L'informazione non è un optional, ma è una delle condizioni essenziali dell'esistenza dell'umanità. La lotta per la sopravvivenza, biologica e sociale, è una lotta per ottenere informazioni.

Free mind (189)

Lisa Biasci
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Il 3 giugno del 1960, a Chieti, nasceva Antonio Russo, emblematico esempio di quell'amore per l'informazione vera e libera  che ancora, a 22 anni dalla sua morte, sembra rappresentare quasi un'utopia. 

Nel mese di ottobre ogni anno fino al 2020 si è svolto il  Premio Italia Diritti Umani intitolato ad Antonio Russo , organizzato  dall'associazione Free Lance International Press (di cui lui fu vicepresidente), Amnesty International Italia e Cittanet. Antonio Russo fin in aperto contrasto con l'Ordine dei Giornalisti, cui mai si iscrisse in quanto non reputa da esso tutelati i lavoratori autonomi, i freelance che non funzionano da una sola testata o da una sola emittente ma si impegnano per offrire sul mercato un prodotto libero e fruibile senza essere mediato dagli interessi di singoli che impongono l'informazione dall'alto. L'informazione deve, infatti, fiorire e sorgere dal basso della vita tra gli uomini, reale, autentica.

 

Dalle parole di un’intervista rilasciata al sito di Rai Educational Mediamente, possiamo carpire quale fosse il suo atteggiamento verso l’informazione e verso il mestiere che, anima e corpo, lo spingeva a lottare:

“Le testimonianze dei miei reportage radiofonici sono state conservate nell’archivio della radio e anche trasferite via web. Questo è a mio avviso importante per due motivi. Il primo consiste nel fatto che bisogna comunque possedere una memoria storica. Questo è un dato che un po’ la tecnologia trascura. L’informazione valida è quella che abbia la possibilità di essere reperita storicamente. ‘Laudatur tempores acti’ diceva Dante, ‘si lodino i tempi passati’, in quanto ‘exempla’ di un’esperienza. Gli esempi storici si traducono nella capacità di analizzare il presente e prevedere il futuro con un fondamento abbastanza solido. In secondo luogo penso che la quotidianità dell’informazione attraverso la testimonianza diretta abbia un valore perché fa capire cosa realmente è in atto. C’è ancora parecchia confusione sull’informazione che stiamo portando avanti sul Kosovo. La possibilità di reperire i miei reportage e risentirli via web aiuta la gente ad avere un’immagine più precisa degli eventi in corso. Fondamentalmente noi dobbiamo ricordarci che l’informazione è un veicolo diretto all’utente, non è un soliloquio da parte del giornalista. Bisogna tenere sempre presente che chi è dall’altra parte deve poter comprendere una realtà in cui non è presente. Questo, penso, è il massimo sforzo che i giornalisti devono compiere”
 

Antonio Russo era un cronista freelance che, dalle prime esperienze in Algeria, Burundi, Rwanda, Colombia ed Ucraina, andò infine in Kosovo per l’emittente Radio Radicale per la quale lavorava dal 1995. Qui in Kosovo rimase fino al 31 maggio 1999dove, unico giornalista occidentale nella regione durante i bombardamenti Nato, documentò la pulizia etnica contro gli albanesi kosovari. 

 

Morì nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2000 in Georgia, a soli 40 anni. Il suo corpo fu ritrovato lungo una strada di campagna a 25 km da Tbilisi, con evidenti segni riconducibili a tecniche di tortura militari. Il materiale che portava con sé, videocassette, articoli e appunti, era scomparso, così come anche il luogo nel quale alloggiava a Tbilisi fu rinvenuto svaligiato (ma gli oggetti di valore non furono toccati). Un velo nero si estende tuttora a celare la verità sulle circostanze della sua morte. Dirà la madre durante i funerali svoltisi a Francavilla al Mare, sua città di origine: “La sola cosa che mi consola è che è stata una morte coerente con la sua vita.”
 

Lo ricordiamo come  martire dell'informazione libera e autentica , punta di diamante del giornalismo freelance e persona esemplare che, fino alla fine, ha dichiarato fermamente nella necessità di offrire agli utenti un'informazione, coerente e vissuta in prima persona perché  solo coloro che direttamente attraverso le esperienze possono poi raccontarle in maniera autentica e svelarle al pubblico senza artifici di sorta. 

 

per gentile concessione di TerrediChieti.net

 

 
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Marco Benanti

Qualche giorno fa Marco Benanti ha “festeggiato” l'archiviazione dell'ultima querela, l'ennesima nella sua lunga vita di giornalista “scomodo”, di “cane sciolto” dell'informazione catanese, una “passione” che inizia più di 30 anni fa, da giovane liceale, e che ancora oggi, a 52 anni, non dà segni di cedimento e anzi prosegue, nella veste di direttore di “Iene Sicule”, la testata on line da lui fondata nel 2011. A denunciare per diffamazione Benanti, in questo caso, era stata una esponente del Pd catanese, indispettita da un articolo dai tratti satirici, firmato da un collaboratore di “Iene”, lo scrittore e giornalista Marco Pitrella. “Ho avuto più di centoventi querele nel corso della mia attività giornalistica – ricostruisce Benanti – e sai quante ne ho perse? Zero. Nemmeno una condanna”.

120 querele, un “record” da guiness…

Querela più querela meno. Tutte finite nel nulla. L'80% di questi procedimenti, tra penali e civili, non è arrivato nemmeno alla fase processuale vera e propria. Pensa che in certi momenti ho dovuto “fronteggiare” contemporaneamente più di venti querele.

Un lavoro usurante, insomma

Pensa per un attimo cosa vuol dire ricevere una querela, dover affrontare le spese legali, le identificazioni, gli interrogatori, le giornate in tribunale, le discussioni in famiglia, l'ansia di un processo. Per non parlare dei problemi concreti che ti crea quando devi presentare una domanda per un concorso. Mi è capitato persino che non mi rinnovassero il contratto a termine, quando facevo l'operaio a Sigonella, perché i miei articoli non erano piaciuti all'azienda. Per non parlare poi delle richieste di risarcimento danni…

Cioè?

