nostri figli.
  • Concludendo che, in quanto rabbina impegnata nella pratica della nonviolenza ebraica, sorretta dalla volontà di alleviare e curare la sofferenza prodotta, la sola strada percorribile dovrà essere rappresentata da quella delle “azioni riparatrici”.

 

Una strada, questa, certamente lunga e indubbiamente difficilissima, addirittura impensabile agli occhi di molti (dentro e fuori Israele), ma che meriterebbe di essere attentamente ponderata e che, attuando una epocale rivoluzione ideologica e strategica, andrebbe abbracciata ed intrapresa con ragionata consapevolezza e con fermissima determinazione, nonché fortemente incoraggiata e convintamente e concretamente sostenuta  dall’intera comunità internazionale, soprattutto dalle tante nazioni che tanto volentieri gareggiano nel dichiararsi “amiche di Israele”, desiderose di una pace reale e duratura.

 

NOTE

*Rivista fondata da Aldo Capitini nel 1964, bimestrale del Movimento Nonviolento (www.azionenonviolenta.it).

** Organizzazione no-profit israeliana avente lo scopo di promuovere la consapevolezza della Nakba palestinese (il catastrofico esodo forzato della popolazione araba palestinese, durante la guerra arabo-israeliana del 1948).

***ONG israeliana avente l’obiettivo di raccogliere informazioni in merito alla situazione dei diritti umani nei territori occupati.

 

 

 

January 14, 2024

  La vigna cresce a Firenzuola

Vicchio, Appenninia Wine Festival, Teatro Giotto, l’atteso talk condotto da Massimo Cirri (Cartepillar Radio Due). La sala si riempie piano piano. Tutti presenti i produttori espositori. Pure anche chi non espone ma vuole essere presente alla “Prima”.

Accanto a me un posto libero. Si avvicina un giovane dai lineamenti orientali e mi chiede di sedere. “Buongiorno mi chiamo (non capisco il nome)”. Altrettanto mi presento. Non ho dubbi: è giapponese. Chiedo conferma. E in un italiano “passabile” inizia a parlare del perché si trova nel teatro Giotto.

- Ho iniziato a produrre vino da queste parti.

- Ma tu sei quel giapponese che abita a Puligno, tra Firenzuola e il passo di Monte Giogo, in quella casa di pietra “spazzata dal vento”?

                  Tatsuhico Ozaki a Vicchio (foto Il Filo)

- Sì, sono io.

TATSUHIKO OZAKI, quel “matto” che vuole produrre vino da vitigno giapponese, il Koshu, ad oltre 700 metri di altezza dove il vento domina e spazza via tutto, è seduto accanto a me.

Il talk non mi interessa più. Il racconto di Tatsuhiko, sì.

                                                  Pergola e Koshu in Giappone

Anche perché, in uno dei viaggi fatti in Giappone, ai piedi del Monte Fuji, nell’area viticola di Yamanashi, calpestai una vigna a pergola di Koshu, vitigno considerato a bacca bianca se pur, nella sua maturazione, assuma un colore rosato intenso. Assaggiai allora un vino “dolce”.

La coltivazione di Koshu in Giappone è millenaria. Recenti studi compiuti su ricerche basate sul DNA riconducono questo vitigno alla Vitis Vinifera.

Ed è proprio per questo che Tatsuhko vuole riportare l’autoctono nipponico alle sue origini. Allevarlo in un contesto pedoclimatico ( l’insieme di fattori che  integrandosi determinato la buona o la cattiva riuscita dell’impianto di un nuovo vigneto in una determinata e caratteristica zona del mondo simile a quella di provenienza)simile a Yamanashi.

“Complessivamente avrò in un prossimo futuro, un ettaro e mezzo di vigneto che dal prossimo anno alleverò metà a Pinot Nero e metà a “Koshu”. Per adesso ho messo 3 mila metri quadri di Pinot Nero, mentre gli altri li impianterò verso Aprile 2024”.

