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Grande successo in tutta Italia della commedia “L’onorevole, il poeta e la signora” di Aldo De Benedetti
Regia di Francesco Branchetti
con Isabella Giannone , Lorenzo Flaherty e lo stesso Francesco Branchetti
GLI INTERPRETI
Parliamo dell’ultimo lavoro del regista e attore Francesco Branchetti, che, insieme alla bravissima Isabella Giannone e all’indiscussa professionalità di Lorenzo Flaherty, fa rivivere nei teatri del nostro Paese la commedia di Aldo De Benedetti intitolata L’onorevole, il poeta e la signora.
La commedia è stata rappresentata in numerosi teatri di tutta Italia, a partire dai primi di febbraio. Un tour che ha attraversato il paese da nord a sud, attirando un pubblico numeroso e appassionato.
Lo spettacolo ha riscosso, e sta ancora riscuotendo, un meritato successo.
Un altro grande successo del bravissimo Francesco Branchetti, che non sbaglia mai la scelta della sua compagnia dove lui stesso interpreta ruoli molto complessi, sia dal punto di vista interpretativo che linguistico.Al suo fianco, una splendida Isabella Giannone, che conferma ancora una volta la sua grande bravura anche in altri testi e commedie.Una piacevolissima scoperta è stato Lorenzo Flaherty, già grande professionista di televisione e cinema, che ha saputo recitare in modo magistrale anche a teatro. Ha interpretato un onorevole che, con disinvoltura, si destreggia tra corteggiamenti, simpatici ricatti e il desiderio di emergere attraverso la creatività di un poeta, che si rivela essere più furbo di quanto voglia far credere.La forza di Branchetti, oltre a essere il risultato di tanta esperienza e preparazione nel campo teatrale, deriva anche dalla sua astuzia e dalla sua sagacia, che gli appartengono naturalmente, così come dalla capacità di immedesimarsi pienamente nel personaggio da interpretare.
LA COMMEDIA
Si tratta di una commedia umoristica e grottesca, scritta dal commediografo romano Aldo De Benedetti (1892-1970). La storia ruota attorno a Leone,( Lorenzo Flaherty) un onorevole molto attratto da Paola, (Isabella Giannone) una giornalista elegante e astuta. Una sera, Leone riesce a invitarla a casa sua, ma non succede nulla di concreto: la donna lo provoca continuamente mettendolo continuamente in imbarazzo, e poi se ne va.
Dopo l’uscita di Paola, Leone scopre che in casa sua si è introdotto un uomo, Piero, (Francesco Branchetti) un poeta squattrinato che, nascosto dietro un divano ha ascoltato le sue conversazioni. Da questo incontro casuale nasceranno una serie di eventi che cambieranno la vita di entrambi i personaggi. La commedia è un susseguirsi di equivoci, scambi di persona e situazioni esilaranti, con conseguenze imprevedibili.
Il testo è ricco di allusioni, riferimenti, dispetti e velati ricatti, e mette in luce come l’intelligenza possa essere usata in modo divertente. La commedia, con una costruzione impeccabile, rispecchia quella teatralità tipica di De Benedetti, offrendo uno spaccato dei salotti dell’Italia di allora, che ospitavano uomini di potere con relazioni complicate, di talenti svenduti e numerose ambizioni. È anche un’immagine di una società ancora molto attuale, fatta di giochi di identità e scambi sociali che rischiano di essere il male dei nostri giorni, in un contesto di caos sociale e politico.La regia mira a restituire la straordinaria capacità dell’autore di analizzare e raccontare la banalità, il quotidiano, l’inutilità delle convenzioni e la retorica spietata dei rapporti umani. Tutto questo si traduce in un balletto esilarante tra i personaggi, che rende questa commedia un vero e proprio spaccato di ironia e riflessione.
RINGRAZIAMENTO
Un plauso ovviamente va a chi con grande forza e vitalità ha reso lo spettacolo divertente, curioso, dove non manca l’ estro e la creatività degli attori che hanno reso vivo l’interesse del numeroso pubblico che entusiasta applaude.
Il teatro è un’arte che rappresenta molto da vicino l’espressione e i riflessi dell’animo umano. L’attore, infatti, deve immedesimarsi completamente nel carattere, nelle movenze, negli spazi e nei respiri del personaggio che interpreta. Gli attori sono come dei corpi pronti ad accogliere le essenze dei personaggi che portano in scena e questa grande compagnia formata da Francesco Branchetti, Lorenzo Flaherty e Isabella Giannone ci sono riusciti in modo mirabile.
Ho paura torero, spettacolo andato in scena al Teatro Argentina dal 3 al 17 aprile e tratto dall’opera dello scrittore cileno - nonché difensore dei diritti umani - Pedro Lemebel, trasporta il pubblico all’interno di una narrazione travolgente, in cui l’amore tormentato dei protagonisti si intreccia con le tragiche vicende di una Santiago del 1986 colpita dalla ferocia di Pinochet, succeduto al governo Allende.
Il regista Claudio Longhi dirige uno spettacolo corale, in cui le vicende dei singoli personaggi offrono alla pièce un tono critico e irriverente. Il protagonista, un transgender conosciuto come “la Fata dell’Angolo” - interpretato da Lino Guanciale - vive una relazione sentimentale con Carlos (Francesco Centorame), studente e militante delle forze ribelli guidate dal “Movimento di liberazione Rodrigo Martinez”. Guanciale offre un’interpretazione dotata di profondità, capace di esprimere un’alternanza tra ironia, delicatezza e fragilità. La sua presenza scenica non rende la Fata una caricatura ingombrante, bensì un personaggio dai toni struggenti, sospeso tra fantasia e amarezza.
L’intimità che si percepisce sin dall’inizio nell’incontro tra le loro storie evoca l’unione di due rivoluzioni che “camminano mano nella mano”. C’è chi crede che la libertà si conquisti con la resistenza indefessa o con atti di guerriglia, e chi invece soltanto attraverso la fede incrollabile in un romanticismo “proibito” che sfugge al peso delle convenzioni. La Fata dell’angolo è la “maschera” di questo secondo e silenzioso atto di ribellione. Frivola e a volte beffarda, La Fata è la personificazione di un desiderio sfuggente, fragile ma soprattutto umano. In effetti è proprio questo che fa della protagonista la voce e il volto di un’ingenuità che si annida nell’intimo di chiunque tenti di realizzarsi in un’esistenza semplice, libera da compromessi, miraggi e false promesse. Da parte della Fata non c’è né ideologia né rivendicazioni politiche, bensì la voglia di star bene, condividendo la spensieratezza e il piacere di un brindisi serale, circondati dalle luci soffuse del suo salotto, uno spazio raccolto ricco di elementi simbolici che sottolineano la calda e rassicurante atmosfera dell’appartamento in netto contrasto con le ambientazioni asettiche del mondo esterno. Oppure, godendosi la bellezza mozzafiato di uno scenario montano, durante un picnic, lontano dal caos cittadino e dall’immagine impietosa della realtà.