I più “scafati” non ti fanno pagare la querela ma ricorrono direttamente in sede civile per colpirti economicamente con richieste di risarcimento danni, spesso abnormi. Una volta, uno, mi chiese i danni sostenendo che un mio articolo gli aveva procurato addirittura stati depressivi. Naturalmente perse. Anche se in realtà, alla fine, a perderci siamo sempre noi giornalisti.

In che senso, vinci la causa ma perdi lo stesso?

Già, non è prevista nessuna “sanzione” per chi querela in modo temerario, e nessuna forma di risarcimento per chi viene ingiustamente denunciato, o se esiste io non me ne sono mai accorto. Ma c'è anche un problema di libertà di stampa e di espressione, perché chi querela, parlo soprattutto di Catania, lo fa quasi sempre a scopo intimidatorio.

Vuoi dire per mettere il bavaglio ai giornalisti?

Succede che il notabile la mattina si sveglia, legge il tuo articolo e se non gli piace quello che hai scritto chiama l'avvocato e ti tiene sotto procedimento per anni. Siamo ai livelli della Francia di prima del 1789. La cosa tragica è che gli avvocati osservano questo dato ma nessuno che dica mai che è uno “sconcio”. La sensibilità della magistratura, poi, sul tema delle agibilità dei giornalisti e della libertà di stampa e di espressione è scarsa.

Cosa si dovrebbe fare per arginare il fenomeno delle querele temerarie?

C'è evidentemente qualche vuoto normativo. Innanzitutto occorre introdurre un meccanismo automatico attraverso cui chi faquerele temerarie e perde deve pagare immediatamente una quota. Immediatamente. Oltre, naturalmente, al risarcimento delle spese legali.

Ma qual è il profilo tipo dei tuoi “querelatori”?

C'è un po' di tutto, soprattutto politici, di tutti gli schieramenti, e imprenditori.

Qualche nome?

A mente ricordo Enzo Bianco, Pino Firrarello, Antonio Fiumefreddo, Raffaele Lombardo. Pensa che Lombardo mi querelò mentre lavoravo in Lombardia, mi mandarono a call i carabinieri, mi identificarono. Ma poi non ne seppi più nulla. Una volta tornato a Catania, scoprì che la querela era stata archiviata. Ah dimenticavo, mi ha querelato anche Scuto, quello dei supermercati Despar…

Fare il giornalista a Catania non è semplice, a quanto pare…

Direi che è quasi “impossibile”, se non sei ricco, o se non sei coperto da un editore forte. Il giornalista a Catania è un mestiere per ricchi

 

per gentile concessione di https://www.dayitalianews.com

 

 

"Gentile Presidente Draghi, non immagina quante volte io, che ho scelto liberamente di vaccinarmi, mi sia pentita di averlo fatto.

Mi sono pentita ogni volta che ho visto un padre costretto a farlo per portare a casa il pane.

Ogni volta che ho visto uno studente rinunciare ad una lezione universitaria.

Ogni volta che ho scorto in lontananza una fila di cittadini davanti a una farmacia, in coda per acquistare 48 ore di diritti.

Mi sono pentita ogni volta che ho sentito qualcuno parlare di parassiti, sorci, disertori o blaterare di fucilazioni evocando Bava Beccaris.

Ogni volta che mi sono imbattuta in congreghe di semicolti che tra una risatina e l’altra dileggiavano chi aveva semplicemente compiuto una scelta diversa per la propria vita e sul proprio corpo.

Gentile Presidente Draghi, io della società che Lei e i Suoi sodali state laboriosamente costruendo non voglio far parte.

Non voglio far parte di una società composta da gente che si ritiene moralmente ed intellettualmente superiore per aver acconsentito a farsi somministrare un farmaco.

Non voglio far parte di una società in cui si gode smodatamente per l'emarginazione e l'esclusione di chi ha compiuto - legittimamente e liberamente - una scelta diversa.

Io non appartengo alla schiera di chi obbedisce per quieto vivere.

Non voglio far parte di una società in cui ci si compiace di aver meritato dei diritti, cedendo al ricatto.

Non voglio far parte di una società di individui che accusano, additano e auspicano ostracismi e punizioni per i loro simili.

Io non appartengo alla schiera di chi obbedisce per quieto vivere.

Io non voglio essere premiata con diritti che sono miei per nascita.

Io non voglio che mi concediate alcuna libertà giacché io sono nata libera.

E custodisco la mia libertà come il bene più prezioso.

Pertanto, liberamente Le dico si tenga pure la Sua terza dose, il Suo super green pass e la Sua bella società.

Verrà il tempo."

Dalila Di Dio

 
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C’era una volta la gente comune, gente di ogni giorno, dello stesso condominio, città, paese, fabbrica, ufficio. Amici su facebook o su qualsiasi social. Contatti decennali o semplici contatti superficiali. Gente che sapeva salutarsi, condividere, discutere senza imposizione alcuna. Rapporti civili anche là dove il contrasto di idee poteva farli discutere.

Persone unite da scelte sportive, da religioni, da impegni, da collaborazioni e da qualsiasi altra azione di vita comune. Poi arriva il destabilizzante, infame, vigliacco virus che inorridisce in primo tempo chiunque. Quella stessa gente osserva e trema; uniti dalla stessa paura: il contagio.

Morti, contaminati, immagini su tg che fanno paura, immagini senza risposte, solo filmati di bare, di ospedali pieni, di medici e infermieri distrutti. E mentre signor Covid aumenta di letalità e impesta chiunque la gente impaurita cerca risposte dietro a mascherine in un primo tempo introvabili. File lunghe ai supermercati, strade vuote, permessi per circolare visto il divieto di uscire senza validi motivi. Diventa difficile… famiglie che si vedono attraverso social come watsap o su altri canali. Paura di dare la mano, di abbracciarsi, di stare vicino.

Canti alle finestre in una sorta di unione che ci vede prigionieri di qualcosa di complicato da abbattere. Poi… si parla di vaccino, di qualcosa che ci rende dubbiosi visto la tempistica di approfondimenti e di test troppo poco precisi.

