
L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni. |
This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Il placido Serein |
![]() |
Il Serein è il principale corso d'acqua che attraversa il distretto vinicolo di Chablis condizionandolo con il suo idro-clima. In particolare quella parte collinare posta ad Est della cittadina dove sono posizionati i vigneti classificati Grand Cru.
È lungo 188 km e, vista la modesta portata, non è navigabile. Nasce nelle colline dell'Auxois ad Arconcey e scorre verso Nord/ Nord-Ovest, per confluire nello Yonne a Bassou.
Origine del nome: Serein è la parola francese che significa "sereno". Ciò potrebbe riflettere la natura placida del suo corso.
Siamo nella Regione Borgogna-Franca Contea, dipartimento di Yonne dove è localizzato il “vigneto” dello Chablis..
Il Serein a Chablis |
![]() |
Quest’ultimo rappresenta la vocazione vinicola più settentrionale della Borgogna. Le vigne sono quasi esclusivamente composte da piante del vitigno Chardonnay, che danno un vino bianco secco rinomato per la purezza sia del suo aroma che del suo gusto.
Il clima fresco di questa regione dovuto ad un mix di circostanze (50°parallelo, mancanza di montagne e/o boschi che possano mitigare i forti venti), produce vini con più acidità e sapori meno fruttati rispetto ai vini a base di Chardonnay prodotti nella Borgogna “classica”.
Gli Chablis hanno spesso una nota di "pietra focaia", a volte descritto come "goût de pierre à fusil" e talvolta una nota definita "metallica”.
Rispetto ai vini bianchi della Côte d’Or (Mersault, Saint-Aubin, Montrachet), lo Chablis è in media molto meno influenzato dall'affinamento in botte. Lo Chablis cosiddetto di base è vinificato in recipienti di acciaio inox. L'eventuale maturazione in botte, quando viene effettuata, è una scelta stilistica seguita solo da alcuni produttori e riguardano Premier Cru e Grand Cru.
Tutti i vigneti di Chablis sono coperti da quattro denominazioni di origine, con diversi livelli di classificazione, che riflettono le differenze del
Paesaggio |
![]() |
suolo e della pendenza presenti in questa regione settentrionale. In cima alla classifica sono i vigneti, Sept Grand Cru, tutti situati su una singola collina vicino alla città di Chablis. Seguono i vigneti da cui si ottiene lo "Chablis Premiere Cru"( in totale 12 produttori) e poi le zone da cui si ottengono lo "Chablis " e il " Petit Chablis". Questi ultimi due rappresentano l'80% di tutta la produzione.
Ed il placido, silenzioso, sereno corso d’acqua Serein, partecipa attivamente al micro-clima in comunanza con la presenza della fascia di Kimmeridge, una matrice di sottosuolo di epoca giurassica nata dal compattamento sul fondale marino di gusci calcarei di ostriche. Chapeau!
Durante la rassegna CinemAlbar al Villetta Social Lab di Roma, “La solitudine di un regista” ha incantato il pubblico con la sua poesia visiva e la voce discreta dell’autore, trasformando una proiezione in un incontro profondo con la memoria, l’arte e il silenzio.
Non è facile dire dove abbia avuto inizio la mia emozione. Forse in quel buio lieve della sala, o nello sguardo assorto di chi sedeva accanto a me. Qualcosa, senza far rumore, mi ha preso per mano e mi ha condotta dentro una storia che sembrava voler sussurrare, più che parlare.
Quel 23 maggio, al Villetta Social Lab di Roma, ho assistito a qualcosa che non era soltanto una proiezione ma un incontro. Con una città, con un autore, con una memoria che mi apparteneva più di quanto credessi.
La rassegna CinemAlbar, curata e organizzata con dedizione da Saverio Piunno, la cui accoglienza, discreta e calorosa, ha creato uno spazio autentico di ascolto, ha aperto la serata con La solitudine di un regista, un cortometraggio indipendente scritto, diretto e interpretato da Renato Pagliuso, durante il tempo sospeso del 2022.
Pagliuso ha introdotto la sua opera con compostezza e misura, scegliendo di affidare alle immagini ciò che le parole non potevano dire.
Lo guardavo mentre parlava: sembrava quasi volersi ritrarre, come chi sa che ciò che conta davvero non è detto con la voce, ma lasciato accadere nel silenzio.
Girato nei giorni immobili della pandemia, il film non racconta, evoca, suggerisce. È narrato dalla voce del protagonista stesso, una voce interiore, sottile e discreta, che si intreccia come un filo invisibile lungo tutta la pellicola. Non guida bensì accompagna, apre varchi, illumina i bordi, lascia spazio allo sguardo.
Forse è proprio da lì che nasce questa visione: da un’infanzia silenziosa, nutrita di immagini e luce più che di parole. Un bambino che, invece di raccontare, proiettava e cercava nell’ombra il volto segreto delle cose. Quel bambino, oggi regista, attraversa la città come chi cerca qualcosa che ha perduto e che forse non ritroverà mai. Eppure ogni passo è necessario, ogni silenzio custodisce un gesto, ogni inquadratura diventa un altare laico dedicato alla memoria.
Il viaggio inizia nel silenzio della notte. Il protagonista, lo stesso regista, cammina per le strade vuote, alza lo sguardo e fotografa le stelle. Ciascuno scatto è un frammento di memoria, un attimo catturato nella vastità del cielo.
Poi si ferma davanti a un vecchio cinema chiuso, dove locandine di film antichi giacciono in disordine e, con mani lente e rispettose, le riattacca alle pareti consunte, come a voler restituire dignità a quei volti e a quelle storie perdute. Dal passato, emergono le voci di quei film, le frasi più celebri, sospese nell’aria come un’eco lontana. Questo appare senza dubbio un passaggio intimo, in cui la solitudine del regista diventa la solitudine del cinema stesso, quando nessuno assiste più.
Nel cuore del tragitto, trova per terra un carillon a manovella e, sollevandolo con cura come si raccoglie un oggetto sacro, lo suona. Ad un tratto, tra le ombre di un vicolo stretto, appare una donna che balla con lui, lieve, quasi irreale. Potrebbe essere la morte, un sogno o, forse, è entrambe le cose. In quell’abbraccio danzante si concentra il mistero della creazione: l’incontro con ciò che non si può afferrare, ma si può solo evocare.