La fuga non è nient’altro che un modo per rimanere invisibili a un occhio vigile e ossessivo, che stigmatizza inorridito le “anomalie” dell’omosessualità definendola come un mero “amore tra froci”. Ed è qui che entra in scena un Pinochet caricaturale (Mario Pirello) invischiato in un rapporto grottesco con sua moglie, Doña Lucía (Sara Putignano); il dittatore è in un certo senso vittima della sua stessa reputazione, situazione che lo rende del tutto incapace di contegno e quasi sempre avvezzo ad un’isteria surreale, dettata, oltretutto, dalla consapevolezza di un futuro sempre più incerto per il suo regime. La parentesi di Pinochet offre al pubblico un intervallo esplosivo e parodistico, che pone in enfasi il lato quasi tragicomico della personalità del dittatore, e che il più delle volte è destinato a sfociare in un ridicolo battibecco coniugale condotto a suon di frasi sarcastiche e critiche pungenti. Anche qui, al di là delle smisurate sfumature comiche, si è costretti a celare sé stessi alla verità dei fatti con una maschera, ricorrendo disperatamente a quella soggezione senza la quale nessuna forma di potere avrebbe ragion d’essere.
Qui si misura l’incommensurabilità tra l’utopia del controllo assoluto e una società popolata da emarginati, reietti e desaparecidos coinvolti nella drammatica lotta per mettere fine alle vessazioni del regime. Un coro di coscienze diverse che si identificano in un’unica e pulsante volontà, che si leva come un lamento accompagnato da canzoni latinoamericane, languide e malinconiche, che fanno da eco alla resistenza. Musiche che accompagnano anche la Fata nella sua “danza” solitaria, che tra reminiscenze e sogni condivisi col pubblico, emerge l’insofferenza di un’attesa troppo lunga e la tenerezza di chi spera in un lieto fino. Carlos, tuttavia, non sembra ricambiare i sentimenti dell’amante. Nella sua compagnia, non vede nulla più che un rifugio occasionale per lenire le frustrazioni scaturite da un ideale offeso, e nel suo misero appartamento un possibile covo per chi come lui è costretto ad agire nell’ombra;addirittura, un luogo in cui riporre materiali misteriosi, utili nel proseguimento della lotta. Nel corso della narrazione, il disincanto della Fata dell’angolo traspare a mano a mano che le cose si complicano, specialmente dopo che Carlos, insieme ad altri compagni, è costretto ad abbandonare Santiago dopo un attentato non riuscito a Pinochet. È il punto di non ritorno: l’ignara protagonista si ritrova senza volerlo in quell’intrigo dal quale si è sempre tenuta in disparte, protetta dalla calma sacra e confortante del suo appartamento, prima che un frenetico via vai di militanti stravolgesse il suo angolo privato di vita. Così, anche lei è costretta a lasciare Santiago.
La Fata chiede di vedere Carlos un’ultima volta. L’incontro ha luogo, ma la parola d’ordine pronunciata dal giovane - “Ho paura torero!” - sigilla una separazione, un addio definitivo. Ora tutto è chiaro: la Fata dell’Angolo è dentro la realtà stessa, trascinata contro la sua volontà fuori dal suo mondo incantato, in cui qualsiasi elemento esterno – anche se mosso da ideali di giustizia – appariva profano. Ognuno riprenderà la propria personale rivoluzione. La flebile luce di quella favola immaginata sembra essersi spenta per sempre.
Con questo spettacolo, Claudio Longhi e la sua compagnia firmano un’opera che fa leva sulle nostre coscienze con grazia e una buona dose di satira, dando voce a chi la storia ha cercato di mettere a tacere. È un omaggio alla libertà fragile ma caparbia, al desiderio di essere amati e riconosciuti. Ed è anche un monito: che proprio l’amore, in tutte le sue forme, resta il più audace atto rivoluzionario possibile.
di Pedro Lemebel
traduzione di M.L. Cortaldo e Giuseppe Mainolfi
trasposizione teatrale Alejando Tantanian
regia Claudio Longhi
dramaturg Lino Guanciale
con Daniele Cavone Felicioni, Francesco Centorame
Michele Dell’Utri, Lino Guanciale, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero
Blumarine |
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Iniziamo con una delle Big four" Parigi"che a sostegno dell'Alta Moda in questa stagione invernale 2025 ha un pubblico alquanto invidiabile invadendo sia la Ville Lumiere
Mc Queen |
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che dintorni. Mai come quest'anno i Vip si sono dati appuntamento da Elton John a Cher, da Carla Bruni alla Ferragni e tanti altri. Vi hanno sfilato le più grandi Maison mondiali,coadiuvate da registi non meno importanti,da location mozzafiato e sceneggiature impagabili. Tra le passerelle piu' applaudite troviamo Schiapparelli che ormai detiene il primato della femminilita', extra lusso e palpabilita' tra oro e splendore; Gaultier torna ai bustier, crinoline e lacci in una contesto alquanto marittimo intitolato Naufrage; D&G ha esordito e sbalordito un pubblico ancora non preparato all' inprevedibiIita' di questi grandi couturiers sovrani del bello mozzafiato; Armani festeggia scintillante i suoi 20 anni di regno nell'alta Moda mentre Dior con i suoi balli in maschera e le pantomime crea un atmosfera da fiaba e incalza con una giusta presunzione mentre CHANEL, mistica dottrina del minimalismo chic,infonde curiosità e brame, Valentino oltremodo vertiginoso e sfarzoso domina per eccellenza del gusto e dell'eleganza senza over make up e sobria la sua sfilata vola tra i sospiri.
Atterriamo ora a Milano Incomparabile e superaffollata. Ormai diventata una finalità fluttuante,un monastero di imprevedibili sfaccettature dove prevale il nero castigato e sensualissimo e nello scoprire il nudo qua e là,siamo anche alla riscoperta dell'erotismo,incensurato e troppo ose'.L'Istoire d'O nelle memorie dei giovani aristocratici snob si interpone alle nuove tendenze sadu- woodu, e mistic complimentandosi con riverenza.Dal mondo britannico Energia e Glamour Da Mc Queen con le sue fate del buio attuale alla sfilata di Victoria Secret che crea un orgasmica
Chanel |
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eccitazione,con Gigi Hadid che apre in rosa e modelle sia curvy che transgender impregnate da un parvenza evangelica;
fra gli ospiti più ammirati la cantante americana Cher.
Elie Saab |
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Se vogliamo tirare le somme per questa stagione come sempre ineguagliabile possiamo percepire e osare anche dire.
Elton John |
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Il No Fashion e l'esagerazione spopolano tra una sfilata e l'altra a New York dove la parola Ugly riappare in quella tendenza di strada e bassifondi; mentre il rivisitato per la maggioranza se si attiene al classico la fa diventare la copia
della copia della copia.Con similitudini di sirene squadrate e squamate l'umore
dell'amore diventa sfacciato e la fornicazione evade dalle spaccature grinzose
Valentino |
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degli abiti con civetteria.