Il resto lo sappiamo. No vax, no pass, si vax, si pass e cresce una guerra intestina fra gente comune. La stessa gente che cantava alle finestre unita adesso si vomita addosso ogni sorta di infamia. Due schiere di persone che si dividono fra chi è a favore e chi a sfavore di un vaccino. Tolte le mascherine per le strade, proteste violente, urli e insulti verso chi la pensa differentemente dall’altro. Amici che non si parlano più, divisioni fra colleghi, rapporti scissi da controversie di pensiero, confusione, caos mentre il virus, riprende quota fregandosene altamente di ognuno. Intanto nel mondo non si parla più di razzismo, di violenza alle donne, di pedofilia e imbrogli di potere. Non si mette più in prima pagina la novità, la notizia del giorno, ma solo ed esclusivamente la lotta fra i fautori del vaccino e coloro che invece affondano questo. Notizie che incitano alla rabbia, all’odio, alla scelta diversa. Notizie che fanno più paura di qualsiasi altra cosa poiché sono quei cenni che nascono appositamente a creare scompiglio senza pensare (o forse si) che solo così nascono le rivoluzioni e le diatribe. La gente viene distolta da altre problematiche per le quali non si pone più domande mentre d’intorno si costruisce un mondo che ci ingurgiterà tutti.

Non dobbiamo avere paura del governo, dei regolamenti, delle leggi, ma dovremmo avere paura di noi, del nostro atteggiamento violento, della nostra rabbia, cattiveria, della nostra cecità. Abbuiamo quei telegiornali che incalzano verso una parte o l’altra: sono loro che pilotano le menti della gente, sono loro quella politica che ci vuole deboli e pecore. Chiediamoci perché si parla sempre meno della nostra situazione politica/economica mentre intanto salgono le tasse e le buste paga sono congelate da anni. Chiediamoci come mai non vi è più alcun scandalo riferito a un magistrato, onorevole, senatore. E le donne uccise, violate, maltrattate? E la fame nel mondo che ogni giorno uccide milioni di donne, uomini, bambini. I diritti umani e civili che fine hanno fatto? Chi li rispetta?

Il covid è un gravissimo virus ma è ancor più grave quando la gestione della notizia rende confusa la gente. Ci vogliono lobotomizzati, distratti, impauriti. Notizie fake che hanno confuso ancor più la gente ormai esasperata. Tutto è cambiato; noi stessi siamo stati resettati ormai automi di un sistema che dirige e manipola i nostri giorni e le nostre menti. La gente dimentica il rispetto, l’ascolto, l’aiuto ma ha ben imparato a combattere, a sputare sentenze e soprattutto si è dimenticata che siamo uomini e donne di uno stesso pianeta dove la fragilità, l’impotenza e la vulnerabilità sono molto simili. Il Covid continua imperterrito il suo cammino di strage e di comando mentre noi, invece di essere uniti lo aiutiamo allo sterminio di una civiltà che ormai di civile ha ben poco.

 

 
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La testimonianza di un compagno di lotte politiche e culturali.

La necessità di riscoprire un intellettuale e un militante purtroppo dimenticato.

Il 4 Gennaio 2012 moriva Carmelo R. Viola. Nato nel 1928 a Milazzo, dove la famiglia si era trasferita momentaneamente per esigenze lavorative del padre, era originario di Acireale, dove aveva vissuto buona parte della sua vita, con un’ampia parentesi rappresentata dal soggiorno in Libia, a Tripoli, come emigrato, dal 1941 al 1949, assieme alla famiglia, e trasferimenti, principalmente a Palermo, legati a problemi lavorativi propri. Purtroppo, dopo la morte, una coltre di silenzio è calata sulla sua figura e sulla sua opera, che, al di là delle diverse collocazioni, si è svolta sempre all’insegna dello spirito libertario, che costituisce, dunque, il trait d’union tra i diversi momenti.

Ebbi con lui un lungo rapporto di corrispondenza e di collaborazione, iniziato, probabilmente, nel 1986, stando ad una mia lettera, risalente a tale anno, che lui mi inviò in fotocopia, come testimonianza cronologica del nostro primo contatto, traendola dal suo nutrito archivio, ch’egli custodiva gelosamente in casa, ben ordinato. Ma io, a quella data, seguivo già da alcuni anni la rubrica di traduzioni italiane di poeti russi e sovietici, che Viola teneva su “La Ragione”, organo dell’Associazione Nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno”, e le note polemiche, molto pungenti e profonde nelle argomentazioni, che pubblicava su questa rivista, della quale fu per lungo tempo uno dei principali animatori. Carmelo R. Viola aveva imparato i primi rudimenti della lingua russa da un cultore triestino, durante il soggiorno a Tripoli, che aveva stimolato la sua vocazione naturale di poliglotta, visto che, oltre alla lingue locali (in particolare l’arabo), aveva imparato il tedesco e l’inglese (oltre al francese) in quanto impiegato, nonostante la giovane età, presso gli uffici delle amministrazioni straniere che si succedevano nell’occupazione del Paese. La dimensione poliglotta dominerà per tutta la vita il Nostro, che diventerà, fra l’altro, traduttore dal russo di alcune parti della monumentale Storia Universale dell’Accademia delle Scienze dell’Urss, edita da Nicola Teti di Milano e una Storia della Chiesa russa, con brani in veterorusso, che doveva uscire presso lo stesso editore. Tra le numerose lingue da lui approfondite nel corso degli anni ricordiamo, inoltre, lo spagnolo, il portoghese e l’esperanto.

Iniziò così uno scambio di opinioni e di materiale durato per parecchi anni (circa un ventennio) e interrotto qualche anno prima della sua morte perché io mi trovai costretto, per vari motivi, a circoscrivere il mio impegno alla critica letteraria e alla poesia, ridimensionando di molto i miei interventi, anche giornalistici, in materia strettamente politica ed ideologica. Ricordo con piacere ch’egli mi mandava enormi pacchi postali con la fotocopia dei suoi articoli di sociologia, che venivano ospitati da una miriade di riviste, e con i volumi progressivi dei suoi Quaderni del Centro Studi Biologia Sociale, che Viola stampava da sé con grande maestria e grande pazienza, digitandoli con uno dei primi computer in DOS, fotocopiando poi le varie pagine, riunendole in libretti ben fatti, con copertina colorata, sapientemente squadrati con una cesoia e spillati con la cucitrice. Purtroppo, le necessità della vita mi impedirono ad un certo punto di far onore a quei pacchi e all’impegno culturale che vi stava dietro con miei articoli di commento e recensioni.