L’ultima scena mi ha sorpresa. L’ho sentita addosso. Il regista è seduto su una scalinata, all’alba, con la cinepresa accanto, come un’amica fedele. Non parla, non agisce. Poi compie un gesto semplice e potente: filma se stesso mentre mangia un pezzo di pane. Un gesto che evoca una memoria paterna, un’affezione che va oltre le immagini. In quell’istante, l’autoritratto si completa, con umiltà e verità.
La solitudine di un regista non cerca effetti, non chiede applausi poiché è una lettera d’amore scritta con la luce, una dichiarazione di fedeltà al cinema come linguaggio dell’anima. È, ancora di più, la testimonianza di un uomo che non ha mai smesso di guardare, nemmeno quando il mondo sembrava spento.
E io, seduta tra il pubblico, quel battito l’ho percepito e l’ho riconosciuto, perché anche a me, in quel buio condiviso, è sembrato che qualcosa tornasse a vivere.
In quella sera di maggio, tra le voci di chi ama il cinema e i sussurri del vento, il corto di Renato Pagliuso ha aperto una porta e non su una memoria da raccontare ma su una storia da sentire.
E, forse, è proprio questo che il cinema, nel suo gesto più puro, continua a fare: non illumina solo lo schermo, ma l’anima di chi guarda.
La solitudine di un regista ha ricevuto un importante riconoscimento con la premiazione come Miglior Cortometraggio al concorso "Sergio Pastore", tenutosi nel 2022 alla Casa del Cinema di Roma. Un premio alla sua prima edizione, istituito per onorare la libertà degli autori e degli interpreti nel cinema indipendente, in memoria del regista calabrese Sergio Pastore.
Un riconoscimento che conferma la forza dell’opera di Pagliuso, capace di trasformare visione e interiorità in un linguaggio universale e profondamente umano.
Paolo Cassina è celebre per aver partecipato a Invisibili (2022), Sono dove non sono (2010) e Miami Beach: Un giorno ad Art Basel e dintorni (2014) e Tiziana Alterio, giornalista d'inchiesta indipendente, scrittrice e attivista, fondatrice e direttrice, per otto anni, della testata giornalistica “IlMediterraneo.it”, hanno deciso di realizzare un nuovo ambizioso film che, partendo da una forte critica al modello globalista, porti alla luce storie di coloro che, eroicamente, stanno costruendo una Nuova Umanità. Li aiuteranno grandi esperti italiani ed internazionali.
Con le loro forze sono riusciti a girare quasi un terzo del film, ora c’è bisogno del sostegno di noi tutti per arrivare fino alla fine. Questo film sarà patrimonio di tutti coloro che crederanno nell’urgenza di costruire un nuovo mondo possibile. Dobbiamo metterci in cammino, adesso. Tutti insieme!
Per il trailer e sostenere il film: www.ilgranderisveglio.it
"LE BORSE DI ERME"
Sobrietà e fantasia..
Eleganza e semplicità...
Un caleidoscopio versatile per tanti gusti ed occasioni.
Niente viene trascurato od omesso nei lavori artigianali della nostra stilista Ermelinda Capra.
"Le borse di Erme"raffinate e compatte anche se fatte a mano rasentano la perfezione e superano di gran lunga il percorso multimediale dell'industria e del pret continuando l'inespugnabile primato del made in italy.
Il bespoke raggiunge anche traguardi inverosimili con i grandi brands.
In questa capsule collection presentata nei giorni scorsi alla Galleria Artheka a Roma l'ammirazione ha avuto un consenso totale.
Il "made to order" per i clienti più sofisticati ha contribuito al successo deli suoi manufatti rendendole questo incontro con il pubblico un'esperienza esilarante.
Info: Ermelinda Capra
Mobile: 3349495379
Email: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.
Da Mosca, Mark Bernardini. Centotrentunesimo notiziario settimanale di lunedì 2 giugno 2025 degli italiani di Russia. Buona festa della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista. Buon ascolto e buona visione.
* Il governo di Giorgia Meloni mantiene le limitazioni sulle armi fornite all’Ucraina. Perché l’Italia contrasta la sedicente idea europea enunciata dal cancelliere tedesco Friedrich Merz.
* Marco Travaglio ha superato se stesso. Godibilissimo. Già impegnatissimo, nell’ordine, a: incendiare casa, auto e altre proprietà di Starmer, mandare in black-out la Spagna, il Festival di Cannes e pure a Nizza, truccare (invano) le elezioni in Romania e (con successo) in tutti i Paesi dove vince quello sbagliato, provocare anche i più piccoli incidenti elettrici, idrici, ferroviari, navali e aerei nei più remoti angoli del pianeta, Putin colpisce ancora.
* La settimana scorsa vi ho riferito di una legge approvata di recente sulla cittadinanza italiana. In realtà, ci sono due questioni distinte, seppur accomunate dall’argomento: gli emigrati italiani all’estero (e loro discendenza), e gli immigrati stranieri in Italia.
* Ciò che osserviamo è che le autorità italiane, sin dall’inizio della crisi ucraina e già dal colpo di Stato del 2014 hanno sempre “assecondato” i leader del Majdan. E dopo il febbraio del 2022, Roma è definitivamente scivolata in una posizione dalla quale esprime approvazione incondizionata nei confronti di tutte le azioni, persino di quelle più efferate, compiute dalla giunta nazionalista di Zelenskij e dai suoi lacchè. “Un sostegno a 360 gradi”, come ama definirlo la Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, Giorgia Meloni. In tutto questo periodo, l’Italia ha già accolto in gran festa il malriuscito leader ucraino per ben sette volte, due delle quali in occasione del cambiamento avvenuto ai vertici del Vaticano. In tale contesto, sarebbe un grande evento anche solo scendere a un sostegno “a 359 gradi”. Ma ciò, ahimè, per il momento non accadrà.