Eccezioni e regole nel must e nell'off.
Particolari nei cambi di epoche ed evolute dimensioni dove il black dandy del
black power ha uno stile e cultura futura e nel sentirsi diversi e contrapposti si rivalgono di un' agenda stilistica culturale e politica: il superstite della schiavitù ora è schiavo del look.
Tra le novità si rilancia il brand Fiorucci e si creano delle strategie imposte dal sovraccarico dei designers.
Anna Wintour e Donatella Versace commentano il tutto.
Jeans Paul Gaultier |
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Schiapparelli |
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Mancano i grandi nomi del giornalismo ma ormai le piattaforme e gli influencers parlano da soli. E' tutto on line fra opinionisti ed adepti ammiratori del culto delle tendenze.... vaghiamo in un universo fatto di sogni espressi in colori e forme,ormai la moda è arte,nel puro senso dell'interpretazione,con essa esprimiamo un carattere,la gioia o la tristezza, l'avvenenza o il pudore,il sesso o la fantasia; moda è la parola chiave per entrare nel nostro io più interiore,nascosto da velature di introspezione e dal mistero che fa scaturire fascino e desiderio. In questo mondo pirotecnico esaltiamo l'egocentrismo di questi designers che anno dopo anno superano loro stessi affidandosi alle nuove leve della tecnologia e del virtuale, infatti come sappiamo da tempo già ci affidiamo ad una Intelligenza Artificiale che ci fa da timone ma le idee vere e proprie scaturiscono dalla nostra mente. Sempre nel pret newyorchese, il glamstore, l'outwear è una divisa in tandem con il cappello, camoufflage e tute mimetiche ancora legate al minimalismo baggy da pantaloni cargo a stivali combat.
Schiapparelli |
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Quali sono i confini della bellezza e a che forme si ispirano nella cura dell'immagine è raggiungere la perfezione,e con il Bisturi sembra diventato un travestimento molto reale creando forme iperboliche che scardinano molti paradigmi del passato ed hanno un fotonico impatto visivo dovuto al desiderio di un Total living.
Isabel Marant |
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Giorgio Armani |
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Siamo ormai orfani di Papa Francesco, lo siamo da poche ore e ci sembra già da un lungo tempo. Un Papa indimenticabile, baluardo della pace e non solo di questa. Difficile da sostituire.
Anche gli atei e gli agnostici, hanno un pensiero positivo nei confronti di Jorge Maria Bergoglio, prima ancora del Papa. Uomo umile, primo pontefice del sud del mondo, primo gesuita, primo vero riformatore nei confronti di alcune “tradizioni secolari” di Santa Romana Chiesa, per renderla al passo dei tempi, più essenziale, più sobria.
Riformatore di idee e di tradizioni, quindi, ma conservatore su molti temi, cari ai cattolici.
Il suo pontificato, iniziato nel 2013, è stato segnato da un forte impegno per la giustizia sociale, la lotta alla povertà, alla tutela dell’ambiente. La sua enciclica “Laudato si” ci ha richiamati sull’urgenza di proteggere il nostro pianeta.
Durante il suo pontificato, ha toccato il cuore di milioni di persone con il suo messaggio di amore e di inclusione.
Ha sostenuto le cause sociali e ha offerto una voce di speranza in tempi di crisi e di guerra come quello che stiamo vivendo.
Per molti osservatori è stato per questi temi, un papa di rottura, inclusivo e rivoluzionario.
A chi lo definiva “anti-papa” o “papa mai eletto”, possiamo rispondere che è stato un rivoluzionario progressista, un ponte tra WoJtyla e il nuovo millennio ma su alcuni temi importanti è stato conservatore, talvolta meno conservatore rispetto ad altri. Sarebbe un errore non riconoscerlo.
Sui diritti civili e sul tema delle donne, ad esempio, è stato conservatore come i suoi predecessori. Sul matrimonio omosessuale e sull’aborto, ha avuto occasione di cambiare le cose ma ha rinunciato a farlo.
Si è più volte scagliato contro l’ideologia gender, definendola “nefasta”, “pericolosissima”, “manifestazione del male” e altre espressioni simili.
Sul sacerdozio femminile, non ha aperto le porte in questi dodici anni di pontificato anche se sosteneva che la “Chiesa è femminile, a livello grammaticale, simbolico, etico.”
E’ questa forza di rottura, da una parte, anche solo apparente, e di conservatorismo dall’altra, unita a un sincero desiderio di ecumenismo, ad aver reso Papa Francesco così popolare tra alcuni e così inviso ad altri.
Il suo papato sarà ricordato, infine, per le sue decise prese di posizione, per i suoi continui e innumerevoli viaggi apostolici, per gli appelli importanti ai leader del mondo.
Un uomo che si è distinto, nel bene e nel male, dai suoi predecessori per stile e carisma.
Il conclave prossimo ci dirà chi sarà il suo successore e dalla nomina in poi del nuovo papa, sarà possibile capire che Chiesa sarà e che pastore la guiderà nel prossimo futuro.
Non credo si possa dire che il Nonostante con cui Valerio Mastrandrea esordisce in qualità di regista sia un film particolarmente riuscito: piuttosto noioso, scarsamente ironico, con momenti di indubbia debolezza …
Nello stesso tempo, però, al film vanno riconosciuti una nobile eticità di ispirazione, una non comune originalità ed alcuni pregi contenutistici di un certo rilievo:
Insomma, un film che, nonostante i suoi limiti, riesce a farsi apprezzare per l’esprit metafisico e per il delicato afflato lirico …
Sì, certo … Nonostante …
Siamo nei giorni che precedono la memoria del genocidio armeno (gli armeni usano l’espressione Metz Yegern, Մեծ Եղեռն, ‘il grande crimine’), celebrato il 24 aprile: in questo giorno si commemorano le vittime di uno degli eventi più crudeli e disumani della storia recente dell’umanità.
Con il termine genocidio armeno, talvolta definito olocausto degli armeni, si identificano le deportazioni ed eliminazioni di armeni perpetrate dall'Impero ottomano tra il 1915 e il 1916, che causarono circa tre milioni di morti. Arresti e deportazioni di civili Armeni furono compiuti in massima parte dai ‘Giovani Turchi’. In quelle che sono state chiamate ‘marce della morte’: 1.200.000 persone furono uccise, centinaia di migliaia di persone morirono per fame, malattia, fatica, percosse, stupri. Vi sono molte prove inoppugnabili sul fatto che ci fosse una volontà determinata della classe dirigente ottomana di eliminare la popolazione armena: è noto che il Ministro dell'Interno turco, Tallat Pascià, disse all’ambasciatore Morgenthau[1] - cosa che Morgenthau ricorda nelle sue Memorie: «Ci siamo liberati di tre quarti degli armeni… L’odio tra armeni e turchi è così grande che dobbiamo farla finita con loro, altrimenti si vendicheranno su di noi».Ricordiamo, per la cronaca, che la Turchia rifiuta di riconoscere il genocidio ai danni degli armeni, causa questa di tensione tra Unione europea e Turchia e anche con la Santa Sede. Il 12 aprile 2015 papa Francesco riferendosi agli avvenimenti ha parlato esplicitamente di genocidio, citando anche una dichiarazione del 2001 di papa Giovanni Paolo II e del patriarca armeno, in occasione della messa di commemorazione del centenario in San Pietro, dichiarando che quello armeno ‘viene definito come il primo genocidio del XX secolo’.