Carmelo R. Viola è stato un personaggio poliedrico, d’impronta leonardesca, dominato, sin dall’infanzia e dall’adolescenza, da una forte carica conoscitiva, diretta verso tutti i campi dello scibile umano, superando la barriera artificiale tra sapere umanistico e sapere scientifico creata in Italia dal dominio culturale crociano, protrattosi per lungo tempo, con riflessi negativi fino ai nostri giorni. Quest’ansia conoscitiva lo ha portato, ancora giovinetto, ad accostarsi, nella Tripoli “liberata” dagli anglo-americani, agli ambienti antifascisti, a leggere i primi fogli da questi ultimi prodotti e diffusi in forma semiclandestina, come “Italia Libera”, che Viola acquista per strada, a collaborare al “Corriere di Tripoli”, quotidiano intorno al quale si raccoglie la nutrita comunità italiana, a diventare apprezzato polemista sulle colonne di questo giornale, nonché protagonista di un dibattito animato, da lui suscitato e determinato da una sua valutazione, ritenuta ingiusta, agli esami magistrali, preparati da esterno, che diventa occasione per una discussione intorno al carattere nozionistico o meno della formazione scolastica vigente, con l’intervento di autorevoli personalità del mondo culturale tripolino, fra cui Eusebio Eusebione, docente di matematica d’origine ebraica, sostenitore del Viola, in contraddittorio con autorevoli personaggi del sistema scolastico “ufficiale”, che sono costretti a regredire verso posizioni difensive di retroguardia. Il Nostro partecipa, inoltre, alle riunioni, anch’esse semiclandestine (e perciò talvolta interrotte dai “liberatori” anglo-americani con il conseguente arresto degli organizzatori), del “Fronte Unito”, d’ispirazione comunista.

Rientrato in Italia, nel 1949, Carmelo R. Viola assume un ruolo da protagonista nell’ambito della pubblicistica d’ispirazione anarchica, collaborando ad “Umanità Nova”, la prestigiosa rivista fondata da Errico Malatesta, a “L’Agitazione del Sud”, organo degli anarchici siciliani, ch’egli contribuisce pure a stampare e diffondere e di cui diviene per alcuni anni anche direttore responsabile, e a numerosi altri giornali dell’universo anarchico-libertario. Va sottolineata l’esperienza della rivista “Previsioni”, da lui fondata e diretta, dal 1956 al 1960, alla quale collaborano figure “eslegi” di intellettuali libertari, come Enzo Martucci, anarchico individualista, e Bruno Rizzi, studioso socialista che contribuisce alla definizione dei connotati del processo di burocratizzazione che investe l’Urss, in netto anticipo rispetto alle manifestazioni eclatanti del fenomeno che poi, diversi decenni dopo, hanno portato al crollo del regime comunista sovietico. Carmelo R. Viola ha acquisito una notevole verve polemica che gli consente di prevalere nei contraddittori instaurati con alti prelati, che pure vantano profondi studi teologici e che, tuttavia, sono costretti ad indietreggiare davanti alle argomentazioni stringenti del Nostro.

Negli anni Settanta del secolo scorso, Viola partecipa con competenza e passione alle battaglie per il riconoscimento giuridico del divorzio in Italia, pubblicando volumi che ottengono un certo successo, sebbene editi da case editrici alternative, per ciò emarginate dal mercato ufficiale: Referendum contro il divorzio. Premeditato vilipendio all’uomo (Edizioni La Fiaccola, Ragusa, 1973). Gode di una buona fama negli ambienti radicali, ai quali si accosta, tanto che suoi interventi vengono letti in importanti convegni, anche quand’egli è impossibilitato a partecipare personalmente. La forza delle sue argomentazioni suscita l’ira della destra neo-fascista, tanto che il Viola viene attaccato da alcuni fogli reazionari. Questi attacchi vengono vissuti dalla vittima come l’incitamento ad una sonora bastonatura da parte di eventuali militanti invasati. Le minacce di bastonature, da parte dell’estrema destra e di una finta estrema sinistra, in realtà al servizio di progetti reazionari, si ripetono negli anni, anche quando Carmelo R. Viola è entrato nella terza età. Alla questione dell’aborto egli dedica un altro volume di rilievo dal titolo illuminante: Aborto: perché deve decidere la donna (Pellegrini editore, Cosenza, 1977).

Nel 1979, in occasione della consegna a Civitavecchia del Premio internazionale “Centumcellae”, proclama ufficialmente la sua nuova teoria sociologica: la Biologia sociale. Il punto di partenza è rappresentato dal “famismo” di Gino Raya, studioso, anch’egli “eslege”, di Letteratura italiana, docente universitario di questa disciplina, che individua nella fame il “primum movens” dei comportamenti umani. Carmelo R. Viola va ben oltre. Individua quattro costanti dell’agire umano: l’autoconservazione; la rassicuranza affettiva; l’identificazione con gli ideali del “microcosmo” e del “macrocosmo” in cui ciascun individuo vive; una quarta costante, trasversale alle tre precedenti, l’auto-identificanza, ch’egli così definisce nel corposo volume La quarta dimensione bio-sociale ovvero cenni di fisiologia dell’identità (secondo la Biologia sociale) (Edizioni Cronache italiane, Salerno, 1996): “L’auto-identificanza […] è il momento finale di ogni rapporto (di affetto e di memoria) che consente al soggetto di ‘sentirsi io’. Io ‘mi sento me stesso’ osservando le cose che conosco, incontrando persone che mi amano, pensando a ideali per cui sono impegnato”.