Facendo un rapido conteggio, impianto, crescita e successiva vinificazione, la prima bottiglia di uno e dell’altro, non prima del tardo 2027.

 grappolo di Koshu

Massimo Cirri interrompe il nostro dialogo pregando  TATSUHIKO OZAKI a salire sul palco e raccontare la sua avventura.

È finito il talk e Tatsuhiko è la star del mattino. Molti colleghi si avvicinano per chiedere l’intervista. Ma la mia, a bassa voce, ha tutto un altro significato.

L’appuntamento al 2027, a Puligno, tra Firenzuola e il Passo del Monte Giogo, in quella casa di pietra “spazzata dal vento”.

 

 

 

 

 

 

January 11, 2024

 

Il 12, 13 e 14 gennaio, al Teatro degli Eroi, andrà in scena questa proposta alla cui prova ho l’opportunità di presenziare. Ormai il cast è affiatato e pronto e visto l’imminente esordio, si lavora sul perfezionamento in una funzionale sala prove dove prende posto parte della scenografia, mentre gli attori sono quasi tutti in costume. Il regista segue attento i dettagli…

 

Mi piace l’idea di poter assistere prima del pubblico ad uno spettacolo; mi permette di conoscere il cast, di vederlo lavorare per approntare le ultime modifiche prima del debutto. È un’interessante esperienza fatta dietro le quinte dove si respira la tensione, ma soprattutto l’entusiasmo nel presentare qualcosa di proprio su cui si è lavorato con impegno e dedizione. La soddisfazione è tanta, specie quando si è lavorato su un testo difficile come questo, e poi con un cast così numeroso. Penso alla difficoltà solo per organizzare le prove… ognuno con i suoi impegni personali… tutto per amore del teatro. Credo sia doveroso scrivere qualcosa su questi appassionati attori e sulle loro capacità.

Il dramma originale del 1882 è del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen e si svolge in ben cinque atti. In questa versione, viene ottimizzato con una riduzione a due ma senza perdere né il messaggio che vuole trasmettere, né tantomeno la sua drammaticità.

Si racconta di una società che almeno all’apparenza vuole essere democratica, ma dove si palesa immediatamente l’eterna lotta tra il potere dei forti e la democrazia. Tutto è manifestato attraverso il difficile rapporto tra i due fratelli Stockman. Il dottor Thomas, un idealista con le sue idee critiche e propositive che cozzano inevitabilmente con quelle del fratello Peter; il sindaco della città, un politico ambizioso e senza scrupoli bramoso di potere e attento agli interessi personali a scapito della salute pubblica messa in pericolo a causa di un inquinamento che ha colpito le terme cittadine e che, se scoperto, farebbe crollare il turismo e l’economia del centro. Un tema fortemente attuale e affrontato come tale, dove gli interessi economici e il prestigio di pochi interessati scavalca il bene e la salute di una comunità. 

Il titolo può sviare, perché in realtà il nemico del popolo, o quello additato come tale, è al contrario colui che dovrebbe essere visto come il salvatore. Una persona coerente che cerca di preservare la società essendo lontano da ogni interesse personale, vuole informare del pericolo la popolazione.

Una contraddizione tipica della società moderna, in cui chi lotta per il bene comune dà fastidio ai poteri e viene ostracizzato dai potenti ed infine escluso proprio da quella maggioranza che vorrebbe preservare. Una maggioranza ignorante manipolata dal potere. Pensate a cosa è accaduto con l’Ilva, con la Terra dei fuochi, con i vaccini…

Mentre il dottor Stockmann cerca di salvaguardare la salute della popolazione con delle rivelazioni importanti su quanto sta accadendo, il fratello Peter, personificazione dei poteri forti, lo schiaccia e lo discrimina facendolo apparire al contrario, un soggetto cioè pericoloso in grado di distruggere il benessere di una cittadina per questo viene trasformato in un mostro, in un nemico del popolo. Il fratello dispotico arriva allora a distruggerlo socialmente ed economicamente, senza porsi il minimo scrupolo verso l’onesto consanguineo. Ecco che il cieco potere travolge con indifferenza anche gli affetti familiari, senza scrupoli o remore.