Ho ritenuto necessaria questa ampia premessa sul genocidio armeno, perché evidentemente la verità storica conclamata e le dichiarazioni di due Romani Pontefici, nonché l’approssimarsi della data commemorativa del genocidio armeno, non sono stati sufficienti per scongiurare una vergognosa iniziativa svoltasi il 10 aprile u.s. presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma: si tratta della XII Conferenza Scientifica Internazionale dal titolo ‘Cristianesimo in Azerbaigian: storia e modernità dedicata al patrimonio dell’Albania caucasica’. L’evento è stato organizzato dal Baku International Multiculturalism Center, dall’A.A. Bakikhanov Institute of History and Etnology dell’Accademia Nazionale delle Scienze dell’Azerbaigian, dall’Ambasciata della Repubblica di Azerbaigian presso la Santa Sede e dalla Comunità religiosa cristiana Alban-Udi. Una iniziativa sconcertante – anche se non ufficialmente promossa dalla Gregoriana, alla quale è stato comunque consentito di svolgersi in una grande aula della Pontificia Università – senza che alcuna organizzazione di studi armeni ne fosse a conoscenza, come ha dichiarato anche il ‘Team di Monitoraggio del patrimonio culturale dell’Artsakh’ con un comunicato che spiega: “Sono stati riuniti e reclutati decine di specialisti provenienti da diversi paesi (Turchia, Kazakistan, Uzbekistan, Corea del Sud, Russia, Polonia, Italia, Georgia, Germania, Francia, Canada, Stati Uniti, Lituania) con l’obiettivo di escludere la storia armena, la cultura armena e la presenza degli Armeni nel territorio dell’Azerbaigian, quindi, in particolare quei monumenti armeni, ricoperti da centinaia di iscrizioni armene, vengono presentati come albanesi. Si tratta di Amaras, Ganadzasar, Dadivank, ecc. Per noi è anche incomprensibile che abbiano partecipato alcuni noti ricercatori del settore, visto che a questa Conferenza non ha partecipato nessun ricercatore Armeno e non è stata pronunciata una sola parola sugli Armeni. Esprimiamo la nostra protesta e preoccupazione alle organizzazioni e alle comunità armene per la conservazione della cultura, alla comunità scientifica internazionale e alle nostre autorità per aver nascosto e ignorato in questo modo la nostra memoria, la nostra storia e la nostra cultura”.
Inutile sottolineare come anche in questo caso, a giustificazione di un evento dannoso e anticulturale, venga invocato un dialogo fra le religioni, che, se basato su menzogna e prevaricazione – come in questo caso – serve a diffondere odio e prevaricazione, non certo conoscenza reciproca e fraternità.
Il Consiglio per la comunità armena di Roma ha stigmatizzato l’evento con un comunicato stampa: “Il Consiglio per la comunità armena di Roma si unisce allo sgomento e rabbia di tutti gli Armeni per quanto accaduto ieri presso la Pontifica Università Gregoriana di Roma dove l’Ambasciata dell’Azerbaigian presso la Santa Sede ha organizzato un convegno dal titolo Cristianesimo in Azerbaigian, affittando un locale dell’Istituto senza rivelare alla proprietà la vera natura politica dell’iniziativa, come già accaduto anche in passato per concerti organizzati presso parrocchie romane.
Nel corso di questo evento ancora una volta gli oratori hanno ripetuto la falsa teoria sulla Chiesa Cristiana Albana che sarebbe stata spodestata da quella Armena; teoria infondata e ridicola che non ha alcun cultore al di fuori dell’Azerbaigian e che è stata riproposta per giustificare l’occupazione del Nagorno-Karabakh (Artsakh) cancellando secoli di civiltà e storia armena nella regione, dopo aver cacciato da quei territori, sotto la minaccia della pulizia etnica, più di 120 mila Armeni, che oggi, dopo aver perso tutto, persino le tombe dei loro cari, si trovano rifugiati in Armenia.
Ma non solo tali assurdità sono risuonate alla Gregoriana. Vi è stato persino chi ha attaccato gli Armeni, come l’analista politico Fuad Akhundov, accusandoli di distruggere i monumenti e i siti religiosi azeri e arrivando perfino ad affermare che “queste azioni non sono solo atti di vandalismo contro il patrimonio storico e culturale dell’Azerbaigian, ma riflettono anche una politica anticristiana volta a distorcere la vera storia della regione”.
Non possiamo che rilevare che si tratti solo di un patetico tentativo per scaricare sull’inerme popolo armeno le proprie colpe, vista l’opera di distruzione compiuta recentemente in Nagorno-Karabakh e, sul finire del secolo scorso, a Julfa.
Il Consiglio per la comunità armena di Roma, che ha provveduto ad inviare una missiva al Rettore dell’Università Gregoriana, ritiene inaccettabile che istituzioni pontificie, ancorché in buona fede, ospitino tali eventi caratterizzati da armenofobia, razzismo, intolleranza e basati su teorie prive di qualsiasi valore storico, religioso e scientifico e offensive nei confronti di un popolo che ha versato il proprio sangue per non rinnegare la propria fede Cristiana e che si sta accingendo a commemorare il prossimo 24 aprile il 110° anniversario del Genocidio del 1915 dove persero la vita più di un milione e mezzo di Cristiani Armeni.
Non è tollerabile che università, chiese e parrocchie diventino vittime della politica manipolatrice di un regime che Freedom House colloca tra le dieci peggiori dittature al mondo. Un regime che a suon di soldi e bugie cerca di annientare la millenaria civiltà̀ di un popolo che per primo, nel 301, abbracciò ufficialmente il Cristianesimo.” Il comunicato termina con un appello alla Conferenza Episcopale Italiana e alle Istituzioni vaticane a vigilare con attenzione per prevenire simili atti mistificatori e non rischiare di essere accusate di complicità con il regime dell’Azerbaigian.
Appello che lascia poco sperare in un giusto accoglimento dal momento che è difficile credere che il Rettore della Pontificia Università Gregoriana, che ha dato in affitto la sala la più grande e di rappresentanza della Gregoriana, potesse non sapere che tipo di evento o conferenza era stata organizzata. Lascia poco spazio ad una buona fede delle autorità vaticane il fatto che il Cardinale Gugerotti Prefetto del Dicastero della Santa Sede per le Chiese Orientali abbia inviato alla conferenza un messaggio sconcertante, a dir poco, di apprezzamento per il convegno.