La società capitalistica soffoca queste costanti che l’uomo, per seguire la propria natura, deve necessariamente soddisfare, mentre la società socialista, come la concepisce Viola, dà ad esse piena realizzazione. Il vero “umanesimo” è, dunque, per dirla con Concetto Marchesi, un “umanesimo comunista”. Viola ha una sua visione originale del socialismo e del comunismo, che si distingue dal marxismo, di cui rifiuta il materialismo dialettico e la lotta di classe come motore della storia e del progresso. La sua è una concezione che ha basi positivistiche, che si ricollegano, a mio avviso, forse indirettamente, a quelle del suo conterraneo Mario Rapisardi, poeta e docente universitario, che ritiene le leggi biologiche applicabili anche alla società e all’arte, e alla “Dialettica della natura” di Engels, che riconosce anch’essa leggi biologiche costanti (trasformazione della quantità in qualità; compenetrazione degli opposti; negazione della negazione) a fondamento di tutto il reale, ottenendo ampi riconoscimenti nell’ambito della filosofia e della scienza sovietica, attentamente, seppur criticamente, studiate in Italia solo da Ludovico Geymonat e dalla sua scuola. Alle spalle sta il positivismo di Auguste Comte, il quale sostiene che, nella società umana in evoluzione, allo stadio teologico e a quello metafisico segue quello positivo, per l’appunto, nel quale gli uomini non cercano più spiegazioni trascendentali ai vari fenomeni, bensì fondate sul “positum”, sui fatti concreti, da cui si desumono leggi generali. Lungo la scia di Comte, Nino Pino Balotta, scienziato e umanista siciliano d’origini anarchiche approdato ad una forma anch’essa positivista di marxismo, afferma che all’era della teologia segue quella della biologia, già in atto.

Un’interpretazione senz’altro innovativa e suggestiva quella di Carmelo R. Viola, che merita di essere approfondita. Purtroppo, nella società “post-moderna” si ripropone il “teismo” in forme rinnovate, basato, però, sempre sull’immagine di un uomo col capo rivolto verso il cielo alla ricerca di spiegazioni e di soluzioni trascendentali. Si tratta dell’ “angelologia” di cui parla Romano Luperini. Ci auguriamo che il Trattato generale di Biologia sociale, al quale Carmelo R. Viola ha lavorato intensamente per lunghi anni, possa vedere finalmente la luce e su di esso si apra un dibattito fecondo di sviluppi teorici.

Negli anni Ottanta e Novanta il Nostro studia criticamente il processo di degenerazione che investe l’Urss ed è tra i primi a comprendere che Gorbaciov non intende affatto rinnovare il comunismo, bensì abbatterlo. Pubblica al culmine di questa riflessione un volume tutto da rileggere: Perestrojka: ricostruzione o capitolazione? Lettera aperta a Mihail Gorbaciov, Cultura Nova Editrice, Rovigo, 1991. La sua visione antidogmatica gli consente di capire in anticipo i fenomeni storici nei loro sbocchi, che risultano, invece, imprevedibili per la massa degli studiosi, che muovono da pregiudizi ideologici di vario segno.

Carmelo R. Viola è stato anche scrittore di valore. Ha affidato le sue memorie di vita a diversi volumetti, usciti anch’essi nell’ambito dei Quaderni del Centro Studi Biologia sociale. Mi riferisco in particolare a Paradiso perduto (Aprile 2008), dedicato alla fase dell’infanzia e dell’adolescenza trascorsa presso i nonni materni, nella contrada Cosentini di Acireale, a La mia guerra (Agosto 1998), in cui lo scrittore racconta come gli effetti bellici si siano riflessi su di lui e sulla sua formazione, nella fase di vita trascorsa, anche qui, presso i nonni e poi nella casa dello zio Turuzzu e in Libia, dove la famiglia, come abbiamo già detto, è dovuta espatriare, e a Mio padre (Luglio 2007), in cui si sofferma sulla figura del proprio genitore e sulla sua esistenza travagliata. Nonostante la tendenza al realismo, non possiamo considerare queste opere “neorealiste”, sempreché si prenda come canone del “neorealismo” quello secondo cui le opere in esso rientranti tendono alla rappresentazione oggettiva della realtà, mettendo “tra parentesi” l’autore, in una sorta di nuovo “verismo”, caratterizzato, però, rispetto a quello verghiano, da una visione “progressiva”, non reazionaria, del mondo. Infatti, Carmelo R. Viola, in questi scritti, supera la divisione tradizionale tra i “generi”, spaziando dalla biografia (con le inevitabili ricadute autobiografiche) al saggio sociologico, sconfinando nella dimensione diaristica. Dietro tutto si nota la mano del “socio-biologo”, il quale vuole trovare conferma alle proprie teorie scientifiche, rivivendo la storia della propria famiglia, che riproduce le costanti biologiche del vissuto umano, dalla “autoconservazione” alla “rassicuranza affettiva”, alla identificazione con gli ideali del “microcosmo” e del “macrocosmo”, nei quali ogni individuo si trova a vivere e ad operare.

Al di là dell’analisi “bio-sociale”, l’opera di Carmelo R. Viola è godibile anche dal punto di vista letterario. Dalla narrazione emerge tutto un mondo (quello contadino), ormai scomparso, un “Eden perduto”, nel quale si muovono, sciolti nella natura, i nonni materni e il piccolo Carmelo, in una dimensione dominata da bisogni immediati ed elementari, da una “religiosità” spontanea, con evidenti radici pagane; un mondo (quello urbano) di piccoli artigiani (come il padre dello scrittore, ebanista, e lo zio Turuzzu, calzolaio) che dimostrano grande maestria nel lavoro, che si trasfonde in vere e proprie opere d’arte (i manufatti in legno, le scarpe), i quali, tuttavia, debbono industriarsi in mille modi per tirare avanti.

Si tratta di un universo umano strettamente legato alla dimensione della “territorialità”, al territorio in cui ognuno è nato e cresciuto, in linea di continuità con le generazioni precedenti, fino ai primordi della civiltà, e in cui ha riversato tutto se stesso, nettamente contrapposto a quello attuale, nel quale prevale l’ “extraterritorialità”, visto che ogni individuo è costretto a passare buona parte del proprio tempo in stazioni autobus e ferroviarie, metropolitane, aeroporti, in luoghi, cioè, completamente estranei, con i quali ha un rapporto del tutto episodico.