* Una canzone del 1973, «Звенит январская вьюга» (Risuona la tempesta di neve di gennaio), tratta da una commedia fantascientifica, «Иван Васильевич меняет профессию» (Ivan Vasil’evič cambia mestiere), nel senso di Ivan il Terribile.
Per questa settimana è tutto. A risentirci e rivederci, sui miei canali!
https://rutube.ru/video/815aa60cf30178ef00c5a8d56cb8d090
Foto dell'artista |
![]() |
The Artist - LADY FIORELLA BELLAGOTTI
Nata a Roma il12 07 1949
Fiorella,fin dai primi anni dotata di una spiccata vena artistica dove perfino alle elementari già dai quattro anni le suore Pallottine, suor Adelaide e suor Paola, la
Grafica- "La donna aglio" |
![]() |
pregavano in vicinanza del Natale e della Pasqua di disegnare la cartolina di auguri per il Santo Padre, è stata sempre consapevole di questa suo talento e finito il liceo classico, dove durante le lezioni continuava ad imbrattare il banco ed i quaderni o qualunque foglio avesse sottomano di scarabocchi, il suo desiderio era quello di iscriversi all'Accademia di Belle Arti di Roma; purtroppo i genitori la implorarono di proseguire in un percorso scientifico e Fiorella si iscrisse alla facoltà di Medicina e Chirurgia.Erano gli anni 70 e l'uomo era andato sulla luna e perche' no? Considerando gli studi ed i testi su cui studiava troppo retro' ed entrando in contraddizione con i vari docenti riguardo le sue idee,più avveniristiche che conservative,decise di andare a perfezionare il suo inglese in Inghilterra per cui,passato il test di lingua, il suo sogno era quello di andare alla NASA da cui era stata contattata negli incontri all'Ateneo di Roma. Da Londra tornava nei periodi di esami, ma a Roma
Il quadro esposto |
![]() |
iniziavano quei terribili 7 anni di scontri ed occupazioni universitarie, idee che lei non condivideva e decise di restare a Londra ed impegnarsi in vari lavori freelance e continuare nella ricerca scientifica non potendo iscriversi alla facoltà di medicina poiché a quei tempi gli studi conseguiti in Italia non erano riconosciuti per le iscrizioni nel Regno Unito. Fiorella si avvalorava anche dei suoi lavori artistici richiesti da vari personaggi del mondo dello spettacolo, tanto è vero che fu invitata in Irlanda dall'attore inglese Peter Sellers per dipingere una stanza in una bellissima Villa a Montrose vicino Dublino dove lui risiedeva e dove per la prima volta fiorella doveva usare dei colori al cobalto poiché la stanza veniva illuminata ad ultravioletti per far esaltare i suoi dipinti raffiguranti giochi della natura tra fogliame ed uccelli.
Molti amici/clienti commissionavano lavori,ritratti,insegne,copertine per dischi etc entusiasti del suo stile molto particolare.
Fiorella nel suo percorso di vita è stata un artista molto poliedrica: dalla poesia un'altra musa a lei molto cara alla danza dove già dal Piper Club di Roma ha conquistato il palcoscenico di molte Venue internazionali come prima Disco Queen ed accompagnando i più grandi complessi rock mondiali in tantissime tournée da Carlos Santana ai Rolling Stones, daTina Turner ai Pink Floyd a Bob Dylan etc.
"Natura" |
![]() |
"the lion king" |
![]() |
Dopo il suo matrimonio con il cantante e compositore di testi americano Scott English e aver abbandonato le tournée si è dedicata alla produzione di discografica del marito e registrare lei personalmente dei sound trucks particolari e qualche canzone.Nella sua casa londinese fra una registrazione e l'altra ha avuto modo di proseguire la sua vena pittorica producendo un buon numero di dipinti e di grafiche. La vita a Fiorella ha regalato tante gioie ed emozioni come anche il suo divorzio le ha dato altre opportunita' di far apprezzare il suo talento ancora di piu'. Tornata in Italia nel 2000 ha intrapreso la carriera di giornalista nel settore moda, avanguardia,scienza e costume. Ha scritto per diverse riviste tra cui Book Moda, Rendevouz della Moda, Esquire Asia etc.
Ora è redattrice di moda per la piattaforma digitale internazionale Flipnews.org.Fiorella in tutti questi anni non ha mai trascurato i suoi pennelli e le sue penne,pennini,smalti e colori, il genere interpretativo dei suoi lavori esula da tutte le realta' quotidiane, è un ipersurrealismo che si intreccia in grovigli di linee e forme asimmetriche dove la fantasia puo' spaziare in qualunque dimensione a noi conosciuta o addirittura sconosciuta;non segue alcuno schema e si diverbia e si inoltra a mano libera senza nessuna costruzione preesistente in tutto ciò che fuori esce dal nostro elan' vitale. È pura energia ed una masterclass di spirito di liberta'
Interlock |
![]() |
Si è svolta sulla terrazza dell'U.N.A.R. (Unione Nazionale Associazioni Regionali) di via Aldrovrandi 16 a Roma, dove ha sede la Free Lance International Press, l'evento organizzato dalla medesima associazione che ha avuto lo scopo di riaffermare arte e moda nella capitale. Ha collaborato per la riuscita dell’evento Donna Serena Pizzo, socia dell’associazione di giornalisti freelance e founder della piattaforma tv in streaming “Oltremodo tv” che, con la sua “Espressione donna”, ha presentato le sue creazioni di abiti in pelle e non solo, su cui dipinge immagini cariche di espressività, forme senza prospettiva, colori accesi alla maniera dei Fauves.
Il suo è uno stile originale, sceglie abiti e giubotti in pelle, per quello che hanno significato in passato negli anni 70,epoca di rivolte e cambiamenti. Per chi li indossava, erano simbolo di ribellione e di non accettazione delle regole. Molto usati dai giovani in quegli anni. Per la nostra il giubotto è il simbolo della sua linea di pensiero REBEL, per una donna si femminile ma forte, decisa, coraggiosa, una amazzone dei nostri giorni.
All'evento ha partecipato l'associazione “Anti violenza” dell'avv. Valentina Biagioli e dell'avv. Federico Cona, creatori dell' associazione per essere vicini alle vittime di violenza.