Nonostante tutto Thomas, il dottore, rimane fermo nei sui suoi propositi. Solo e abbandonato, percorrerà la strada che ritiene più giusta con coraggio e senso di giustizia, coinvolgendo suo malgrado la famiglia, che entra ovviamente in crisi.

La bellezza del testo, ma soprattutto la capacità del cast e il raffinato riadattamento riescono a ricreare queste tensioni e preoccupazioni in maniera coinvolgente e realistica.

Giorgia, la figlia del dottore, è una ribelle che pur vestendo i panni di una ragazza di altri tempi, ha la grinta di una ragazza moderna, schietta e battagliera. Agnese, la moglie, ci appare come una donna matura, indecisa sul da farsi per le ripercussioni che il gesto del marito avranno sulla famiglia, ma anche propensa ad appoggiarlo; Antonello, il dottore, trasmette il fardello che porta sulle spalle con una postura ingobbita, e gesticolando nervosamente esprime quando vede tutto crollargli intorno. I tre ricreano efficacemente queste tensioni familiari.

Riccardo, il fratello sindaco, è un personaggio forte; si mostra viscido e subdolo, dando l’impressione, con le sue movenze lente e riflessive, di tenere sempre in mano le redini della storia. Domina la scena e tutti sembrano pendere dalle sue labbra, costretti a rispettare i suoi tempi pacati prima di potersi esprimere. Come il povero balbettante giornalista (Antonio), che dapprima spalleggia il dottore con la sua denuncia, ma poi cede raggirato ed intimorito dalle velate minacce del politico, abbandonando il povero dottore al suo destino.

Una storia che racconta di manipolazioni ed interessi dove si scoperchia una pentola ricolma e tracimante di intrighi, in cui le flebili alleanze si tramutano presto in tradimenti. È affascinante come tutto venga presentato in un’epoca passata, ma attraverso questo riadattamento e alla recitazione si giochi tra l’anacronistico e il contemporaneo. La regia crea degli strappi temporali che attualizzano la storia. Si viene così sballottati in dimensioni parallele tra due momenti storici, che seppur distanti tra loro si compensano. Il tentativo è davvero coraggioso e il risultato assolutamente efficace.

La volontà del testo è quella di far vivere ed emergere le lotte intestine che vanno a scapito della collettività, e di sottolineare come la massa, invece di unirsi e sostenere chi vuole proteggerla, si schiera con chi vuole invece annichilirla. Questo ci appare in tutta la sua drammaticità nella scena con “La voce del popolo”: una scena forte, volutamente confusionaria, proposta con cinismo e attualizzata. La folla che crea una bagarre confusionaria ricrea quello stato di caos provocato da menti fuorviate e confuse, che con il loro atteggiamento decretano la morte della democrazia e della loro libertà. Paradossale ed assurdo, ma sempre attuale. Pensate a chi è più preoccupato al posto in classifica della propria squadra di calcio che alle problematiche del proprio paese…

Temi sempre attuali, affrontati in modo da far riflettere attraverso la provocazione, per condurre poi verso un finale inaspettato.

Forse quello che la proposta ci vuole dire è che per essere davvero liberi bisogna prima liberarsi della propria ignoranza e cominciare a pensare con la propria testa,  invece di farsi pigramente indottrinare dal potere.

In questa battaglia contro i mulini a vento, in cui i sostegni vengono a mancare attimo dopo attimo, l’unico coraggioso è il capitano di Marina (Giovanbattista, stasera sostituito da Renato) che gli rimane al fianco. Compare poi l’armatore Giampaolo, che si rivela una figura viscida come quella di Peter e che cerca inutilmente di intimorire lo stoico capitano.