Carmelo R. Viola ha avuto la capacità di rappresentare il suo mondo in maniera semplice, con un linguaggio letterariamente limpido, ma, nel contempo, con profondità d’analisi, affidata al suo metodo critico, fondato sulla Biologia sociale.

Franco Ferrarotti, padre rifondatore della Sociologia nel secondo dopoguerra (dopo che il fascismo, se non l’aveva abolita, l’aveva fortemente ridimensionata), ha studiato gli effetti disumananti che derivano dal passaggio dalla civiltà del libro a quella dell’audiovisivo. La prima costringe il lettore al “corpo a corpo” col testo scritto, alla sua analisi serrata, in termini razionali. Nella seconda milioni di messaggi, trasmessi attraverso il computer, vanno a colpire direttamente la parte emotiva del cervello, per cui il singolo, in uno stato che Ferrarotti ha definito “a-razionale”, in una sorta di “sonnambulismo”, si muove come un individuo eterodiretto, senza alcuna capacità critica, né autocritica.

In quella che possiamo definire la “società digitalizzata iperconnessa”, in cui tutti sanno tutto e non capiscono niente (per ripetere, ancora una volta, le parole di Ferrarotti), è necessario riscoprire il pensiero e l’opera di Carmelo R. Viola, soprattutto (ma non solo) a beneficio delle giovani generazioni.

Antonio Catalfamo

Le forti agitazioni che scuotono oggi la Francia sono testimonianza certa del profondo malessere che pervade l'Europa, ma direi il Mondo, in modo sempre più palese, producendo scuotimenti sempre più energici in un contesto dove la spaccatura tra potere centrale e cittadini è ormai divenuta un abisso che pare superabile. L'unione tra Stati propugnata dai Padri Fondatori –  Alcide De GasperiAltiero SpinelliJean MonnetRobert SchumanJoseph BechKonrad AdenauerPaul-Henri Spaak – mostra peraltro i segni di un profondo logoramento, visto lo stato in cui: un coacervo di interessi portati avanti è ricatti, obblighi, troppo spesso con il fine favorire ovvero far predominare tornaconti tali che è difficile segnalare poter come essere il reale 'interesse dei popoli'. Questo ci riporta alle imponenti manifestazioni di popolo che hanno segnato quest'ultima settimana: tutte all'insegna della protesta contro i governi, accusati – tra le altre cose – di pesanti inosservanze delle rispettive Costituzioni, con dichiarato di tutti quei diritti fondamentali che riconducono alla sfera delle LIBERTA', personali e non. A subordinata da quelle altrettanto imbonenti di Dublino, Londra, Atene e Algeri – per citarne alcune -, la manifestazione che mi ha colpito di più è proprio quella di Parigi,                                      

Il grido comune che è risuonato alto e possente nell'aria è quel LIBERTE' che proprio il 14 Luglio del 1789 – 'quel' 14 Luglio, assurto a festa nazionale in Francia e vessillifero di 'rivoluzione per la libertà' in tutto il mondo – si è alzato proprio dalle di Parigi, divenendo un simbolo inequivocabile e strade mistificabile ovvero interpretabile a seconda degli umori del governante di turno. A far data da 'quel' 14 Luglio, i Francesi hanno avuto modo di essere Popolo, che non 'un insieme di genti o di campanili di provincia', in grado di mobilitarsi con sorprendente rapidità, riempiendo vicoli, strade e piazze per protestare senza indugio, specie a salvaguardia dei propri non negoziabili diritti.                                  

Un simbolo storico di grande valenza, quindi, 'quel' 14 Luglio; così com'è ancora forte l'impronta storico-simbolica lasciata da 'quei' dieci giorni (dal 7 al 16 Luglio 1647: ben 142 prima della 'presa' della Bastiglia!) durante i quali circa 500.000 napoletani si ritrovarono unanimi e solidali nell 'obbedienza ed esecuzione (per dirla con il futuro papa Clemente X) degli ordini impartiti da quel Tommaso Aniello d'Amalfi, detto Masaniello, per ribellarsi all'insopportabile pressione fiscale (ma non solo…) imposta dal viceré di Napoli, Rodrigo Ponce de León, che governava Napoli per conto di Filippo IV di Spagna. Proprio quest'anno vi è stata la ricorrenza dei 400 anni dalla nascita di questo eroico napoletano, perito a seguito di una congiura, anche se una coltre d'oblio l'ha contraddistinta:                                                      

Per Masaniello e la massiccia rivolta popolare di Napoli del Luglio 1647, sono trascorsi 374 anni, e numerosi restano gli interrogativi: soprattutto sul ruolo di questo personaggio ormai entrato nel mito, le sue pulsioni personali e soprattutto di come sia riuscito a trasmetterli con grande enfasi e significativa capacità al mezzo milione di napoletani che allora parteciparono ai moti rivoluzionari, accettando con rispetto, fierezza e obbedienza l’autorità di comando di quell’umile ma volitivo venditore di pesce. Un uomo che la stessa Chiesa – cui egli all’epoca fu estremamente rispettoso – indicava come moderato, prudente e assennato.  Anche allora risuonò alta la parola LIBERTA’, poiché solo attraverso la LIBERTA’ i Popoli riescono ad agire reagendo, a esprimersi, crescere, combattere per la propria stessa sopravvivenza.         