Apre la Manifestazione il Presidente della Free Lance Int. Press Virgilio Violo con la curatrice d'arte, la prof. Sabina Fattibene, che fa le recensioni sia ai quadri in mostra, che alla sfilata di Serena Pizzo.
La manifestazione prosegue con buoni auspici, un sole caldo che illumina il terrazzo. Viene presentata la cantante napoletana Lina Nappo che, sulle note della canzone “Caruso”, da lei eseguita, parte il primo quadro moda della linea Chic Chic Bon Bon con modelle con abiti molto glamour, che portano in sfilata i quadri della Pizzo, tra gli applausi dei presenti.
Oltre Donna Serena sono presenti le opere di due artiste: Pat Boom e Sara Lò i cui quadri sono portati dalle modelle mentre sfilano.
Esaminiamo i lavori delle pittrici; Pat Boom ha portato due opere con immagini di donna, esaltate da un colore dorato che irradia tutt'attorno alla figura, immersa in uno scenario di natura fantastica che sembra un tutt'uno con il volto della figura ritratta, gli occhi di un azzurro cielo, la dolcezza del volto fa da contraltare alla Natura di fondo, tutto ha un senso poetico. L'artista sta elaborando un progetto dedicato alla donna che è vita, madre, moglie, lavoratrice, sognatrice, va valorizzata e protetta da l'uomo che ha smarrito la propria umanità, gli è rimasto il potere di padrone sul mondo femminile. Salviamo la
donna dagli uomini senza controllo come anche gli animali e la natura.
L'artista Sara Lò è un artista che ricerca la sua aspirazione e il suo mondo interiore attraverso i viaggi dalla Germania all'India per elaborare un suo mondo pittorico fatto più di anima che di forma . In India scopre la pittura catartica Zen, che si basa sul disegnare a occhi chiusi, privo di controllo ma aiutata dal suono catartico della voce. Le sue opere sono una diversa dall'altra, la prima che analizzo è una figura con un assemblaggio geometrico che sembra un grande insetto spaziale, una proiezione dell'interiorità dell'artista, con grandi occhi teneri, le antenne, le gambe, una specie di metamorfosi della mente alla maniera di Franz Kafka. Nell'altra opera c'è un senso di informale, con figure animali e natura, raffigurati come un groviglio di colore, segni che salgono, scendono, volano si inseguono , possono essere pensieri, ricordi immagini vissute.
Al termine della manifestazione buffet e il brano “ Il soldato innamorato” di Lina Nappo che ha entusiasmato gli animi dei presenti.
Per vedere la manifestazione questo è il link: https://oltremodotv.com/comunicazioni-darte/
La Route |
![]() |
Il mese di Marzo 2025 ha registrato il mio settimo tour nella Borgogna Classica, la Côte d’Or. Quella parte della Regione Borgogna-Franca Contea che ha rappresentato e rappresenta tutt’oggi più che una Terra Eccezionale una “Terra di Eccezioni”, così definita da Camillo Favero e dal compianto Giampaolo Gravina nell’introdurre “Vini e Terre di Borgogna”.
L’ho percorsa da Nord (villaggio di Marsannay) a sud (villaggio di Santenay). Da est (fiume Saône ad ovest (Hautes-Côtes de Nuits e Hautes-Côtes de Beaune). Calpestando i Climat più o meno famosi cercando di provare a mantenere vivo il il gusto per il dettaglio, a dare risalto alle regole rigide, a sottolineare l’eccezione sempre in agguato. Comprendere ed interpretare. Non facile in quel marasma di regole, pur sempre condivise, difficile da trasmettere ai neofiti.
La nozione di Climat, “identità specifica e originale di una determinata parcella di vigne conosciuta da secoli con lo stesso nome”.
Vigneto Romanée-Conti |
![]() |
Oggi risultano ancora schedati 1.247 diversi climat della Côte d’Or a comporre il mosaico di circa 60 chilometri da nord a sud.
Tralascio la Storia che si perde nella notte dei tempi, le origini che fanno riferimento ai Galli, ai Romani, il Vino delle Abbazie, Il Vino dei Duchi, L’incidenza della Rivoluzione, Il Vino dell’Ottocento, mentre ricordo l’espansione delle colture odierne biologiche e biodinamiche.
![]() |
E per ultimi loro, i vitigni. Il Principe Pinot Noir, l’affascinante Chardonnay, i vinosi Gamay e Aligotè. Ricordare che nella quasi totalità dei casi sia il Pinot Noir che lo Chardonnay fermentano ed affinano en fûts, meglio conosciute come barriques (228 lt.). Da qui il detto “vinificazione borgognotta”.
Ed ecco il mio Tour in pillole:
- Da Marsannay a Gevrey-Chambertin, passando dai vigneti di Fixin;
- Da Morey-Saint-Denis a Chambolle-Musigny;
- Da Vougeot a Vosne-Romanée passando dai vigneti posti ad Est di Gilly-Les Cîteaux e ad ovest di Flagey-Echezeaux fino a calpestare le mitiche vigne della Romanée-Conti e La Tâche;
- Nuits-Saint-Georges e dintorni (Premeaux e Prissey);
- Tra Corton e Beaune. Da perdersi in un dedalo di Climat. Aver calpestato le vigne della Collina di Corton: Ladoix-Serrigny,
un Clos |
![]() |
Aloxe-Corton, Pernand-Vergelesses;
- Pommard, Volnay e dintorni;
- Mersault, con il suo mix di rossi e bianchi;
- Tra Saint-Aubin e Puligny-Montrachet, l’olimpo dello chardonnay;
- Per poi raggiungere Santenay soffermandomi a toccare le zolle di Chassagne-Montrachet.
Ancora una volta un viaggio tra piccoli produttori e domaines di culto, leggende viventi. Capire il complesso sistema delle appellation e dei climats plasmati e forgiati da secoli di storia. Chapeau!!!