Visto che, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma ci s’azzecca sempre, potremmo maliziosamente pensare che possa avere a che fare con l’atteggiamento vaticano il fatto che gli azeri stiano finanziando, in occasione del Giubileo, il restauro della basilica di San Paolo fuori le Mura. Ma questa è un’altra storia. O forse la stessa.
Ricordiamo anche, sempre per dovere di cronaca, che questo non è il primo evento che si svolga a Roma, offendendo la verità storica e colpendo gravemente l’Armenia. Si è trattato della mostra del febbraio scorso al Colosseo, “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro”, dove la storia viene mistificata e l’Armenia semplicemente cancellata dalla cartina geografica.
In quell’occasione fu inviata una lettera di protesta al Ministro della Cultura Giuli che riteniamo utile riproporre in quest’occasione:
“Egr. sig. Ministro, stiamo ricevendo da qualche giorno proteste provenienti da varie parti del mondo relative a una mostra, allestita al Colosseo, dal titolo “Göbeklitepe: L’enigma di un luogo sacro”. L’evento è patrocinato dal Suo dicastero, dall’omologo ministero turco e dall’ambasciata di Turchia a Roma.
Ci viene segnalato che l’allestimento è stato utilizzato per manifestare le più deprecabili teorie nazionaliste genocidiarie e anti armene. Nei pannelli illustrativi l’Armenia – la grande Armenia storica che si estendeva dal mar Caspio al Mediterraneo – è stata omessa. Così come l’attuale repubblica di Armenia. Al suo posto i curatori hanno pensato bene di collocare un “grande Azerbaigian”, Paese inesistente fino al 1918 il cui autocratico Presidente continua ancora oggi a minacciare la repubblica di Armenia accampando pretese su fantomatiche “terre storiche azerbaigiane” (sic!).
Anche se l’evento terminerà a breve riteniamo opportuno, anzi indispensabile, un Suo autorevole sollecito intervento per allontanare subito qualsiasi sospetto che la mostra sul sito archeologico sia stato solo un pretesto per dar spazio alle più bieche teorie nazionaliste turche degne di un membro dei “Lupi grigi”.”
Evidentemente non è bastato, il secondo evento è più grave del primo. Dobbiamo aspettare un terzo step di malafede, incultura ed ignoranza storica? Noi pensiamo che possa bastare così. Lo speriamo.
E' il 9 aprile e Roma si mostra in tutto il suo splendore; il sole illumina la sua eterna e sempre nuova bellezza. Il Tevere scorre solennemente accanto allo storico Ospedale Fatebenefratelli, oggi Gemelli Isola. L'Aula Magna è in festa; si ricorda Papa Benedetto XIII Orsini, nell’ambito delle Giornate Orsiniane che vogliono essere un percorso di Fede, Cultura e Carità.
Nate nell’animo desiderante del Principe Domenico Napoleone Orsini - presente - e della Principessa Martine Bernheim Orsini, la rassegna ha preso l’avvio nel 2024 con la Celebrazione Eucaristica nella Basilica Papale di San Giovanni in Laterano in Roma, perenne cattedra dei Papi, in occasione del III Centenario dell' Elevazione a Pontefice del Duca Orsini; in questo 2025 le Giornate si sono incastonate nel Giubileo in onore e per memorare il Giubileo che Papa Orsini celebrò nel 1725. Occasioni, queste Giornate, atte ad illuminare l’attualità e la visione profetica dell'ultimo Papa venuto dal Sud dell'Italia. Un pomeriggio edificante, grazie ai contributi dei tanti intervenuti e dialoganti sulla magnificenza della Lectio tenuta da S. Ecc.za Rev.ma Mons. Mario Delpini, Arcivescovo di Milano, titolo: “Come asciugherai le lacrime”? La carità di fronte al soffrire: compassione, rivelazione, relazione, organizzazione. Una lectio analitica che ha utilizzato le lacrime quale punto privilegiato di analisi; le lacrime della madre, la duchessa madre del primogenito dei Duchi Orsini -inconsolabile a causa della scelta del figlio di non volersi in alcun modo casare; alle lacrime dello stesso figlio-primogenito destinato al vassallaggio mentre, invece, sceglie di farsi frate domenicano, operando, in tal modo, la cesura della continuità dinastica…cresceva più per Dio che per il mondo! Ebbe a dire il Vescovo, che, pur'Egli, verso lacrime dinanzi alla particolare intensità della devozione del Duca...che lo aveva infervorato e spinto a leggere per ben 24 volte gli Annales ecclesiastici del cardinale e storico Cesare Baronio (1538-1607), la monumentale storia della Chiesa.
Il nobile Orsini tentò disperatamente di opporsi al Galero cardinalizio (anche detto berretta), sulla cui nomina sicuramente ebbe peso sostanziale e determinante la madre, ma dovette accettare e dovette finanche accettare il trasferimento a Roma. Ad ogni modo, il suo fervore non si diluirà, anzi, le sue lacrime saranno fertili, molto fertili, sia per affrontare che per operare, con tutta la determinazione che lo caratterizzava, nel campo della riforma della Chiesa, e non solo, anche per pensare, ideare e porre in essere il famoso Editto del Monte frumentario. Fu quella la Sua risposta pragmatica alle lacrime dei poveri. Una istituzione di solidarietà che operasse con carità intelligente, un mutuo soccorso che impegnasse, al contempo, chi dava e chi riceveva; non un piccolo sussidio bensì il prestito del frumento quale forma promozionale della persona umana; modalità tutt’altro che assistenziale. In tal modo Egli rivisitava il vecchio concetto secondo il quale, all'accadere delle cose, non si poteva che soccombere in quanto volontà di Dio. Il suo, dunque, ha ben detto l’Arcivescovo di Milano Mons. Mario Delpini, è un approccio all’uomo integrale, cosa che lo stesso Monsignore ha sublimato nella frase che mi ha particolarmente colpito: l’emotività non basta per entrare nel mistero. Affermazione che -insieme al peculiare e originale punto di vista attraverso il quale l'Arcivescovo di Milano ha orchestrato tutta la sua lectio: le lacrime, quelle di una madre, quelle dello stesso figlio, del vescovo che se ne occupò e le lacrime dei poveri- sono state carezze per l'anima e stimoli intellettuali.
Una preziosa prolusione analitica e poetica insieme. Lieta, pertanto, d’essere stata coinvolta da Sua Ecc.za Mons. Saverio Paternoster che da tutta la vita, in Gravina, e attraverso la fondazione e la presidenza del Centro Studi invoca l'attenzione di tutti sulla Persona di Papa Benedetto XIII, del quale ama sempre ricordare: è stato al servizio di Dio e della gente. Grazie al Suo generoso invito ho potuto rappresentare quanto mi commuove di questo uomo-Papa, il Suo servizio -e il servizio ha dignità regale- e le modalità del servizio stesso che sicuramente hanno illuminato l’operato di altri e suggerito modalità di benevolenza intelligente. Ho rammentato, infatti, che in Matera, città ove sono stata fino al mio transito in Roma, gli fece eco Mons. Brancaccio con l’istituzione del 1° Monte frumentario, anche detto Monte granatico che aiutò molti contadini indigenti. Ma Matera registra anche un'altra virtuosa applicazione del principio del monte granatico: alle ragazze indigenti che non potevano sposarsi a causa del non possedere neppure la più piccola dote, veniva loro concesso un sacco contenente le sementi.