Si affacciano poi due camei, due figure forti che spezzano questo quadro: l’ubriaca, in cui ho visto una trasposizione del coro greco, l’unica che forse grazie al suo stato riesce a rimanere coerente e a gridare il suo sdegno. Lei è Eugenia, che seppure appaia solo all’inizio della storia, lascia il segno. L’altra è la suocera del dottore, Stefania, che mi ha riportato alla mente Elena Daskowa Valenzano, l’attrice che interpreta la madre del Marchese del Grillo con Alberto Sordi. Con la stessa verve e incisività segna ogni suo ingresso con forza.

Insomma, nonostante l’assenza delle luci, delle musiche e di alcuni accorgimenti che renderanno sicuramente più emozionante lo spettacolo in teatro, sono uscito da questa esperienza molto soddisfatto. Ho potuto concentrarmi maggiormente su ogni singolo artista e apprezzarne le doti, le sfumature, la gestualità, l’espressività, senza le “distrazioni” del contesto.

Un testo forte, difficile e ben presentato. Posso solo immaginare l’effetto che farà in teatro.

 

“Un nemico del popolo”  
Teatro degli eroi 
Di Henrik Ibsen 
Adattamento e regia di Renato Piva 

Con Riccardo Buttarini (Peter Stockmann), Antonio Di Marco (Hovstadt), Giorgia Finocchi (Petra), Stefania Mastroianni (Stephen Kill), Agnese Piccolomini (Signora Stockmann), Antonello Saponara (Thomas Stockmann), Giovanbattista Scidà (Chorster), Eugenia Brandi (l’Ubriaca), Giampaolo Vezza (Vik).

Con la partecipazione straordinaria de “La voce del popolo”

 

January 08, 2024

January 04, 2024

 

Questa storia è davvero deliziosa, dolcissima ed intrisa di passione. Ci svela come i personaggi coinvolti affrontino la vita ed imparino a gustarla sempre con un sorriso, focalizzandosi sull’amore  per le proprie passioni, le aspirazioni, e le emozioni con cui si assaporano le cose semplici della vita. Tutto è raccontato attraverso un approccio delicato, quasi fatto in punta di piedi in cui si riconosce la mano di Michele, che oltre a scrivere il testo interpreta un particolare ed originale personaggio: Giacomo, un giardiniere un po’ filosofo e un po’ yogi che vive un rapporto molto singolare con il suo lavoro e con le piante del suo vivaio.

Il suo sembra essere un mondo a parte, forse un rifugio in cui coltivare non solo la passione per la botanica, ma anche il rapporto profondo con se stesso, in un luogo reso quasi magico, distante dal tran tran quotidiano che ingurgita tutti e schiaccia il senso della vita. Giacomo sembra prediligere il rapporto con il mondo verde, più che con quello degli uomini. Sembra volersi proteggere dai rapporti umani e distaccandosi da essi, dedica tutto sé stesso alle piante instaurando con loro un rapporto profondo e confidenziale.

Inaspettatamente, irrompe nella sua tranquillità Camilla, una donna dedita completamente alla carriera lavorativa. Vive per il lavoro che sembra dominarla occupandole ogni momento della giornata. I due apparentemente sono in perfetta antitesi, ma paradossalmente si rivelano anche molto simili. Hanno in comune lo stesso atteggiamento: quello di impegnarsi in qualcosa che li possa proteggere dal rapporto emotivo con gli altri.

Aldo invece è il dolcissimo assistente che lavora e aiuta Giacomo. Un sempliciotto con un lieve ritardo mentale che però lo rende spontaneo, vero. Privo di ogni forma di inibizione, dice sempre quello che pensa. Fortemente condizionato dalla madre, ha sviluppato anche lui un particolare rapporto con le piante, ma anche con il suo datore di lavoro. Anche lui sembra essere protetto da questo ambiente, che non lo ostracizza per la sua condizione. Qui tutti sembrano essere uguali, sullo stesso piano.