Al Teatro Argentina di Roma – dal 7 al 25 maggio - Massimo Popolizio (in veste di attore e regista) porta in scena la sua versione della celebre commedia di Harold Pinter, Ritorno a casa (Homecoming) portato alla luce nel 1964. In questa nuova rappresentazione, Popolizio mette in risalto l’aspetto più conturbante dell’opera del famoso drammaturgo inglese, dipingendo uno scenario sordido e composito, sospeso tra drammaticità e ironia.
Fin dal suo inizio, la storia trasporta il pubblico in un contesto domestico completamente abbandonato a sé stesso, teso e visibilmente decadente. In quell’abitazione proletaria situata nella periferia londinese domina una routine familiare fiacca e stantia, incarnata dal ruolo che ogni singolo membro conduce nella sua gretta quanto pittoresca spontaneità. Max (interpretato da Popolizio) è un ex macellaio ed è l’unico che, dopo la morte di sua moglie Jessie, muove le redini della casa, nella quale vi abitano i suoi figli Lenny (Christian la Rosa) e Joey (Alberto Onofrietti), insieme a Sam (Paolo Musio), fratello di Max e da quest’ultimo continuamente vessato. Il contesto casalingo è una gabbia animalesca in cui prevale la forza logorante dell’abitudine, della totale assenza di dignità morale e della grossolana ostentazione di virilità maschile. Tutto si muove come se nell’ambiente non vi fosse traccia di coscienza: i membri della famiglia sprecano il tempo in futilità, sopraffatti dalla leadership di un capofamiglia astioso che “troneggia” grottescamente nel proprio orgoglio rivangando occasionalmente presunte glorie passate del mestiere di macellaio, tramandato a lui da suo padre. Il disordine della casa stessa sembra riflettere quella trascuratezza nei rapporti reciproci; eccetto la testa di bovino appesa alla parete (per l’appunto), unico vanto che funge da “trofeo in vetrina” capace – a detta di Max – di procurare un briciolo di credibilità all’onore della famiglia.
La normalità viene spezzata dall’arrivo inaspettato di un altro figlio di Max, ovvero Teddy (Eros Pascale), professore di filosofia di ritorno dall’America. Teddy - all’insaputa di suo padre – è sposato con Ruth, giovane e avvenente ragazza, con la quale ha avuto tre figli. Il suo ritorno nella casa di famiglia decostruisce l’ordine di ruoli consolidati, familiari e sociali, all’interno del quale la sola voce in capitolo, atta a comandare e a stabilire regole, era quella impositiva di Max. Ruth si dimostrerà più astuta di quanto gli altri membri della famiglia possano aspettarsi, considerandola semplicemente mero “oggetto di piacere” funzionale alla gratificazione del maschio. Nel caso di Ruth sarà proprio la smania di piacere e godimento a portata di mano di Max, Lenny e Joey a trasformarla in una manipolatrice femme fatale con desiderio di potere; la forza misogina di Max e della sua famiglia, con l’esclusione di Teddy – vera vittima della situazione –, si rivelerà essere in realtà la grande debolezza di cui Ruth si farà gioco. Alla fine, contro la volontà di suo marito Teddy, che tornerà negli States da solo dai loro tre figli, Ruth deciderà di rimanere con Max e il resto della famiglia in Inghilterra per darsi alla prostituzione, mestiere che grazie alle sue doti femminili potrebbe rivelarsi redditizio per tutti. Tuttavia, sarà lei a stabilire le condizioni sugli alloggi e le relative comodità, fino ad avere l’ultima parola su ogni aspetto. Contrariamente agli imperativi incalzanti di Max, in Ruth c’è l’abile affermazione di una volontà che non si impone con la voce, bensì con un simbolismo corporeo che sfoggia tutta la sua sensualità.
Tutto si chiude con una considerazione finale. Il ritorno nella casa natia da parte di Teddy dopo anni dimostra l’inconsistenza di un concetto di “casa” che sfugge al suo significato più autentico. Non può esistere casa senza famiglia, né famiglia senza appartenenza. Teddy spera ingenuamente in un legame primigenio che, malgrado le evidenti differenze rispetto al padre e ai fratelli, avvicina e riduce le distanze; ma soprattutto, scardina l’idea di famiglia radicata sulla mera condivisione di spazi. Il distacco affettivo tra familiari rende ognuno dei protagonisti nient’altro che una presenza ingombrante e autoreferenziale. La “casa” di cui parlava Pinter, non accoglie, non lenisce i dolori di una persona amata ne ristora dagli affanni della quotidianità. La casa diventa uno scenario tragico e ambiguo allo stesso tempo, totalmente deprivato della sua più genuina umanità.
Il vuoto affettivo che l’intimità familiare dovrebbe colmare lascia il posto alla dialettica tra desiderio e vulnerabilità. Ruth svolge il suo lavoro sessuale per riconquistare la sua “autorevolezza” femminile, sentirsi sicura e a proprio agio con la sua vera natura anche in luoghi a lei sconosciuti, verso i quali non condivide familiarità alcuna. La famiglia di Teddy, nel suo torpore domestico, vede nella new entry l’occasione propizia per scuotere la polvere di quella dinamica routinaria, colorita e indolente. Max e suo figlio Lenny pensano alla ragazza come a un soggetto inerme, da soggiogare e imprimervi la loro autorità come garanzia per un sicuro ritorno nel circuito degli affari di famiglia. In realtà, l’intento di Ruth svela con indubbia chiarezza proprio quel male dal quale verrà tutto quanto a dipanarsi: la casa non è più un rifugio, nemmeno per coloro che la abitano da tempo, ma una trappola che invece di arginare accresce l’abbrutimento e alimenta frustrazioni e sentimenti repressi.
La storia si sviluppa come coabitazione forzata, intervallata, grazie all’effervescenza registica ed attoriale di Popolizio, da situazioni brillanti e tragicomiche, che smorzano l’aspetto più turpe e crudo della realtà raccontata. Non mancano, tuttavia, quei silenzi prolungati che sostituiscono la verbosità dei personaggi per spostare l’attenzione su quel nulla che penetra nell’animo come nei meandri della casa. Popolizio ripropone con un’incisività autoriale l’immagine di un microcosmo sociale che Pinter aveva portato per la prima volta in scena negli anni ’60: la famiglia è lo specchio fedele dei grandi cambiamenti della società, di quel caos latente che diviene escalation, genera attriti con l’ambiente circostante, trasforma chi ci è più vicino in un estraneo. E proprio nella rivendicazione narrata da Popolizio, si nasconde, tra i nostri desideri insoddisfatti, il germe della disgregazione.