E' così che avrebbero potuto avere il proprio raccolto, costituirsi la dote e sposarsi; ma: da quel raccolto avrebbero dovuto ricolmare il sacco e riportarlo al Monte frumentario e contribuire, così, al circolo virtuoso del Monte. Tante sono state le giovani donne degli antichi rioni Sassi che hanno potuto coronare il sogno d'amore e accedere al matrimonio, tutto grazie a un sacchetto di sementi che le ha messe anche nella condizione di contribuire al progresso di sè e della collettività. Le lacrime così mirabilmente narrate dall'Arcivescovo di Milano sono riuscite ad attraversare tre secoli, arrivare fino a noi, colpire l’uditorio e far arrivare a Roma 21 persone da Gravina -a guida di Mons. Saverio Paternoster- tutte infervorate dall'amore verso il loro Papa, tutte impegnate nel promuoverne la valenza di modello, di luminoso esempio, esempio che riverbera splendidamente in Mons. Paternoster; tante persone da Cesena, da Roma stessa e da tutte le città che sono state toccate dall'opera di Benedetto XIII. Nato come Pietro Francesco dalla nobile famiglia degli Orsini, nel 1650, divenuto frate col nome di Vincenzo Maria, dirà Mons. Paternoster a Gravina nelle grandi celebrazioni che Egli stesso ha organizzato e fortemente voluto per il 300enario della nascita, arcivescovo a soli 25 anni, prima di Manfredonia e poi di Cesena, poi, per 40 anni di Benevento, operò sempre all’insegna dell’umiltà e rese la sua missione pastorale l'operare concreto per i più deboli; fece costruire e donò a Roma l’Ospedale San Gallicano per le malattie infettive e fece ricostruire Santa Maria della Pietà per i malati di mente. Non dimenticò nessuno ed ebbe grande attenzione verso le condizioni dei carcerati, provvide, infatti, a migliorarle.
Insomma, questo pomeriggio del 9 aprile di questo anno giubilare 2025 segnerà la storia terrena di Papa Orsini, nato a Gravina in Puglia; a tale riguardo, anche lo Storico del Centro Studi gravinese, il Prof. Andrea Mazzotta, nonchè Vice Presidente dello stesso Centro, ha fatto della celebre frase proferita da Papa Benedetto XIII : Volevo essere solo un frate, lo statuto, il cuore, il fulcro dal quale partire per dire concretamente e nella più perfetta delle verità: la Persona e il Pastore che è stato Papa Orsini. Di Questi, il Professor Mazzotta non si stanca mai di rammentarne il raffinato pragmatismo che lo motivò e lo spinse finanche a farsi materiale estensore del Manuale d’uso dei Monti frumentari, quella straordinaria forma di credito agrario che consentiva ai contadini indigenti la possibilità della semina e del raccolto. Il 29 aprile la Fondazione intitolata a Paga Orsini porrà in essere la Messa a 16 voci, e sarà un Evento imperdibile. Non è questo solo un anno Giubilare, è un anno che vede il pianeta insanguinato da un numero di guerre che il buon senso non accetta. E' un anno che vede scorrere fiumi di lacrime, ma "queste", purtroppo, producono e produrranno solo rabbia e odio. Credo che Papa Orsini gioirebbe se prendessi la sua frase: volevo essere solo un frate e la traducessi con: volevo essere solo un uomo per continuare a colmare il pianeta di Bellezza,,, non di macerie.
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Sacrario italiano |
Fiume della Francia settentrionale affluente della Vesle, che si getta a sua volta nell'Aisne, che si getta a sua volta nell Oise che confluisce nella Senna.
Sulle sue rive fu combattuta nel luglio del 1918 una violenta battaglia, alla quale partecipò, accanto alle armate francesi , il II Corpo d'armata italiano agli ordini del generale Albricci. Per gli italiani il fronte francese significò, in poco più di sei mesi, 5.000 caduti e oltre 4.000 feriti. Oggi superate le poche case di Bligny si sale una collina sulla cui sommità troviamo il Cimitero Militare Italiano che impressiona per la sua grandezza. Al suo ingresso sventola la bandiera italiana, quella francese e quella d’Europa, all’interno un grande viale di cipressi e un piccolo tempio posto al centro di quattro sterminati campi di croci. Sul tempio la dedica: "AI CINQUEMILA SOLDATI ITALIANI MORTI IN TERRA DI FRANCIA".
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Pinot Meunier |
Già nel 2016 scrissi: Situata a sud della città di Fismes, la valle dell’Ardre, con i suoi graziosi paesaggi collinari, è piena di vestigie dei tempi trascorsi. Le incantevoli chiese di Courville, Saint-Gilles, Poilly o di Crugny sono tra i monumenti della valle meritevoli di essere visitati ed ammirati per capire che siamo nella Champagne. In una Champagne diversa da quella patinata, meta di milioni di turisti”.
Siamo nella Champagne vera, quella dei contadini, abituati alle cadenze delle stagioni, quella delle cooperative dove ci si unisce per esprimere la propria individualità. Sembra un paradosso ma è proprio così.
Già l’Ardre, un piccolo fiume che nasce dalla Montagna di Reims, corre verso nord-ovest per poi confluire nella Veisle, il fiume navigabile di Reims. Tutto un sistema idrico che crea quel micro-clima importantissimo ed essenziale per la maturazione delle vigne.
In “quei serbatoi” d’uva che per alcuni secoli sono stati e continuano ad essere fonte di approvvigionamento per le Grandi Maison. Ricordiamoci che la Vallée de l’Ardre si trova sopra il 49° parallelo e mai come oggi c’è bisogno di frutti acidi per continuare la grande favola della produzione dello Champagne.
La Vallée de l’Ardre, Vallée de la Vesle e il distretto Tardenois, sono definiti nel loro insieme “Petite Montagne de Reims”, circa 2.500 ettari con terreni composti di argille, limo argilloso, sabbie silicee, marne calcaree.
Non troviamo solo vigne ma anche distese di cereali (grano, mais), patate, barbabietole.
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l'Ardre |
Ci troviamo tra il 49° e il 49,5° parallelo Nord. Il clima, di conseguenza è da considerarsi semi-oceanico: fresco, se non freddo, umido d’inverno, mite ma sempre umido d’estate. La maturazione complessa, lenta e talora tardiva rimane dunque un dono prezioso della natura, insostituibile nell’ottica della qualità.
Qui i tre vitigni, Pinot Noir, Chardonnay, Pinot Meunier, quest’ultimo in prevalenza, seguono la tradizione che li vogliono in assemblaggio per attenuare le asperità climatiche.