Meno interrogativi – in linea di massima – sussistono per le ragioni determinanti la presa della Bastiglia, la Rivoluzione Francese la stessa era dei Lumi e le conseguenze che esse hanno avuto nel mondo contemporaneo e nello sviluppo della sfera dei diritti della persona, stimolate dal classico trinomio LIBERTE’ - EGALITE’ - FRATERNITE’ acquisito ormai in ogni dove: direi che lo status di Democrazia riporta a tali principi.                                                                       

Ho indicato ‘in linea di massima’ poiché, documenti alla mano, la presa fu in realtà un episodio modesto e di tutt’altra valenza: non fu atto scaturito da una volontà di popolo e non vide una mobilitazione di massa, ma fu in realtà un evento-simbolo intorno al quale venne costruito dalla propaganda contestataria il mito stesso della Rivoluzione Francese.  In realtà, fu un’azione che vide uniti alcuni piccoli gruppi di soggetti senza arte né parte a dei disertori, penetrati – ma senza l’uso della forza, né atti particolarmente bellicosi, salvo una scaramuccia contro la guarnigione svizzera, poiché il governatore di Parigi aveva ordinato di aprire la porta di ingresso alla fortezza – per rubare delle munizioni, una piccola parte delle quali, incautamente maneggiate, esplosero.  La popolazione parigina, in realtà si tenne ben alla larga da tale avvenimento: niente marcia travolgente, niente scariche di fucileria o scontri all’arma bianca, niente sventolìo di bandiere su barricate improvvisate, niente inneggiamenti alla LIBERTE’ mentre si liberavano i prigionieri politici… anche perché al momento dei fatti non vi era alcun prigioniero da liberare! Quindi, da fatti tanto modesti – sapientemente enfatizzati e abilmente manipolati dai capi della Rivoluzione e acquisiti solennemente dagli organi istituzionali dell’epoca - nacque il mito della cruenta battaglia dei rivoltosi parigini per la conquista della famosa e tetra fortezza! Un’impresa dipinta e tramandata come coraggiosa, che da epopea divenne Storia e quindi mito, perno stesso della Rivoluzione Francese.                

Fa impressione oggi sentire riecheggiare, com’è avvenuto emblematicamente a Parigi, il grido LIBERTE’… Ma allora, quello che in molti chiamano oggi ‘progresso’ o ‘transizione’ verso un qualcosa di più che positivo, in realtà equivale a un ritorno al passato? Siamo alla soglia di un Medio Evo prossimo venturo?  Francamente, anche se non mancano reiterati, preoccupanti, segnali, la reazione che si sta sviluppando e rafforzando a livello umano, è da considerarsi positivamente: come la reazione di un organismo vivente che, per non soccombere, fa appello a ogni sua forza, ben comprendendo che ciò che avverrà, ciò che si potrà fare, si ripercuoterà per generazioni. Tentiamo quindi di leggere i fatti con occhi positivi, reattivi, perché ciò che avviene ci coinvolge TUTTI, a ogni latitudine. Dobbiamo credere con tutte le nostre forze in una RIGENERAZIONE, nella RIPRESA, in una nuova CRESCITA: ma questa DEVE coinvolgere TUTTE LE GENERAZIONI – anziani, giovani, soggetti maturi e giovanissimi – trovando la giusta ispirazione nella FORZA del proprio spirito, del proprio ‘sé’, così da poter esprimere la propria natura creativa, costruttiva.   

Perché? Ma perché lo sviluppo globalizzato, all'insegna del materiale, del potere, del denaro, della sopraffazione, ha accelerato la crescita, sicuramente pilotata, di 'falsi valori' come di 'falsi miti', andando letteralmente a smantellare quei 'valori reali' alla base dello sviluppo - lento, metodico, sedimentato - di genti e popoli. Intorno a noi ci sono tali e tanti problemi da incutere terrore! Ma non è nutrendoci di caramellose e vacue ‘verità’ che potremo risolvere qualcosa: solo andando alla radice potremo estirpare tutta la gramigna che soffoca il ‘vero’ nutrimento, il grano del corpo, della mente e dello spirito.                          

Classi dirigenti carenti di esperienza e di formazione (quasi sempre 'create' a bella posta, a tavolino, dai loro reali 'padri': occultamente ben presenti alle loro spalle), difficoltà nel lavoro, aziende in crisi che non reggono il cambio rapido degli scenari, il gioco crudele delle delocalizzazioni, la consapevolezza che occorra sanare gli squilibri interni e internazionali, la certezza che non è con le armi che si possano risolvere i contenziosi o tenere in scacco intere nazioni, la necessità di rafforzare il valore ed il concetto stesso di PATRIA nonché l'ente FAMIGLIA, quale unico caposaldo alla tenuta di quel che resta di essenziali valori etici e sociali, e quindi equilibri...  Ecco, tutto ciò ha alle spalle la pletora di soggetti che, fors'anche privi di cultura, proprio rifacendosi (ma solo a parole…) ai Lumi e alle diverse (rispetto a prima) energie veicolate dalla Rivoluzione Francese, si riempiono la bocca (e tentano di riempire i nostri cervelli, tentando di forzare la nostra logica, il nostro sentire, attraverso ragionamenti artificiosi e speciosi) con 'nuovi' pseudo-valori incentrati (sempre a parole…) sul classico trinomio LIBERTÀ - UGUAGLIANZA - FRATELLANZA. Valori certamente di enorme portata, ma ormai troppo 'rimodellati' ad uso e consumo di chi è impegnato in operazioni di manipolazione.       

Ma se il trascendente viene cancellato da una visione pragmatica e ormai laicista, mi dite voi come può esistere (e mi rifaccio anche alla - solo apparente - antitesi tra FIDES e RATIO) un progresso, un'era all'insegna dei Lumi, senza la presenza di un ingrediente essenziale qual è il ricondursi al Trascendente, al Divino?           

Certo, l'uomo ha 'inventato' altri elaborati, altri schemi, tentando di surrogare la zoppìa di spiritualità. Ma ormai i nodi sono giunti, prepotenti e numerosi, al pettine! Una cosa è la 'dea ragione' che intellettualmente possa sostenere i nostri processi intellettivi e di crescita, una cosa è operare in modo agnostico, senza il supporto costante di un modello spirituale e fideistico, priva di un’Entità Superiore, prodiga di insegnamenti.     Le nostre strenue fatiche umane, le nostre costanti vicissitudini sono meglio sopportabili con i valori di tutta una vita e con gli insegnamenti che in essi sono insiti: ma l'indignazione (sovente ‘pilotata’ e quindi strumentale) per eccessi, squilibri e ingiustizie, non possono farci sostituire detti valori con surrogati posticci, simil-veri, ma dagli evidentissimi limiti. Ecco perché - fermo restando il fervore creativo scaturito all'epoca dai Lumi, quale ribellione alle ingiustizie e soprattutto ai limiti fino ad allora imposti da nobiltà e clero (il 'terzo stato' era costituita dai contadini, poi in gran parte sostituiti dalla borghesia), oggi non si può più concedere a questo processo intelletual-creativo (caduto, evidentemente, in mani sbagliate…) il potere di surroga ai valori dello spirito, dell'anima, della fede nel trascendente. E questo - sempre secondo la mia ottica, certo - priva ormai la Francia di quel plusvalore derivatole dall'essere (stata) patria del movimento dei Lumi.    