Nel diciassettesimo capitolo della Bolla di indizione del Giubileo ordinario 2025, Spes non confundit (La speranza non delude), papa Bergoglio evidenzia che, proprio nell’anno in corso, si compiranno 1700 anni dalla celebrazione del Concilio Ecumenico di Nicea, momento di fondamentale importanza nella storia del cristianesimo, da lui definito “pietra miliare nella storia della Chiesa”, in quanto avrebbe avuto “il compito di preservare l’unità, seriamente minacciata dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e della sua uguaglianza con il Padre”. 1)
Francesco, con particolare enfasi, sottolinea il fatto che l’espressione “Noi crediamo” adoperata dai Padri conciliari in apertura del Simbolo niceno (divenuto poi il nucleo fondante del Credo tuttora adottato) costituirebbe la “testimonianza che in quel “Noi” tutte le Chiese si ritrovavano in comunione” e che “tutti i cristiani professavano la medesima fede”.
Ora, però, nella versione latina del Simbolo niceno leggiamo semplicemente: “Credimus …”. Il “Noi” di cui parla Francesco (che non compare neppure nella traduzione italiana presente nell’Enchiridion Symbolorum del Denzinger), quindi, risulta essere una opinabile forzatura letteraria, utilizzata, non certo per superficialità, con il preciso obiettivo di sottolineare il carattere unitario dei cristiani di allora in funzione dell’unità tanto (ancora invano) invocata dei cristiani di oggi.
Dice il papa, infatti, che Nicea rappresenterebbe un invito rivolto “a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile”, e, a tutti “i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, “della sostanza del Padre”, che ci ha rivelato tale mistero di amore”. 2)
Ora, però, ad una onesta osservazione degli eventi storici, le cose appaiono in termini alquanto differenti.
Il Concilio venne convocato, organizzato, finanziato e attentamente supervisionato da Costantino (pontifex maximus della tradizionale religione romana), all’interno del palazzo imperiale di Nicea. Ad esso presero parte circa 300 Vescovi (si ignora il numero esatto), con schiacciante maggioranza di rappresentanti delle chiese orientali. Neppure Silvestro, il vescovo di Roma, fu presente, limitandosi ad inviare, in sua vece, due preti plenipotenziari.
Al fine di comprendere il senso di tale iniziativa intrapresa da parte di un imperatore pagano (che si farà battezzare soltanto in punto di morte) non particolarmente interessato a sofisticate disquisizioni teologiche, occorre fare riferimento al clima di grande eterogeneità e conflittualità che contraddistingue il mondo cristiano dell’epoca, caratterizzato dalle innumerevoli discussioni e divergenze relative sia ad aspetti di carattere dottrinale che disciplinare. In particolar modo, in una fase storica in cui esistevano numerose comunità di matrice cristiana, con orientamenti di pensiero spesso divergenti (in disaccordo anche sui testi da considerare “rivelati”), una violenta disputa teologica attraversava l’intera cristianità, soprattutto per quanto concerne la parte orientale dell’Impero: quella relativa alle peculiari problematicità del monoteismo cristiano, all’interno del quale si trovavano a convivere, con non piccole difficoltà, sia la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, sia quella in Dio Padre, creatore del mondo. In particolare, stava godendo di rilevante diffusione il pensiero teologico di Ario, onesto presbitero libico, il quale, in un’ottica di impronta gnostico-neoplatonica, coerentemente e rigorosamente monoteistica, si rifiutava di attribuire natura pienamente divina ed eterna alla persona del Figlio, ritenendolo creato, prima di tutti i tempi e prima di ogni altra creatura, dal Padre, l’unico Ente correttamente definibile come Dio.
“La controversia tra i fautori del presbitero alessandrino Ario e i suoi avversari definiti di solito “cattolici” oppure “ortodossi”, riguardava il problema di determinare la relazione tra Dio Padre e il Figlio di Dio. A tale questione ci si interessava ormai da tempo: i teologi del III secolo oscillavano nelle loro risposte da un rigoroso monoteismo che imponeva di vedere in Cristo solo un “modo” (…) di manifestarsi di Dio, privo di una forma fissa, a una netta affermazione della diversità tra Padre e Figlio, con chiara accentuazione della gerarchia tra le persone della Trinità”. 3)
Le tesi di Ario, quindi, poi ampiamente anatemizzate e demonizzate dall’opposta fazione (la quale si troverà a determinare i contenuti dottrinali “ortodossi” del Credo cristiano) riconoscevano l’esistenza di “un solo Dio”, considerato senza inizio e quindi eterno, che, come tale, non poteva condividere la sua unicissima e immodificabile natura divina con altri enti. Il Figlio, pertanto, doveva essere considerato “creatura” del Padre (l’unico vero Dio), utilizzata per la creazione del mondo e per agire in esso, creatura perennemente perfetta, ma pur sempre creatura “creata dal nulla”, sostanzialmente diversa e quindi gerarchicamente subordinata al Padre.
Nel più antico documento della controversia, la lettera ad Eusebio di Nicomedia, Ario scrive:
“Veniamo perseguitati perché abbiamo detto: “Il Figlio ha principio, mentre Dio è senza principio”. Per questo siamo perseguitati, e perché abbiamo detto: “Deriva dal nulla”. Così abbiamo detto, in quanto non è né parte di Dio né deriva da un sostrato. Per questo siamo perseguitati.” 4)
Ario riteneva di ricavare le sue tesi dall’esame delle fonti evangeliche, soprattutto per quanto concerne le sofferenze e i dubbi relativi alla natura umana di Gesù e facendo leva su non pochi passi scritturali in cui si mette in luce il rapporto subordinato rispetto a Dio:
“Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo”, Mc 10, 17-18; “… il Padre è più grande di me”, Gv 14,28; ecc.