Tuttavia, da qualche anno si sta facendo spazio una moda che porta a vinificare un solo tipo d’uva e, nella Vallée de l’Ardre, il Pinot Meunier ne è il riferimento.
Sappiamo che un
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Vallée |
tempo la Champagne possedeva numerose varietà d’uva e la vinificazione prevalente era rivolta verso i vini rossi fermi, in concorrenza con la Borgogna. Pochi sanno che si contavano un’ottantina di vitigni che, a seguito della meccanizzazione, industrializzazione e fillossera, le varie cultivar sono state scartate perché meno propizie. Oggi alcune di esse ritrovano spazio, in particolare in questa valle: Arbanne, Petit Meslier, Fromentau, Blanc Vrai.
La Champagne, con i suoi inizi incerti, il suo passato bellico, la complessità dei suoi climi, la sua “aura globale”, invidiata da tutto il mondo vitivinicolo e i suoi fiumi, come l’Ardre, ambasciatori di vino.
E' Margot Wölk, la donna che a novantacinque anni, tedesca, rivelerà cosa è capitato a quindici donne (7 nel film) durante il potere di Adolf Hitler. Lei è stata una di quelle quindici assaggiatrici; lei la rivelatrice della storia che ha ispirato il romanzo di Rosella Postorino, uscito nel 2018; una storia tutta vera che varrà alla scrittrice il Premio Campiello e il Premio Rapallo Carige. Un inesplorato punto di osservazione dal quale guardare e raccontare la guerra, purtroppo non inesplorato rispetto alla violazione del corpo delle donne. Dunque, non una trincea scavata nella terra, bensì l'orrore d'una tavola imbandita dove dovranno pranzare e cenare -giorno dopo giorno- rischiando l'avvelenamento, la morte o una lontanissima possibilità di sopravvivenza.
Quindici donne tedesche, assolutamente, indubbiamente tedesche, studiate e analizzate fino a certificarne il perfetto stato di salute atto ad assaggiare -con assoluta inoppugnabilità- il cibo destinato ad Hitler. Siamo nel Wolfsschanze, primo quartier generale militare del Fronte Orientale, costruito appositamente per l'operazione denominata "Barbarossa" - il cui scopo era quello di invadere l'Unione Sovietica; siamo nel 1941 e stiamo vivendo l'angoscioso, angosciante tormento moltiplicato dai sapienti colori della pellicola, dai costumi e da quei sempre piccoli spazi angusti, sempre privi di orizzonti lontani e men che meno vicini; assisteremo al colmarsi di quegli spazi della rabbia di molti spettatori che vorrebbero abbandonare la visione dell'assurdo pasto e di quegli altrettanto assurdi personaggi maschili, militari tedeschi tanto tronfi quanto buffi, macabri, crudelissimi e miserrimi esecutori dei folli ordini di un Furer che non comparirà mai. Scelta più che mai opportuna, nell'assenza si riesce a misurare verosimilmente la sua follìa e, strano ma vero, anche a misurare la sua ingombrante presenza nella storia dalla quale, come nella pellicola, lo si vorrebbe cancellare.
La miseria d'un omuncolo sopraffatto dalle sue paure, dalle paranoie che riusciva a vincere grazie al velenosissimo sidro del potere assoluto, l'antidoto che funzionava, ma solo parzialmente tant'è che è illuminante il passo con il quale il regista e lo sceneggiatore hanno voluto denunciarlo: un Hitler che ordina di cercare e catturare tutte le rane possibili e disporle negli acquitrini tutt'attorno al suo nascondiglio perchè è solo il loro gracidare che gli consente di prendere sonno, mentre il silenzio lo uccide. L'attentato subìto, infatti, aveva fatto saltare in aria tutto e aveva finanche ucciso tutte le rane. E così, dalle 11 alle 12 di ogni giorno, Margot era prelevata dalla casa dei suoceri, o cognati, dove s'era rifugiata quando aveva lasciato Berlino, e portata nella Tana del Lupo. Mai carne fu loro servita, pare che Hitler fosse vegetariano, benchè vi siano altre tesi che sostengono fosse ghiotto di stufato di piccioni. Una storia a tratti allucinante che, peraltro, non finisce con il film. Nella realtà, infatti, accadrà che tutte le altre assaggiatrici saranno trucidate dai soldati sovietici e Margot, la protagonista del film, catturata a Berlino dai soldati sovietici, sarà violentata ripetutamente per due settimane intere; riporterà ferite tali da non aver mai potuto generare un figlio.
Sebbene i tempi e la narrazione non si armonizzino con il ritmo che la storia merita; la potenza drammatica deve aver schiacciato il regista, provato la sua anima; magnifico è invece il commento musicale che, al contrario, è entrato profondamente nei fatti conferendo pienezza di significato alla storia, esaltandone la potenza e rendendo giustizia all'originale punto di lettura della guerra e del femminile dentro la guerra. Credibilissima l'interpretazione della protagonista, sia nelle scene di solitudine e di assenza del giovane marito, che quando si concede al militare tedesco, anzi meglio: concede a se stessa il rapporto amoroso che ha conosciuto una sola volta con l'amatissimo sposo, che all'epoca dei fatti risultava disperso; si concede alla magnificenza dell'amore dentro una storia di crudezza e disumanità, forse sperando anche di salvare l'alto ufficiale, redimerlo dai peccati che le confessa, aveva ucciso a sangue freddo tanti bambini e ucciderà ancora, anche una delle quindici donne allorchè un'altra delle assaggiatrici, invasata di Hitler, forse anche incaricata di spionaggio, scoprirà che Alfride, in verità, nascondeva un'altra identità, era ebrea, e lo rivelerà ai militari.
Nella vita vera, nel 1946, Margot ritroverà il marito e vivranno insieme, a Berlino; il marito morirà nel 1980. Ancora una volta sono le donne e i loro corpi a pagare le ragioni della vita e della morte decisa dagli uomini, le donne e i loro corpi a pagare le assurde ragioni di tutte le guerre. Storia vieppiù terribile, questa, in cui Hitler non ha scelto donne ebree o zingare o lesbiche, ma donne sane e tedesche! Non che quelle valessero meno, ma per dire quanto valore avesse per lui la vita anche di appartenenti a quella razza che considerava eletta, la più e unica a meritare considerazione. Margot Wölk rivelerà tutto quanto solo al compimento del suo 95esimo compleanno, al giornalista del Berliner Zeitung. Confesserà anche quanto il cibo sia stato per moltissimo tempo solo metafora di paura e morte e che occorreranno decenni per tornare ad essere nuovamente gioia e ritorno alla vita. Inutile chiedersi quanto un regime possa farsi scudo con uomini... quanto con donne le cui vite valgono niente di più che un cucchiaio di minestra... e quanto diritto si sia negato e si neghi alle donne di essere nella storia...ciò pesa come un macigno sull'anima! Penso a quanto debba essere stato assurdo quel primo giorno in cui quelle donne, non conoscendo la ragione per la quale erano state sottratte alla vita familiare, realtà in cui tutti -chi più chi meno- stentavano a poter disporre di pasti, mentre, a loro, senza una ragione plausibile, veniva offerto un ottimo cibo, che avrebbero voluto vomitare appena dopo aver appreso la "ragione".