Anche perché come può ancora sostenere questi valori una nazione che ha fortissimi interessi coloniali e che è preminente nella fabbricazione e vendita di armi? Un non-senso: reso fascinoso dal ricondursi, sempre e comunque ma solo a parole, ai valori del trinomio originario.     Ecco quindi che, a mio avviso, al classico trinomio LIBERTÀ - UGUAGLIANZA - FRATELLANZA possiamo, anzi dobbiamo, aggiungerne un altro: LIBERTA’ – GIUSTIZIA - EQUITA’ ma anche SPERANZA - DIGNITÀ - RISCATTO.       Non dimenticando che è proprio la DIGNITÀ il valore dei valori, quello che si riferisce direttamente all'esistenza dell'uomo e che rispecchia il senso del divino e tutti i principi in esso insiti.                   

Noi che ancora crediamo alla nobiltà di Tradizioni e Valori, continuiamo a porre l' UOMO  al centro di tutto: non i robot, non i tralicci, non gli automatismi, non i computer; sostenendolo e arricchendolo con i frutti del progresso piuttosto che non privandolo – con la scusa di 'farlo stare meglio' – delle sue nobili e faticose conquiste.                                          

Chi saprà farsi carico di questi valori, anche quale forte movimento di opinione, guidando genti e popoli assetati di pace e di giustizia sociale, chiuderà per sempre la pagina - già superata - dei Lumi... che, evidentemente, non riescono più ad ' illuminare' neanche un sottoscala; eviteremo così il pericolo di inciampare!       

La libertà di espressione è alla base dei diritti umani, è la radice della natura umana e la madre della verità. Sopprimere la libertà di parola significa insultare i diritti umani, soffocare la natura dell'uomo e reprimere la verità.

                                                                             Liu Xiaobo

E 'ormai consolidato il fatto che tutti siamo bisognosi di notizie e approfondimenti.

Nel XV secolo le notizie cercavano date dai cronachisti o dai monaci. Si parlava di economia e commercio oltre che di fatti inerenti alle battaglie o guerre del momento. Non erano chiaramente scritte a stampa ma come manoscritti si diffondeva la “verità” del momento; questi fogli uscivano ogni quindici giorni e  a volte settimanalmente. Nel XVIII secolo abbiamo l'avvento del quotidiano; nasce il bisogno di essere informati giornalmente, a questi si aggiungono le riviste ei periodici culturali. Tutto in nome di voglia di conoscenza e d'informazione.

Tutto però con i secoli subisce una lenta e importante trasformazione.

Scelta della carta da stampa, macchine adatte al taglio dei fogli, lavorazione e impaginazione. Si cerca la perfezione fino al 1886 quando grazie all'installazione nel New York Tribune della macchina “linotype” si accelerò indubbiamente la produzione dei giornali.

Da quel momento in poi il giornalista diventa colui che va a caccia di scoop, notizie da prima pagina, di sensazionalismi e spesso è colui che osa e rischia per informare il cittadino. Non si risparmia, viaggia, indaga, spiega, sottolinea, informa, condivide ma come? In quale misura? Di quale verità si parla? Di una verità di parte? Di sezione? Di impronta politica? Cosa c'è dietro una notizia oltre le parole? Non è cosa segreta sapere che ogni giornalista appartenente a una testata "firmata" e conosciuta deve favorire la propria matrice sia questa di stampo politico, pubblicitario, economico, religioso.Non vi sarà mai un giornalista che scriverà qualcosa che penalizzi o che possa danneggiare quell'idealismo alla base della testata per la quale scrive. Sia questo di destra o di sinistra.

Sappiamo che “Il Giornale” appartiene alla famiglia Berlusconi, l'Avvenire è il giornale della CEI, Il Sole 24 ore appartiene a Confindustria, il gruppo Espresso è tendenzialmente di sinistra. Il Messaggero è della Holding Caltagirone (suo genero è Casini); QN- Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno sono simpatizzanti di una politica di destra ecc.

Niente di anormale; volenti o nolenti ognuno ha le proprie idee, sia politiche o religiose, ma cosa accade se il giornalista aderisce in modo totalitario alla congettura di pensiero del giornale d'appartenenza? Ricordiamo che ci sono anche giornalisti del grande schermo e di emittenti radiofoniche. Tutti professionisti capaci di scrivere e di presentare articoli e programmi dove esprimono i prodotti osservati dal proprio punto di vista.

I consumatori, siano questi i lettori dei vari quotidiani o mensili, gli spettatori dei vari tg, gli ascoltatori di radio, saranno fruitori di notizie confuse, elaborate, insidiose dove vi sarà certamente una base di verità ma questa verrà direzionata a sfavorire e  a contrastare chi la pensa differentemente dal loro “sottobosco” politico. L'utente inconsapevole affamato di notizie e voglioso di sapere, non si renderà conto di venire in qualche modo indottrinato verso un pensiero univoco da un potere di stampa che, assoggettato dallo schiavitù psico / politica, ha smesso di vestire l'orgoglio giornalistico diventando in qualche modo pedina di un potere che ci vuole lobotomizzati a dovere.Solo il giornalista freelance sceglie, pur con tantissime difficoltà economiche, di movimento, di aiuto, di importanza professionale agli occhi dei più, di appartenere alla grande famiglia di chi ha deciso che la stampa deve restare informazione apolitica in favore di tutti gli uomini poiché solo così si crea l'evoluzione morale e etica dell'essere umano sempre meno autonomo e sempre più schiavo di pensiero. Ricordiamo che la libertà, il rispetto, la verità aprono i dialoghi e  i rapporti umani senza catene. Essere liberi è decidere E DI PRETENDERE di sapere la verità.

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