Al contrario, Alessandro, vescovo di Alessandria (all’epoca, la sede vescovile più importante dopo quella di Roma), affermava che il Figlio deve essere ritenuto coeterno al Padre:
“il Padre è sempre stato Padre: è Padre sempre avendo accanto a sé il Figlio, grazie al quale è chiamato Padre. Ed essendo sempre il Figlio accanto a lui, sempre il Padre è perfetto, non mancando di alcuna perfezione, né nel tempo né dopo un intervallo né dal nulla avendo generato il Figlio unigenito”. 5)
Dopo accese discussioni, prevalse la posizione sostenuta dal vescovo Atanasio (assistente di Alessandro e suo successore) che riuscì a far trionfare, avvalendosi di categorie concettuali e di terminologia di derivazione classica, la tesi della consustanzialità (mèros homooùsion) del Padre e del Figlio: “Dio vero da Dio vero; generato non creato (natum non factum); della stessa sostanza del Padre”.
Ad un sereno esame libero da fideistici pregiudizi, le posizioni di Ario, a dir la verità, appaiono non prive di logica e filosoficamente ben costruite ed argomentate. Qualcuno potrebbe, infatti, comprendere e onestamente spiegare (al di là delle labirintiche dissertazioni teologiche inquinate da macroscopici antropomorfismi) perché il Figlio, se considerato coeterno e consustanziale al Padre, meriterebbe lo status ontologico di “Figlio”? Ovvero, se entrambi partecipano della stessa sostanza divina eterna, perché andrebbero poi distinti e diversamente denominati e come potrebbero, soprattutto, non costituire, allora, due divinità della stessa natura e di identica dignità concettuale (in palese contrasto con le più ovvie esigenze monoteistiche)?
Quanti cristiani – mi chiedo – sarebbero in grado di comprendere quanto ha recentemente affermato l’apposita Commissione Teologica Internazionale, davvero con cristallina sobrietà di linguaggio, relativamente alla capacità del Cristo di farsi rivelatore della
“inaudita paternità intra-divina di Dio, fondamento della sua paternità ad extra”?
Ora, però, facendo a meno di ricorrere alla credenza in interventi di natura soprannaturale, come giustificare la sconfitta di Ario e dei suoi seguaci?
Indispensabile, a questo punto, tenere ben presente che:
A fare luce sul contesto in cui si è andato definendo il Credo cristiano, in modo da prendere le distanze da facili trionfalismi apologetici e da manipolazioni ideologiche dei dati storici, potrebbe bastare, forse, la seguente analisi, decisamente amara, proposta dall’ Enciclopedia Cattolica, alla voce Arianesimo:
“Disgraziatamente per la Chiesa, i primi imperatori cristiani, cioè Costantino e Costanzo II, - bisogna notare che tutti e due non furono battezzati che sul letto di morte e da ariani, - vollero dogmatizzare cercando di sostituirsi al vescovo di Roma, capo della Chiesa e regolatore della sua unità, e divennero così il balocco di prelati intriganti o vendicativi.” (mia l’evidenziazione)
In conclusione, quando Bergoglio ci dice che
“Il Concilio di Nicea ebbe il compito di preservare l’unità” del cosiddetto “Popolo di Dio e dell’annuncio fedele del Vangelo” 13),
ci offre una valutazione ben poco rispondente alla effettiva realtà storica.
Il mondo cristiano delle origini è costituito, infatti, da una coloratissima galassia di pratiche religiose e di credenze teologiche in competizione fra di loro, per cui: all’epoca di Nicea, non poté esserci nessun attacco all’ “unità”, per il semplice fatto che l’ “unità” ancora non esisteva.
La fazione che riuscì ad imporsi sulle altre, si preoccupò di riscrivere con grande cura “la storia della controversia, facendo vedere che dopotutto non c’era stato un grande conflitto e affermando che le proprie opinioni erano sempre state quelle della maggior parte dei cristiani, fin dai tempi di Gesù e dei suoi apostoli, e ribadendo che la propria interpretazione di fatto era stata sempre “ortodossa” (letteralmente: “di fede retta”) e che gli avversari, con i loro testi scritturali “diversi”, avevano rappresentato poche schegge impazzite dedite a ingannare la gente per spingerla all’eresia (…).
Ciò che il Cristianesimo guadagnò alla fine di questi conflitti antichi fu la convinzione di essere nel giusto e di esservi sempre stato. Ne guadagnò anche un credo, a tutt’oggi recitato dai cristiani, che affermava le credenze giuste in contrasto con quelle eretiche e sbagliate”, nonché una teologia trinitaria, un ben definito canone di Scritture (il cosiddetto Nuovo Testamento) e, cosa non certamente secondaria, “una gerarchia di capi ecclesiastici in grado di mantenere viva la chiesa e sorvegliare l’aderenza alla fede e alla pratica corretta”. 14)
Ma, chiediamoci, quante forme di Cristianesimo, di ricerca spirituale e di autentica esperienza religiosa sono andate perdute, deformate o sistematicamente cancellate, ad opera della Chiesa trionfante? E come e quanto ne siamo stati tutti noi, credenti e non credenti, irrimediabilmente impoveriti?
Nel celebrare Nicea, la Chiesa cattolica celebra innanzitutto sé stessa, come suprema e provvidenziale fonte di luce nel mondo, e l’unità che essa invoca (l’unica per lei desiderabile ed accettabile), è, come sempre, l’unità conseguibile al di sotto del suo manto maternamente protettivo.