Il cibo, prezioso per la vita, era la mitragliata destinata alla loro dignità e alla loro vita! Una sola delle quindici donne era invasata, aveva la ragione spenta e mangiava quel cibo con l'avidità di colei che si gloriava tal quale fosse un atto eroico, salvare la vita del suo idolo! Una sola la figura maschile accudente, semplice, gentile, quel cognato o padre presso cui Margot s'era rifugiata. Un film che cade a proposito in questi tempi insanguinati, un film che accende la rabbia e ingigantisce la consapevolezza di quanto, alla fine, tutta la violenza e lo strapotere della storia, anche recente, non abbia insegnato, nè abbia disinnescato la voracità di coloro che ora per un territorio, ora per terre rare, ora per il petrolio o per qualcosa d'altro... schiacciano bambini, donne...uomini inermi che hanno solo la vita e alcun altro interesse ... e distruggono territori sui quali, un giorno dopo l'altro, tanti uomini hanno creato la magnificenza delle opere d'arte e dell'ingegno, hanno creato bellezza sulla quale rovesciare macerie.
A causa di un vecchio litigio mai risolto, ma anche per forti incompatibilità caratteriali fin dall’adolescenza, i fratellastri Lisandro (Alessandro) e Demetrio (Maurizio) non si frequentano più da anni. Ma un giorno il padre morente li convoca perché prima del trapasso vorrebbe rivederli riappacificati. Se i due non troveranno il modo di andare d'accordo, minaccia di dissipare tutto il suo patrimonio lasciandoli senza eredità.
Il testamento prevede che i due debbano vivere insieme e dimostrare di sapersi lasciare alle spalle i conflitti passati e ricongiungersi da buoni fratelli. Per aiutarli, dovranno affrontare delle prove che li obbligheranno a collaborare e ad avere una certa intimità.
Le prove saranno indicate da Elena (Lorenza), un’affascinante notaia incaricata per questo singolare compito. Ai tre personaggi si aggiunge Barbara (Patrizia), la compagna di Demetrio, assai gelosa e possessiva, dal carattere dominante ed autoritario, che schiaccia letteralmente il dolce e remissivo compagno. Le scene dei loro incontri sono esilaranti.
Il titolo “Scioglilingua” della commedia racchiude il succo di questa movimentata e divertente proposta, che oltre ad avere una forte impronta comica, inserisce nella elementi romantici ed una ricca dose di dolcezza. I due intanto saranno videosorvegliati nella casa perché la notaia possa controllarne i progressi e riferirli al padre. Ma mentre il gretto Lisandro è ben disposto a fare questo percorso soprattutto per ottenere la sua parte di eredità, per la sua superficialità non si rende conto della fatica a riallacciare i rapporti da parte di Demetrio, che ha ancora le ferite doloranti per i comportamenti subiti negli anni dal fratello sciatto, facilone e rozzo.
Nonostante la mancanza di tatto di cui è palesemente privo, pian piano riesce però a tirare fuori il suo lato migliore anche grazie a particolari situazioni inserite nella pièce. Situazioni che faranno emergere sia i difetti che le virtù di entrambi. Il testo presenta così diverse occasioni per un continuo crescendo nel rapporto affettivo e la giusta collaborazione per il raggiungimento dell’obiettivo, il tutto attraverso momenti particolarmente ironici, divertenti o esilaranti e alle capacità recitative di tutto il cast.
La scena in cui Lisandro aiuta Demetrio a corteggiare la bella notaia con un escamotage che ricorda Cyrano De Bergerac, quando attraverso Cristiano corteggia l’amata Rossana, ma con l’approccio di Gigi Proietti in quella memorabile scenetta del Conte Duval, quando non conoscendo la parte si ritrova sul palco, prendendo fischi per fiaschi i suggerimenti del collega attore scatena l’ilarità del pubblico. Ecco anche questa scena è particolarmente esilarante.
Godrete poi di altri espedienti divertenti che Lisandro metterà in atto per tenere lontano la minacciosa fidanzata dominatrice del fratello.
Altra divertentissima scena è quella in cui il povero Demetrio viene quasi violentato da Barbara. In tutto lo sketch i due non sono presenti sul palco, ma fanno intuire attraverso rumori fuori scena ed esclamazioni cosa accade nel retroscena, mentre sul palco ci diletteremo con le inequivocabili e spassose espressioni di Lisandro.
Da evidenziare anche la prova di recitazione per accontentare il padre, grande appassionato di Shakespeare… immaginate Maurizio ed Alessandro alle prese con una discutibile quanto esilarante interpretazione di “Romeo e Giulietta”…
Il cast
Maurizio ed Alessandro lavorano insieme da sempre, affiatati e rodati, sono una coppia di artisti che sa come divertire il pubblico e coinvolgerlo. Alessandro, più sfrontato e diretto, veste un personaggio schietto e poco colto che resta comicamente perplesso davanti alle parole forbite del fratello e alle sue esternazioni da uomo di cultura. È uno che si arrangia per tirare a campare. Esuberante e tronfio, si esprime con battute semplici ma dirette ed efficaci.
Maurizio presenta un personaggio docile e remissivo, una vittima della vita e di chi lo circonda. La voce tremolante ed insicura come gli atteggiamenti impacciati cozzano con quelli più sicuri ma poco accorti di Alessandro. Insieme formano una bella coppia sulla scena.
Lorenza è l’affascinante e dolcissima notaia. Sicura di sé e disinvolta, svicola dalle petulanti attenzioni del grande amatore Alessandro con charme, rimanendo ammaliata dalla semplicità e docilità di Maurizio. Dapprima professionale e distaccata, muta il suo approccio con classe inserendosi sempre più tra i due.
Patrizia ha una voce inconfondibile che adoro; è molto personale e la usa per dar vita a un personaggio in bilico tra il grottesco e il comico, ma che mostra anche il suo lato profondo. Rude e rigida, ha un atteggiamento da dominatrice antipatica e prepotente che nel corso della storia, attraverso una ponderata recitazione, svelerà una personalità profonda e gradevole.
Questo è uno dei punti di forza della commedia: saper svelare i retroscena di ogni personaggio rendendolo comico nella sua indiscutibile umanità. Piacevoli ed amabili, tutti si muovono su una trama semplice ma efficace che porta ad un lieto fine ma dai risvolti inaspettati.
Teatro Golden
Lui che bacia lei che non bacia lui che bacia lei
di Massimo Natale e Ennio Speranza
regia di Massimo Natale
Con Maurizio Paniconi, Alessandro Tirocchi, Lorenza Giacometti, Patrizia Casagrande
produzione Goldenstar AM srl