Tre caratteri e tre tipologie di vita assolutamente differenti si incontrano e si scontrano grazie ad una scrittura semplice ma efficace, che sprizza dolcezza e spontaneità in ogni suo passaggio. Un inno alla semplicità umana e un’ode alla vita, che vuole portarci a riflettere sul tempo che passa, sull’importanza del confronto con gli altri e sul valore e il piacere dell’attesa che va goduta nel preparare un evento, nel vederlo crescere per poi coglierne i frutti… proprio come si fa con le piante, entrando in sintonia con il naturale corso della natura e del destino, in attesa che questo si compia.

Tutto è affrontando con apparente leggerezza ma in realtà in modo molto profondo. Ogni forma di ansia e nervosismo dei personaggi viene curato da questo atteggiamento sempre positivo che domina la storia ricca di riflessioni, che porteranno via via i tre a riconsiderare le priorità della vita, donandoci l’opportunità di ritagliarci anche noi un attimo di riflessione.

Michele si presenta con il suo inconfondibile atteggiamento: un po’ sornione, calmo, spontaneo, spiritoso, estremamente riflessivo in ogni sua esternazione. La sua comicità ha il sapore di quella di una volta, cresciuta e maturata con i grandi nomi dello spettacolo e oggi personale e tutta sua.

Francesco interpreta un ragazzo le cui evidenti difficoltà per il suo lieve ritardo ne fanno un personaggio amabile e divertente per la spontaneità. Afflitto da visibili tensioni muscolari, Francesco con gesti e movenze inequivocabili svela le difficoltà motorie ma al contempo sottolinea il carattere mite in un modo davvero commovente.

Federica passa dallo stato di stress ed egocentrismo iniziale a manifestare tutta la sua dolcezza, la femminilità e la sensibilità inespressa. Abbandonando le sue frustrazioni, si trasforma in una piacevole ragazza, dolce e piena di sogni finora nascosti grazie all’incontro con una sorta di “mago di Oz” che ha i panni di un giardiniere, il suo aiutante schietto e sensibile, ma anche grazie a questo ambiente magico in cui il tempo pare non esistere ed essere fermo ad aspettare pazientemente la maturazione dei personaggi, proteggendoli intanto dal mondo esterno.

Questo apparentemente normale vivaio si rivela quindi un luogo pieno di vita ed emozioni, protettivo e fatato. Una suggestiva scenografia riempita di piante e vasi, a cui si aggiungono le luci, lo esaltano e lo rendono molto realistico.

Le scene si susseguono inframmezzate da brani di Pino Daniele, Lucio Dalla e da altri classici della musica italiana. In ogni scena c’è tutta la passione per il teatro che il lavoro di Michele riesce a trasmettere, supportato dal suo valido cast e dalla regia di Nicola Pistoia (di cui in una scena sentiremo anche la voce fuori campo registrata).

Uno spettacolo adatto a tutti, che dietro alla sua semplicità nasconde una forte dose di sensibilità, di profondità e una grande ricchezza di valori.

Ogni scena è un crescendo che ci rivela un pezzetto alla volta il carattere dei personaggi, che con i loro pregi appannano ogni loro difetto. Una commedia che sprizza positività e una grande passione per la vita, quella sana, fatta di persone che sanno ascoltarsi e ascoltare, o che vogliono imparare a farlo per arrivare a godersi la semplicità, abbandonando sterili e fugaci ambizioni, così come farà Camilla. La donna si accorgerà che la vita è fatta di altri valori da gustare dietro ai quali, chissà, può nascondersi anche il sogno d’amore al quale abbandonarsi senza paura. L’amore, questo sentimento che spesso spaventa per la sua intensità…

Imparare ad affrontare questa paura significa vivere in armonia sia con sé stessi che con gli altri. Questo credo sia il messaggio insito nella storia.

 

Teatro Sette Off 

“Il Piacere dell’attesa” 

Di Michele La Ginestra; regia: Nicola Pistoia, aiuto regia Loredana Piedimonte 

Con Michele La Ginestra, Federica De Benedittis, Francesco Stella

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