Per coloro che guardano con sospetto e diffidenza alle celebrazioni fideistiche ed apologetiche, ripensare criticamente Nicea potrebbe rappresentare, invece, una preziosa opportunità per sollevare questioni e porre interrogativi, e, soprattutto, per meglio comprendere come, all’interno del variegatissimo cristianesimo delle origini, “soltanto un gruppo sia riuscito a imporsi come dominante nel campo della religione, stabilendo per i secoli successivi ciò che i cristiani avrebbero dovuto credere, frequentare e leggere come Sacra Scrittura.” 15)
Senza dimenticare che, qualora i conflitti si fossero risolti diversamente, “forse gli abitanti dell’Occidente (cioè noi) sarebbero rimasti politeisti fino a oggi e avrebbero continuato ad adorare gli antichi dèi della Grecia e di Roma; oppure l’Impero avrebbe potuto convertirsi a una forma diversa di Cristianesimo, e lo sviluppo della società e della cultura occidentale avrebbe preso strade che non possiamo neanche immaginare.” 16)
E senza dimenticare, soprattutto, che la Chiesa uscita vittoriosa dal Concilio di Nicea diventò presto la grande madre dei fedeli che, nei secoli, si dedicheranno al pio massacro di milioni di persone in nome della raggiunta unica “verità” e di un ben poco compreso “Dio di misericordia”…
NOTE
Il cortometraggio “Sei sempre stata tu” della Regista Alessandra Sasha Carlesi è stato presentato il 4 maggio scorso al teatro Testaccio di Roma
Alessandra Sasha Carlesi è una regista dalle idee innovative, di origini toscane, di Prato, vive e lavora a Roma dall’età di 20 anni. Inizia a recitare a teatro da giovanissima e dopo aver frequentato numerose scuole, laboratori e compagnie teatrali, partecipa a numerose realizzazioni cinematografiche (corti e mediometraggi). Alessandra una volta trasferitasi nella capitale, si forma all’interno dell’ Accademia teatrale e nel suo percorso di studio, conosce vari aspetti del cinema. Dopo tanti anni di affiancamento, inizia a lavorare come aiuto regia, un lavoro molto tecnico e organizzativo e si rende conto che esiste tutto un mondo che probabilmente le interessa di più. Con un amico inizia a produrre i primi spettacoli teatrali e i primi lavori sul set.
“Sei sempre stata tu” è il suo nuovo cortometraggio scritto insieme al direttore della fotografia Simone Barletta e Ciro Buono, che nella pellicola riveste anche il ruolo di protagonista. Girato sia a Roma presso la scuola di effetti speciali Fantastic Forge di Sergio Stivaletti che a Fiumicino, il cortometraggio affronta una tematica sociale importante, quale quella delle malattie mentali e in particolare la “Maladaptive Daydreaming” o sindrome della fantasia compulsiva. Tale patologia assimilata al “sogno ad occhi aperti” è un artificio mentale che consente di sfuggire a dei ricordi che affliggono e che si intendono rimuovere. In realtà l’individuo vive costantemente una vita che diventa parallela e può portare a gravi conseguenze. La pellicola racconta la tragica storia d’amore tra Christian (un ragazzo che vive nell’ambito di una famiglia normale) che si innamora di Millie (una ragazza di strada, fragile e incompresa, vittima di una società che l’ha sempre emarginata). Christian decide di vivere la sua storia d’amore con lei in mezzo alla sua realtà, quindi la pellicola affronta anche le tematiche dei senza tetto. Al momento di partorire, Millie muore in circostanze sfavorevoli, perché è costretta a farlo in strada. Christian per convincersi che la sua ragazza vive ancora, si costruisce una nuova realtà che lo porterà a vivere all’interno di un istituto psichiatrico. La bambina che Christian aveva abbandonato, la ritrova anni dopo in circostanze fortuite e dal confronto con la figlia, riesce ad uscire dalla dura realtà per vivere la sua vera vita. L’incontro con la figlia Zoe riporta alla luce un passato doloroso, che offre a entrambi la possibilità di un riscatto.
Alessandra Sasha Carlesi l’abbiamo incontrata per conoscerla più da vicino. “Sei sempre stata tu” affronta un argomento di grande impatto sociale vero?
Ho continuato su una strada tracciata, perché in passato già avevo affrontato tematiche simili. Sono sempre stata sensibile al discorso delle patologie della mente e dei senzatetto. La società di oggi è complessa pertanto oggi molti soffrono di piccole o grandi patologie che spesso sono sottovalutate. Nel caso in questione ho fatto delle ricerche e ho visto che esiste effettivamente questa malattia denominata “sindrome da fantasia compulsiva” che non è molto facile da riconoscere. Non è soltanto un sogno ad occhi aperti perché ha dei risvolti anche più pesanti. E non ci sono idee chiare in merito, perchè gli specialisti a mio parere, quando riscontrano queste gravi problematiche che affliggono la mente, l’unica cosa sanno consigliare è quella di “bombardarti con psicofarmaci” che possono farti anche peggio.
Come sei riuscita a realizzare questa tematica così importante?
Questa estate ad un festival cinematografico io e il mio compagno Ciro Buono, abbiamo incontrato Simone Barletta, Direttore di fotografia e discutendo con loro è sorto questo nuovo progetto. Nello stesso festival c’era anche il noto cantautore milanese Davide De Marinis (autore di tanti successi) con il quale ci siamo trovati subito in sintonia. C’è stata subito l’intesa di creare un progetto che coinvolgesse tutti noi, perché credo molto nelle sinergie. Ho chiesto a Davide se poteva ideare la colonna sonora con un suo brano musicale per la pellicola, così dopo essersi fatto trasportare dalle emozioni del racconto cinematografico e dall‘istinto, ha scritto una canzone suggestiva dal titolo “che meraviglia”. Recentemente è uscito anche il videoclip ufficiale, che sta andando anche molto bene e di questo sono estremamente soddisfatta.
Dove avete effettuato l’anteprima dello spettacolo?
Lo abbiamo fatto al Teatro Testaccio il 4 di maggio scorso, dov’è stato presentato il cortometraggio e il videoclip. Davide De Marinis oltre a cantare il pezzo live, ha presentato i suoi celebri successi musicali quali “Troppo bella”, “Chiedi quello che vuoi” ecc.. E’ stata una bella serata dove si è sprigionata una grande energia positiva, perché si è passati dalla drammaticità del cortometraggio al videoclip e così in un certo senso si è po’ stemperata l’atmosfera.
Il trucco e parrucco del film è a cura di Blentina Tafaj. I costumi sono stati curati da Francesco Bureca.
Grazie e in bocca al lupo, Alessandra Sasha Carlesi.
Apr 08, 2022 Rate: 5.00